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"Nora, il racconto dell'archeologo". Archeologia, video e divulgazione

Nella presente tesi viene approfondito l'uso dei video come strumento di comunicazione dell'archeologia. Lo studio teorico ha poi trovato applicazione pratica nella produzione del documentario "Nora, il racconto dell'archeologo" e di alcuni brevi video divulgativi diffusi sui canali social del progetto Nora.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DEI BENI CULTURALI: ARCHEOLOGIA, STORIA DELL’ARTE, DEL CINEMA E DELLA MUSICA DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA GENERALE Corso di Laurea Magistrale in Scienze Archeologiche “ NORA, IL RACCONTO DELL’ARCHEOLOGO ” ARCHEOLOGIA, VIDEO E DIVULGAZIONE Relatore: Chiar.mo Prof. Jacopo Bonetto Correlatori: Chiar.mo Prof. Mirco Melanco, Chiar.ma Prof.ssa Francesca Pazzaglia Laureanda: Anna Ferrarese Nr. Matr.: 1084362 Anno Accademico 2015 / 2016 A papà e mamma. Ad un grande cast. INDICE Premessa p. IX 1. Introduzione alla comunicazione 1.1 Comunicare e informare p. 1 1.2 La divulgazione scientifica p. 4 2. Elementi di psicologia dell’apprendimento p. 9 2.1 Motivazione p. 12 2.2 Curiosità epistemica p. 17 2.3 Flow experience p. 21 2.4 Considerazioni conclusive p. 26 3. Il mezzo espressivo video-narrativo 3.1 Definizione di cinema “documentario” p. 29 3.2 Archeologia e video p. 33 3.2.1 Parlare di archeologia p. 33 3.2.2 Considerazioni conclusive p. 36 3.2.3 Far parlare l’archeologia p. 37 3.2.4 Docudrama p. 38 3.2.5 Considerazioni conclusive p. 40 3.3 Web 2.0 p. 40 3.4 Storytelling p. 43 4. Nora: il caso studio p. 51 4.1 Storia degli scavi p. 52 V 4.2 Situazione geografica e topografica p. 58 4.3 Cenni storici p. 64 5. Il progetto video p. 71 5.1 Pre-Produzione 5.1.1 Progettando il documentario: dall’idea al soggetto p. 73 5.1.2 La scelta dello stile p. 76 5.1.3 La ricerca dei contenuti p. 78 5.1.4 Stesura dei contenuti e metodi di narrazione p. 83 5.1.5 Il livello di comunicazione adottato p. 90 5.1.6 Risorse economiche, troupe e strumentazione. p. 98 5.2 Produzione 5.2.1 L’organizzazione del materiale raccolto p. 102 5.2.2 L’allestimento della scenografia p. 105 5.2.2.1 Composizione dell’inquadratura p. 106 5.2.2.2 La fotografia p. 106 5.2.2.3 Posizionare la macchina da presa p. 108 5.2.3 La ripresa delle interviste p. 108 5.2.4 La registrazione della voce narrante p. 110 5.2.5 La ripresa esterne p. 111 5.3 Post-produzione 5.3.1 La trascrizione delle interviste p. 114 5.3.2 Il montaggio p. 121 5.3.3 La musica p. 126 5.4 Distribuzione e fruizione 5.4.1 Accenni di distribuzione e vendita p. 129 5.4.1.1 La distribuzione del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” p. 130 5.4.1.2 Promuovere il documentario: la creazione del trailer 5.4.2 La fruizione turistica 5.4.2.1 La motivazione turistica p. 132 p. 133 p. 135 5.4.1.2 Dal turismo ai turismi: un pubblico per “Nora, il racconto dell’archeologo” p. 136 VI Considerazioni conclusive p. 141 Abbreviazioni bibliografiche p. 145 Sitografia p. 153 VII VIII PREMESSA Il presente lavoro di tesi riguarda il tema della divulgazione dei dati scientifici, un argomento di vasto respiro all’interno del quale si è scelto di approfondire, specificatamente, lo studio del mezzo di comunicazione video narrativo applicato all’archeologia. L’interesse per questo argomento nasce dall’interazione tra un’esperienza personale e una riflessione di metodo. La prima riguarda l’attitudine, sviluppata da chi scrive, per la realizzazione di montaggi video; la seconda si riferisce, invece, alla consapevolezza del successo che il mezzo video narrativo ha sviluppato nel corso dell’ultimo decennio. L’occasione d’incontro tra questi due fattori è avvenuta nell’ambito delle pluriennali ricerche condotte dall’Università degli Studi di Padova, in collaborazione con altri atenei italiani, presso il sito archeologico di Nora, uno dei più importanti centri urbani della Sardegna punica e romana. Il promontorio del Capo Pula, sul quale sorgeva l’antica città di Nora, è stato quindi lo scenario per la sperimentazione di quella che vuole essere, con modestia, una proposta di comunicazione scientifica alternativa alle consuete forme narrative basate perlopiù sul formato testuale e il mezzo cartaceo. L’applicazione di questo nuovo linguaggio e mezzo di divulgazione scientifica, tuttavia, non vuole sostituirsi a quest’ultime ma, piuttosto, affiancarsi al fine di implementare la comunicazione tra la comunità scientifica e la società, nel suo complesso e nella varietà che la contraddistinguono. Dallo studio incrociato di argomenti legati alla disciplina archeologica, alla psicologia dell’apprendimento e del turismo e da un’analisi delle moderne forme di comunicazione scientifica e delle tecniche di montaggio di video, è nato il mediometraggio “Nora, il racconto dell’archeologo”. Si tratta di un documentario che mostra, e al contempo spiega, il lavoro professionale svolto dagli archeologi nello scavo e nello studio di un’antica città del Mediterraneo. I documentari sono un importante strumento di divulgazione ma la loro produzione, tradizionalmente, coinvolge l’archeologo solo come consulente scientifico o esperto da intervistare. Ciò che caratterizza “Nora, il racconto dell’archeologo”, invece, è che la sua produzione coinvolge direttamente gli archeologi e consente loro di fare divulgazione in prima persona. IX Questo comporta, naturalmente, una serie di riflessioni e interrogazioni su quale sia il modo migliore per raccontare l’archeologia, a partire dagli argomenti da trattare e dalle modalità per farlo, quale strumentazione usare e quali sono gli eventuali limiti economici e logistici che si possono incontrare. Queste e altre considerazioni sono state fatte nel corso del progetto e trovano una risposta nelle pagine di questo elaborato e nel montaggio video prodotto. “Nora, il racconto dell’archeologo”, per esempio, è stato realizzato in collaborazione con gli studiosi e i tecnici di cinematografia del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Padova e, in quanto progetto di tesi magistrale, ha potuto usufruire a costo zero della strumentazione professionale presente in laboratorio. Questo ha permesso di ovviare a problemi di carattere economico, con la consapevolezza, tuttavia, che non tutti i progetti di ricerca archeologica possono godere di questo vantaggio. Ciò nonostante, la rivoluzione delle tecnologie e delle comunicazioni permette oggi a chiunque di realizzare montaggi video narrativi con mezzi nuovi e strumentazione a basso costo, o già in proprio possesso (smartphone, tablet, ecc.). Una parziale verifica di questa affermazione proviene dalla scelta, legata a problemi logistici, di effettuare le riprese nel sito archeologico di Nora esclusivamente con la strumentazione a disposizione di chi scrive ma ottenendo, comunque, un buon risultato qualitativo1. Grande importanza si è poi prestata ai contenuti, alla forma e alla scelta del linguaggio e del livello comunicativo più appropriato per questo tipo di divulgazione. Efficace si è rivelato il confronto tra le diverse aree tecnico-scientifiche inerenti questo progetto: quella archeologica, quella psicologica e quella di video scrittura. La multidisciplinarietà che contraddistingue il presente lavoro di tesi è visibile anche nella suddivisione in capitoli. Il primo capitolo introduce, sinteticamente, l’argomento cardine del progetto, ovvero la comunicazione e l’informazione, delineando il loro ruolo all’interno della moderna società. In secondo luogo definisce i principi della divulgazione scientifica sottolineando la necessità di individuare nuovi mezzi di comunicazione che vadano oltre le tradizionali pubblicazioni, i convegni e le conferenze. Infatti, abituato a rapportarsi principalmente con una ristretta cerchia di esperti, chi fa ricerca non sempre riesce a trovare il livello e il mezzo di divulgazione adatto per rivolgersi ad un pubblico più ampio e meno informato. Si rischia così di condannarsi all’auto-isolamento, avendo 1 Trasportare nel sito archeologico di Nora, in Sardegna, la strumentazione presente nel laboratorio di cinematografia, a Padova, avrebbe comportato una spesa economica consistente a differenza dell’utilizzo della fotocamera Nikon D5200 e del treppiede Manfrotto 728B digi in possesso dell’autrice del presente lavoro. X dalla propria parte storie bellissime da raccontare ma non conoscendo i mezzi per farlo. Parlando di divulgazione si impongono allora alcune considerazioni sulla psicologia dell’apprendimento. Nel corso del secondo capitolo vengono quindi delineate le principali modalità che caratterizzano l’apprendimento umano e vengono approfonditi gli aspetti della motivazione, della curiosità epistemica e dell’esperienza di flusso che intervengono durante la visione di un documentario. Il terzo capitolo cerca di dare una definizione del cinema documentario ed analizza l’utilizzo, ancora embrionale in Italia, del mezzo espressivo video narrativo in archeologia. Conclusa l’analisi di alcuni progetti di ricerca che si dotano di questo strumento per fare divulgazione, vengono proposte alcune riflessioni su quale sia il linguaggio e il livello comunicativo da adottare in questi contesti. Il quarto capitolo, invece, è di carattere strettamente archeologico: introduce il sito di Nora, ne delinea la storia degli studi e degli scavi. La descrizione delle attività di ricerca intraprese negli anni e dei risultati ottenuti, consente di conoscere il percorso delle idee che hanno portato alla ricostruzione storica di questa città e di comprendere come essa sia un panorama completo, sia dal punto di vista storico che metodologico, per l’applicazione dello strumento video in archeologia. Infine, il quinto capitolo è dedicato alla relazione delle fasi di lavoro che sono state necessarie per la produzione del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” e propone alcuni ambiti in cui il video può trovare applicazione. Primo tra tutti l’ambiente universitario con finalità di orientamento per il corso di laurea in archeologia o come video di presentazione alla comunità dei risultati ottenuti e dei metodi scientifici usati dalle ricerche universitarie. In secondo luogo l’ambiente turistico legato al contesto archeologico di Nora: in questa sede il video può essere proiettato durante le rassegne culturali organizzate dal comune di Pula2 o può venire incorporato nel sito internet dedicato all’area archeologica3 per colmare la necessità di comunicare con il turista e sensibilizzare i cittadini sul tema della ricerca archeologica. Altri ambiti che vengono considerati riguardano i Film Festival archeologici e la possibilità che il documentario trovi applicazione anche in ambito scolastico come forma di sperimentazione e verifica della sua valenza didattica. 2 Tra queste Pularchaios. 3 www.nora.it XI XII 1. INTRODUZIONE ALLA COMUNICAZIONE “Definite sempre un termine quando lo introducete per la prima volta. Se non sapete definirlo evitatelo. Se è uno dei termini principali della vostra tesi e non riuscite a definirlo piantate lì tutto. Avete sbagliato tesi (o mestiere).” - UMBERTO ECO 1.1 Comunicare e informare Ogni epoca è attraversata da interpretazioni, definizioni, letture della contemporaneità condizionate da fattori storici, economici, politici, ideologici propri del momento storico in cui queste riflessioni maturano. Tali definizioni mettono in evidenza di volta in volta alcune caratteristiche della società stessa rispetto ad altre. Negli ultimi anni, per descrivere la società contemporanea, è stato frequentemente utilizzato il concetto di società della conoscenza4, riferendosi al ruolo centrale che questa ha assunto nella vita delle persone che la compongono. Lo sanno bene le Università e i centri di ricerca che si occupano di rispondere in maniera continua alla richiesta di nuovo sapere: in sua assenza non crescerebbe la cultura, non ci sarebbe progresso e non aumenterebbe il benessere. Oltre alle tradizionali missioni che queste istituzioni si trovano a svolgere, quella della formazione (prima missione) e quella della ricerca (seconda missione), questi enti devono sempre più spesso rivestire un nuovo ruolo: quello del dialogo con la società. La “terza missione” riguarda una molteplicità di attività che mettono in dialogo ricerca e società e che di fatto affondano le loro radici nella sete di conoscenza propria dell’uomo (fig. 1). 4 LOVECE, 2009, pp.1 1 Trasmettere le conoscenze consolidate alle generazioni future, infatti, è peculiare delle società umane; comunicare conoscenza scientifica superando barriere di spazio e di tempo, offrendo alla scienza la possibilità di progresso accelerato, espansivo e globale e alle imprese un vantaggio competitivo reale, è esclusivo dell’ultima parte dei secolo appena trascorso, che ha profondamente modificato stili cognitivi, tecnologie informative, accesso alle risorse e strategie di governo5. Figura 1- Nuvola delle parole più frequenti nelle denominazioni delle altre attività di Terza Missione, in altre parole si tratta di un’analisi qualitativa delle espressioni letterali utilizzate dagli atenei per definire queste attività (ANVUR - VQR 2004-2010; www.wordle.net). Ma cosa vuol dire esattamente comunicare? Comunicare significa “mettere in comune”, dal latino communis6 appunto, e si riferisce al momento traslativo e dinamico che consente il passaggio di informazioni tra le persone, e non solo. L’informazione, d’altro canto, si riferisce al “manifestarsi di un’idea” (lat. informatio, -onis), in altre parole all’azione del “dare forma” a qualcosa 7 . Qualsiasi informazione è il risultato di un procedimento attraverso il quale un soggetto (il soggetto promotore) servendosi di un mezzo 5 GRAZIANI, 1953, pp.2 6 TRECCANI, 1986. 7 TRECCANI, 1986. 2 codificante trasmette il suo messaggio (il contenuto) ad uno o più soggetti (i recettori) per il raggiungimento di uno scopo. Ecco allora che si ha la comunicazione. Alla base di tutto ciò vi è l’attitudine delle persone a relazionarsi. Già Aristotele aveva definito l’uomo come “animale politico”, costituzionalmente destinato a vivere in associazione con gli altri uomini. Ed è chiaro che tale associazione non sarebbe possibile prescindendo la comunicazione. I mezzi attraverso cui comunichiamo hanno subìto un’evoluzione nel corso del tempo, soprattutto relativa alla velocità di circolazione delle informazioni. Tre precisamente solo le invenzioni da segnalare: 1. l’invenzione della scrittura, avvenuta nel IV millennio a.C., che ha portato alla rivoluzione chirografica; 2. l’invenzione della stampa, che ebbe luogo intorno alla metà del XV secolo e che portò alla rivoluzione gutenberghiana; 3. l’invenzione del telegrafo e, successivamente, della radio, della televisione, della informatica e della telematica, che diede avvio alla rivoluzione elettrica ed elettronica nota alle ultime generazioni. Conseguentemente, alla luce degli strumenti di comunicazione che sono stati di volta in volta utilizzati, possiamo distinguere almeno quattro tipi di culture che si sono succedute nel corso degli ultimi sei millenni: la cultura orale (che fu utilizzata per trasmettere le conoscenze della parola parlata), la cultura manoscritta o chirografica, (che adopera quella tecnologia silenziosa della parola che è la scrittura), la cultura tipografica (che fonda la trasmissione del sapere sul libro stampato) e, infine, la cultura dei media elettrici ed elettronici (nella quale le informazioni vengono inviate, in modo sempre più rapido, attraverso mass media quali la televisione, la radio e l’informazione online). La conseguenza più vistosa di queste rivoluzioni è stata quella di far circolare le informazioni a una velocità sempre maggiore (oggi volano alla velocità della luce) e a costi via via più bassi. Inoltre, le rivoluzioni in questione si sono succedute nel tempo con ritmi sempre più raccorciati: infatti, mentre tra l’invenzione della scrittura e l’invenzione della stampa sono passati circa cinquemila anni, tra l’invenzione della stampa e la rivoluzione dei new media non sono intercorsi neppure quattro secoli8. Le potenzialità di quest’ultimi mezzi di comunicazione sono vastissime, così come la versatilità della loro applicazione. Oggi non si può pensare di comunicare prescindendo da essi, se pensiamo per esempio all’attenzione che viene riposta nel marketing, ci accorgiamo che la società stessa viene modellata sui media. In questo contesto l’errore in cui, talune volte, si rischia di incorrere è quello di prestare maggiore attenzione a mezzi piuttosto che ai contenuti. 8 GRAZIANI, 1953, pp.5. 3 1.2 La divulgazione scientifica Se è vero che la nostra società è una società della conoscenza, allora può essere opportuno soffermarsi sull’importanza e sulle modalità con cui la conoscenza (scientifica) viene diffusa, comunicata quindi, attraverso essa9. La divulgazione scientifica può avvenire su due piani comunicativi: quello rivolto alla “comunità scientifica”, e quello rivolto al “grande pubblico” ovvero l’universo variegato di tutti i possibili fruitori della conoscenza. In generale oggi siamo tutti concordi nel dire che la divulgazione produce soprattutto cultura e partecipazione, va detto però che non è sempre stato così. Fino a tempi recenti idee diverse e contrarie circolavano relativamente alla divulgazione scientifica: per alcuni essa era un genere potenzialmente utile a risvegliare la passione per la scienza10, per altri invece veniva vista come un ibrido, veicolo di informazioni distorte, quando non di mera propaganda (come nel caso dell’antropologia razzista tra Ottocento e Novecento). La “scienza popolare” o la “scienza per tutti”, com’era chiamata la divulgazione scientifica nell’Europa del XIX sec, era un genere letterario trascurato e considerato al pari di una perdita di tempo. Scrivere scienza in modo comprensibile per i “non addetti ai lavori” richiedeva un grosso sforzo, che purtroppo veniva considerato da molti una distrazione dalla ricerca e dai suoi ritmi serrati e competitivi11. Chiunque abbia letto un testo di divulgazione e un lavoro scientifico originario sa che questi generi si differenziano pressoché in ogni elemento costitutivo: per i contenuti, per il livello di comunicazione e del linguaggio, per i generi letterali utilizzati e per il pubblico che si vuole raggiungere. La divulgazione tuttavia è in poco tempo diventata uno degli strumenti utilizzati dagli scienziati per comunicare con i colleghi di altri settori disciplinari allo scopo di legittimare, discutere e far conoscere il proprio lavoro; ha contribuito a dare alla figura professionale dello scienziato un ruolo specifico e riconoscibile dalla società ed è stata usata per dare al cittadino gli strumenti adatti ad un’istruzione “pratica” e “utile” 12 . Oggi alla divulgazione scientifica viene dedicata grande attenzione, sia per questa sempre maggiore presa di coscienza “sociale” da parte di molti ricercatori, sia per la consapevolezza che la ricerca pubblica, pagata con le tasse di tutti, richiede, per continuare a essere finanziata, il sostegno convinto del contribuente13. Riguardo un tema di discussione così 9 MACCACARO, 2010. 10 EINSTEIN, 1947. 11 MACCACARO, 2010. 12 GOVONI, 2002, pp.37-38. 13 MACCACARO, 2010. 4 tradizionale tantissima bibliografia è stata scritta, tuttavia non mi sembra questa la sede per soffermarmi sull’argomento se non per chiarire che abbiamo bisogno di trovare mezzi più efficaci per comunicare con una società che è in continuo movimento e cambiamento. Negli ultimi anni, la comunità scientifica ha prodotto una quantità di parole stampate senza precedenti. Non è facile rendersi conto della velocità con cui le conoscenze scientifiche aumentano e si diffondono nel nostro mondo e delle conseguenze pratiche di questa diffusione. Una valutazione fatta dal matematico Oskar Morgenstern nell’ormai lontano 1964 propone questo problema in termini piuttosto drammatici e paradossali: Morgenstern calcola che se le pubblicazioni sulla fisica continuassero ad aumentare nei prossimi centocinquant’anni con lo stesso ritmo degli ultimi centocinquanta, alla fine di questo periodo, vale a dire nell’anno 2114, il peso della carta di tali pubblicazioni diverrebbe uguale al peso della terra14. La necessità di valutare quantità e qualità della produzione scientifica portò, negli anni ’60 e ’70 del 1900, sotto la spinta dei pionieri Derek Price ed Eugene Garfield, alla nascita di una nuova disciplina: la scientometria15. Cardine di questo studio è la misurazione e la valutazione delle pubblicazioni (la bibliometria) mediante il peer reviewing e gli indici bibliometrici. In Italia l’ANVUR, acronimo che sta per Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, si occupa proprio di stilare statistiche su questo argomento. A titolo esemplificativo riporto alcuni dati dell’ultimo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca relativo al 201316. Nella tabella I viene presentata l’evoluzione del numero di pubblicazioni mondiali nelle aree bibliometriche nella media dei tre decenni considerati nell’analisi, 1981-1990, 1991-2000 e 20012010. La tabella riporta in particolare il numero medio annuo di pubblicazioni per ciascun periodo, la quota media annua rispetto alle pubblicazioni mondiali e la crescita media annua del numero di pubblicazioni. La tabella II considera invece l’evoluzione del numero di pubblicazioni mondiali nelle aree delle scienze umanistiche e sociali nella media dei tre quinquenni per i quali sono disponibili i dati (19962000; 2001-2005 e 2006-2010); si aggiungono anche i dati relativi al triennio 2011-2013, anche se per gli anni più recenti i dati ancora non sono ancora completi e sono quindi suscettibili di variazioni. Nella tabella III l’analisi quantitativa viene affrontata tenendo conto della specializzazione scientifica delle scienze umane e sociali. 14 LARICCIA, 1985, pp 36-37. 15 Per approfondimenti si rimanda a DE BELLIS, 2014; VIALE, CERRONI 2003. 16 ANVUR, 2014 5 1981-1990 Paese Numero pubblicazioni 1991-2000 Quota mondiale Crescita media annua Numero pubblicazioni 2001-2010 Quota mondiale Crescita media annua Numero pubblicazioni Quota mondiale Crescita media annua 2,7 Francia 27.839 5,4 3,2 42.427 6,2 4,3 55.286 5,8 Germania 35.043 6,8 4,8 56.578 8,2 4,0 76.876 8,1 2,8  ItalIa 13.561 2,6 6,3 26.104 3,8 6,3 42.444 4,4 4,9 Olanda 9.903 1,9 6,7 16.926 2,5 4,2 24.490 2,5 4,9 44.081 8,6 2,5 61.874 9,0 4,1 79.190 8,3 2,4 6.307 1,2 11,0 16.782 2,4 9,2 33.144 3,4 7,2 Regno Unito Spagna Svezia 8.885 1,7 4,6 13.220 1,9 4,0 17.451 1,8 2,7 UE 15 124.906 24,2 3,9 194.772 28,3 4,6 272.664 28,5 3,5 UE 27 134.557 26,1 3,6 210.637 30,6 4,8 302.729 31,6 3,8 Svizzera 7.501 1,5 2,9 11.860 1,7 5,3 17.766 1,8 4,6 Australia 11.662 2,3 2,7 17.948 2,6 5,2 29.294 3,0 6,3 Canada 24.437 4,7 4,5 32.560 4,8 1,6 44.088 4,6 4,9 Giappone 36.020 7,0 5,2 61.623 9,0 5,1 76.239 8,1 0,1 770 0,1 23,1 7.029 1,0 23,7 27.559 2,8 11,6  Corea del Sud ^ƚĂƟhŶŝƟ 197.479 38,4 2,6 244.140 35,8 1,6 294.877 30,9 2,7 OCSE 366.560 71,1 3,2 510.645 74,6 3,2 687.538 71,9 3,5 2.680 0,5 6,7 6.769 1,0 11,5 20.780 2,1 11,5 - - 26.654 1,6 3,8 26.041 2,8 -0,1 Brasile Russia * - India 13.796 2,7 0,3 15.715 2,3 1,8 28.635 2,9 9,5 Cina 4.254 0,8 18,9 15.366 2,2 14,9 80.679 8,1 16,6 BRIC Mondo 58.570 11,4 2,7 67.743 9,9 2,5 155.069 15,7 10,9 515.043 100,0 3,0 684.763 100,0 2,8 961.015 100,0 4,4 Tabella I - La produzione scientifica mondiale nelle aree bibliometriche nel periodo 1981-2012 (ANVUR, 2014). Numero pubblicazioni Quota mondiale Crescita media annua Paese Australia 96-00 01-05 06-10 11-13 96-00 01-05 06-10 11-13 96-00 01-05 06-10 11-13 18.205 27.391 58.311 55.163 2,94 2,85 3,50 4,34 3,61 14,81 15,39 11,81 21,13 Brasile 1.952 3.690 18.252 18.483 0,31 0,38 1,09 1,45 19,68 12,31 35,90 Canada 26.189 38.052 69.309 55.902 4,23 3,96 4,16 4,40 -0,61 13,25 10,84 9,66 5.606 15.759 87.093 65.922 0,90 1,64 5,22 5,19 13,74 30,22 40,46 -19,20 Francia 13.443 30.456 54.133 42.590 2,17 3,17 3,25 3,35 3,19 21,05 11,57 9,85 Germania 20.248 33.389 64.406 58.022 3,27 3,47 3,86 4,56 8,25 12,74 12,91 15,25 Cina India 5.355 8.366 20.897 20.212 0,86 0,87 1,25 1,59 8,59 9,84 24,64 9,94 ItalIa 7.469 13.230 31.026 31.718 1,21 1,38 1,86 2,50 3,29 15,92 18,09 20,67 Giappone 9.884 13.223 24.545 17.652 1,59 1,38 1,47 1,39 2,63 9,95 10,44 7,91 Corea del Sud 2.866 5.258 14.614 13.312 0,46 0,55 0,88 1,05 9,55 14,95 20,87 15,87 Olanda 12.607 19.193 38.454 35.346 2,03 2,00 2,31 2,78 3,58 13,49 14,04 14,38 Federazione Russa 2.669 3.943 5.740 5.720 0,43 0,41 0,34 0,45 11,71 7,12 7,03 39,64 Spagna 7.510 15.009 38.890 41.095 1,21 1,56 2,33 3,23 12,06 15,89 21,13 21,09 Svezia 5.784 8.543 16.776 16.694 0,93 0,89 1,01 1,31 6,54 10,04 13,58 19,25 Svizzera 3.864 7.231 15.610 14.666 0,62 0,75 0,94 1,15 8,12 18,24 12,76 16,20 88.031 157.663 133.557 10,29 9,16 9,46 10,51 4,28 10,49 10,34 11,91 ^ƚĂƟhŶŝƟ 227.915 311.734 502.056 378.875 36,78 32,43 30,11 29,80 -0,36 10,98 8,91 6,91 Mondo 619.729 100,0 100,0 100,0 100,0 3,05 12,27 11,30 5,83 Regno Unito 63.764 961.323 1.667.131 1.271.243 Tabella II – La produzione scientifica mondiale nelle aree delle scienze umanistiche e sociali nel periodo 1996-2013, valori medi del periodo (ANVUR, 2014). 6 Scienze ĞĐŽŶŽŵŝĐŚĞĞ ĮŶĂŶnjŝĂƌŝĞ Psicologia 4,4 9,3 15,4 46,6 7,9 7,8 17 48,3 6,3 8,7 19,4 43 23,2 4,5 2,3 38,8 11,6 15,4 39 6,8 12,2 19,7 37,6 10,3 11,5 3,7 44,8 10 14,4 16,6 36,5 12,7 8,9 11,8 15,5 43,6 6,3 16,9 15,5 11,4 8,8 41,2 8,9 12,2 5,8 11,1 22,2 39,7 13,2 5,7 9 6 12,4 53,7 Scienze ĂƌƟƐƟĐŚĞĞ ƵŵĂŶŝƐƟĐŚĞ Scienze manageriali Australia 9,8 14,4 Brasile 9,7 9,3 Canada 11,9 10,8 Cina 3,7 27,4 Francia 16,7 9,1 8,1 Germania 10,4 13,2 India 5,4 24,2 ItalIa 12,2 10,2 Giappone 7,4 Corea del Sud Olanda Federazione Russa Paese Scienze delle decisioni Scienze sociali Spagna 15 11,3 8,1 11,8 14,8 39 Svezia 7,7 15,1 5,3 11,1 16,2 44,6 Svizzera 8,6 13,3 6,6 14,1 20,1 37,3 Regno Unito 14,6 12 4 9,4 14,8 45,2 ^ƚĂƟhŶŝƟ Mondo 12 12 4,4 9,1 18,1 44,3 15,2 15,3 5,6 9,3 12,5 42,1 Tabella III – La specializzazione scientifica nelle aree delle scienze umanistiche e sociali. Anni 2006-2010, quote percentuali di area, valori medi del periodo (ANVUR, 2014). Questi dati non sembrano lasciare alcun margine di dubbio sul ruolo strategico che il “fattore comunicazione” ha assunto, con una progressione ben più che geometrica, come elemento essenziale per determinare non solo le scelte culturali, ma perfino la sopravvivenza di una disciplina. Se meno di quindici anni fa la pubblicazione scientifica di una ricerca archeologica rientrava sostanzialmente nell’ambito della deontologia professionale di chi l’aveva materialmente condotta17, oggi il problema si pone in maniera assai più complessa, in un mondo in cui il valore stesso delle cose è in larga misura determinato dalla nostra possibilità/capacità di comunicarle. Un buon osservatorio in questo senso  sono gli studenti dei nostri corsi universitari, che si trovano oggi di fronte a una vera e propria “emergenza comunicativa”: devono apprendere in tempi rapidi, e con una preparazione di base  profondamente diversa da quella delle generazioni precedenti, una mole enorme di informazioni complesse, derivanti da una mole altrettanto enorme di ricerche complesse. Se fino a qualche decennio fa gli studenti universitari erano dei candidati all’ingresso a pieno titolo nella “comunità scientifica”, oggi possono al massimo oggettivamente aspirare al ruolo di “pubblico informato”, per il quale l’industria editoriale ha approntato soprattutto nell’ultimo decennio tipologie nuove di prodotti, dai volumetti di orientamento sintetico che caratterizzano la produzione italiana e francese, 17 La pubblicazione 1998. 7 ai voluminosi companions sui più diversi argomenti che caratterizzano invece la produzione anglosassone. Il sommarsi di più fattori – l’aumento del numero dei ricercatori, l’espandersi delle ricerche, il moltiplicarsi delle prospettive e delle posizioni critiche, la sopravvalutazione delle pubblicazioni “scientifiche” rispetto ad altri possibili fattori di valutazione nelle dinamiche di carriera accademica, la disponibilità tecnologica di sedi editoriali a costo contenuto o azzerato – ha di fatto determinato quell’evidente fenomeno di iper-produzione scientifica, anche di alta qualità, con cui fanno quotidianamente i conti i lettori professionali e i dirigenti delle biblioteche specializzate. Se quindici o venti anni fa il problema era scrivere e pubblicare, oggi il problema vero è farsi leggere, ovvero fare in modo che il circuito comunicativo si chiuda e che a fronte di un emittente di un messaggio ci sia anche un ricevente/fruitore consapevole del messaggio stesso. Sarebbe interessante provare “oggettivamente” con il supporto di dati numerici questa affermazione, per esempio misurando la produzione complessiva di una comunità scientifica - anche limitandoci alle sole riviste con caratteri riconosciuti di standardizzazione internazionale - a fronte delle oggettive capacità di lettura dei singoli componenti di quella stessa comunità. Ma credo che alla fine basti una rapida analisi del ritmo di incremento dei database bibliografici più o meno strutturati che ciascuno di noi usa sul proprio computer e/o una occhiata sull’angosciante riempirsi progressivo della cartella “cose interessantissime da leggere appena possibile” sui nostri desktop per convenire sul punto essenziale. E mi pare di poter dire che il punto essenziale sia: abbiamo bisogno di riflettere su nuove forme di comunicazione archeologica18. 18 8 ZANINI, RIPANTI, 2012 pp 8, 10-11. 2. ELEMENTI DI PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere” - PLUTARCO Nel considerare il tema della divulgazione scientifica è bene tenere a mente che i ricercatori scelgono di volta in volta i mezzi, le strategie e i luoghi più opportuni per comunicare tanto agli esperti quanto ai non esperti i risultati delle loro ricerche. Si tratta di un’operazione complessa e ricca di implicazioni di varia natura, considerata una parte cruciale del processo di produzione del sapere; in sostanza, come uno degli aspetti importanti del lavoro scientifico. Questo significa che per divulgazione scientifica si dovrà intendere un insieme di metodi e pratiche complesse volte alla comunicazione di informazioni. S’impongono allora, nella nostra ricerca, anche domande importanti circa le problematiche dell’acquisizione del sapere19. L’apprendimento si snoda per tutto il corso della nostra vita. Abbiamo imparato, e continuiamo ad imparare, abilità e conoscenze in ambiti diversi. Acquisiamo ogni giorno informazioni e concetti di molte discipline. Alla base di tutto ciò vi è l’esperienza: l’apprendimento è difatti un cambiamento relativamente permanente derivato dall’esperienza precedente, non dovuta a maturazione o a temporanee condizioni dell’organismo20. 19 GOVONI, 2002, pp.40. 20 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 9 Stabilito questo assunto teorico di base, prima di addentrarci nelle tematiche specifiche che è nostro interesse approfondire, è bene illustrare sinteticamente alcuni meccanismi che condizionano il nostro modo di apprendere. La forma di apprendimento più semplice è quella che si basa sull’associazione tra stimoli (nel caso del condizionamento classico21) o tra una risposta dell’organismo e una conseguenza che ne deriva (nel caso del condizionamento operante22). Questo meccanismo di apprendimento è stato studiato agli inizi del Novecento sulla base del comportamento osservabile dalla scuola psicologica del comportamentismo. In quest’ottica apprendimento e prestazione si indentificano: infatti di fronte ad un feedback positivo (un rinforzo, per usare un linguaggio proprio della materia) siamo portati a ripetere l’azione più volte, contrariamente a quando avviene se la nostra azione è seguita da un rimprovero o una punizione23. L’apprendimento, tuttavia, non sempre si identifica nella prestazione. Edward Tolman, neocomportamentista nonché precursore del cognitivismo, è noto per i suoi studi sull’apprendimento dei topi in scatole sperimentali apposite (i labirinti di apprendimento) che aprirono la strada a nuove concezioni, che vanno oltre l’associazione di sequenze di stimoli e di risposte di tipo comportamentale, per approdare al campo dei processi cognitivi. Secondo Tolman è possibile che vi sia apprendimento anche in maniera latente, ovvero apprendiamo anche in assenza di rinforzi per fare fronte ad una situazione problematica, ma il comportamento non è esibito se non si ha uno scopo da realizzare24. Un contributo in questo senso viene anche dagli studi sull’apprendimento per insight dello psicologo e filosofo tedesco Wolfgang Köhler. Studiando il comportamento degli scimpanzé25 Köhler comprese che la soluzione di un problema non dipendeva solo dall’associazione di esperienze precedenti, o da 21 Un cane in presenza di cibo o di stimoli, di per sé neutri, quali la ciotola o la persona che lo nutre, inizia a salivare. La salivazione è una risposta incondizionata e fisiologica, che già appartiene al repertorio dell’animale, di fronte ad uno stimolo incondizionato. 22 Il condizionamento operante si ha quando si induce un comportamento e successivamente lo si premia. È quanto avviene, per esempio, quando si vuole insegnare ad un cane a salutare con la zampa. Non c’è uno stimolo incondizionato che induce ad esibire questo comportamento: ci serviamo allora di ricompense attive, come del cibo o segni di approvazione, che inducano a ripetere il comportamento desiderato. 23 Per approfondimenti ATKINSON et al., 1996. 24 Per approfondimenti TOLMAN, 1983; TOLMAN 1983. 25 Per approfondimenti KÖHLER, 1968. 10 una catena di prove ed errori, ma anche da una ristrutturazione di tutte le esperienze passate e delle condizioni presenti che consentiva una nuova visione del problema26. Naturalmente non si imparano solo comportamenti e abitudini ma anche concetti, regole, procedure per affrontare compiti diversi. Questi apprendimenti, che si definiscono complessi, non possono essere il frutto di semplici associazioni, ma sono il risultato dell’elaborazione dell’informazione, intesa nella sua accezione più ampia e articolata. Sulla base di questa considerazione e dei risultati degli esperimenti di Tolman e Kölher, a partire dagli anni Sessanta, la ricerca psicologica si è concentrata sui processi cognitivi (scuola psicologica cognitivista) e su un nuovo paradigma esplicativo, il modello Human Information Processing (HIP)27. I processi cognitivi possono essere definiti come le rappresentazioni e i processi mentali che permettono di percepire ed e elaborare le informazioni alla base del comportamento28. L’attività dei processi mentali consente di trasformare, ridurre, elaborare, immagazzinare e recuperare le informazioni che arrivano ai nostri sistemi sensoriali29 (fig. 2). Ciò che vediamo, ascoltiamo, tocchiamo non viene registrato in modo passivo dal nostro sistema cognitivo, ma viene costruito attivamente dal soggetto attraverso un’attività di riduzione ed elaborazione. Il risultato di questa attività, immagazzinato nella nostra memoria, verrà al momento giusto recuperato e utilizzato per svolgere attività cognitive. È bene precisare che l’elaborazione va considerata anche in relazione a differenti processi cognitivi come la percezione, l’attenzione, la memoria, il pensiero ma anche a fattori di tipo metacognitivo, motivazionale ed emotivo. Vediamo ora alcuni temi specifici della psicologia dell’apprendimento che interessano il nostro progetto di studio. 26 In una serie di esperimenti Köhler mise della frutta fuori dalla gabbia di Sultan, uno scimpanzé, a una distanza superiore a quella del braccio dell’animale. Con il braccio egli poteva arrivare solo ad un bastoncino che però era troppo corto per raggiungere il cibo. Fuori dalla gabbia venne posto anche un bastone più lungo, ma più lontano in modo che potesse essere recuperato solo utilizzando il bastone corto. Sultan faceva un primo tentativo per raggiungere il frutto prima solo allungando il braccio e poi con il bastone più corto. Agli inevitabili insuccessi seguiva un certo periodo di irrequietezza e poi lunghi momenti in cui l’animale ispezionava l’ambiente circostante; infine, improvvisamente, Sultan afferrava il bastone corto e, con l’aiuto di questo, recuperava quello lungo. A questo punto poteva raggiungere la frutta tanto desiderata. 27 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 28 JOB, 1998, pp.13. 29 NEISSER, 1967. 11 Figura 2 – Flusso dell’informazione attraverso il sistema di memoria (ATKINSON, SHIFFRIN, 1988). L’elaborazione delle informazioni in entrata avviene a diversi livelli: prima lo stimolo fisico viene trasformato dal sistema competente in stimolo sensoriale; avvenuta la trasduzione sensoriale, esso viene mantenuto per qualche frazione di secondo, nel registro sensoriale; qui l’informazione può essere ignorata o riconosciuta come rilevante mediante il confronto con le conoscenze depositate nella memoria a lungo termine (MLT); la descrizione famigliare verrà inserita in una categoria esistente, le nuove informazioni richiederanno invece l’attivazione di nuove categorie; successivamente l’informazione si deposita nella memoria a breve termine (MBT) per passare poi nella memoria a lungo termine. 2.1 La motivazione Una componente rilevante, se non fondamentale, dell’apprendimento è quella che riguarda gli aspetti emotivo-motivazionali come l’emozione, l’affettività ma soprattutto la motivazione. Si tratta di processi psicologici, definiti caldi, che ci spingono a svolgere una certa attività piuttosto che un’altra. Non è un caso la scelta del verbo “spingere” poiché, dal punto di vista etimologico, la motivazione è proprio una spinta, un movimento (lat. motus), verso un oggetto30. Più specificatamente può essere definita come una configurazione organizzata di esperienze soggettive che consente di spiegare l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza di un comportamento diretto ad uno scopo31. 30 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 31 DE BENI, MOÈ, 2000. 12 A seconda del ruolo che esercita il soggetto la motivazione può essere distinta in estrinseca ed intrinseca. Nel primo caso la motivazione viene sentita come una spinta nella quale il soggetto eserciterà un ruolo passivo. È ciò che avviene quando vogliamo guadagnare un premio, quando subiamo un castigo o se siamo in cerca dell’approvazione sociale; viene per questo definita anche motivazione strumentale in quanto mezzo per perseguire la riuscita e il successo. Per esempio, gli studenti motivati estrinsecamente sono quelli che si impegnano nello studio per motivi esterni ad esso, quali ricevere buone votazioni. La motivazione intrinseca, invece, implica una preferenza, è una sorta di attrazione nella quale il soggetto esercita un ruolo attivo. Esempi di motivazione intrinseca sono la curiosità, l’interesse e il successo. Pertanto gli studenti motivati intrinsecamente allo studio sono interessati e godono dell’attività di apprendimento32. Inoltre, nel considerare la motivazione nel suo complesso, vanno tenuti in considerazione anche gli aspetti soggettivi del singolo: le sue credenze circa le proprie capacità ad affrontare un compito, gli scopi che lo spingono a svolgerlo e le reazioni emotive che lo stesso suscita in lui; ma non solo. Anche il tipo di materiale proposto e la situazione in cui viene presentato svolgono un ruolo importante. Quindi, entrando nel progetto specifico di questo elaborato dovremmo chiederci: quale tipo di motivazione interviene nell’utente quando decide di documentarsi su un certo argomento utilizzando il mezzo espressivo video-narrativo? Credo che a buon diritto si possa escludere l’aspetto estrinseco della motivazione: raramente guardiamo un documentario in vista di un premio o di una ricompensa. Non c’è tuttavia una regola fissa: basti pensare ai metodi più elementari, nell’ambito scolastico, per forzare gli studenti di una classe a svolgere un’attività servendosi della paura di un castigo (“prestate attenzione a questo filmato che poi vi interrogo”), oppure promettendo un premio (“affrontiamo quest’ultimo argomento e poi potrete fare una pausa”). Ma, personalmente, spero non sia questo il nostro caso! Generalmente un video, un filmato, o delle immagini in movimento tendono a catturare la nostra attenzione e, nel caso di un documentario, a risvegliare la nostra curiosità. Ne ho avuto una conferma tangibile un mattino mentre bevevo un caffè in un bar di Padova. Come abitudine di molti locali al giorno d’oggi, a complemento d’arredo in un angolo era stata posta una televisione, rigorosamente accesa, solo pubblicità, niente di particolare. Quel rumoroso chiacchiericcio faceva da sfondo alle conversazioni tra altri due avventori e il barista; nemmeno io, assorta nei miei pensieri gli prestavo 32 PALLINI, 2006, pp.8. 13 attenzione. Ad un certo punto, però, mi accorsi che era calato il silenzio. I due avventori fissavano la televisione e anche il barista, che aveva oramai svolto il suo dovere servendomi il caffè, si era seduto al loro fianco per guardarla. Capii allora che la pubblicità era terminata per lasciare spazio a qualcos’altro: un documentario. Torniamo ora a chiederci: quale può essere il motivo che ha aveva spinto i due avventori e il barista a sospendere all’improvviso ogni discorso o attività e spostare interamente l’attenzione su quel soggetto? La motivazione che viene più spesso coinvolta in questo campo è quella intrinseca, che nasce per soddisfare il nostro innato bisogno di sapere33. Secondo i teorici della motivazione intrinseca, infatti, non sono solo innati i bisogni di tipo fisiologico (come la fame, la sete, il sonno, ecc.) ma anche altri. Ad esempio se osserviamo un bambino piccolo o un animale (un gatto per esempio) ci accorgiamo come in certe situazioni dimostrino curiosità ed interesse34: il bambino prende subito in mano un oggetto nuovo, lo osserva, lo smonta e il gatto non può resistere alla tentazione di entrare in uno scatolone che abbiamo appoggiato per terra35. Queste azioni sono dettate dal bisogno innato di essere curiosi36. La motivazione intrinseca è quindi autodeterminata e sperimentata come liberamente scelta ed emanante dal proprio sé, trae difatti origine da dentro di noi. Implica quindi curiosità, esplorazione, spontaneità e interesse. Ci impegniamo in azioni intrinsecamente motivate perché lo vogliamo. Esse non richiedono conseguenze motivanti indipendenti; l’unica “ricompensa” necessaria è l’interesse spontaneo e il piacere che sperimentiamo nel compierle. Per promuovere questo meccanismo è necessario dapprima soddisfare tre bisogni psicologici innati: quello di competenza (che consente di sviluppare ed esercitare abilità per manipolare e controllare l’ambiente), quello di autonomia (che ci permette di decidere cosa fare e come farlo) e quello di relazionalità (legato all’affiliazione con gli altri tramite relazioni proto sociali) 37. Sono questi, per esempio, i presupposti che ci spingono a preferire un’attività sportiva piuttosto che un’altra: se sugli sci mi sento bravo sono motivato a dimostrare la mia competenza e ad accrescere la 33 Le teorie dei bisogni sono state tra le prime teorie motivazionali ad emergere come alternative alle teorie del rafforzamento del comportamento. Queste teorie spiegano i comportamenti come risposte a bisogni sentiti (BROPHY, 2003). 34 I comportamenti mossi da curiosità sono facilmente osservabili in tenera età, contraddistinguono anche gli adulti ma spesso vengono inibiti per cui si resta ad un livello motivazionale di attrazione, tensione e desiderio (MOÈ, 2010). 35 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 36 Sul tema della curiosità epistemica ci soffermeremo nel paragrafo 2.2 del presente capitolo. 37 BROPHY, 2003. 14 mia immagine scegliendo piste sempre più impegnative; viceversa, se sugli scii mi sento debole e non vedo la possibilità di migliorare, quando sono costretto a sciare scelgo sempre le piste più semplici oppure cerco il modo di evitare del tutto l’attività. Lo stesso vale nel caso di quelle discipline che nel corso della nostra carriera scolastica ci attraevano e di quelle che proprio non potevamo sopportare38. Che si tratti di giochi, di attività ricreative o di attività di apprendimento, i teorici della motivazione intrinseca si concentrano principalmente sull’aspetto del controllo come autodeterminazione: guardo un film documentario perché colpisce la mia curiosità e provo emozioni positive nell’acquisire nuove conoscenze; mi impegno in questa attività perché ho voglia e non perché devo farlo. Un altro tipo di motivazione è quella legata all’apprendimento. Si distingue da quella estrinseca, sostenuta da un rafforzamento, e da quella intrinseca, spinta dal piacere. La motivazione ad apprendere ha a che fare con l’elaborazione delle informazioni, con l’attribuzione di senso alle cose e con lo sviluppo della comprensione o della padronanza che si verifica quando si acquisiscono conoscenze o abilità. È, in conclusione, una risposta cognitiva che può essere considerata o come una disposizione generale o come uno stato specifico di una situazione. In quanto disposizione si tratta di una tendenza durevole all’apprendimento di valore, nel caso di situazioni specifiche si verifica quando ci si impegna volontariamente in un’attività adottandone l’obiettivo e tentando di apprendere i concetti o le abilità che essa sviluppa. Un caso questo che si verifica quando un argomento sollecita il nostro interesse o comprendiamo l’importanza del contenuto o dell’abilità. Contrariamente alle pretese di alcuni psicologi, non possiamo essere costantemente motivati intrinsecamente, è pertanto necessario sviluppare anche la motivazione ad apprendere39. Per farlo è necessario fare due cose: 1. Avvicinare la lezione agli studenti fornendo opportunità perché apprendano e accrescano il valore dell’interesse che l’apprendimento ha per loro; 2. Avvicinare gli studenti alla lezione chiedendo che riflettano sul materiale e lo usino e sostenendo i loro sforzi nel fare questo40. Come possiamo mettere in pratica questo? • Dimostrando, per esempio, entusiasmo e suggerendo ciò che è interessante, importante e di valore. Che non vuol dire lasciarsi andare a discorsi d’incitamento o false teatralità, bensì identificare buone ragioni per considerare un argomento importante, unico, differente. L’obbiettivo non è divertire o intrattenere ma far apprezzare un argomento. 38 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 39 BROPHY, 2003. 40 BLUMENFELD, PURO, MERGENDOLLER, 1992. 15 • Altrettanto essenziale è essere intensi assumendo uno stile di comunicazione strategico, che usi anche espressioni non verbali e gesti, enfatizzando parole chiave, usando inusuali modulazioni della voce e introducendo le cose al momento giusto. • Traendo vantaggio dalla motivazione intrinseca inoltre si può provocare la curiosità o creare suspance (ci soffermeremo su questo argomento nel paragrafo 2.2 sulla curiosità epistemica). • Se un argomento è famigliare è possibile che, pensando di saperne già abbastanza, siamo portanti a calare la nostra attenzione. È possibile aggirare questa tendenza indicando aspetti inaspettati, spostando l’attenzione su elementi inusuali, facendo notare eccezioni, o sfidando a risolvere un mistero celato sotto un paradosso provocando, quella che viene definita, dissonanza o conflitto cognitivo. • Per dare significato a definizioni, principi e altre informazioni astratte possiamo renderle più personali, concrete o famigliari relazionandole ad esperienze o aneddoti della vita di tutti i giorni. Il video, in particolare, è un mezzo molto utile per concretizzare un discorso dal momento che mostra immagini, situazioni, azioni e può coinvolge lo spettatore. Meglio ancora se il contenuto viene presentato in forma narrativa. • Direttamente o indirettamente possiamo inoltre suscitare interesse o apprezzamento per un compito esprimendo le ragioni per cui dovremmo considerarne il valore oppure predisporre gli argomenti in modo che autonomamente sia possibile comprenderne l’importanza. • È possibile inoltre invogliare la motivazione ad apprendere chiedendo di riflettere su argomenti o attività che si considerano interessanti o su cui si hanno pregiudizi. In questo modo si comprende che la motivazione ad apprendere viene da dentro di sé - e questa è una qualità particolare della persona che apprende piuttosto che del compito da apprendere41. Seguendo questi accorgimenti, lo spettatore di un film documentario sceglie volontariamente di prestare attenzione a quanto vede e sente poiché comprende l’importanza dell’argomento che si sta delineando sotto i suoi occhi; mi impegno in questa attività perché sento che è importante apprendere qualcosa su questo argomento e non perché devo farlo o perché ne abbia necessariamente voglia. 41 BROPHY, 2003. 16 2.2 Curiosità epistemica La conoscenza umana è stato un fenomeno ampiamente studiato dalle discipline psicologiche, e non solo. Tuttavia due importanti questioni ancora restano da affrontare: perché l’uomo dedica così tanto tempo e sforzi all’acquisizione di nuove conoscenze e perché alcuni aspetti di queste sono ritenuti più interessanti di altri e riescono a catturare più facilmente il nostro interesse? Le moderne teorie sull’apprendimento si concentrano sulle variabili motivazionali illustrate precedentemente per rispondere a queste domande, ma per sostenere il processo conoscitivo è necessario considerare anche l’aspetto emotivo indagando, in particolare, quella spinta che porta alla ricezione e al conseguente apprendimento di nuove nozioni. Questa spinta emotiva è stata definita da Berlyne, professore di psicologia all’Università di Toronto tra il 1962 e il 1976, curiosità epistemica perché soddisfa un bisogno che non è omeostatico, ma volto alla crescita42. La curiosità ha una storia strana, in quanto alcune correnti di pensiero la considerano come qualcosa di negativo. Dopo tutto, la curiosità uccise il gatto e ci lasciò con il vaso di Pandora. La curiosità è anche spesso associata a deviazioni quali il voyerismo, il desiderio di provare droga, alcol o esperienze estreme. Nel campo educativo, tuttavia, la curiosità è considerata positiva in quanto obbliga gli studenti a studiare e non c’è educatore che non esiterebbe ad indicare la curiosità come uno dei tratti caratteristici di un buon studente. La sua considerazione positiva è così grande in questo campo che diverse ricerche pedagogiche hanno notato come le valutazioni degli insegnati sulla curiosità dei loro studenti, erano parametri di misura per la loro intelligenza. Quindi venne constato che, almeno in ambito educativo, la curiosità facilita il processo di apprendimento43. Specificatamente, la curiosità epistemica scaturisce di norma come reazione in specifiche situazioni, o come risposta a stimoli verbali o non verbali44, si riferisce al bisogno universale di conoscere, di vedere e sperimentare che motiva un comportamento diretto verso l’acquisizione di nuove informazioni45. Questo bisogno attiva la motivazione ad esplorare l’ambiente. I primi tentativi del bambino si traducono in esplorazioni del mondo fisico, per esempio aprire i cassetti o sperimentare che cosa succede lasciando cadere a terra o lanciando oggetti di vari natura. La spinta è così forte che 42 MOÈ, 2010. 43 CERIANI, 2006, pp.35-36. 44 BERLYNE, 1954 45 LITMAN ,2005, pp. 793. 17 si manifesta anche a fronte di proibizioni, ostacoli o difficoltà. Da queste esplorazioni fatte muovendosi o camminando si passa a curiosità di tipo intellettuale46. Molti celebri pensatori, per esempio, sono stati stimolati dall’osservazione della vita quotidiana semplicemente perché avevano pensato a nuove questioni relative a problemi che uomini ordinari avevano dato per assodati. Infatti, la teoria della curiosità epistemica sottolinea soprattutto il ruolo dell’ambiente e dà particolare importanza alle caratteristiche degli stimoli, definite “collative”: novità, complessità o incongruenza con precedenti conoscenze a un livello ottimale, per non creare risposte di ansia o di fuga47. Esaminiamo ora come esempio uno stimolo verbale chiamato dai linguisti specific interrogation (da distinguere quindi dalla yes-or-no question): “Ma lo sai come si nutre una stella marina?”. Questa domanda evoca subito in noi concetti o significati che agiscono come stimoli o, seguendo la terminologia di Morris48, come designators. Nell’esempio specifico il designator è la “stella marina” che richiama subito alla nostra mente le conoscenze che abbiamo acquisito sulla biologia marina, l’azione specifica del “mangiare” che le viene associata agisce come stimolo e infine l’avverbio “come” che è utile per circoscrivere l’argomento e limitare il filo del discorso. Ora, se conosco già la risposta posso reagire allo stimolo sulla base della conoscenza pregressa, se invece non conosco la risposta verrà messo in atto in me un processo fatto di prove ed errori che passerà per i seguenti passaggi comportamentali: il pensare, l’osservare e infine il confermare mediante la consultazione di esperti; fino ad arrivare alla formulazione di una risposta corretta49. Ciò che ci spinge a trovare una risposta alla domanda che è stata posta è proprio la curiosità epistemica, il nostro desiderio innato di sapere ciò che ci circonda; esattamente come il gatto e il bambino descritti all’inizio di questo capitolo. Un ruolo importante dell’ambito della curiosità epistemica è rivestito dal conflitto. La contraddizione, la novità, l’incompatibilità sono più importanti di quello che si pensa. Studi su questo fenomeno sono iniziati con Lewin50 e proseguiti poi con Miller e i suoi soci51. Recentemente Hebb52 ha posto enfasi 46 MOÈ, 2010. 47 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 48 Per approfondimenti vedi MORRIS, 1946 49 BERLYNE, 1954. 50 Per approfondimenti vedi LEWIN, 1935. 51 Per approfondimenti vedi MILLER, 1944; MILLER, 1951. 52 Per approfondimenti vedi HEBB 1946; HEBB, 1949. 18 sul processo centrale che avviene tra stimoli e risposte ed è precisamente qui che va ricercato il nocciolo della questione. Il comportamento, secondo il pensiero di Hebb, dipende da una intricata e ben coordinata cooperazione tra le cellule della corteccia celebrale. Se passa troppo tempo o se il processo che avviene nella corteccia celebrale interferisce con qualcos’altro interviene un conflitto. Alcune di queste sequenze necessitano, inoltre, del supporto di processi sensoriali avviati esternamente, e se questi non sono imminenti, come quando qualcosa di famigliare viene percepito come inaspettato, si ha nuovamente una situazione di conflitto. Essa conduce ad un rilascio disorganizzato dell’energia che, stando a quanto afferma Hebb, è quanto giace dietro ogni emozione. La sua dimostrazione più nota è la descrizione della paura indotta negli scimpanzé per la vista di qualcosa di nuovo o diverso dal solito, tuttavia è anche verosimile che queste situazioni possano aver suscitato della curiosità dopo la paura iniziale. Lo stesso Hebb afferma come, la continua esposizione a stimoli complessi, elimini questi conflitti e faccia divenire famigliare ciò che prima era estraneo, acquisendo nuove conoscenze e formando nuove strutture mentali siamo infatti in grado di rimuovere il numero di interferenze e di conflitti percepiti. Se ammettiamo la possibilità che la curiosità suscitata da percezioni inaspettate abbia qualcosa a che fare con il conflitto, allora l’eliminazione di questo conflitto attraverso l’esplorazione può giocare un ruolo nell’ambito della curiosità53. Per comprendere meglio quanto esposto finora traduciamo gli studi di natura fisiologica di Hebb, che analizzano meccanismi presenti certamente in noi ma non osservabili direttamente, al comportamento. In questo senso risultano importanti le considerazioni di George Loewenstein. Loewenstein ha notato come le attività dell’uomo tendano verso situazioni incerte per le quali egli può cercare soluzioni, e questo risulta evidente se si pensa alla popolarità che godono puzzles ed enigmi. La chiave interpretativa di questa tensione è riscontrabile nel fatto che l’uomo cerca sempre un moderato livello di incertezza, più piacevole e meno ostile di livelli di incertezza molto alti o molto bassi. L’intensità della curiosità di ognuno nei confronti di qualcosa è strettamente connessa all’abilità di risolvere l’incertezza. Il modello di Loewenstein si basa sulla nozione di gap gestibile nella conoscenza di ognuno. La motivazione tende ad aumentare nel momento in cui un individuo realizza che c’è un intervallo tra il livello di conoscenza raggiunta e quello desiderato. Inoltre Loewenstein ha notato che la chiave per comprendere la tensione verso la curiosità “sta nel riconoscere che il percorso di soddisfazione della curiosità è di per sé piacevole” 54 . Quindi gli studenti potrebbero trovare l’apprendimento divertente perché correlato al riempimento di questo intervallo. “Per stimolare la curiosità, è necessario far si che gli studenti siano consapevoli di questo buco nella loro 53 BERLYNE, 1954. 54 LOEWENSTEIN, 1994. 19 conoscenza” 55 . Bisogna prestare comunque attenzione: gap troppo profondi possono scoraggiare l’apprendimento, invece davanti a gap troppo piccoli gli studenti dimostrano un atteggiamento di apatia nei confronti della sfida. Il considerare in modo negativo ciò che non si conosce, costituisce senza dubbio una barriera per la curiosità. L’individuo illuminato è colui che riconosce i limiti della propria conoscenza, mentre una persona curiosa è animata dal desiderio di riempire questo vuoto56. Per applicare quando appena esposto al nostro oggetto di ricerca è utile ricorrere ancora una volta all’esempio pratico di una domanda. Considerando il messaggio che il filmato vuole veicolare la domanda più semplice e diretta da prendere in considerazione è: “Qual è il mestiere dell’archeologo?”. Può sembrare una domanda semplice a cui tutti sanno rispondere e per la quale non ci può essere un gap gestibile, ma per la mia esperienza personale la conoscenza di questa professione non è così diffusa nella sua reale essenza. Con ogni probabilità, per la maggior parte dei “non addetti ai lavori”, il designator di questa domanda (ovvero l’archeologo) richiamerà alla mente le scene dei film di Indiana Jones e la loro immaginazione volerà subito verso avventure e tesori del passato; l’altra metà di loro confonderà l’archeologo con il paleontologo e inizierà subito a parlare di pennelli e dinosauri, stereotipando in questo modo anche la professione dei nostri colleghi. Qualcuno ironizzerà chiedendo a sua volta se l’archeologo sia un mestiere e, sebbene sia triste ammetterlo, pur non sapendolo, costui ha detto una cosa che prima della legge Madia n. 124 del 7 agosto 2015, era vera: l’archeologia in Italia non era nemmeno riconosciuta come una professione. Queste sono solo alcune delle reazioni-tipo che spesso l’archeologo incontra quando cerca di spiegare il suo mestiere a qualcuno. Nella maggior parte dei casi ci sente rispondere: • “Wow archeologia… Che affascinante, anche io da piccolo volevo fare l’archeologo/a, poi però ho scelto di studiare altro…” (e sappiate che in quei puntini di sospensione si sottintende “discipline serie e degne di questo nome”); • “Oh, che bello! Ma… Quindi che fai? Praticamente intendo…” Ed ecco il gap gestibile che ci consente di far presa sulla curiosità epistemica: cosa fa praticamente un archeologo? In altri termini, qual è il suo mestiere? È compito nostro far capire che l’archeologo non si occupa di dinosauri, non vive la vita avventurosa del protagonista dei film di Steven Spielberg né tanto meno insegue tesoretti o sacchetti di monete d’oro. Come scrivevano Colin Renfrew e Paul Bahn, in uno dei libri di testo più letti dagli studenti di 55 LOEWENSTEIN, 1994. 56 CERIANI, 2006, pp. 36-37. 20 archeologia italiani, l’archeologia, è vero, in parte è la scoperta dei tesori del passato, ma in parte è anche il lavoro meticoloso di un’analista scientifico e un esercizio di immaginazione creativa. È faticare sotto il sole in uno scavo nei deserti dell’Asia centrale, è lavorare insieme agli Inuit tra le nevi dell’Alaska, è immergersi al largo della costa della Florida per raggiungere il relitto di una nave spagnola ed è indagare le fognature della York romana. Ma è anche il cosciente sforzo interpretativo attraverso il quale si arriva a comprendere che cosa tutto ciò significhi nella storia dell’umanità. Infine è il tentativo di preservare i beni culturali del mondo dal saccheggio e dalla distruzione dovuta alla mancanza di cura. L’archeologia, poi, è al tempo stesso attività fisica sul campo e attività intellettuale svolta nello studio o in laboratorio. L’archeologia è una ricerca emozionante, cioè la ricerca della conoscenza su noi stessi e sul nostro passato57. Il gap gestibile, allora, non è così profondo come può sembrare. Osservando da questa prospettiva il divario tra immaginazione e realtà non è troppo grande da generare risposte di ansia o di fuga e, allo stesso tempo, possiamo far presa sul fatto che l’archeologia è qualcosa di affascinante che di per sé incuriosisce. Inoltre se consideriamo il fatto che la maggior parte delle persone non conosce cosa fa praticamente l’archeologo, si attiverà automaticamente un processo mentale indirizzato a confrontare quanto conosciamo con quanto ci viene presentato continuando il processo associativo fino al raggiungimento di una risposta plausibile che consentirà l’apprendimento. La spinta che mette in moto tutto questo meccanismo, torniamo a ribadire è la curiosità epistemica. 2.3 Flow Experience Vi è mai capitato di essere così presi dalla lettura o dalla soluzione di un gioco da non rendervi conto che è passata da un pezzo l’ora di cena? In questi casi avete provato una particolare tipologia di motivazione intrinseca catturata da Mihaly Csikszentmihalyi nel suo concetto di motivazione di flusso. Egli ha sviluppato tale concetto dopo aver intervistato persone sulle loro esperienze soggettive in momenti in cui erano letteralmente assorbite in determinate attività. Si aspettava di scoprire che la maggior parte delle esperienze di flusso si verificassero durante rilassanti momenti di piacere e di divertimento. Al contrario, ha scoperto che esse di solito si verificano quando siamo attivamente coinvolti in compiti sfidanti che mettono alla prova le nostre abilità fisiche o mentali 58 . 57 RENFREW, BAHN, 2006, pp.X. 58 BROPHY, 2003. 21 Nell’esperienza di flusso l’attenzione è concentrata più sullo svolgimento del compito che sui risultati e la motivazione si mantiene per effetto del piacere provato nel controllo e nella realizzazione del compito stesso. In genere questa esperienza avviene rispetto a compiti in cui ci si sente competenti, che forniscono feedback immediati rispetto all’efficacia delle proprie azioni, e che hanno un grado ottimale di sfida e di curiosità. Altra caratteristica dell’esperienza di flusso è un’alterata percezione del tempo, che di solito sembra volare via: “ma come, abbiamo già finito?” è un’espressione spontanea quando un compito ci ha così presi da farci provare un’esperienza di flusso59. Il fatto è che siamo consapevoli degli obbiettivi del compito e del feedback generato dalle risposte che forniamo, ma ci dedichiamo al compito in sé stesso senza darci pensiero del successo o del fallimento, della ricompensa o della punizione o di altre priorità personali o sociali. Almeno per un poco, ci concentriamo completamente sul sostenere le sfide che il compito ci pone affinando le nostre strategie di risposta, sviluppando le nostre abilità e godendo di un senso di controllo e di realizzazione. È molto più probabile che abbiamo esperienze di flusso quando siamo impegnati in hobby o in attività ricreative (lavori artistici, sport, divertimenti o giochi al computer), ma possiamo viverle anche sul lavoro o in classe o in qualsiasi altro campo di attività60. È stato dimostrato che tutte le attività che consentono un’esperienza di flusso hanno questo in comune: forniscono un senso di scoperta, un sentimento creativo che trasporta la persona in una nuova realtà. Pertanto, in sintesi otto sono le dimensioni caratteristiche dell’esperienza di flusso che vengono indicate da tutti gli autori: 1. l’attività ha obiettivi chiari e offre un feedback immediato sull’efficacia della risposta che forniamo; 2. Ci sono frequenti opportunità per agire in modo decisivo ed esse si armonizzano con le nostre percepite abilità di azione. In altre parole le nostre abilità personali sono adeguate alle sfide poste dalle attività; 3. Azione e consapevolezza si fondono insieme, sperimentiamo uno stato di totale assorbimento della mente; 4. La concentrazione è sul compito sotto mano; gli stimoli irrilevanti scompaiono dall’orizzonte della consapevolezza; preoccupazioni e incertezze sono temporaneamente sospese; 5. Sperimentiamo un senso di potenziale controllo; 59 DE BENI, PAZZAGIA, MOLIN, ZAMPERLIN, 2003. 60 BROPHY, 2003. 22 6. Proviamo la perdita dell’autoconsapevolezza, il superamento dei limiti dell’io, il senso di crescita e partecipazione a un’entità più grande; 7. Viviamo un’alterata percezione del tempo, che di solito sembra volare via; 8. L’esperienza diventa autotelica (dal greco telos = fine): l’attività è in sé degna di essere compiuta. La possibilità di fare esperienza di flusso cambia da persona a persona e da situazione a situazione. Non è semplice trasformare un’esperienza ordinaria in un’esperienza di flusso, ma quanto meno tutti possono migliorare la loro abilità nel farlo. Ci sono persone che provano raramente esperienze di flusso perché temono il fallimento e quindi cercano di evitare situazioni sfidanti: sono preoccupati di ciò che gli altri pensano di loro, hanno paura di dare l’impressione sbagliata o di fare qualcosa di inappropriato. Si tratta di personalità concentrate molto su loro stesse, ma essere egocentrici non significa anche essere consapevoli di sé. Alcune persone potrebbero addirittura essere incapaci di provare l’esperienza di flusso: gli psichiatri indicano gli schizofrenici come affetti da anedonia, letteralmente assenza di piacere, riferendosi al fatto che gli schizofrenici sono costretti a notare tutti gli stimoli irrilevanti, a processare tutte le informazioni sia che gli piacciano o no. Incapaci di concentrarsi, in indiscriminata attesa di qualsiasi cosa, i pazienti che soffrono di questo disturbo non sono chiaramente in grado di divertirsi. Altre persone, invece, hanno semplicemente scarsa capacità di concentrarsi, un problema più comune e ben noto soprattutto in ambito scolastico. Ci sono persone che sviluppano invece una “personalità di flusso”: cercano sfide e amano superare i loro limiti, quando si chiede loro di impegnarsi in attività più ripetitive queste persone tendono a renderle più complesse, provando a farle in modo artistico, cercando di accrescere la loro efficienza o dandosi obbiettivi che rendano l’attività più sfidante e interessante. Ci sono persone geneticamente avvantaggiate nel controllo della consapevolezza: queste persone sono meno inclini a soffrire di disturbi dell’attenzione e possono provare più facilmente l’esperienza di flusso. Confermano quest’ultima affermazione gli sperimenti condotti dalla Dott.ssa Jean Hamilton sulla percezione visiva. In un primo esperimento Hamilton ha presentato ad un gruppo di soggetti un’immagine ambigua, come può essere il cubo di Necker o un’illustrazione di Escher (fig. 3; fig. 4), e poi l’ha rovesciata chiedendo di invertire la percezione della prospettiva. Le persone che nella vita di tutti i giorni dimostravano di avere meno motivazione intrinseca avevano bisogno, in media, di fissare i loro occhi su più punti prima di poter rovesciare mentalmente l’immagine; mentre coloro che nel complesso erano più spesso motivati intrinsecamente avevano bisogno di guardare pochi punti, o addirittura un solo punto, per arrivare allo stesso risultato. Questo esperimento suggeriva che le persone possono avere bisogno di un numero vario di spunti per realizzare lo stesso compito mentale: 23 coloro che necessitano di molte informazioni esterne per rappresentare mentalmente la realtà possono diventare più dipendenti dall’ambiente che li circonda nell’uso della loro mente, avranno meno controllo sul loro pensieri e meno possibilità di fare esperienza di flusso; al contrario, le persone che hanno bisogno soli di pochi spunti esterni per rappresentare consapevolmente gli eventi sono più autonomi da ciò che li circonda, hanno un’attenzione più flessibile che gli consente di ricostruire le esperienze più facilmente e perciò di sperimentare altrettanto facilmente il flusso. Figura 4 - Cubo di Necker Figura 4 - Relatività, Escher In un’altra serie di esperimenti è stato chiesto ad un gruppo di studenti di prestare attenzione a dei flash di luce e a dei suoni in un laboratorio. Mentre i soggetti erano coinvolti in questo esperimento è stata misurata la loro attività celebrale scoprendo che, coloro che raramente sperimentavano il concetto di flusso avevano picchi di attività esclusivamente in presenta degli stimoli visivi o sonori, al contrario, coloro che stavano provando un’esperienza di flusso mostravano una diminuzione della loro attività celebrale mentre erano concentrati. Anziché richiedere più lavoro, l’investimento dell’attenzione sembrava diminuire il loro sforzo mentale. La spiegazione più semplice di tutto ciò risiede nella considerazione che le persone più portate a sperimentare il flusso erano in grado di ridurre tutte la attività mentali e di focalizzarsi esclusivamente su ciò che loro decidevano essere importante in quel momento. Queste evidenze neurologiche non intendono provare che alcuni individui sono avvantaggiati geneticamente nel controllo dell’attenzione, ma che tramite l’esercizio e l’allenamento possiamo migliorare la nostra capacità di concentrazione61. 61 CSIKSZENTMIHALYI, 1990. 24 Altre situazioni producono, invece, esperienze diverse. Quando l’abilità è elevata, ma il compito offre una bassa sfida sperimentiamo noia; quando sia i livelli di sfida che di abilità sono bassi sperimentiamo apatia, e quando affrontiamo un compito sfidante, nel confronto del quale pensiamo di possedere bassi livelli di abilità, sperimentiamo ansia (fig. 5). L’ansia è la minaccia principale alle possibili esperienze di flusso. Troppe situazioni che sfociano nell’ansia possono far preferire la noia di routine “sicure” alle opportunità di vivere esperienze di flusso offerte da attività stimolanti62. Figura 5 - Tavola delle esperienze soggettive (CSIKSZENTMIHALYI, 1993.) Csikszentmihalyi, Rathunde e Whalen hanno consigliato che gli insegnanti incoraggino le esperienze di flusso in tre modi: 1. padroneggiando la materia che si espone, mostrando entusiasmo nell’insegnarla e agendo come modelli che perseguono le ricompense intrinseche dell’apprendimento; 2. mantenendo una buona corrispondenza tra ciò che esigono e ciò che gli studenti sono preparati a realizzare (sollecitandoli, ma anche aiutandoli a conseguire obiettivi sfidanti e tuttavia ragionevoli); 3. offrendo una combinazione di sostegno emotivo e didattico che consente agli studenti di affrontare i compiti di apprendimento con fiducia e senza ansia63. Nel caso della produzione video possiamo inoltre far leva su due sensi che sono spesso il motore di un’esperienza di flusso: la vista e l’udito. Occasionalmente le persone si fermano per “rifarsi gli occhi” quando una vista particolarmente magnifica compare loro davanti, ma non coltivano sistematicamente le potenzialità della loro vista. 62 BROPHY, 2003. 63 CSIKSZENTMIHALYI, RATHUNDE, WHALEN, 1993. 25 Essa può dare accesso ad esperienze gradevoli, Menandro, il poeta classico, diceva “il sole che ci illumina, le stelle, il mare, le nuvole che si muovono, le scintille del fuoco - che tu abbia vissuto cento anni o pochi soltanto, mai vedrai alcuna cosa più bella di queste”. Le arti visive e i lavori degli artisti che sono in grado di toccare i nostri sentimenti ci aiutano a sviluppare questo potenziale, e alla fine un occhio allenato può essere deliziato anche dalla vista più banale. Lo stesso si può dire per quel che concerne l’udito, in particolare nel caso di melodie o suoni gradevoli. La musica ha il potere di evocare sentimenti e stati d’animo, ecco perché ci sono le canzoni per ballare, per i matrimoni, per i funerali e così via. Ascoltare musica aiuta ad organizzare la mente, a ridurre l’entropia psichica, a respinge la noia e l’ansia e può indurre ad esperienze di flusso64. Pertanto, per catturare l’attenzione di una persona che si accinge a guardare un filmato, ci si può e quasi ci si deve servire di una buona composizione tra immagini o riprese e musiche. Per mantenere la concentrazione dell’osservatore serve inoltre dimostrare la validità del contenuto che viene presentato trattando l’argomento in maniera entusiasta e dimostrando di padroneggiare la materia ma, cosa ancora più importante, di essere allo tesso tempo in grado di raccontarla con un linguaggio comune e comprensibile a tutti, che non disorienti e non generi troppo divario tra l’emittente del messaggio e il destinatario. In questo senso sarà molto importante la fase di stesura della sceneggiatura e la scelta di una buona voce narrante, come vedremo nel quarto capitolo. 2.4 Considerazioni conclusive In sintesi, come possiamo rendere una produzione video interessante per l’utente medio? Innanzi tutto è necessario considerare il pubblico a cui ci si sta rivolgendo e di conseguenza adeguarsi al suo livello comunicativo: torniamo a ripetere che il contenuto del messaggio va avvicinato alla persona che ascolta e, viceversa, quest’ultima va motivata ad ascoltarci. Per fare questo è bene non usare un linguaggio troppo tecnico e specifico ma esporre il contenuto con una sintassi semplice e preferire parole concrete e famigliari, così da personalizzare il discorso. Questo non significa mettere da parte la correttezza scientifica o la veridicità delle argomentazioni ma, semplicemente, rendere comprensibile a tutti quanto si vuole affermare in modo da non disorientare l’ascoltatore o farlo sentire inadeguato all’argomento che si sta trattando. I contenuti devono essere degli esperti ma il linguaggio dev’essere di tutti. 64 CSIKSZENTMIHALYI, 1990. 26 Il contenuto del messaggio va inoltre reso accattivante e interessante: dimostrando entusiasmo nell’esposizione (mediante il tono, i gesti delle mani e l’espressione facciale), modulando la voce in modo da enfatizzare i punti chiave del discorso e cercando di interessare anche i più esperti sull’argomento sottolineando magari gli aspetti inusuali e più particolari di ciò che si sta esponendo. È importante individuare una buona voce narrante. Essa ha il potere di incuriosire, catturare l’attenzione e accompagnare lo spettatore dentro al video stesso. Inoltre, la scelta di porre alcune domande prima della spiegazione contribuisce a creare dialogo tra la voce narrante e lo spettatore e ad incrementare l’interesse verso quello che si sta spiegando. Allo stesso modo, l’adozione dello schema giornalistico (in cui prima viene data la notizia principale e poi gli eventi collaterali che ad essa fanno riferimento), contribuisce a catturare l’attenzione di chi ascolta. Se si riesce ad interessare, e magari anche a divertire, lo spettatore è possibile riuscire a coinvolgerlo tanto da fargli provare un’esperienza di flusso, perdere per un momento il suo “io” e immergersi totalmente nella narrazione. Contribuisce molto in questa prospettiva la scelta di una buona musica, adeguata alle immagini e con esse ritmicamente sincronizzata. Deve trattarsi di una musica di sottofondo che non sovrasti la comunicazione o non disturbi il nostro livello di attenzione ma enfatizzi le immagini che accompagna, magari riuscendo anche ad evocare l’ambiente di cui si sta parlando. 27 28 3. IL MEZZO ESPRESSIVO VIDEO-NARRATIVO “Documentaries – or what ever their directors care to call them – are just not my favorite kind of movie watching. The fact is I don't trust the little bastards. I don't trust the motives of those who think they are superior to fiction films. I don’t trust their claim to have cornered the market on the truth. I don’t trust their inordinately high, and entirely underserved, status of bourgeois respectability.” -MARCEL OPHULUS 3.1 Definizione di cinema “documentario” La carriera ancora in corso di Marcel Ophulus come produttore di documentari seri smentisce la sua pretesa di diffidare della forma. Tuttavia, la dichiarazione di Ophulus arriva al cuore di ciò che definisce i documentari – “o in qualsiasi altro modo i loro direttori intendano chiamarli”. Tutti i documentari, sia che siano considerati affidabili o no, ruotano intorno una questione di fiducia. Un documentario è una qualsiasi immagine in movimento che è suscettibile alla domanda: "potrebbe mentire?"65 Facciamo un passo indietro. Il cinema stesso nacque per documentare. Negli esperimenti protocinematografici fatti negli anni Settanta dell'Ottocento dallo statunitense Eadweard Muybridge e dal francese Étienne-Jules Marey, la moltiplicazione di scatti fotografici ravvicinati (zooprassografia, cronofotografia) consentiva l'analisi del movimento, così scomposto, di animali o 65 EITZEN, 1995, pp. 81. 29 di esseri umani (fig. 6 e 7). Contemporaneamente, fra le evoluzioni e i perfezionamenti degli spettacoli della lanterna magica si distinse il prassinoscopio del francese Émile Reynaud, che si situava su un altro versante, quello delle “attrazioni”, utilizzando non fotografie ma disegni in rapida successione, che davano l'illusione del movimento (fig. 8). Quando l'evoluzione tecnologica consentì negli anni seguenti, con lo statunitense Thomas A. Edison e i francesi Lumière, di portare le fotografie in successione a una cadenza tale da rendere la riproduzione del movimento verosimile e visibile agli spettatori, prima singoli (tramite il cinetoscopio o peepshow nel caso del cinetografo di Edison) e poi in gruppo (tramite la proiezione nel caso del cinematografo dei Lumière), la dicotomia realtà-finzione era già in atto (fig. 9). Figura 6 - Étienne Jules Marey, Salto con l'asta, 1880. Figura 8 – Prassinoscopio. Figura 7 - Étienne Jules Marey , Sequenza di volo. Figura 9 - Cinetoscopio o peepshow. Ma quando è stata la prima volta che coscientemente una produzione è stata definita documentaria? La critica storica tende ad attribuire l'impiego cosciente del termine “documentario” al cineasta e produttore scozzese John Grierson che, recensendo Moana, un film sulla Polinesia di Robert Flaherty, 30 parlò di "valore documentario" del film66, per poi teorizzare il genere in vari saggi scritti nel 19321934 su "Cinema Quarterly"67. Oggi l’umanità sta vivendo un’esplosione senza precedenti della produzione audiovisiva. In questi ultimi anni, non solo troviamo sul mercato attrezzature di ripresa e di montaggio di ottimo livello a costi bassissimi, ma una sorta di “coazione a riprendere” ha coinvolto ogni gadget elettronico, soprattutto nell’ambito della telefonia cellulare. La conseguenza pratica è la diffusione virale di “macchine da presa” di ogni tipo tra la popolazione. Si può dire che il numero di dispositivi capaci di effettuare riprese video in un paese come l’Italia è passato dalle poche migliaia di alcuni decenni fa alle decine di milioni di oggi e che in ogni famiglia italiana ci sono almeno due o tre “punti macchina”. Una schiera di potenziali filmmaker e milioni di macro o micro camere sono in azione ogni giorno come un gigantesco specchio sociale variegato e frammentario, dando luogo a una trasformazione storica del tessuto produttivo che ha modificato drasticamente anche la stessa fisionomia del documentario contemporaneo68. Come possiamo dunque definire, oggi, il cinema documentario? Con il termine documentario si intende, nell'uso comune, un film, di qualsiasi lunghezza, girato senza esplicite finalità di finzione, e perciò, in generale, senza una sceneggiatura che pianifichi le riprese, ma anzi con disponibilità verso gli accadimenti, e senza attori69. Non a caso, nei paesi anglosassoni si impiega sempre più spesso il termine nonfiction o factual film e nei paesi sovietici fattografico o non recitato. Si tratta, come si può notare, di definizioni in negativo che trovano il loro senso in opposizione al cinema di finzione dominante, mentre mancano definizioni in positivo, forse perché solleverebbero troppe contraddizioni. 66 La recensione di Grierson fu pubblicata nel giornale New York Sun l’8 febbraio 1926 sotto lo pseudonimo “lo spettatore”. Nella sua recensione Grierson ha scritto: “Certo Moana, essendo un resoconto visivo di eventi nella vita quotidiana di un giovane polinesiano e della sua famiglia, ha un valore documentario” (PEPE, ZARZYNSKY, 2012, pp.24). 67 APRÀ in Enciclopedia del Cinema, http://www.treccani.it/enciclopedia/documentario_%28Enciclopedia-del- Cinema%29/ 68 HENDEL, 2014, pp. 9. 69 Escludendo il presentatore o chi rappresenta la voce narrante, le persone che compaiono in un documentario sono tendenzialmente professionisti o esperti nella materia, che relazionano le loro conoscenze o i risultati delle loro ricerche, e persone comuni colte nel loro ambiente. Appunto, anche nel documentario Nora, il racconto dell’archeologo non si è ricorsi ad attori ma sono stati intervistati i responsabili delle diverse attività che compongono lo studio archeologico del sito di Nora con piena disponibilità nei confronti delle materie di cui dovranno parlare. 31 Alla base del documentario c'è un rapporto ontologico con la realtà filmata, che si pretende restituita sullo schermo come si è manifestata davanti alla macchina da presa, senza mediazioni. Il film è il documento di tale realtà, la prova che le cose si sono svolte come risultano proiettate. Il cinema di finzione rappresenta invece una realtà mediata, manipolata dal regista per esprimere ciò che ha immaginato. È una realtà messa in scena. Nel documentario la macchina da presa è al servizio della realtà che le sta di fronte; nel film di finzione la realtà viene invece rielaborata per la macchina da presa. In quest'ultimo il patto implicito dello spettatore con lo schermo è: "so bene che ciò che vedo rappresentato non è vero, benché verosimile, e tuttavia ci credo"; nel documentario egli dirà piuttosto: "ciò che vedo è vero, e non solo verosimile, e per questo ci credo". L'effetto magico di illusione di realtà che il cinema di finzione produce viene, per così dire, sospeso nel documentario, dove si evidenzia l'effetto probatorio. Per quanto reale e non manipolato sia il profilmico (ciò che la macchina da presa riprende), esso non può evitare di essere inquadrato, e con ciò stesso selezionato e orientato; anche se è stato detto che l'inquadratura di un documentario è una finestra aperta sul mondo più che una cornice che lo racchiude e lo sintetizza. Inoltre, per quanto breve sia il film il fatto stesso che ci sia un inizio e una fine implica inevitabilmente un embrione di narrazione, un'evoluzione del profilmico marcata da un “prima” e da un “dopo”. La realtà, in altre parole, è sempre, nel documentario come nel film di finzione, una realtà “registrata”, quindi mediata, “impura”. Ma l'innocenza, per così dire, con cui lo spettatore assiste alla proiezione (o, in televisione, alla trasmissione) di un documentario lo rende facilmente ingannabile, quando si vuol far passare subdolamente per documento, prova inconfutabile di verità, ciò che è realtà truccata: è quanto ha sempre fatto la propaganda, con i cinegiornali e i telegiornali, e con la pubblicità70. Questo perché c’è il rischio che la soggettività o gli orientamenti di pensiero dell’autore possano prendere il sopravvento sull’aspetto etico intrinseco al documentario. Nel corso degli anni si è parlato di documentario come una “rappresentazione drammatica della relazione dell’uomo con la sua vita istituzionale”, come “film con un messaggio”, come “la comunicazione, non di cose immaginarie, ma di cose reali” e come “tipologia di film che rinuncia al controllo degli eventi che vengono filmati”. Ma la definizione più famosa, e quella ancora che oggi risulta essere la più funzionale, è quella di John Grierson: egli definisce efficacemente il documentario come “trattamento creativo dell’attualità”71. 70 APRÀ in Enciclopedia del Cinema, http://www.treccani.it/enciclopedia/documentario_%28Enciclopedia-del- Cinema%29/ 71 EITZEN, 1995, pp. 82. 32 3.2 Archeologia e video L’Italia, purtroppo, partecipa in maniera inadeguata alla fioritura della cinematografia documentaristica a causa di due fattori limitanti che operano in una perversa sinergia: la scarsità di finanziamenti, specialmente pubblici, e l'atteggiamento di molti film-maker che, contrapponendo i valori culturali ai valori di mercato, si condannano di fatto all'isolamento. In un panorama culturale dominato dal culto del cinema di fiction da una parte e dalla presenza di moduli giornalistici dell’altra, resta poco per la promozione del documentario cosiddetto “creativo”; la stessa Rai ha destinato a questa produzione una porzione residuale del suo budget. D’altro canto, molti autori reagiscono a questa trascuratezza incrementando una paradossale “auto-emarginazione” dal mercato, sostenendo una sorta di “incorruttibilità" delle proprie opere rispetto alle richieste di un pubblico di massa. Per questa via, arroccati funzionari e illuminati registi sono d'accordo su un punto: il documentario non può avere un suo mercato, quindi che viva ai margini della produzione culturale, nella penombra del cine d’essai. In realtà i numeri Auditel dimostrano che in Italia esiste un mercato potenzialmente enorme per i documentari, basterebbe esplorarlo! Ci sono peraltro molti film-maker, soprattutto tra le giovani forze, pronti a misurarsi con mercati pubblici diversi; esistono documentari italiani che nonostante tutto hanno già viaggiato nel mondo riscuotendo successi importanti e altri i cui autori stanno affilando le armi per entrare anche loro in gioco. Sono risorse eccezionali, a loro spetterà risollevare la bandiera del documentario italiano e portarla nel mondo.72 3.2.1 Parlare di archeologia Facendo ora riferimento alle ricerche archeologiche italiane, quante si dotano del supporto audiovisivo per comunicare i risultati delle loro ricerche, concluse o ancora in corso, al pubblico e alla comunità scientifica? Come scrive Francesco Ripanti nel suo blog 73 , Archeovideo, Narrating 72 HENDEL, 2014, pp.10-11. 73 È un fenomeno recente quello rappresentato degli acheo-blogger: archeologi che usano il web, il canale promozionale più diffuso al giorno d’oggi, per farsi conoscere e far conoscere l’archeologia italiana, per suscitare curiosità nelle persone che li leggono e valorizzare il patrimonio culturale del nostro paese. Sono persone che si sono formate nei beni culturali e poi hanno scelto di specializzarsi nella comunicazione, passando, con versatilità, dalla cazzuola alla parola: solo con le giuste parole possiamo infatti raccontare belle storie. 33 archaeology through a video camera, la comunicazione archeologica nel nostro paese è ancora un fenomeno limitato ad alcuni casi illuminati e, anche all’interno di questi esempi, la diffusione del video come strumento per comunicare non è molto ampia. Se fossimo interessati a vedere un video di un sito che ci interessa e cercassimo su YouTube “area archeologica di…” o “scavi archeologici di…” dovremmo trovare senza troppi clic il canale con i relativi filmati. Oppure si potrebbe andare sul sito web e da lì cliccare sui link giusti per poter vedere i video girati dagli stessi archeologi che scavano il sito74. Ebbene, la realtà è molto diversa da questo scenario utopistico. Molto spesso la produzione audio-visiva che riguarda l’archeologia non è iniziativa dell’archeologo stesso ma di persone esterne, o estranee, al suo lavoro: l’archeologo, anziché essere un protagonista attivamente coinvolto, si riduce dunque al ruolo di semplice collaboratore esterno. È questo il caso, per esempio, dei servizi mandati in onda dai telegiornali locali sul cantiere archeologico attivo nella loro area di competenza75. Altri video in cui compaiono gli scavi archeologici sono a scopi promozionali: tra immagini suggestive e musica accattivante vengono esibiti i punti di forza del territorio per attrarre il turismo, storia e archeologia vengono inserite in questa prospettiva76 . In alcuni casi i video promozionali possono anche riguardare un singolo evento o una manifestazione che viene organizzata per il Un importante approfondimento di queste tematiche si è svolto il 31 ottobre 2014 a Paestum durante la XVII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico in cui l’archeologa, giornalista e, naturalmente, blogger Cinzia Dal Maso, ha riunito i principali archeo-blogger italiani. 74 https://archeovideo.wordpress.com/2013/01/25/archeologi-e-comunicazione-che-cosa-si-vede-attraverso-i-video/ 75 Alcuni esempi che si trovano nel web sono il servizio di Roberto Centrone del 09 gennaio 2013 per Canale 7 che parla del sito neolitico Santa Barbara a Polignano a Mare (https://youtu.be/oEPd9pGgqMw); quello di Carla Zita del 19 luglio 2014 per la Nuova Tg sul sito archeologico di Villa Romana Malvaccaro a Potenza (https://youtu.be/wcon-2wc0gg); il servizio di TG Universo sugli scavi archeologici in corso presso il sito di Aquinum (Castrocielo - FR) del 10 luglio 2015 (https://youtu.be/HP7uwaUA52I); o ancora il servizio di rtv38 sul rinvenimento di un mosaico nel sito archeologico di Vignale (https://youtu.be/zyXAUK5GNnc?list=PLYx_9lY_seRJrLmKRedzZAQLTD9rx3aBE). Anche il sito archeologico di Nora è stato coinvolto in questo tipo di produzioni video con, per esempio, la puntata del 27 aprile del 2014 di Sereno Variabile 76 In internet troviamo alcuni esempi interessanti, anche relativi all’area archeologica di Nora che introdurremo nel prossimo capitolo: l'Assessorato al Turismo del Comune di Pula propone, per esempio, il video “Nora e Pula: perle di Sardegna” in cui, in 4,47 minuti, viene mostrata la città di Pula, i suoi monumenti, il sito archeologico e suggestivi scorci paesaggistici (https://youtu.be/61e074g-T-A); un altro video documentario per il Comune di Pula è stato realizzato da Malizia Video Productions (https://youtu.be/q4b9MMm012c) e trasmesso a Lugano alla “Fiera del viaggiatore”. 34 pubblico, strategia questa che sembra quasi un assillante tentativo di marcare la propria presenza: un avviso che dice siamo qui e stiamo lavorando per voi! Un mondo a sé stante è quello delle ricostruzioni 3D, una nuova e sofisticata tecnica di rilievo che si inserisce nel filone della virtual archaeology. Con l’aggettivo virtuale si intende una “riproduzione” dell’oggetto reale, riferendosi ad un tipo di simulazione interattiva, nella quale lo spettatore, con l’ausilio di un computer, può esplorare ed interagire con una rappresentazione tridimensionale di oggetti ed ambienti, provando la sensazione di essere nell’ambiente stesso che, pur non esistendo concretamente, può essere percorso ed osservato. Negli ultimi anni, tale concetto in ambito archeologico ha interessato svariati campi di applicazione, arrivando a comprendere anche il sito archeologico nel suo complesso 77 . Il 3D rappresenta anche un incremento nella ricerca e nella documentazione archeologica. Completa infatti la documentazione di scavo, nello specifico il rilievo archeologico, e consente di confrontare, anche in simultaneo, le diverse ipotesi ricostruttive che gli archeologi hanno formulato sulla base dei dati ottenuti con le loro ricerche e studi. È uno strumento utile alla realizzazione di montaggi video capaci di far apprezzare al turista il volume degli edifici storici e vedere, tradotto in immagine, ciò che altrimenti resterebbe nell’immaginazione dell’archeologo. Le potenzialità offerte da questa tecnica di rilievo sono vastissime ma scarseggiano esempi in cui vi sia un’integrazione tra le varie tipologie di produzione audio-visiva per raggiungere una comunicazione integrata sullo stesso sito78. Ulteriori aspetti critici dell’impiego di elaborazioni 3D in archeologia riguardano il fattore economico e tecnico: da una parte, l’elevato costo dei software commerciali induce a ricercare sempre di più nei vantaggi offerti dagli strumenti open source le soluzioni adeguate alle necessità della comunicazione scientifica e divulgativa; dall’altra, l’archeologo non possiede le conoscenze necessarie per un utilizzo avanzato delle nuove tecnologie e si trova a dover demandare la realizzazione di un progetto ricostruttivo agli esperti nel settore del 3D imaging79. La tipologia di video più diffusa in grado di fare divulgazione e integrare, tra l’altro, ricostruzione 3D, valorizzazione e al contempo una spiegazione precisa e puntuale, dimostrando quindi abilità nel gestire la multidisciplinarietà che è propria della disciplina archeologica, resta il documentario (le cui caratteristiche abbiamo già delineato ad inizio capitolo). Si tratta di un genere di produzione audio- 77 RIPANTI, DISTAFANO, 2013. 78 Merita una menzione ALTAIR4 Multimedia che nel suo canale YouTube condivide con il pubblico straordinari video di ricostruzione 3D (https://www.youtube.com/user/altairquattro69). 79 RIPANTI, DISTEFANO, 2013. 35 visiva noto a tutti grazie alle trasmissioni televisive del calibro di SuperQuark o Ulisse e a programmi come RaiStoria, Focus, History Channel e molti altri ancora. L’elenco potrebbe essere lunghissimo e declinabile in svariate forme. In internet si trovano altrettanti esempi80 di documentari anche prodotti da reti televisive locali, da video-maker indipendenti e da canali tematici che non scadono nel sensazionalismo stile Voyager o Mistero. In tutti i casi, comunque, l’archeologo non viene coinvolto nel processo di produzione ma, negli esempi migliori, collabora tutt’al più prestandosi ad interviste in cui parla del sito archeologico in esame e, eventualmente, fornisce qualche informazione sulle ricerche in corso81. 3.2.2 Considerazioni conclusive Come testimonia il contesto sinora esposto, l’Italia dimostra di essere ancora in una fase embrionale per quanto concerne la comunicazione dei dati archeologici mediante il mezzo audio-visivo. Ma, come è evidente, le potenzialità di questo strumento nella documentazione, nella comunicazione alla comunità scientifica e nella divulgazione al grande pubblico sono tantissime. Nel panorama italiano ci sono anche casi che dimostrano di aver recepito questa lezione e, nonostante si sia ancora agli inizi, qualcosa nell’ambito della divulgazione sta cambiando. L’esempio forse più importante è rappresentato dalla Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico, organizzata dalla Fondazione del Museo Civico di Rovereto fin dal 1990, che si svolge annualmente nelle prime settimane di ottobre. Le proiezioni raccolgono opere cinematografiche legate al settore della ricerca archeologica, storica, paleontologica, antropologica e comunque aventi come scopo la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. 80 Ne segnalo solo alcuni: il canale tematico della rivista Archeologia Viva (https://www.archeologiaviva.tv), o il video di Marcello Bandierini, promosso dal comune di Sassuolo e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, sul sito archeologico di Montegibbio (https://youtu.be/2JIAQyXU1IU?list=UUuwRCIx39CnaotxhRkzuwhA); la produzione, non italiana, del canale Smithsonian Channel (www.smithsonianchannel.com) che propone due brevi documentari sulle ricerche, ancora in corso, dell’Archeologa forense Caroline Sturdy Colls nel campo di sterminio del regime nazista Treblinka (http://www.smithsonianchannel.com/videos/the-bones-the-nazis-hid/29315; http://www.smithsonianchannel.com/videos/excavating-a-secret-gas-chamber/29312). 81 Un esempio per il sito archeologico di Nora è il documentario “Nora la città più antica della Sardegna” prodotto dell’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Pula, con gli interventi del Dott. Piero Bartoloni e del Dott. Carlo Trochetti, in cui viene raccontata la storia di Nora. 36 3.2.3 Far parlare l’archeologia Ci sono anche contesti in cui l’archeologo si fa video-maker e racconta l’archeologia dal suo punto di vista. Diversamente dalle situazioni precedenti in cui si parlava di archeologia, in questo caso è l’archeologia che prende voce attraverso le parole del professionista. Navigando nel web ci si può imbattere in video che mostrano, per esempio, la giornata-tipo dell’archeologo impegnato in una campagna di scavo, le immagini sono di solito accompagnate da musica ma prive di una voce narrante 82 . Si tratta, il più delle volte, di produzioni amatoriali rivolte probabilmente agli stessi archeologi che compongono il gruppo di lavoro ma che, messe in rete, possono essere visualizzate da un numero potenzialmente molto più ampio di persone Alcuni video si focalizzano, invece, sulla documentazione di particolari fasi del lavoro. Anche in queste produzioni audio-visive manca quasi sempre una voce che racconti cosa si stia effettivamente facendo. L’obbiettivo pare sia da un lato di documentare il metodo di lavoro, dall’altro mostrare alcune attività di cantiere. Sebbene l’idea si dimostri decisamente all’avanguardia rispetto al panorama circostante, l’assenza di una voce narrante limita la comprensione completa del messaggio che il video vuole trasmettere a un gruppo ristretto di persone83. Ci sono missioni archeologiche che si servono dello strumento audio-visivo per documentare l’avanzamento dello scavo. Si tratta di video in cui un archeologo si fa finalmente portavoce di ciò che viene ripreso e in alcuni casi viene relazionato il lavoro eseguito e proposta anche un’interpretazione84. 82 Riporto qui come empio il video ArchaeOlogy (https://vimeo.com/90846650) che raccoglie una selezione di fotografie scattate durante una campagna di scavo e le unisce in una presentazione a ritmo di musica. Io stessa, nel corso delle campagne di scavo presso il sito archeologico di Nora, ho realizzato, tra il 2013 e il 2015, delle produzioni video di questo tipo unendo insieme filmati che ritraevano la vita di tutti i giorni del gruppo di lavoro e usando come base sonora una canzone che era la più rappresentativa, o quella più ascoltata, durante le giornate di lavoro collettivo. 83 Esemplificativo è, per esempio, il filmato della “canaletta in corso di scavo” a Santa Cristina in Caio vicino a Buonconvento in provincia di Siena (https://youtu.be/15nwwTyiFQY). 84 Nel corso delle Campagne di scavo dell’anno 2011 e 2012 presso Santa Cristina in Caio vicino a Buonconvento in provincia di Siena, sono stati prodotti alcuni video che relazionano il lavoro come in un diario di scavo, usando quindi un linguaggio e un livello comunicativo professionale, pertanto, forse, poco apprezzabile per il pubblico medio, ma che dimostrano la versatilità di questo strumento utile anche per completare la documentazione di scavo (https://youtu.be/WY_1r8Rvnq8). Da menzionare anche i video della playlist Live from Excava(c)tion del canale YouTube Uomini e Cose a Vignale, in cui si presentano alcune attività del cantiere archeologico dell’Università degli 37 Si segnala anche un uso dello strumento audio-visivo, da parte dell’archeologo stesso, per promuovere la propria attività e valorizzare l’area in cui sta lavorando. Ci sono video che illustrano la storia dello scavo, altri che riprendono rievocazioni storiche in cui l’archeologo si fa attore e, muovendosi nella stessa area archeologica, tenta, appoggiandosi all’immaginazione degli spettatori, di riportare vita alle rovine85. 3.2.4 Docudrama Una produzione audio visiva che sta emergendo negli ultimi anni, applicata non solo all’archeologia da campo, è quella del docudrama 86 . Questo è “un genere cinematografico che cerca di fondere documentario e cinema di finzione, attraverso la ricostruzione più realistica e circostanziata possibile di eventi realmente accaduti. Si distingue dal cinema di ricostruzione storica per l’attenzione specifica ad eventi legati ancora all’attualità, per l’ambientazione nei luoghi reali della storia e perché, quando possibile, utilizza come attori gli stessi protagonisti dell’evento della vita reale”87. Cortometraggi come questi vanno nella direzione dell’edutainment, ovvero di quella forma d’intrattenimento finalizzata sia ad educare che a divertire88: spesso si tende a separare il momento dell’intrattenimento da quello dell’apprendimento e della riflessione, tuttavia queste istanze vanno fortemente integrate con il fine di raggiungere tutto il pubblico interessato, dai bambini fino agli specialisti, e un più ampio Studi di Siena raccontate con un livello comunicativo di timbro divulgativo (https://youtu.be/wF5- hbcNdjY?list=PLYx_9lY_seRKAGSQnG1t-ivuZjUGudXO8). 85 Esempi di promozione archeologica sono il video del Gruppo Archeologico Romano che illustra il Campo dei Faleri mostrando immagini che riprendono lo scavo, gli archeologi al lavoro, ma anche eventi e manifestazioni che vengono organizzate nel sito archeologico (https://youtu.be/y930LpjpGeo). Simile, ma privo di voce narrante è il video che promuove l’area archeologica di Massaciuoli e le iniziative che la riguardano (https://youtu.be/ofpM-dRsDEo). Infine, un esempio di rievocazione storica datato al 30 ottobre del 2010 è stato girato nel sito di Mirandulo e mette in scena un assalto al castello (https://youtu.be/uqEa0ZXzywE). 86 Esempi di questo forma video-narrativa sono: il docudrama “Raccontando la cisterna romana: giornalisti, schiavi ed altro”, realizzato dai bambini di quinta elementare della scuola “D. Alighieri” di Falconara Marittima (AN), in collaborazione con il Comune e la Soprintendenza Archeologica delle Marche (https://youtu.be/sBQSkVE2yVs); o il video realizzato da Giuliano De Felice e Francesco Ripanti “Le relazioni pericolose” in occasione del Archeocontest di Opening the Past 2013 (https://youtu.be/LZXZdMXcZXI) in cui il team di scavo si presta alla recitazione per raccontare, in modo auto-ironico, come sia facile per gli archeologi arrivare ad interpretazioni fuorvianti. 87 CANOVA, 2009. 88 ZANINI, RIPANTI, 2012. 38 margine di attendibilità delle ricostruzioni prodotte. In questa direzione, il “docudrama” rappresenta uno degli esempi di applicazione “a costo zero” delle tecnologie digitali all’archeologia, dal momento che sul piano tecnico, per ottenere un prodotto semiprofessionale, c’è bisogno solo di una videocamera e di discrete competenze nell’utilizzo dei software di video editing. Inoltre, il coinvolgimento in veste di attori anche di alcuni esponenti della comunità locale, oltre che degli archeologi impegnati nello scavo, si rivelata un ottimo metodo per mantenere vivo e per potenziare l’interesse per il progetto di scavo in corso89. Sperimentazioni ben riuscite di questo genere documentario si inseriscono nel progetto archeologico condotto dall’Università degli Studi di Siena a Vignale. Nel canale YouTube “Uomini e Cose a Vignale” si trovano cinque cortometraggi girati durante le campagne di scavo degli anni 2008-201290. L’obiettivo del progetto è stato quello di creare dei cortometraggi autoprodotti che riguardavano il sito archeologico sviluppandone i principali temi d’interesse. Le sceneggiature, scritte perlopiù collettivamente dal gruppo di archeologi, hanno prodotto delle “microstorie”, che prendono spunto dalle vicende del sito e delle persone che lo hanno abitato e che sono state ricostruite secondo quello che è il modello delle living histories (o re-enactment). Questo modello prevede la ricostruzione di un determinato contesto storico all’interno del quale si muovono degli attori che portano in scena un particolare evento o una specifica storia. I docudrama realizzati a Vignale non sono altro che living histories filmate, in quanto riportano una storia ricostruita basandosi sulle fonti a disposizione e che richiede un’attenta messa in scena91. Anche il sito archeologico di Nora è stato lo scenario di un docudrama prodotto nel 2008 nell’ambito del progetto denominato MARPHYS, attivato dall’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Pula, al quale hanno partecipato anche gli Assessorati al Turismo e alla Cultura, unitamente all’Associazione Turistica Pro Loco. Il mediometraggio “Opuliscum, un paese da sogno” è stato realizzato dal regista Mariano Cirina e ha coinvolto un centinaio di attori, la maggior parte di età compresa tra i 16 e i 21 anni. Il docudrama mette in scena, nel sito archeologico di Nora, la storia dello schiavo romano Opuliscum che, punito per aver rubato del cibo durante un banchetto, augura che l’ira degli dei si scagli un giorno sull’impero romano. Fattasi ormai notte fonda Opuliscum si corica, si sveglia l’indomani nell’anno 2008 tra le rovine del sito archeologico di Nora scoprendo che la sua preghiera era stata esaudita. Ha 89 RIPANTI, DISTEFANO, 2013. 90 Va segnalata in particolare una playlist composta da ben 5 video che sviluppa questo genere e lo applica alla storia del sito archeologico e del suo territorio (https://youtu.be/YrTi42kaIS4?list=PLYx_9lY_seRJgl_0fGPim1lrvQuuJzmC6). 91 ZANINI, RIPANTI, 2012. 39 inizio così un gioco di equivoci che intreccia l’anno 303 d.C. con la realtà archeologica ma anche sociale e culturale di oggi. Opuliscum, a differenza dei filmati precedentemente riportati, rappresenta un genere di video narrazione comica, visti i toni paradossali e assurdi in cui sfocia in certi punti, che un filmato di divulgazione. Infatti di scientifico possiede ben poco. Risulta, di fatto, un mediometraggio di produzione locale, teso a valorizzare la città di Pula e di Nora, e non un esempio da perseguire ed imitare per mettere in scena l’archeologia moderna 3.2.5 Considerazioni conclusive Il panorama che abbiamo rapidamente delineato è solo una parte che viene programmata in televisione, nel caso delle produzioni più importanti, proiettata nel corso di eventi o concorsi e infine “lanciata” nel web per la pubblica diffusione. Le possibilità e le varietà di declinazione e uso sono di sicuro più vaste di quelle che in questo paragrafo si è scelto di descrivere. Da questa sintetica analisi dello strumento audio-visivo si intuisce, infatti, la versatilità di questo mezzo di comunicazione che ne consente l’applicazione ad un’ampia casistica di situazioni. Permette, inoltre, di mettere in discussione i linguaggi tradizionali e di avvicinare un pubblico sempre più numeroso, e potenzialmente interessato, ai temi di una ricerca in atto, superando la schematica divisone tra la documentazione rivolta alla comunità scientifica e la divulgazione per il grande pubblico. Approfondiamo ora alcune tematiche da cui non possiamo prescindere di trattare nel parlare del mezzo espressivo video-narrativo. 3.3 Web 2.0 In questa situazione l’impatto delle nuove tecnologie diffuse e in particolare degli strumenti di produzione e fruizione di videocomunicazione non può non essere oggetto di riflessione. Nel breve volgere di meno di un ventennio (che detto così sembra un tempo lungo, ma che è spesso un tempo inferiore al completo dipanarsi di una ricerca archeologica mediamente complessa, dalla sua 40 progettazione alla sua edizione finale92), il rapporto tra archeologia e multimedialità e, soprattutto, tra archeologia e videocomunicazione, si è sviluppato con crescente complessità. Da un lato questo rapporto è andato nella direzione della “pervasività” della video comunicazione, oggi appare oggettivamente improbabile progettare un museo che non utilizzi questo canale comunicativo per aggiornare, più o meno in tempo reale, i visitatori sullo sviluppo delle attività di ricerca, scavo e di restauro. Dall’altro lato è andato nella direzione della “democratizzazione” della videocomunicazione legata all’archeologia in atto, che ha smesso da tempo di essere un campo di attività per figure professionali specifiche (quelle dei divulgatori) per divenire uno degli strumenti che ogni archeologo da campo può pensare di utilizzare. La diffusione degli strumenti di produzione video ha trasformato anche il più refrattario degli archeologi da campo in un potenziale produttore di cinematografia archeologica e, al contempo, ha creato una platea di potenziali fruitori per questa produzione, costituita da un pubblico che è sempre più abituato a costruire le proprie opinioni su ogni materia a partire dai linguaggi comunicativi audiovisuali. La rete ha fatto la sua parte creando una serie di potenziali canali di collegamento e dando vita ad un percorso di comunicazione del tutto nuovo. È nelle possibilità di ognuno di noi produrre informazione e accedere alla produzione di altri, una produzione che non è vincolata da un linguaggio preciso, da tempi ridotti e da continua ricerca dell’attenzione dello spettatore, ma misura il suo successo in termini di durata, contatti nel tempo e di percorsi che si costruiscono in sinergia con altri segmenti della comunicazione presenti sulla rete93. Con il passaggio al web 2.0, un termine questo apparso nel 2005 per indicare genericamente la seconda fase di sviluppo e diffusione di Internet, caratterizzata da un forte incremento dell’interazione tra sito e utente, pervasività e democratizzazione sono ulteriormente accresciute. Lo dimostra la maggiore partecipazione dei fruitori, che spesso diventano anche autori (blog, chat, forum, wikipedia), e la più efficiente condivisione delle informazioni, che possono essere più facilmente recuperate e scambiate con strumenti peer to peer o con sistemi di diffusione di contenuti multimediali come YouTube e l’affermazione dei social network94. Internet consente infatti di accedere, grazie alla sua quasi infinità capacità di archivio, ad ogni tipo di informazione, anche mala-informazione purtroppo. È doveroso aprire una parentesi su questa questione: l’utilizzo di internet per le ricerche di qualsiasi tipo è ormai un passaggio standardizzato del modus operandi comune, tuttavia, in una rete di condivisone virtuale in cui tutti possono essere 92 Come per esempio la stessa missione archeologica condotta dall’Università degli Studi di Padova a Nora. 93 ZANINI, RIPANTI, 2012. 94 http://www.treccani.it/enciclopedia/web-2-0/ 41 produttori di conoscenza, va prestata la massima attenzione alla veridicità delle informazioni che si reperiscono. Il controllo delle fonti, infatti, non è mai troppo! Il grande fenomeno dei video in rete è uno dei canali con cui viaggiano le informazioni. La fortuna della videocomunicazione nel web 2.0 è iniziata con il sito di condivisione YouTube, fondato nel 2005 da tre uomini – Steve Chen, Chad Hurley e Jawed Karim – e acquistato da Google nel 2006 per l’esorbitante prezzo di 1,65 miliardi di dollari. Questo sito web, e altri come lui, hanno un incredibile potenzialità per mostrare brevi documentari ad un pubblico davvero interessato, ma senza una remunerazione finanziaria per il documentarista. Il loro successo è derivato dal fatto che postare un video in rete è tendenzialmente semplice, bastano pochi click e, nel caso di YouTube, non serve necessariamente avere un account. È possibile inoltre inserire il proprio prodotto video in una rete di collegamenti già esistenti tramite i tags, ovvero parole chiave che gli utenti possono usare nel motore di ricerca per trovare una specifica informazione. Il video può essere così inserito tra i risultati della ricerca, in una rete molto più ampia rispetto a quella originaria. Le piattaforme web come YouTube sono utili, inoltre, per caricare trailer di filmati che invece sarebbero molto più lunghi e complessi. In questo modo è possibile creare interesse e stimolare la curiosità epistemica dell’utente per indirizzarlo a scoprire qualcosa in più sull’autore o cercare informazioni su come acquistare il video completo95. Le caratteristiche del web 2.0, quindi, completano ed enfatizzano la pervasività dello strumento video, che ormai è parte integrante di ogni sito internet aggiornato e sempre più condiviso dagli utenti dei social network. Allo stesso modo la rivoluzione digitale ha contribuito a creare tecnologie a basso costo ma in grado di produrre immagini di alta qualità consentendo, a chiunque sappia usare un software per il montaggio video e abbia un minimo di conoscenza delle regole di composizione dell’immagine, di riprendere e pubblicare documentari a basso costo. Nonostante la democratizzazione della strumentazione, molti archeologi sembrano ancora riluttanti ad usare questa forma di pubblicazione e divulgazione delle loro ricerche o a collaborare attivamente con chi produce documentari. In genere dimostrano un atteggiamento passivo nel cercare di realizzare un documentario che tratti del loro progetto di ricerca: sembra quasi aspettino che Ken Burns96, o uno dei suoi colleghi, bussi alla porta del loro studio. La verità è, invece, che siamo letteralmente cresciuti davanti il piccolo schermo della televisione. Nelle ultime decadi, e ancora di più oggi con l’uso di 95 PEPE, ZARZYNSKY, 2012, pp. 47-49. 96 Kenneth Lauren "Ken" Burns, nato a New York il 29 luglio 1953, è un regista statunitense noto per i suoi documentari realizzati utilizzando materiale fotografico d'archivio. È soprattutto noto per la sua capacità di "dar vita" alle fotografie grazie a lente zoomate sui soggetti presenti nelle fotografie stesse. Questa tecnica, disponibile oggi su molti software di montaggio video e presentazione foto, è chiamata effetto Ken Burns. 42 Internet, il documentario come mezzo audio-visivo ci ha intrattenuti, informati e permesso di esplorare luoghi sconosciuti che prima potevamo solo sognare di visitare. Pertanto, dove siamo noi, in quanto archeologi, in questo processo? Dovremmo essere una componente integrante in un team di produzione video documentaria. Dopo tutto chi meglio dell’archeologo inserito in un progetto può conoscere il contenuto della ricerca?97. Non possiamo sfuggire dai media; sono tutti intorno a noi, permeano le pratiche attraverso le quali la nostra intelligibilità del mondo traspare. Non possiamo fermare questa mediazione: non ha spegnimento; vive e nutre la nostra necessità di comunicare; non possiamo sfuggire dai media98. 3.4 Storytelling Quasi tutti gli archeologi veterani, indipendentemente dal loro principale argomento di studio, avranno esclamato, almeno una volta nel corso della loro carriera professionale, “questo progetto archeologico sarebbe un grandissimo documentario!”. Commenti che probabilmente erano corretti. Molti archeologi hanno, infatti, progetti degni di nota e affascinanti che implorano di essere raccontati e interpretati in una grande varietà di modi. Molto spesso i risultati dei loro studi vengono trasmessi sotto forma di rapporti, papers professionali, conferenze pubbliche, articoli in pubblicazioni popolari e siti Internet. Invece, raramente un regista bussa alla porta di un archeologo perché interessato a produrre un documentario su un progetto di ricerca in corso, a meno che non si tratti di un argomento di altissima considerazione. Per lo stesso motivo molti archeologi non sanno dove andare per trovare un regista di documentari formato con cui collaborare99. Alla narrazione (storytelling in lingua inglese) dell’archeologia viene dunque prestata meno attenzione di quello che meriterebbe. Essa può essere definita come l’arte di saper raccontare e l’archeologo è un narratore naturale, il primo per eccellenza, poiché possiede la storia dentro la storia, ovvero può raccontare come si è giunti alla sua spiegazione speculativa nei libri. Narrare come la scoperta di un reperto, di una struttura, di un monumento, di un sito archeologico, ecc. ha consentito e contribuito a ricostruire il passato, può educare coinvolgendo e appassionando il pubblico. Lo 97 PEPE, ZARZYNSKY, 2012, pp.15. 98 CLARK, BRITTAIN, 2007, pp. 15. 99 PEPE, ZARZYNSKY, 2012. 43 storytelling indossa, indirettamente, anche le vesti di uno strumento di marketing che rende accessibile e comprensibile a tutti l’intero processo di scoperta e conoscenza. Lo stesso cinema documentario – l’arte cioè di creare un film di non finzione, un video o un programma televisivo di cronaca su un evento, una persona o un gruppo di persone – è invero tutta una questione di narrazione potente ed emozionale. La regista documentaria Sheila Curran Bernard ha scritto “a good documentary confounds our expectation, pushes boundaries, and takes us into worlds – both literal worlds and worlds of ideas – that we did not anticipate entering” 100. Lo storytelling affonda le sue radici nella prima metà del 1900 quando alcuni autori cominciarono a considerare la possibilità di raccontare il mondo mediante nuovi mezzi espressivi. Abraham (Aby) Moritz Warburg, fu tra questi. “Amburghese di cuore, ebreo di sangue e d’anima fiorentino”, come egli stesso si definiva, fu un museologo, ricercatore e filosofo nato ad Amburgo il 13 giugno del 1866 e morto, nella stessa città, il 26 ottobre del 1926. Il suo ultimo progetto fu Mnemosyne, un atlante figurativo composto da una serie di tavole contenenti un migliaio di fotografie sapientemente composte, assemblate e corredate da testi esplicativi. Le immagini erano l’oggetto privilegiato di studio di Aby Moritz Warburg che le considerava un modo immediato di “dire il mondo”, un luogo in cui più direttamente si condensava l'impressione e la memoria degli eventi. Nell'Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, creava campi di energia e provocava lo spettatore a un processo interpretativo aperto: “la parola all'immagine”101. Un altro passo in questa direzione venne fatto da Andrè Malraux (Parigi, 3 novembre 1901 – Créteil, 23 novembre 1976) con la sua idea di un museo immaginario, il museo “senza mura” in cui, accanto all’opera d’arte originaria, venivano Figura 10 - Andrè Malraux raccolte immagini e storie che ad essa erano legate (fig. 10). 100 “Un buon documentario confonde le nostre aspettative, forza i confini, e ci porta dentro mondi – sia il mondo letterale sia il mondo delle idee – in cui non avevamo previsto di entrare” (BERNARD, 2007 pp. 3-4). 101 44 http://www.engramma.it/eOS2/atlante/ Erano queste le prime riflessioni su un nuovo modo di diffondere la cultura e di fare divulgazione attraverso la narratività. Negli ultimi anni questa tendenza è andata sempre più diffondendosi in varie discipline e oggi si avvale anche di strumenti innovativi di comunicazione che mettono in discussione i linguaggi tradizionali. Infatti, se “suggerire” alcuni temi di una ricerca in atto ad un pubblico potenzialmente interessato, ma non formato da specialisti, è relativamente semplice, ben più complesso può risultare costruire un video che si proponga di “raccontare” un sito archeologico secondo un approccio “scientifico”. In questo caso occorre interrogarsi su quale sia il linguaggio appropriato. Non è consigliabile usare un lessico comunicativo “ristretto” come quello dei documentari, che semplificherebbe i contenuti esposti rendendoli inadeguati per far capire agli specialisti la complessità degli argomenti trattati. Allo stesso modo non sarebbe possibile utilizzare il linguaggio scientifico delle pubblicazioni specialistiche. Un conto è leggere di Unità Stratigrafiche e periodizzazioni storico-topografiche in una pubblicazione a stampa, un altro è sentire una voce che ne parli. La quasi totalità delle pubblicazioni archeologiche è sviluppata attraverso un linguaggio impersonale, denso di termini gergali che hanno lo scopo primario di inserire il lavoro che si presenta all’interno di un filone di lavori simili, piuttosto che quello di spiegare in maniera fluente e più comprensibile la propria ricerca. Ciò non significa, tuttavia, che il video è un mezzo espressivo incompatibile con l’esposizione di un contenuto scientifico, ma semplicemente che necessita di nuovi livelli comunicativi 102 . Usando diversi mezzi di comunicazione siamo in grado di trasmettere messaggi altrettanto diversi in vari modi, incidendo sul contesto dell'interpretazione, nonché elaborazione e riformulazione dei contenuti per il consumo. Come professionisti in archeologia, e come membri della società, abbiamo la responsabilità dell’impatto culturale del nostro lavoro. Un'analisi critica del rapporto tra l’archeologia e i media è una parte essenziale di questa consapevolezza proattiva. Chiaramente, questa forma di comunicazione raggiunge un pubblico che si estende ben oltre quello della maggior parte dei libri di testo universitari. Questo si nota nella reazione positiva del pubblico: un pubblico vigile, incuriosito, e reattivo ha un valore inestimabile! Tuttavia, come è già stato detto, la traduzione di testi accademici da parte dei media per un pubblico di massa è spesso rimproverata perché semplifica troppo una ricerca dettagliata e complessa rivelandosi infine poco accurata. In effetti, tradizionalmente il mondo accademico e della scienza è sempre stato separato da quello della divulgazione e della non-scienza, entrambi posti in competizione tra loro. In questa bipartizione il flusso di informazioni risulta unidirezionale: dalla sommità della cultura “alta” all’inferiorità della cultura “bassa”, dal mondo accademico a quello popolare. Ne risulta che adeguarsi a quest’ultimo viene considerato come un sacrificio di autorità e di erudizione, e quindi irrilevante per progredire. Tuttavia la realtà è ben più 102 ZANINI, RIPANTI, 2012. 45 complessa: si snoda attraverso una circolarità di idee ricorrenti che interagiscono con i diversi livelli di comunicazione piuttosto che secondo un semplice passaggio lineare di informazione dall’alto verso il basso. La comunicazione pubblica di archeologia richiede l'arte dello storytelling, ma anche il linguaggio formale della scrittura accademica racconta un tipo di storia, una storia che risponde alle esigenze professionali all'interno della comunità archeologica. Il livello superficiale è la trasmissione dell'idea. Ma quando tale idea viene trasmessa come una narrazione al pubblico, non è necessariamente un tipo di narrazione diversa da quella presentata nel testo professionale: ciò che differisce è il livello di riferimento scelto per raccontare quella storia. Il modo in cui si racconta una storia avrà un impatto significativo sul risultato, ovvero sulla produzione di conoscenza. C'è una vasta letteratura sulla comunicazione e la comprensione pubblica della scienza che ha cercato di fare i conti con questo problema. Invece di definire una rigida distinzione tra narrazione della scienza e narrazione per la divulgazione, è possibile individuare quattro tipi di testi scientifici disposti lungo un continuum scorrevole (fig. 11): 1. intra-specialistico: caratterizzato da pubblicazioni accademiche specializzate, supportate con dati empirici, teorie di esperti, e riferimenti ad altre opere importanti; 2. inter-specialistico: che comprende quei testi e documenti che collegano tra loro specializzazioni accademiche connesse; 3. pedagogico: cioè la comunicazione attraverso il libro di testo in cui vengono presentate le teorie completate e i paradigmi, tutto viene impostato in una prospettiva di progressione della disciplina; 4. popolare: in cui immagini caratteristiche e metafore analogiche vengono presentate dalla stampa e trasmesse dai documentari. Queste differenze graduali negli stili e nei contesti di comunicazione e ricezione emergono lungo un continuum come un flusso di trasmissioni di idee tra livelli intermedi di comunicazione. Muovendosi lungo questo flusso si vedranno diminuire i riferimenti alle metodologie per la raccolta di dati, o le discussioni dettagliate sui fenomeni empirici e le distinzioni tipologiche, o le caratteristiche della composizione del suolo e delle matrici; aumenteranno invece i riferimenti alla rilevanza storica della ricerca, anche in confronto ad altre simili. Allo stesso modo, discussioni specifiche e quantitative lasciano spazio a narrazioni ampie e qualitative. Va segnalato che il flusso di informazioni tra i livelli del continuum non è necessariamente scorrevole o senza difficoltà. Una serie di barriere possono ostacolare il flusso: per esempio alcune teorie, o dettagliati aspetti del sapere, possono essere meno adatti rispetto ad altri per la diffusione attraverso i media, così come i vincoli specifici di certi mezzi di comunicazione possono portare un certo tipo di informazione ad essere più idonea ad un medium 46 Figura 11 - Modello di comunicazione scientifica come un continuum comunicativo (CLARK, BRITTAIN, 2007). piuttosto che ad un altro. È più importante, comunque, sapere che qualcosa si è verificato piuttosto che conoscere le minuzie del verificarsi in sé. Le implicazioni di questi argomenti per la comunicazione come un continuum aprono diverse vie di discussione. Innanzitutto, l’uso dello strumento video consente di superare i problemi di delimitazione tra ciò che costituisce scienza e non-scienza. In secondo luogo, i confini tra gli ambiti disciplinari sono fluidi per consentire intersezioni tra diverse considerazioni e approcci a questioni specifiche. In terzo luogo, la natura ricorsiva della comunicazione archeologica risulta aperta sia per l'analisi che il consumo. La produzione di conoscenza può cominciare non solo al livello superiore di una gerarchia di stadi comunicativi, ma potrebbe essere concepita in una qualsiasi delle fasi attraverso le quali numerose forme di conoscenza vengono trasferite in ogni momento. I media si insinuano tra i livelli del continuum, non come un facilitatore di icone di verità tra i due mondi opposti della comunicazione scientifica e della divulgazione, ma come una parte della pratica archeologica stessa103. Se registrando immagini in movimento, il video ci restituisce la più semplice espressione di un processo in forma narrativa, allora è lecito usare questo medium e questa forma per parlare di un 103 CLARK, BRITTAIN, 2007, pp. 30-34. 47 scavo ad altri archeologi, o non archeologi. Una cornice e una forma narrativa non solo non pregiudicano la trasmissione dei contenuti al livello di approfondimento necessario per il pubblico a cui vogliamo rivolgerci, ma aiutano anche ad arrivare alla costruzione della realtà. Un altro elemento che aggiunge qualità alla narrazione è il dialogo. Attraverso lo scambio di opinioni è possibile contestare o supportare un argomento partecipando così alla creazione di una nuova conoscenza. Quando persone diverse sono d’accordo, lo sono da punti di vista differenti e per questo continuano a rappresentare posizioni differenti. Applicando tutto questo all’archeologia vediamo che i singoli elementi che formano il paradigma indiziario che l’archeologo deve sviluppare all’inizio della riflessione sono slegati, delocalizzati. L’unico modo per metterli insieme e arrivare a formulare un’ipotesi plausibile è quella di contestualizzarli e di dare loro significato all’interno di un sistema di valori. Per fare questo, anche inconsapevolmente, l’archeologo è portato a creare una storia, ad usare la narratività per dare a ciò che ha scavato un’ambientazione spazio-temporale. Riuscire a raccontare una storia sulle tracce archeologiche che sono state scavate è il segno del successo del lavoro compiuto. Non è più solo un modo di presentare il lavoro, ma rappresenta il culmine di quello che si è imparato o capito104. Sulla tema dello storytelling si è discusso anche durante la seconda edizione di TourismA – Salone internazionale dell’Archeologia, che si è svolta nel Palazzo dei Congressi a Firenze tra il 19 e il 21 febbraio 2016. Alcuni spunti di riflessione interessanti sulla narrazione sono rappresentati dai progetti Izi.Travel e ScavaStorie. Izi.Travel105 è una piattaforma aperta, globale e gratuita dedicata allo storytelling, una via di mezzo tra Facebook e Wikipedia, come loro stessi di definiscono. L’attività che viene svolta con questa piattaforma si basa principalmente sulla volontà di aiutare le organizzazioni dei settori cultura, patrimonio e turismo nel portare in vita gli elementi della loro cultura e della loro storia, promuovendo contemporaneamente l’attività degli operatori turistici. Un ulteriore scopo perseguito è quello di rendere le visite a musei e a città molto più entusiasmanti e istruttive, per ogni genere di turisti, grazie alla narrazione. Izi.Travel è anche un’applicazione che è installabile sulla maggior parte degli smartphone, un’audioguida che consente di riprodurre audio, video e di visualizzare immagini di alta qualità e mappe. Le audioguide mobili dispongono di comandi più estesi e sono in grado di determinare la posizione dell'utente in caso di necessità, riprodurre i file multimediali corrispondenti, stabilire una connessione a Internet ed eseguire gli aggiornamenti richiesti. Per quanto buona possa 104 ZANINI, RIPANTI, 2012. 105 https://izi.travel/it 48 essere un'audioguida, tuttavia, essa non potrà mai rimpiazzare una guida in persona: una storia raccontata a voce da una persona in carne e ossa coinvolge maggiormente di una storia registrata. Izi.Travel da quindi la possibilità ad ognuno di noi di raccontare una storia istruttiva su un elemento del patrimonio culturale, nella convinzione che “una buona storia è per sempre”. Scrivere una storia ambientata nel passato consente di affrontare un argomento da molteplici punti di vista e rendere il contenuto del messaggio accattivante per molte persone. Un altro esperimento di storytelling partecipativo è il progetto Scavastorie 106 in cui le guide d’eccezione sono i reperti archeologici dell'area archeologica di Massaciuccoli. Recuperati durante i recenti scavi dell'edificio romano di Via Pietra a Padule, gli oggetti chiusi nelle vetrine diventano “parlanti", protagonisti di storie plausibili, anche se totalmente inventate, in cui forniscono una possibile spiegazione di come e perché siano finiti lì dove gli archeologi li hanno trovati dopo quasi 2000 anni. Ciascun reperto è illustrato non da tradizionali didascalie, ma da due brevi filmati: nel primo, il manufatto viene raccontato dal punto di vista di un archeologo che presenta i dati oggettivi, mentre nel secondo assistiamo alla storia di cui quell'oggetto è stato testimone, o protagonista involontario, affidandoci alla ricostruzione di “fantasia” delle video-storie. Il visitatore, quindi, oltre alla "biografia segreta", ha a disposizione la "scheda dell'archeologa", in cui con un linguaggio divulgativo, ma rispettoso del gergo tecnico e della realtà storica, un'archeologa fornisce tutte le informazioni tecniche connesse al reperto (contesto di rinvenimento, cronologia, confronti, tipo, forma, area di produzione, ecc.), insomma, quella che è la "voce" dell'archeologia in merito all'oggetto. Viene sottolineato in questo modo che non vengono scavati solo oggetti ma vengono riportate alla luce vere e proprie storie. Per narrare una buona storia è necessario prestare attenzione ad alcune accortezze: 1. innanzi tutto bisogna definire l’oggetto e il punto di vista da cui lo si racconta, è necessario tenere in considerazione il pubblico a cui ci si sta rivolgendo e di conseguenza adottare un ritmo di narrazione e un livello di comunicazione idoneo; 2. la storia che si costruisce dev’essere breve e non troppo complicata: il messaggio dev’essere efficace altrimenti perde di significato, in alcuni contesti vale infatti la regola the less is more; 3. quando è possibile, la stimolazione dei vari sensi, vista, udito, tatto, consente di coinvolgere maggiormente lo spettatore; 4. utile è la personalizzazione della storia e la creazione di un contenuto emotivo; 106 http://www.scavastorie.flazio.com 49 5. infine non dobbiamo dimenticare che la storia che si sta narrando ha un destinatario e sta all’emittente del messaggio interagire con l’ascoltatore. In conclusione lo strumento video può avere una declinazione multipla che in generale va nelle due direzioni della documentazione visiva, anche di carattere scientifico, e della divulgazione culturale. In entrambi i casi si tratta di uno dei modi migliori per l’archeologo, o le organizzazioni dei settori culturali, di informare il pubblico relativamente i propri progetti di ricerca. Qualche volta gli archeologi falliscono quando è il momento di presentare i risultati delle loro ricerche. È stato stimato che circa il 60% dei moderni scavi archeologici resta non pubblicato fino a 10 anni dopo la conclusione dei lavori. È un comune ritornello, all’interno della comunità archeologica, che lo stesso processo di scavo (il quale resta il metodo principale per la raccolta dei dati archeologici) è distruttivo per natura. Gli archeologi hanno quindi una grandissima responsabilità professionale nel riportare i risultati delle loro ricerche da campo e di farlo in molti modi così da massimizzare la diffusione delle informazioni agli esperti e alla comunità. Senza dubbio, il tipo di sensibilizzazione pubblica che raggiunge il maggior numero di persone e che ha anche il grande potenziale di informare con l’effetto speciale del “fattore-wow” è il genere di produzione audiovisiva documentaria. Si tratta, invero, di una storia che ha trovato il suo storyteller. Qualche anno fa il Prof.re Pat Aufderheide (American University), produttore di documentari, ha scritto “I belive the role of the filmmaker will be increasingly to work in collaborative partnerships with people who have great stories to tell, passionate convictions, [and] inside access” 107 . Il paradigma archeologo come produttore di documentari sembra essere una scelta naturale108. 107 AUFDERHEIDE, 2006. 108 PEPE, ZARZYNSKY, 2012. 50 4 - NORA: IL CASO STUDIO “L’archeologia è una disciplina estremamente pratica che si caratterizza per studiare oggetti concreti a scopo di ricostruzione storica. Tutti i reperti vanno forzati ad essere parte di una storia avente per protagonisti gli uomini e il loro vivere in società. Inevitabilmente l’archeologo ne sarà il regista: attribuisce le parti ai vari interpreti, organizza una trama, suggerisce un finale e, talvolta, una morale. Per fare questo, se non un copione già scritto, serve almeno un canovaccio o un’idea. Senza idee non si fa storia (e non si girano film).” – ENRICO GIANNICHEDDA Prima di procedere con il capitolo esplicativo relativo alla realizzazione del documentario, progetto di questa tesi, ho ritenuto opportuno dedicare un capitolo introduttivo al sito archeologico di Nora. Allineandomi all’efficace similitudine proposta da Enrico Giannichedda nel suo manuale di Archeologia teorica109, considero utile e quasi necessario, riassumere, nel modo più completo ma al contempo sintetico possibile, i punti salienti che contribuiscono a formare il “canovaccio” della storia di Nora e delle ricerche ad essa inerenti. Senza conoscere il percorso delle idee che hanno portato alla ricostruzione storica di questa città non sarebbe possibile comprendere le motivazioni che ci hanno indotto a scegliere questa città antica come scenario per documentare il lavoro dell’archeologo. 109 GIANNICHEDDA 2011. 51 4.1 Storia degli scavi Il più antico scrittore di storia sarda dopo il medioevo, lo Arquer, circa nella metà del Cinquecento, accenna brevemente a Nora come ad una città non più esistente di cui non conosce nemmeno l’ubicazione. Alcuni anni dopo di lui, nel 1580, J. Fara, in una descrizione geografica della Sardegna ben più precisa, parla delle rovine di Nora e ne distingue i vari edifici: aquaedoctus sumptuosus, theatrum, moenia, balnea et plurima aedificia semidiruta. L’immenso campo di rovine, in cui si era trasformata la città morta, dovette essere a lungo saccheggiato da muratori, da tagliapietre, poi anche da cercatori di oggetti per conto d’antiquari e collezionisti. Per esempio, come riporta G. Spano, il villaggio di Pula, posto a 3 chilometri a nord di Nora, fu costruito con materiali prelevati dalle rovine della città antica e i privati abbellirono le loro abitazioni con pezzi di mosaici. I primi ad operare nella penisola per finalità culturali furono i due pionieri degli studi archeologici in Sardegna, G. Spano e A. Della Marmora. Il primo fece un piccolo saggio di scavo nell’area della necropoli, il secondo convalidò l’ubicazione, già affermata dagli storiografi sardi che lo avevano preceduto, e rilevò, con qualche lieve inesattezza, la pianta topografica del teatro110. Ma il primo scavo sistematico avvenne solo tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX sec., in seguito ad un episodio fortuito. In una notte del marzo 1889, una tempesta di mare diseppellì, in località Sant’Efisio, un luogo ricco di stele e di olle contenenti avanzi combusti. F. Vivanet dette avviò allo scavo ritenendo di aver scoperto una necropoli ad incinerazione, addirittura la più antica della penisola. A partire da quel momento, la scoperta delle necropoli di Nora divenne l’obiettivo principale delle ricerche che seguirono. Il geometra F. Nissardi, conservatore delle antichità, si votò alla loro identificazione, e successivamente l’archeologo G. Patroni le qualificò come Tophet. (fig. 12). Quest’ultimo proseguì gli scavi individuando il Tempio di Tanit, un’opera sul promontorio del Coltellazzo, alcune opere portuali e altri piccoli resti che confermavano l’importanza e la ricchezza della città antica. Pensarono lo stesso gli amatori privati che, conclusi gli scavi, ripresero la ricerca ossessiva di “tesori”. Il tempo e le intemperie seppellirono nuovamente la penisola di Nora tanto che G. Pesce, Soprintendente alle Antichità della Sardegna, racconta che nel 1949 la città altro non era che un campo coltivato a grano. Gli unici ruderi visibili erano la cavea del teatro e il complesso dei muri in laterizio delle “terme a mare”. A G. Pesce risale il merito di aver riattivato gli scavi di Nora con una 110 52 PESCE, 1972. nuova e organica campagna durata 8 anni (dal 1952 al 1960) che restituì 30.000 m2 di superficie coperta di antichi ruderi (fig. 13). L’obiettivo era rendere Nora un sito archeologico visitabile111. Figura 12 - Tophet di Nora, scavi di G. Patroni del 1889 -1890 (Archivio storico Soprintendenza Archeologica della Sardegna). Figura 13 – Fotografia del Tempio Romano scattata dal Teatro. Scavi diretti da G. Pesce (Archivio storico Soprintendenza Archeologica della Sardegna). 111 CHIERA, 1978. 53 Nel 1990, dopo una serie di limitati sondaggi per chiarire alcune situazioni particolari, ha avuto inizio la nuova stagione degli scavi di Nora grazie all’impegno di cinque Università (Genova, Milano, Padova, Pisa, Viterbo), al coordinamento della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano e alla cooperazione con il Comune di Pula. La finalità è stata fin dall’inizio quella di ricostruire, nelle sue linee generali, la storia e la cultura di una grande città della Sardegna antica, mettendo a disposizione competenze diverse e tutte ugualmente necessarie per il conseguimento dei risultati attesi112. L’impegno dell’Università di Padova a Nora, dal 1990 ad oggi, si è articolato in momenti e forme diversi per intensità, strategie, risorse umane ed obbiettivi. Fino al 1996, l’impegno si è limitato alla partecipazione di alcuni studenti nel quadro della Missione unitaria, che operava esclusivamente nel quadrante occidentale della città antica con dichiarate prevalenti finalità didattiche. Dal 1997, venute a cadere certe restrizioni di indagine suggerite dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici, l’Ateneo di Padova ha dato vita ad una nuova fase del suo impegno a Nora selezionando come spazio urbano di propria prioritaria attività il settore orientale della città antica, rappresentato dal complesso del Foro113 e, dal 2008, del Tempio romano. Infine, dal 2012, un ulteriore impegno dell’Ateneo patavino è costituito dalla ripresa, dopo oltre cent’anni, delle indagini presso l’area già occupata dalla Marina militare al centro della penisola, dove, come noto, una vasta necropoli a camera venne rimessa in evidenza nei decenni finali del XIX secolo. La strategia di scavo adottata prevedeva l’analisi in estensione spaziale e in profondità stratigrafica dei settori di scavo per ottenere ricostruzioni diacroniche dell’evoluzione insediativa del centro norense114. In questo modo è stato possibile ricostruire il succedersi, per circa 1600 anni, di episodi di presenza umana che va dai contatti tra popolazioni fenicie e le comunità nuragiche della prima età del Ferro fino alla destrutturazione dell’abitato in epoca altomedievale. Quest’idea di uno studio globale di una città non riguarda solo la dimensione e la profondità cronologica dell’insediamento, ma pure la sua estensione spaziale, funzionale e relazionale. Per questo motivo l’Università di Padova si è mossa ad osservare la città e la sua vita anche da prospettive e da luoghi diversi da quelle, pur basilari, dello scavo, rivolgendosi particolarmente a studiare le forme di interazione tra la comunità antica e le risorse ambientali, ritenuti fattori decisivi per la vita e lo sviluppo dell’insediamento. In quest’ottica, oltre al già delineato progetto Noramar, va segnalato 112 BEJOR, BONDÌ, GHEDINI, GIANNATTASIO, GUALANDI, TRONCHETTI, 2003. 113 Lo scavo è stato edito in cinque volumi con la vasta partecipazione di quanti avevano partecipato allo scavo e di altri studiosi: BONETTO, GHIOTTO, NOVELLO, 2009. 114 54 Scelta che ripete, pur con rinnovate metodologie, la filosofia del citato e troppo spesso svalutato Gennaro Pesce. lo studio sulla gestione della risorsa idrica nella città attraverso il riesame di tutti i manufatti dedicati all’approvvigionamento e alla conservazione dell’acqua nelle case e negli altri edifici cittadini. D’impatto pure significativo è stato l’aver avviato l’analisi delle forme di sfruttamento delle risorse lapidee per la crescita dei complessi architettonici cittadini. È così iniziato nel 2009 lo studio del contesto spaziale e archeologico della penisola di Is Fradis Minoris, posta ad ovest della penisola della città antica, dove sono state compiute estese campagne di rilievo diretto strumentale di tutte le tracce di tagliate antiche presenti, e dell’area estrattiva lungo il litorale orientale della penisola115. Ulteriori punti di forza della missione archeologica padovana sono state la didattica, l’interdisciplinarietà e l’attenzione rivolta alla tutela, alla valorizzazione ma anche alla divulgazione dei risultati di scavo. L’attività didattica ha coinvolto negli anni più di 150 studenti, italiani e stranieri, i quali, per più settimane all’anno, hanno svoto presso gli scavi la loro attività pratica e di tirocinio. Anno dopo anno agli studenti sono state impartite nozioni di base e avanzate della professione dell’archeologo da campo fornendo insegnamenti differenziati rispettivamente a quanti partecipavano per la prima volta alle attività e a quanti prendevano avanzata confidenza con i ferri del mestiere per assumere ruoli di sempre maggiore responsabilità con il passar degli anni. In questo quadro di progressiva maturazione degli allievi, a molti tra i più capaci e costanti sono state affidate tesi di laurea e di specializzazione, e gli stessi sono stati poi coinvolti nella redazione dei rapporti scientifici dello scavo. Per questo percorso di crescita e di selezione un ruolo importante hanno svolto anche le attività che seguono lo scavo in ciascuna campagna, articolate in seminari e incontri di elaborazione dei dati organizzati periodicamente a Padova presso i Laboratori di Archeologia. Così a Nora è stato possibile vivere quell’intreccio, spesso auspicato ma non sempre realizzato, di didattica e ricerca in cui da un lato i docenti hanno trasferito agli studenti i frutti dello studio e dei risultati delle indagini precedenti, e dall’altro gli stessi studenti hanno per anni convertito la propria attività di apprendimento in modalità principale di fare ricerca. Questo continuo fluire circolare di conoscenze, lavoro e apprendimento ha rappresentato uno dei motivi di grande sforzo organizzativo e didattico, ma anche di perseguire l’arduo obiettivo di fare ricerca educando ed educare facendo ricerca. Ma il fascino dell’esperienza didattica (e scientifica) a Nora risiede anche nel fatto che nei diversi cantieri della città hanno a lungo operato, opportunamente “miscelati”, studenti delle diverse Università in uno scambio proficuo di esperienze, di metodi e di prassi formative, così da permettere a ciascuno, da un lato, di interagire coi propri colleghi giovani sul campo umano e scientifico, e, dall’altro, di assorbire da docenti diversi dal proprio modi di operare e conoscenze. La felice riuscita di questa operazione ha consentito di sviluppare l’interdisciplinarietà, anche verso ambiti di studi 115 BONETTO, GHIOTTO, 2013. 55 diversi da quello archeologico, che è propria della disciplina e che risulta necessaria per lo studio di una città a continuità di vita. Infine, all’impegno sul fronte della didattica e della ricerca, si è aggiunto anche quello dedicato ai piani di valorizzazione e tutela del sito116. Tra fasi positive e battute d’arresto è stato possibile avviare il restauro dei mosaici, promuovere interventi rivolti ad arrestare i processi di degrado117 e conferire piena leggibilità dei monumenti antichi. Per esempio, i comparti della città che erano stati sottoposti a lunghe campagne di scavo avevano sviluppato enormemente le conoscenze loro relative, ma avevano pure compromesso sia lo stato di conservazione dei resti sia la già modesta loro leggibilità dopo gli spogli tardoantichi e medievali. Per questo motivo sono state eseguite opere di consolidamento sul tempio affacciato sulla piazza, sullo spazio aperto e sugli edifici circostanti il foro e sul Tempio romano che hanno ridato sicurezza statica alle strutture e hanno puntato alla ricostituzione dei piani d’uso attraverso l’utilizzo di ghiaini differenziati per cromatismo e tessitura (fig. 14) al fine di accrescere quelle potenzialità di fruizione che deve essere uno degli obiettivi anche di chi è preposto alla ricerca scientifica118. Figura 14 - L'area del foro romano dopo l'intervento di consolidamento e sistemazione con ghiaini a colorazione differenziata (BONETTO, 2011). 116 Per approfondimenti vedi MINOJA, 2001; ROMOLI, 2011. 117 Tra questi anche quelli promossi dal già citato progetto Noramar. 118 BONETTO, 2011. 56 Di tutta l’attività formativa e di ricerca finora riassunta sono esito le pubblicazioni edite dall’Ateneo di Padova e dagli altri quattro Atenei coinvolti 119 . Ai numerosi rapporti preliminari degli scavi, raccolti prima nei Quaderni della Soprintendenza agli studi miscellanei di Ricerche su Nora I e II si è affiancata più recentemente la collana dei Quaderni Norensi120 e una serie assai nutrita di quasi 400 studi che affrontano temi d’architettura, di cultura materiale, di territorio e che rendono l’idea dell’attività della Missione intera. L’attività divulgativa viene effettuata non solo attraverso queste pubblicazioni, ma anche nel corso di conferenze e seminari. Si tratta, tuttavia, pur sempre di testi e interventi destinati alla comunità scientifica, per tanto poco chiari e accattivanti se rivolti al grande pubblico e alla folla di turisti che ogni anno visita il sito di Nora. Le prime iniziative di divulgazione rivolte alla popolazione ebbero inizio nel 1982 con la rassegna di poesia e teatro “La notte dei poeti”, proseguirono nel 1985 con l’inaugurazione a Pula del Museo Comunale Giovanni Patroni e continuano tutt’oggi con la manifestazione culturale Pularchaios121, giunta nel 2015 alla sua XI edizione, che organizza spettacoli teatrali, conferenze archeologiche, visite agli scavi in corso e si conclude con un banchetto rievocativo dei gusti enogastronomici romani, il “Romanum Convivium”. L’università degli Studi di Padova si è inserita in questo contesto sperimentando l’utilizzo delle nuove tecnologie per la fruizione turistica 122 , inizialmente con il progetto NORACE e poi con il progetto ArcheoPad Nora, e condividendo le informazioni più aggiornate sugli scavi anche nei social network123. Il gran lavoro svolto, sintetizzato in questo paragrafo, ha reso Nora uno dei centri più accuratamente indagati della Sardegna antica e un enorme serbatoio di conoscenze urbanistiche e architettoniche. La varietà degli studi intrapresi e dei metodi applicati lo conferma, inoltre, in quanto fertile campo per l’applicazione sperimentale dello strumento di divulgazione audio-visivo in esame. 119 Un’immagine eloquente dello sforzo prodotto viene trasmessa da una silloge che raccoglie tutte le pubblicazioni della Missione archeologica di Nora tra il 1990 e il 2010: FALEZZA, SAVIO 2011. 120 A cui si rimanda per approfondimenti: codice identificativo della collana ISSN 2280-983X. 121 Organizzata dal Comune di Pula, Assessorato alla Cultura, Turismo e Spettacolo con decorrenza annuale in concomitanza con le missioni archeologiche. 122 Per approfondimenti si rimanda all’articolo di L. SAVIO in corso di stampa sulla rivista Quaderni Norensi VI (SAVIO, c.d.s.) e alla tesi di laurea magistrale SAVIO, 2013-2014. 123 Nel 2013 è stata attivata la pagina Facebook “Ricerche archeologiche a Nora - Università degli Studi di Padova”: https://www.facebook.com/scavidinora/?fref=ts 57 4.2 Situazione geografica e topografica L’antica città di Nora sorgeva sopra una lingua di terra, protesa sul mare e terminante con un’alta rupe, oggi chiamata Capo di Pula, nella costa meridionale della Sardegna. La sua posizione geografica è 38° 59’ 1’’ di latitudine nord e 3° 26’ di longitudine ovest dal meridiano che passa per Monte Mario. Si trova a sud ovest di Cagliari e dista da questa circa 32 chilometri (fig. 15). Fig. 1. Carta storica della Sardegna in età romana. Nora è situata all’estremità sud-occidentale del golfo di Cagliari, Figura 15 - Carta storica della Sardegna in età romana. Nora è situata all’estremità sud-occidentale del golfo di Cagliari, lungo la costa meridionale dell’isola (TALBERT,2000). 58 L’identificazione di Nora con il Capo di Pula non si ricava dall’antica letteratura, i cui testi danno solo indicazioni vaghe, ma è fondata sopra i seguenti due elementi: il primo si riferisce all’agiografia di Sant’Efisio che, secondo la tradizione religiosa, sarebbe stato martirizzato a Nora e sepolto là, nel punto dove fu poi elevata una chiesetta (ancora oggi esistente) presso la stretta lingua di terra che unisce il territorio di Pula al promontorio urbano (fig. 16); il secondo si riferisce al rinvenimento, nello stesso luogo, di un’iscrizione, posta su una basa consacrata a Iuno, datata al I sec. d.C. e dedicata a Favonia Vera dal padre, in cui si ricorda il dono di una domus fatto dalla donna al popolus Norensis124. Figura 16 - Chiesa di Sant'Efisio (Regione Autonoma della Sardegna, http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=2436&id=510158). Questa lingua di terra è separata dall’entroterra mediante uno stretto istmo che, nel punto di massima strozzatura, non supera gli ottanta metri di larghezza. Dopo questo stretto il promontorio si allarga sensibilmente, estendendosi in due punte: l’una a Sud, Capo di Pula o Punta ‘E Su Coloru (Punta dei serpenti); l’altra ad Est, Punta di Coltellazzo, di fronte all’isoletta omonima. 124 PESCE, 1972; ZARA 2010-2011. 59 Si forma così un approssimativo triangolo, la cui base, rivolta verso il mare, misura all’incirca 650 metri e la cui altezza, sino alla strozzatura dell’istmo, è di 500 metri (fig. 17). La superficie complessiva della penisola è di 20 ettari di cui ben 5 visitabili. Il promontorio inizia ad elevarsi all’altezza della cosiddetta “Casa della Guardiania”, in linea con il tombolo che costituisce il limite a mare della Peschiera di Nora, portandosi a quota 3 metri sul livello del mare, e si estende a livello pressoché costante, tranne che in tre leggeri rialzi: il cosiddetto “luogo alto” o “tempio di Tanit” a quota 5 metri sul livello del mare; Punta ‘E Su Coloru a quota 6 metri sul livello del mare e soprattutto la Punta di Coltellazzo a quota 32 metri sul livello del mare. Figura 17 – Foto aerea dell’area archeologica di Nora (Quaderni Norensi). La topografia attuale del promontorio non rispecchia fedelmente quella antica. Il luogo comune della “Nora sommersa” si basa, infatti, sul reale arretramento della linea costiera, in talune parti abbastanza sensibile, anche se non in modo tale da giustificare le fantasie locali sulla città giacente sul fondo marino 125 . Le problematiche sul rapporto topografico, fisico e funzionale tra la città e gli spazi d’acqua antistanti la penisola sono state l’oggetto di studio del progetto Noramar, avviato da parte 125 60 TRONCHETTI, 2001. dell’Università di Padova, in sinergia con L’ENEA di Roma e con la Soprintendenza per i Beni Archeologici, nel corso del 2010. Precedentemente la folta letteratura specialistica inerente questa città antica riportava solo qualche segnalazione di strutture semisommerse nella bibliografia più datata e annotazioni sparse sugli effetti nefasti della crescita del livello marino o dell’erosione sulla conservazione degli edifici litoranei. Tra questi lavori va ricordato quello di compiuto da G. Schmiedt nel 1965, dedicato alla lettura e all’interpretazione delle anomalie riscontrabili nelle fotografie aeree per lo spazio d’acqua circostante la penisola126, e quello, rimasto fondamentale, dedicato da P. Bartoloni nel 1979 all’individuazione della possibile collocazione dell’antico porto della città 127 . A questi studi, basati su documenti cartografici e fotografici, vanno accostate le attività di ricognizione subacquea condotte tra gli anni Sessanta del Novecento ed oggi. Il primo intervento si data al 1964-1965 e fu condotto dalla British School at Rome con un gruppo di sommozzatori amatoriali128. Successivamente, tra il 1978 e il 1984, un’estesa e ripetuta attività di recupero subacqueo fu portata avanti per parecchie stagioni da un gruppo francese afferente alla Section Archéologie sub-aquatique del Touring Club Français; in questa occasione fu condotta una benemerita campagna di salvataggio di importanti materiali da relitti che vennero però resi solo parzialmente pubblici tramite manoscritti attualmente inediti e di difficile consultazione129. Dopo un lungo periodo di stasi, l’attività di ricerca subacquea è stata quindi portata avanti tra il 1993, il 1997 e gli anni recenti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano che ha condotto nuove immersioni per la verifica delle vecchie notizie e il recupero di altre informazioni sulle presenze archeologiche sommerse. Un nuovo approfondito intervento sul porto e sulla laguna di Nora, supportato dalle conoscenze derivate dalle pluriennali campagne di ricognizione di superficie si deve a S. Finocchi130 ed offre una nuova messa a punto delle problematiche relative alla portualità antica dell’insediamento. A questo panorama di studi archeologici vanno accostati recenti o recentissimi contributi di studiosi di discipline geologiche e geomorfologiche che hanno proposto riletture complessive della cruciale problematica della crescita del livello marino, cercando opportunamente di far interagire dati archeologici e dati ambientali relativi all’area di Nora senza trascurare il riferimento al più ampio panorama mediterraneo. 126 Per approfondimenti vedi SCHMIEDT, 1965. 127 Per approfondimenti vedi BARTOLONI, 1979. 128 Di tali interventi pressoché nulla si sa poiché ne resta memoria solo grazie all’edizione del materiale metallico realizzata nel 2001 da D. Winterstein (per approfondimenti vedi WINTERSTEIN, 2001). 129 Per approfondimenti vedi Nora e il mare. Le ricerche di Michael Cassien (1978-1984). 130 Per approfondimenti vedi FINOCCHI, 2000. 61 Il progetto Noramar pone le sue radici in questi studi e si sviluppa nel corso delle indagini archeologiche e architettoniche dedicate allo studio del foro della città di Nora (1997-2007), quando venne affrontato il cruciale problema dell’evoluzione planimetrica del lato di chiusura meridionale della piazza, quello rivolto verso il mare. Questa porzione del foro appariva chiaramente danneggiata dall’azione del moto ondoso, tanto da essere ritenuta non più riconoscibile fino agli studi più recenti. Le ripetute attività di ricognizione, pulizia e rilievo della battigia e della fascia intertidale portarono a rimettere in luce sia il cavo di fondazione del lungo muro che sosteneva il limite meridionale del portico della piazza forense sia un secondo cavo di fondazione quasi certamente legato all’imponente edificio della basilica civile. Tali inattese evidenze, decisive per la lettura architettonica del complesso forense, stimolarono però nuovi interessi e nuove ricerche verso lo spazio marino posto oltre la ristretta battigia, poiché avevano lasciato intuire una pressoché certa originaria maggiore estensione degli spazi di terra emersa e quindi anche dell’area urbana rispetto all’assetto attuale. Da questa occasione di studio mirato sono emerse le potenzialità e l’importanza decisiva che poteva assumere uno studio sistematico della fascia costiera della penisola ai fini della comprensione dell’articolarsi di molti complessi archeologici e poteva estendersi verso nuove letture dell’estensione complessiva della penisola su cui si adagiava la città antica e, di conseguenza, sull’articolazione urbanistica e sulle dinamiche d’uso delle varie componenti funzionali dell’insediamento. Il Progetto Noramar punta, di conseguenza, da un lato a produrre documenti conoscitivi utili alla ricostruzione dell’assetto e del funzionamento dell’insediamento antico, dall’altro a fornire indicazioni precise dello stato di fatto e dello stato di rischio dei vari settori della costa di Nora, da impiegare da parte degli organi preposti alla tutela e agli enti territoriali deputati alla realizzazione delle opere di protezione131. Questo intervento, condotto in cooperazione con ditte private di Cagliari132, è stato realizzato con misurazioni ad ecoscandaglio che hanno fornito una griglia di migliaia di punti quotati di tutti i fondali attorno alla penisola fino all’isobata di -4, da cui è derivato il modello digitale del fondale marino. A partire da questo, utilizzando i dati noti di crescita del mare, si è giunti alla riproposizione, risultata molto sorprendente, dell’estensione della penisola in età antica. A seconda dell’andamento del fondale, infatti, basso o al contrario fortemente digradante verso il mare aperto, muta sensibilmente l’ipotizzabile estensione della terra che in antico affiorava dalla distesa d’acqua. Questa ricostruzione 131 BONETTO, FALEZZA, BERTELLI, EBNER, 2012. 132 In particolare la ditta Idrogeotop (Cagliari) di R. Flores e di A. Scintu che ha curato il rilievo batimetrico, l’inquadramento topografico dei rilievi e l’assistenza per l’elaborazione dei dati. 62 è stata integrata con il rilievo diretto strumentale133 di tutti gli edifici sommersi o semisommersi presenti lungo le rive della penisola fino a giungere a riletture via via sempre più attendibili e insospettate dell’assetto architettonico e urbanistico degli attuali margini della terra emersa, un tempo compresi pienamente negli spazi emersi (fig. 18). Figura 18 - Ricostruzione dell'estensione della città antica sulla base dello studio batimetrico e archeologico (BONETTO, GHIOTTO, 2013). Si può così ricostruire il paesaggio urbano di tutta la fascia costiera orientale e meridionale in cui la costa rocciosa, talvolta alta e scoscesa, venne estesa verso il mare da riporti consistenti per creare “terrazze sul mare” sostenute da muraglioni di contenimento che regolarizzavano il perimetro del centro urbano ad una distanza comunque considerevole dall’antica linea di costa. Tali poderose murature di contenimento sono state identificate lungo la strada di accesso al sito in più punti, di fronte ai resti delle Terme di levante e di fronte alla piazza del foro e si configurano per lo spessore 133 Eseguito con stazione totale posizionata a terra sul caposaldo geodetico materializzato presso la Basilica cristiana e con asta a prisma in acqua. Sono state così eseguite alcune sezioni est-ovest fino a raggiungere i -4 metri di profondità circa, operando ad intervalli di circa 10 metri (BONETTO, FALEZZA, BERTELLI, EBNER, 2012). 63 considerevole e l’utilizzo dell’opera quadrata nella fondazione. All’opposto la fascia costiera occidentale appare segnata da una morfologia di terra e di fondale assai “levigata” e progressivamente degradante verso le aree profonde: in questo caso venne predisposta una poderosa struttura, nota come “Molo Schmiedt”134, a marcare un naturale salto di quota e a fissare la linea di riva antica per tenere all’asciutto una vasta porzione di terre ora sommerse. Alla lettura topografica dell’abitato sul mare si è associata una lettura funzionale degli spazi paralitoranei attraverso il riesame del complesso problema della individuazione della sede portuale antica; per far questo le indagini si sono spostate nell’area dell’attuale Peschiera, un tempo insenatura marina profonda posta ad occidentale del promontorio urbano, che è stata scandagliata e misurata fino all’individuazione di una vasta depressione a morfologia sub-regolare di probabile origine antropica. Questa evidenza, già notata in passato, ma forse non ancora valorizzata adeguatamente, alimenta ipotesi sulla presenza di un cothon in quest’area135. L’auspicata esecuzione di tutte le ricerche suddette mira ad essere la base per la redazione di uno studio complessivo che contribuisca ad una migliore lettura del rapporto dell’insediamento antico con lo spazio marino, vitale per la sua genesi e la sua storia quanto potenzialmente oggi letale per la sia sopravvivenza e fruizione136. 4.3 Cenni storici Nora ha conservato i segni delle diverse culture che hanno distinto questo insediamento nel tempo, in quanto la sua storia si è fermata oltre un millennio fa, quando è stata definitivamente abbandonata dai suoi abitanti. Una storia, quella di Nora, che appare ai nostri occhi affascinante, per il salto nel tempo che si è creato fra il nostro presente e il suo lontano passato137. 134 Si tratta di una poderosa struttura di origine antropica, citata e rilevata per la prima volta da G. Schmiedt nel 1965, allungata in senso NW-SE, con diramazioni verso la costa in coincidenza con la Basilica cristiana. La struttura, determinato da un ammasso di blocchi, sia di forma irregolare sia talvolta squadrati, contribuisce ad accentuare un netto salto di quota dei fondali della cala e per tale motivo di particolare rilievo ai fini di questo studio. Tale sua incidenza nell’assetto batimetrico complessivo ha suggerito di eseguirne un rilievo del perimetro per cogliere i margini del salto di quota da esso prodotto, salto che va da 1 a 2 metri circa (BONETTO, FALEZZA, BERTELLI, EBNER, 2012). 135 BONETTO, GHIOTTO, 2013. 136 BONETTO, FALEZZA, BERTELLI, EBNER, 2012. 137 GIRALDI, 1993. 64 Purtroppo non sono moltissime le testimonianze scritte della storia di Nora come centro urbano: le fonti letterarie sono assai scarse; qualcosa in più ci dicono quelle epigrafiche ed i dati principali debbono essere ricavati dalla documentazione archeologica. Vediamo quindi cosa possiamo ottenere dalla combinazione di questi tre tipi di documenti per illustrare le vicende storiche del sito di Nora, dalla sua prima occupazione da parte dell’uomo sino al suo abbandono. Con ogni verosimiglianza il luogo era abitato da genti nuragiche. Infatti, nelle fondazioni del cosiddetto “tempio di Tanit” sono stati trovati reimpiegati alcuni conci a T tipicamente nuragici e resti ceramici della stessa fase culturale sono stati rinvenuti sulla Punta di Coltellazzo e, talora, nei riempimenti nell’abitato. La vita in epoca nuragica nella zona norense, anche se non in Nora stessa, è attestata inoltre dai resti di un nuraghe sul piccolo rilievo di Sa Guardia Mongiasa, a quota 13 metri sul livello del mare, praticamente l’unico rialzo di una certa entità nell’immediato entroterra della città, adesso purtroppo occultato da un insediamento della Marina Militare. Anche il nome stesso di Nora è rapportato alla radice mediterranea nor* - nur* ben presente in Sardegna, appartenente forse ad un sostrato pre-fenicio. Di queste tracce nuragiche non conosciamo, come già detto, la cronologia e pertanto non sappiamo se fossero vitali al momento dell’arrivo dei Fenici, ovvero se questi abbiano trovato il luogo ormai abbandonato138. Sulla fondazione fenicia siamo invece più documentati. I primi indizi della presenza nel nostro mare di popoli orientali risale al 1100 a.C. Ciò che attirava questi popoli verso Occidente erano gli scambi commerciali dei prodotti, in particolare il commercio dei metalli, per i quali vi era una grande richiesta da parte di tutti i mercati del Mediterraneo. In quest’ottica la stessa posizione geografica dell’insediamento norense è indicativa. Il promontorio appare conforme ai canoni degli insediamenti fenici più tipici: presenta, infatti, un livello roccioso adatto per la sepoltura dei morti, possiede sorgenti per l’approvvigionamento idrico e, soprattutto, grazie alle due baie contrapposte, consente un approdo sicuro da qualunque direzione provenga il vento139. La presenza fenicia nella città è documentata anche dalle fonti letterarie ed epigrafiche: secondo una notizia che leggiamo in Pausania (X, 17, 5), ed in uno scrittore latino del secolo successivo, Caio Giulio Solino (IV, 2), Nora sarebbe stata fondata da Iberi guidati dall’eroe Norace, figlio del dio Hermes e della ninfa Eritea, nata da Gerione. Da Norace si sarebbe denominata la città; aggiunge inoltre Pausania che Nora fu la prima città fondata in Sardegna e Solino che gli Iberi provenivano dal 138 TRONCHETTI, 2001. 139 GIRALDI, 1993, CHIERA, 1978. 65 paese di Tartesso140. Si è generalmente interpretato negli Iberi guidati da Norace (evidente ecista eponimo) i Fenici e si è trovato un fondamento alla definizione “prima città della Sardegna” nella testimonianza archeologica data da documenti epigrafici fenici provenienti da Nora, i più antichi di tutta l’isola. Uno di questi, la Stele di Nora, databile nell’VIII sec. a.C., ci riporta per la prima volta il nome Sardegna ma, per quanto importante, questa epigrafe non è sufficiente a dimostrarci l’esistenza della città in quel periodo; infatti potrebbe essere pertinente ad una struttura o dedica sacra posta prima dell’impianto urbano vero e proprio. I risultati degli scavi più recenti hanno finalmente portato alla luce i primi resti dell’insediamento fenicio di Nora e parte del patrimonio mobile rinvenuto nei corredi delle tombe e dei tophet. Sembra, quindi, che l’insediamento fenicio si articolasse nella parte sud-orientale del promontorio, dove, tra l’altro, sono stati rinvenuti materiali sporadici di quel periodo, sia al tempo degli scavi di Pesce che successivamente141. Sono state, per esempio, rinvenute una serie di buche di palo pertinenti a tende e ad altre strutture stagionali e provvisorie in materiali deperibili, risalenti al VII sec. a.C., nel settore orientale della penisola, precisamente al di sotto del complesso del foro e del vicino “Tempio romano”. Questi ritrovamenti documentano la frequentazione stagionale da parte dei mercanti fenici, nel quadro di una rete commerciale molto più ampia che collegava gli empori orientali con quelli sardi. A causa di una guerra scoppiata contro il re Nebukhadnezar di Babilonia, intorno al 573 a.C. ebbe iniziò il declino politico-culturale della fenicia Tiro, e fu Cartagine ad assumere il ruolo di protagonista nel Mediterraneo, occupando tutte le colonie fenicie. Sul finire del VI sec a.C. (circa il 525 a.C.) anche la Sardegna entrò a far parte dell’impero marittimo di Cartagine, che a partire da questo momento, per quasi tre secoli esercitò il proprio controllo su tutte le coste dell’isola. Durante il periodo punico Nora assurse a ruolo di città principale, rispetto alle altre dell’isola, in quanto residenza del governatore comandante della base navale di presidio dell’isola142. I cartaginesi, oltre che abili politici, erano anche uomini d’affari e fecero della Sardegna un ricco deposito di grano. La colonizzazione punica della Sardegna fu effettuata in grande stile, con la deportazione di non pochi schiavi libici e con l’immigrazione di numerosi liberti cittadini fenici, già residenti nel Nord-Africa143. Della città punica non conosciamo molto: prevalentemente le tracce sono state individuate in preesistenze nell’ambito urbano ovvero, in maggior misura, nei reperti materiali. L’impianto urbano 140 PESCE, 1972. 141 TRONCHETTI, 2001. 142 GIRALDI, 1993. 143 PESCE, 1972. 66 venne progettato seguendo le caratteristiche proprie di una pianificazione matura. Lo stanziamento di carattere provissorio e stagionale fenicio lasciò così il posto ad un complesso diquartieri organizzati per magazzini e abitazioni. Nelle tre alture della penisola vennero edificati il “Tempio di Tanit”, la fortificazione presso l’area sacra del Coltellazzo e il Santuario di Esculapio sulla Punta ‘E Su Coloru. I materiali di corredo delle tombe, invece, ci riportano più vivacemente all’aspetto del ricco centro mercantile, fervido di attività e scambi commerciali. Le tombe ad inumazione scavate in roccia hanno più deposizioni, con corredi ricchissimi di ceramica prodotta sul posto, importata dalla Grecia, amuleti, gioielli in metalli preziosi ed oggetti di ornamento personale. Da questi si ricava che la città, già fiorente nel V secolo a.C., nel IV ebbe un rigoglio considerevole aprendosi, alla fine del secolo, ai contatti anche con il mondo italico, in particolare Roma 144 . Precisamente risale al 348 a.C. il trattato tra la capitale africana e Roma che proibisce a quest’ultima di commerciare e di fondare città nell’isola. Nei decenni che seguono, tuttavia, la situazione generale si evolve portando allo scontro definitivo con i romani145. Le tante risorse che la Sardegna offriva non potevano sfuggire allo sguardo di Roma, la quale se ne impadronì nel corso del III sec. a. C., durante l’intervallo fra la prima e la seconda guerra punica, approfittando di un’insurrezione delle milizie mercenarie al soldo di Cartagine. I Romani dovettero lottare sia contro le popolazioni cartaginesi, fissati da più generazioni nelle città marittime, sia contro i Sardi punicizzati. Tuttavia alcune delle città sul mare si allearono subito con i romani, forse per rivalità commerciali con le città vicine, e pertanto non subirono devastazioni. La Sardegna fu intensamente romanizzata. Non ebbe, tuttavia, quell’intenso processo di urbanizzazione che le altre province occidentali conobbero. Uno degli esempi più notevoli della Sardegna romana è rappresentato proprio da Nora146. Sotto il dominio romano Nora conservò forse la posizione privilegiata di capitale dell’isola, così come potrebbe risultare dalle iscrizioni dei cippi miliari delle strade che da Nora portavano a Karalis (Cagliari) e Bithia (Chia), che indicano la distanza in miglia partendo dalla possibile capitale. Nora era, con ogni probabilità, la sede del governatorato; anche in epoca imperiale, quando ormai la sede del potere era stabilita da tempo a Cagliari. Il suo status di municipium è confermato anche da un’iscrizione di statua dedicata ad un Quintus Minucius Pius, quattorviro iure dicundo, che rivestiva, cioè, una carica propria di tale ordinamento giuridico147. 144 TRONCHETTI, 2001. 145 GIRALDI, 1993. 146 PESCE, 1972. 147 GIRALDI, 1993; TRONCHETTI, 2001. 67 Dal punto di vista urbanistico-architettonico, sono evidenti per l’età imperiale un ampliamento e un arricchimento considerevoli, gli stessi che ne definiscono l’attuale veste romano-imperiale. La cospicua documentazione epigrafica ci informa, infatti, su dediche ad imperatori, a divinità, sui lavori effettuati ad edifici e su opere pubbliche. I ritrovamenti dovuti alle campagne di scavo ci permettono di dare una datazione, sia pure indicativa, a gran parte degli edifici norensi e di fissare il periodo di maggior fioritura del centro fra il II ed il III sec. d. C. I materiali archeologici, continuano, come per il periodo punico, a significarci l’ampiezza dei traffici che facevano capo a Nora. Dalla Spagna, dalla Grecia, dalla penisola italiana, dalla Gallia meridionale e soprattutto dall’Africa, giungevano a Nora le svariate merci prodotte in quelle regioni: vino, olio, salsa di pesce, ceramiche fini da mensa, ecc. Città ricca, dunque, e con prosperi abitanti148. La decadenza della città di Nora iniziò intorno alla metà del V sec. d. C., quando cominciarono i primi assedi dei Vandali149. I Vandali occuparono per un’ottantina d’anni le coste della Sardegna, senza proseguire con le distruzioni, né costruire o ricostruire edifici, ma limitandosi a utilizzare i già esistenti centri urbani. Il centro urbano comincia a dare i primi segni di disgregamento. Gli scavi dell’ultimo decennio hanno consentito di ricostruire una situazione in cui si vede diradarsi il tessuto urbano, con l’occupazione di almeno una sede stradale per una probabile piccola stalla per animali, mentre parte dell’abitato viene abbandonato, demolito, livellato ed utilizzato come spazio agricolo. È in questa fase che si possono assegnare le tracce delle attività produttive (forni, macine, ecc.) che si vedono sparse nell’abitato. Intorno al 533-34 d. C. i Vandali furono debellati da Belisario, il generale dell’imperatore Giustiniano, che riunì sotto l’impero di Bisanzio gran parte delle terre bagnate dal Mar Mediterraneo, e fra queste anche la Sardegna: il dominio bizantino resistette a lungo, salvo una breve parentesi dovuta a un’invasione dei Goti verso la metà del VI sec. d. C. Intorno al 710 d. C. la Sardegna e la Corsica passarono ai Saraceni: essi occuparono qualche punto dell’isola, frequentarono qualche emporio, ma soprattutto si dedicarono all’attività di distruzione degli abitati lungo il litorale. Ai Sardi spetta il merito di aver impedito ai Saraceni di occupare stabilmente quest’isola. Risale a quest’epoca l’ultima menzione di Nora da parte delle fonti storiche; scrive l’Anonimo Ravennate: “presso Cagliari è il presidio di Nora”. Di li a poco, tra l’VIII e il IX sec. d. C., le spoliazioni di pirati musulmani che battevano la costa sarda e, per altro verso, il 148 CHIERA, 1978; TRONCHETTI 2001. 149 Si segnala che tra le iscrizioni tarde di Nora vi è una che attesta il restauro dell’acquedotto al tempo di Teodosio II e Valentiniano II, fra il 425 e il 450 d. C. È probabile che il guasto fu causato da un assedio dei Vandali che cercarono di provocare la resa della città assetandone gli abitanti (PESCE, 1972.) 68 fenomeno del bradisismo, assai dannoso alla conformazione e alle strutture portuali di molti centri della Sardegna, Nora inclusa, costrinsero i cittadini di quest’ultima a ritirarsi dal mare, guadagnando l’entroterra150. Ciò che avvenne in seguito segue le leggi della natura. Nora, lentamente, in un modo e in una forma che non ci è permesso sapere, cessò di esistere. Le sue case, prima organismi vivi, vengono abbandonate. Quando una casa viene abbandonata muore, cioè crolla in rovina. L’intonaco cade a pezzi, nelle commessure tra la pietra si deposita, portato dal vento, terriccio ricco di germi, nascono le radici che, crescendo, disgregano la compagine del fabbricato. L'acqua, non più convogliata dei condotti occlusi, ristagna e bagna le fondamenta. I muri crollano. Moltiplicate questa casa per cento ed avrete la spettrale visione di una città, che si disintegra, come un cadavere va in decomposizione. Il vento di mare incipria di sabbia il campo di rovine; il fango, trascinato dalle piovane giù dalle alture, si stende sulle pietre sommerge con una grigia marea; il piano di campagna si innalza e spunta l'erba selvatica151. 150 CHIERA, 1978; PESCE, 1972, TRONCHETTI 2001. 151 PESCE, 1972 69 70 5 - IL PROGETTO VIDEO “A story is not a story until the story is told” - VINCENT. J. CAPONE In questo capitolo descriveremo il processo metodologico che viene seguito per elaborare un documentario, in particolare ci soffermeremo sulle fasi che hanno riguardato la produzione del documentario “Nora il racconto dell’archeologo”. Come si evince dalla suddivisione dei sotto-capitoli, quattro sono le fasi principali che concernono la realizzazione di un progetto video: 1. la pre-produzione, che comprende tutto ciò che avviene prima dell’inizio delle riprese: è una fase molto articolata e racchiude in sé diversi momenti, sia gli aspetti legati all’ideazione e alla progettazione del documentario sia gli aspetti strettamente logistici o finanziari; 2. la produzione, ovvero il momento in cui si mette a fuoco tutto ciò che è stato pianificato in pre-produzione: viene quindi raccolto il materiale necessario alla riuscita del documentario e si effettuano le interviste e le riprese; 3. la post-produzione, la fase in cui tutto il materiale, raccolto e prodotto, viene ordinato, valutato e selezionato per poi entrare in sala di montaggio dove il documentario prenderà la sua forma definitiva; 4. infine vi è la distribuzione e la vendita, due fasi che non fanno parte propriamente della realizzazione del documentario ma mirano a trovarne una collocazione all’interno nel contesto mediatico152. Di seguito un sintetico schema di questo processo. 152 FANTINI, 2005, pp. 18. 71 1. PRE-PRODUZIONE Sviluppo di un'idea Ricerche preliminari: si può realizzare? Stesura del soggetto Ricerche approfondite Stesura della sceneggiatura Programmazione delle riprese e della logistica Richiesta di finanziamenti Costituzione della troupe Scelta della strumentazione 2. PRODUZIONE Raccolta e organizzazione del materiale di repertorio Allestimento della scenografia Settaggio strumentazione Ripresa delle interviste Riprese esterne Registrazione voce narrante 3. POST-PRODUZIONE Visione del girato Trascrizione delle interviste Prima fase del montaggio video Aggiunta musiche Finalizzazione del montaggio video 4. DISTIBUZIONE E VENDITA 72 Fruizione e divulgazione 5.1 Pre-produzione 5.1.1 Progettando il documentario: dall’idea al soggetto Ogni documentario è unico ed inizia con un’idea. Questa è un concetto, una generalizzazione riassunta in una o due frasi, e spesso include parte del titolo e una domanda. Samuel Goldwyn, produttore cinematografico statunitense del XX secolo, una volta ha detto “se non puoi scrivere l’idea del tuo film sul retro di un biglietto da visita, allora non hai un film”. Una volta scritta l’idea si può pensare ad un titolo che catturi l’attenzione. Il titolo potrebbe cambiare durante l’elaborazione del documentario, e spesso accade. In ogni caso avere un titolo fin dall’inizio aiuta a guidare la produzione e a promuovere il progetto. Il titolo rende unico il documentario e lo distingue da tutti gli altri che gli gravitano attorno153. In qualsiasi ambiente siamo tutto ciò che ci circonda è un potenziale spunto per sviluppare un’idea. Ogni cosa, ogni persona è un potenziale soggetto. Molto spesso le idee sbocciano da una semplice chiacchierata, stanno dietro ad ogni angolo insomma, basta imparare a scorgerle e farle proprie, oltre che, necessariamente, a selezionarle. Per farlo bisogna porsi fin da subito alcune domande “è mai stato fatto?”, “può interessare questo argomento?”, “quale punto di vista potrei offrire al pubblico?”, “mi interessa veramente fare un documentario su questa cosa?”. Alcuni sostengono che scrivere un documentario sia come scrivere un’opera di finzione. Ma i modi di affrontare la realizzazione di un documentario portano spesso a costruire le cose in maniera decisamente differente dalla narrazione classica e spesso dettate innanzitutto da casualità. Una cosa è fondamentale: bisogna stare attenti a non perdersi nel cercare una storia che possa piacere al pubblico, tutto si basa su ciò che piace a noi. Infatti, solo cercando di realizzare un documentario che tratta un argomento che sia innanzi tutto di nostro interesse, possiamo rendere in maniera appassionata la storia che esso porta con sé154. Il presente progetto si è sviluppato dalla consapevolezza che il lavoro dell’archeologo non è diffusamente noto e, inoltre, spesso viene condito da stereotipi o confuso con quello di altri professionisti dei beni culturali. Da questa considerazione si è sviluppata l’idea di raccontare l’archeologia, con i suoi principi e metodi, attraverso la presentazione del lavoro svolto dall’Università di Padova presso il sito archeologico di Nora. La missione, ormai ventennale, del Dipartimento di Beni Culturali, ha prodotto una vasta e varia mole di dati e ha consentito l’applicazione di numerose strategie metodologiche. Le stesse spaziano dal tradizionale scavo 153 PEPE, ZARZYNSKY, 2012. 154 FANTINI, 2005, pp. 19-21. 73 all’innovativa documentazione in 3D, structure from motion e dense stereo matching. Inoltre, una documentazione fotografica precisa e puntuale ha restituito una quantità e una varietà di materiale visivo pienamente adatto per essere inserito in un documentario. Questa disponibilità è fondamentale in quanto, l’accesso diretto e la possibilità di reperire facilmente il materiale sono due aspetti che influenzano, sensibilmente, la scelta del soggetto da trattare. Nel caso di Nora l’opportunità di accedere alla documentazione fotografica e, in certi casi, produrla, ha arricchito il documentario e ha permesso non solo di rappresentare visivamente quanto veniva detto, ma anche di far conoscere allo spettatore il sito archeologico di Nora. Titolo Nora, il racconto dell’archeologo. Idea Questo è il racconto di come si svolge il lavoro di un archeologo impegnato nello scavo e nello studio di una qualsiasi città antica del Mediterraneo, usando l’esempio dell’antica città di Nora. Una volta definita l’idea e abbozzato il titolo è il momento di scrivere il soggetto. Il soggetto è fondamentale per definire la forma e i contenuti del documentario. Esso è il nucleo narrativo, story appunto in inglese, da cui si sviluppa la sceneggiatura155. Mediamente il soggetto è abbastanza breve, un paio di pagine, e serve per presentare il documentario al committente, ad un collega o ad altre persone. Un soggetto di successo dimostra che l’idea di fondo è solida, che si ha una buona conoscenza dell’argomento e che si è persone professionali che, pertanto, andrebbero ingaggiate. La sua lettura dovrebbe suscitare curiosità e spingere alla richiesta di ulteriori informazioni. Nello specifico, nel soggetto andrebbero inserite tutte quelle indicazioni utili a definire il documentario che si vuole produrre, per esempio: il titolo del documentario e il nome del team di produzione, con eventuali contatti; la durata; un breve riassunto dell’argomento che si vuole documentare e quali sono gli aspetti rilevanti che rendono questa scelta unica; a quale pubblico è rivolto il documentario e quale approccio e stile è quindi consigliabile seguire156. 155 MUSCIO in Enciclopedia del Cinema http://www.treccani.it/enciclopedia/soggetto_(Enciclopedia-del-Cinema)/ 156 PEPE, ZARZYNSKY, 2012. 74 Soggetto Nora, il racconto dell’archeologo di Anna Ferrarese, Mirco Melanco e Jacopo Bonetto Il video si propone di documentare l’attività professionale svolta da un team di archeologi nello scavo e nello studio di una città antica. Nello specifico, il caso studio scelto per illustrare questo argomento, è l’area archeologica di Nora. Nora è un sito archeologico della Sardegna meridionale, in provincia di Cagliari. Il sito si inserisce in un territorio di particolare fascino paesaggistico: è collocato su un promontorio, il capo di Pula, separato dalla terra ferma da uno stretto istmo di terra, circondato da baie e sferzato dalle onde del mare. Le sue rovine e testimonianze archeologiche racchiudono oltre dieci secoli di storia i cui principali protagonisti furono dapprima le popolazioni nuragiche e i mercanti fenici, poi i Cartaginesi e infine i Romani. Il lento e progressivo abbandono dell’abitato, iniziato nel VI sec. d.C. per le invasioni dei Vandali, dei Goti e dei Saraceni, ci ha consegnato un panorama storico unico, caratterizzato dalla sovrapposizione, e dalla compresenza, di periodi di vita e cultura diversi tra loro. Nuove conoscenze sulla storia degli uomini che hanno abitato l’antica città Nora provengono dalle indagini archeologiche condotte da alcune Università italiane. Tra queste opera anche l’Università degli Studi di Padova: in 25 anni di scavi, le linee di ricerca avviate e le diverse metodologie applicate hanno prodotto una vasta documentazione scientifica in grado di rendere Nora un esempio completo per una puntuale narrazione di come si svolge il lavoro dell’archeologo. La felice collocazione geografica e la bellezza paesaggistica che contraddistingue il capo di Pula ha già ispirato diverse produzioni video, amatoriali e professionali. Ma nessuna di esse descrive puntualmente il lavoro condotto dagli archeologi nel sito. Il documentario proposto, invece, mira proprio a questo: illustrare le fasi che contraddistinguono un’indagine archeologica. Prestando attenzione a non superare 30 min. di montaggio video, verranno spiegate e approfondite le seguenti tematiche: 1. Gli studi e le analisi utili a programmare un intervento archeologico: lo studio preliminare delle fonti storiche, scritte e cartografiche, il remote sensing, il survey e le prospezioni geofisiche. 75 2. Le operazioni che accompagnano un intervento archeologico: lo scavo archeologico, la documentazione di scavo e lo studio dei materiali. 3. E infine la precauzioni adottate in conclusione di un intervento archeologico: le opere di tutela dei beni culturali, l’applicazione del 3D in archeologia e la valorizzazione e la divulgazione dei risultati delle ricerche. Per ogni argomento verrà intervistato un esperto che ha acquisito, con l’esperienza, una buona padronanza della materia. Il filo conduttore delle interviste sarà la voce narrante a cui spetta il compito di guidare lo spettatore alla scoperta del senso dell’archeologia e ricostruire la storia di Nora. Il video è rivolto agli studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado e ha scopo divulgativo. Nello specifico gli obiettivi che il video si propone di perseguire sono: orientare lo studente che si vuole formare nell’ambito dei beni culturali alla scelta di un corso di studi universitario idoneo alle sue preferenze e dimostrare come la storia non esca in modo speculativo dalle pagine di un libro, ma abbia radici empiriche nella scienza archeologica. Premesso il livello comunicativo scelto e i contenuti proposti, un ulteriore destinatario è anche il pubblico più ampio del turista o del cittadino medio, in possesso di un livello base di conoscenze, che conosce il sito archeologico di Nora e vuole apprendere come si è giunti alla sua ricostruzione storica. La scelta di raccontare come si svolge il lavoro di un archeologo professionista si rivela, inoltre, decisamente attuale di fronte alla crisi delle figure professionali che operano, o potrebbero e dovrebbero operare, nel settore dei beni culturali. 5.1.2 La scelta dello stile Il soggetto, carta di presentazione del progetto, trasmette un’idea del tipo e del genere di documentario che si intende produrre. Lorenzo Hendel afferma di aver rintracciato, nelle migliaia di documentari che ha analizzato, co-prodotto o realizzato, l’esistenza di alcune strutture tipo, modelli ricorrenti all’interno di tipologie distinte. Queste tipologie sono state da lui definite “paradigmi”157. Secondo Hendel ogni documentarista ha in mente un suo modello di riferimento, una sua matrice, un paradigma appunto, che magari attiva in modo inconsapevole, istintivo. 157 76 HENDEL, 2014 pp. 11-13. I paradigmi individuati da Hendel sono tre: 1. il paradigma tematico: è quello più classico, ereditato dal documentario tradizionale, ma evoluto in forme sempre nuove. I documentari strutturati con questo paradigma individuano un tema e procedono raccogliendo materiale d’archivio, materiali ex novo, interviste, testimonianze, che poi tentano di “mettere in forma” attraverso differenti dispositivi drammaturgici; 2. il paradigma osservazionale: eredita la lezione dei grandi maestri operanti nella seconda parte del secolo scorso, primo tra tutti Frederick Wiseman, e persegue il metodo di filmare determinati accadimenti senza che regista e troupe abbiamo mai a interferire con essi, e diventando anzi essi stessi, come si dice, “mosche sul muro”, che osservano invisibili senza intervenire; 3. il paradigma narrativo: è la tendenza più recente e ambiziosa del documentario moderno, e vede il documentario come la costruzione di una storia che ha come protagonisti dei personaggi della vita reale (si chiamano, infatti, anche “documentari character driven”), che vengono seguiti e ripresi nella loro vita come se si trattasse di un filma a soggetto. La struttura della storia però opera la sia costruzione senza forzare né modificare la realtà in corso, ma adattandola ad essa. Al di là degli argomenti, delle storie, dei personaggi, delle location, ogni documentario ha una sua struttura, ed è questa (non il contenuto) che secondo Hendel ne determina la fisionomia, l’andamento e la logica narrativa. Queste classificazioni non vanno naturalmente prese alla lettera, si tratta per lo più di un semplice schema che permette di cogliere tante facce del documentario, o meglio, apprezzarne le potenzialità. Tant’è che a queste strutture possiamo aggiungerne altre, come il modello partecipativo, in cui il regista diventa parte integrante dell’opera e appare in video presentando l’argomento (è una variante del paradigma tematico); la ricostruzione filmata che affronta fatti storici attraverso diversi mezzi espressivi (filmati, foto d’archivio, illustrazioni, messe in scena) presentati come una drammatizzazione di una storia vera; o ancora il docudrama e i film biografici che emulano lo stile narrativo del documentario ma assomigliano però più a un normale film di fantasia158. Il nostro documentario, per certi versi, unisce alcuni aspetti del paradigma tematico con quelli del paradigma narrativo. 158 LINDENMUTH, 2011, pp.10-13. 77 L’intenzione di voler spiegare il lavoro dell’archeologo comporta necessariamente la scelta di un tema (l’archeologia) e la raccolta di tutto il materiale utile a documentare quanto di quel tema viene trattato. In quest’ottica ampio spazio viene lasciato all’esposizione verbale, soprattutto da parte degli esperti, al fine di persuadere lo spettatore ad accettare la prospettiva che gli viene presentata, quella dell’archeologo. Inoltre, una delle scelte che maggiormente inserisce il nostro documentario nella tradizione, è il ricorso alla voce narrante per condire il contenuto scientifico del video. Il punto di vista onnisciente, che spiega e definisce l’argomento, carica di enfasi le interviste degli esperti e sfocia, in alcuni punti, anche in toni medio-drammatici in grado di risvegliare e catturare l’attenzione dello spettatore. Questa è una tendenza molto popolare soprattutto nel caso di quei documentari che approfondiscono tematiche investigative o eventi storici e archeologici159. L’impostazione del corpo centrale del video secondo la modalità “intervista”, invece, lascia spazio ai protagonisti non-attori di farsi narratori rispondendo ad alcune domande guida che gli vengono poste. È questa una forma di sperimentazione del paradigma narrativo che coinvolge nella produzione i protagonisti del tema affrontato, ovvero gli archeologi stessi. 5.1.3 La ricerca dei contenuti La prima cosa da fare dopo aver trovato una storia è documentarsi raccogliendo più informazioni possibili sugli elementi che la compongono: dal tema (o i temi) che essa contiene, alle persone che coinvolge, dalla sua cronologia alle possibili evoluzioni, fino alla relazione con altre storie simili che sono già state raccontate, cosa utile anche per distinguerla nel taglio. Internet, giornali, libri, film, altri documentari: tutti questi mezzi aiutano. Nella maggior parte dei casi, un buon documentario comincia da buone letture, che non devono essere strettamente specifiche bensì anche solo contigue alla storia o darle una prospettiva più ampia. Per esempio, se vogliamo raccontare un’oasi naturalistica dobbiamo sapere cos’è un ecosistema, quale sia la politica della conservazione ambientale in quel paese, e così via. Bisogna avere una visione più ampia, anche se questa non basta da sola, perché poi il documentario non può essere fatto a tavolino ma, nelle prime fasi, l’approfondimento conoscitivo è fondamentale. Quindi, agli strumenti elencati, va aggiunta la consultazione di esperti e di studiosi del settore entro cui la storia si inserisce160. La ricerca di queste persone, che faranno da guida, da consulente scientifico e da esperto del settore nel progetto, sarà 159 PEPE, ZARZYNSKY, 2012. 160 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 29. 78 fonte di nuove idee. Ovviamente questo vale nel momento in cui l’esperto non sia l’autore stesso161, come nel nostro caso. Oltre a cercare le persone giuste da intervistare, fa parte della fase delle ricerche l’individuazione delle fonti che possano fornire tutte le informazioni utili a una buona riuscita del documentario. Quando si inizia un progetto si possono presentare, infatti, due casi-tipo. Il primo è quello in cui è un contatto, spesso fortuito, a provocare la scintilla che fa scaturire l’idea di un filmato. In questo caso i collegamenti verso altre eventuali persone utili possono giungere dallo stesso primo contatto. Il secondo caso invece è quello in cui a seguito di un’idea più o meno definita si lavora per individuare quelle che potrebbero essere le figure più utili alla sua realizzazione. Ed è questo il nostro caso. Da una buona ricerca e da un efficace costruzione narrativa possono scaturire migliaia di cose interessanti da raccontare. Ovviamente una controindicazione esiste, ed è quella di cadere vittima del troppo materiale accumulato. Per evitare questo è fondamentale, man mano che nascono nuove idee, fermarsi e provare a schematizzare in modo sempre più specifico e concreto il possibile percorso del documentario, individuando man mano una collocazione di massima per tutti i nuovi argomenti suscitati dalle ricerche. Raccolte tutte le informazioni possibili bisogna poi estrapolare solo ciò che realmente è funzionale alla costruzione del documentario162. La felice collocazione geografica e le rovine di Nora hanno stimolato la produzione di video che puntano a mostrare le bellezze paesaggistiche e le realtà archeologiche del Capo di Pula (fig.19) 163. La suggestiva scenografia che il sito propone ha ispirato, tra le molte, anche la produzione del video musicale del cantante Ligabue “Un colpo all’anima”. L’importanza storica del sito è stata raccontata in più produzioni video: al 1950 risale, per esempio, il film dell’Archivio Luce “Città sommersa” realizzato sotto la regia di Giovanni D’Eramo; successivo e di altrettanta rilevanza è invece il filmato “Itinerario quiz. Viaggio a premi attraverso l'Italia: Sardegna” (regia di Piero Turchetti e testi di Nissim Renzo) trasmesso dalla Rai il 4 marzo 1962, in cui viene percorso, a bordo di una Giulietta Alfa Romeo, un itinerario culturale da Cagliari 161 FANTINI, 2005, pp. 25. 162 FANTINI, 2005, pp. 25-29. 163 Due filmati sono già citati alla nota n.74 ma in internet possiamo trovare molti altri esempi amatoriali: come le riprese da aereo della penisola di Nora proposte in Sardegna in volo (https://www.youtube.com/watch?v=QkvL0Lzi3TI), alcuni video subacquei (https://www.youtube.com/watch?v=7iD3j3V8DUo; https://www.youtube.com/watch?v=MhlBLYbNsnI) oppure delle composizioni di foto e video che ritraggono le rovine dell’antica città in esame (https://www.youtube.com/watch?v=uhb3IN7OWPQ; https://www.youtube.com/watch?v=BDniqm2fc2A; https://www.youtube.com/watch?v=LrphnhgulX0). 79 a Sulci; il già nominato documentario “Nora la città più antica della Sardegna”, prodotto dell’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Pula, con gli interventi del Dott. Piero Bartoloni e del Dott. Carlo Trochetti, in cui viene raccontato l’evolversi della storia di Nora; e infine il documentario “Pula, sulle tracce dell'antica Nora” realizzato nel 2009 sotto la regia di Jones Peter. Nel tempo le produzioni sul sito di Nora sono state molte. Oltre ai filmati già elencati, nel sito http://www.sardegnadigitallibrary.it/, inserendo nel motore di ricerca la voce “Nora Pula”, si trovano numerose altre produzioni video che riguardano il sito in esame. Figura 19 – Casa dell’atrio tetrastilo. Sullo sfondo la Punta di Coltellazzo con il caratteristico faro. Fotografia scattata nel giugno 2016 (Anna Ferrarese) Non ho riscontrato invece filmati che esplicano il lavoro condotto dalle Università italiane impegnate dello scavo e studio della città antica. L’ambiziosa idea di voler colmare questa lacuna ha sollevato, naturalmente, alcuni interrogativi in merito alle tematiche da affrontare. Visto il tempo a disposizione, per esempio, quali aspetti del lavoro dell’archeologo andavano raccontati e su quali invece si poteva sorvolare? Quali procedimenti andavano approfonditi e quali invece nominati sono superficialmente? 80 La disciplina archeologica è una materia molto vasta e varia, in quanto studia l’uomo che per sua natura è vario. Si è scelto, quindi, di selezionare le fasi principali che caratterizzano un’indagine archeologica, quegli aspetti, invero, che sono individuabili nella maggior parte dei progetti di ricerca. Per questo motivo si è scelto di trattare gli studi e le analisi che precedono un intervento di scavo, le operazioni che inevitabilmente lo accompagnano e, infine, le scelte che vengono attuate per tutelare il patrimonio archeologico e trasmettere i risultati al pubblico. Fin dalle prime fasi del progetto si è rivelato utile confrontarsi con gli esperti per appuntare quali argomenti erano rilevanti per spiegare ciascuna materia. Vagliati i suggerimenti e messe a confronto le idee, sono stati individuati i temi principali sui quali condurre le ricerche e raccogliere il materiale. Inoltre, è bene tenere sempre a mente a quale livello informativo si vuole trasmettere al pubblico. Sarà rivolto a persone che non sanno nulla in materia o per qualcuno che già conosce l’argomento? Dal momento che tutti i documentari sono intesi per informare, bisogna assicurarsi che il programma segua questo intento e che le argomentazioni siano il più concrete possibile. Le informazioni raccolte dovranno quindi essere filtrate per decidere quali siano le più importanti e come presentarle al pubblico 164 . Il destinatario del nostro documentario, come precisato nel soggetto, è il pubblico composto dai ragazzi delle scuole medie e superiori, un pubblico giovane che può essere stato istruito dal docente sull’argomento e magari anche appassionato di storia. Il documentario potrebbe avere, in questo contesto, anche un valore orientativo nei confronti della scelta di un corso universitario. Ma non solo, anche il grande pubblico che ogni anno visita il sito archeologico di Nora potrebbe essere un potenziale destinatario. Una volta conclusa la conoscenza del sito, infatti, il documentario potrebbe rispondere a tutti gli interrogativi del turista su come effettivamente sia stato possibile ottenere questa ricostruzione storica. Tabella riassuntiva con le tematiche da trattare e gli esperti che verranno intervistati. PARTE 1: • LE RICERCHE PRELIMINARI, Prof. Andrea Raffaele Ghiotto. Ruolo delle fonti nella progettazione di un intervento archeologico. • Tipologia delle fonti: scritte, cartografiche, fotografiche, ricognizioni, prospezioni. • Nora: caso studio. • Storia degli scavi, una base di partenza per le nuove ricerche. 164 LINDENMUTH, 2011. 81 PARTE 2: • Scavi condotti dall’Università di Padova. • Geofisica – definizione: “geo” ovvero “terra”; LE PROSPEZIONI GEOFISICHE, “fisica” nel senso di metodi applicativi che Prof.ssa Rita Deiana. sfruttano i principi fisici della terra. • Le caratteristiche della terra sono diverse da luogo a luogo, quindi non possiamo applicare sempre tutti i metodi. • Caso studio Nora: presenza di sabbia, mare e rifiuti metallici (es. elettromagnetico inadatto). • Applicazione del georadar. • Applicazione della geoelettrica. • Risultati ottenuti. PARTE 3: • Perché scavare? LO SCAVO ARCHEOLOGICO, • Come scavare? Prof. Jacopo Bonetto. • Stratigrafia e scavo archeologico. PARTE 4: • Diario e schede US. LA DOCUMENTAZIONE DI SCAVO, • ADaM. Dott. Arturo Zara. • Documentazione fotografica: come fare una foto scientifica? • Documentazione grafica: piante e sezioni. • Cos’è la stazione totale? PARTE 5: • Cosa sono i reperti archeologici? I MATERIALI, • Dove si trovano i materiali? Dott.ssa Valentina Mantovani. • Perché sono importanti? • Come si datano i materiali? • Definizione di seriazioni morfologiche. • Aspetto pratico (lavaggio, siglatura, fotografia, disegno, studio). PARTE 6: • Cos’è la tutela archeologica? LA PROTEZIONE E CONSERAZIONE DI UN • L’importanza del rapporto con l’ambiente. SITO, • Interdisciplinarietà. Dott. Filippo Carraro. 82 • Previsioni di rischio. PARTE 7: • Definizione ricostruzione virtuale. LA RICOSTRUZIONE 3D, • Applicazioni Dott. Simone Berto. ricostruzione virtuale in archeologia. • Finalità scientifica e divulgativa. • Ricostruzione 3D. • Applicazioni a Nora. PARTE 8: • Cos’è la valorizzazione? LA VALORIZZAZIONE, • Perché valorizzare? Prof. Jacopo Bonetto. • Applicazioni a Nora. • Pubblicazione e divulgazione. 5.1.4 Stesura dei contenuti e metodi di narrazione È stato più volte sottolineato la necessità di mettersi in ascolto del reale: il documentario non è un film di finzione. “Scrivere il documentario” sembra, allora, un ossimoro, ma non è così. L’indeterminatezza, infatti, quasi mai aiuta il regista a trovare il percorso più efficace. C’è un momento in cui il frutto della propria ricerca, e i suoi vari momenti, vanno raccolti in quello che diventa un bilancio. Non è solo uno script da far leggere al produttore, ma un passaggio che serve anche all’autore. È una verifica, un mettere ordine nella propria mente. Creare un primo step in cui ciò che si è conosciuto viene messo su carta. All’inizio si tratta di una “scrittura aperta” in cui convergono gli elementi raccolti e che può subire, nelle sue varie fasi, costanti modifiche. È proprio questo continuo approfondimento e la conseguente riflessione che aumenta fortemente la sensibilità nei confronti della realtà che si andrà a filmare165. Molto spesso all’inizio non si hanno le idee chiare, con ogni probabilità si entra nella sala di montaggio con un’idea e si esce con un prodotto completamente diverso. Per cominciare è bene 165 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 81-82. 83 analizzare gli argomenti da descrivere o approfondire e valutare se per la realizzazione del filmato basta un unico narratore fuori campo o più testimonianze e interviste. La scelta più comune è quella di affidare il testo a una voce fuori campo che ha lo scopo di spiegare, commentare e condurre lo spettatore lungo lo svolgimento del “viaggio”. È la via più facile ma richiede un grande sforzo per chi scrive che diventa padrone e demiurgo delle cose dette nel corso del filmato. Un altro metodo di narrare consiste nell’aggiungere al testo fuori campo dei personaggi che possano assumere il ruolo di protagonisti o anche di semplici testimoni di un’esperienza. Scegliendo questa strada il documentario andrà strutturato in modo da dare a ciascuno il tempo sufficiente per esprimersi, senza perdersi nel testo narrato. Un’ultima possibilità è quella del documentario interamente narrato dagli intervistati. Le interviste andranno costruite cercando di rendere i passaggi tra i personaggi e gli argomenti più fluidi possibile. Per riuscirci è indispensabile che il percorso dei passaggi logici tra un’intervista e l’altra sia perfettamente scorrevole166. La necessità di un copione dipende dallo stile adottato e dal soggetto che si intende trattare. Il copione dettaglia l’intero documentario 167 : le riprese, le inquadrature, le transizioni tra una scena e la successiva, la lunghezza di ogni intervista, oltre alle parole dell’intervistato e dell’intervistatore. Se c’è una voce narrante include anche le sue parole168. I documentari, tuttavia, possono essere anche privi di copione: mentre i primi riguardano qualcosa che è già accaduto, i secondi non scritti, al contrario, sono di solito di tipo osservazionale e riprendono eventi in accadimento. Non ci sono interferenze con lo svolgimento dei fatti, sono meno strutturati e richiedono solo la preparazione di una lista di domande da porre agli intervistati169. Le domande che verranno poste durante l’intervista devono essere progettate per fornire sostanza al documentario, quindi è bene pianificarle con buon anticipo: devono essere domande dirette, formulate con parole semplici e seguire una sequenza logica170. Il soggetto del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” richiedeva l’interazione tra interviste e voce narrante. Agli esperti è stata data la possibilità di esprimersi e di farsi narratori della 166 FANTINI, 2005, pp.29-31. 167 Bisogna sempre tenere presente che scrivere un copione che sarà letto a voce è molto diverso dallo scrivere solo per sé stesso. 168 LINDENMUTH, 2011. 169 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 53-54. 170 LINDENMUTH, 2011. 84 loro professione, alla voce fuori campo è stato assegnato invece il compito di introdurre lo spettatore alla disciplina archeologica e tessere le fila del messaggio che il filmato voleva veicolare. Gli interventi degli esperti sono stati ordinati in una logica sequenziale che li ha resi autonomi dalla voce narrante. Il narratore, infatti, ricompare nel corpo del documentario con un unico intervento che spezza i due blocchi di interviste recuperando l’attenzione dello spettatore e alleggerendo i toni delle argomentazioni (fig. 20). Il cambio di scena rende più attraente la regia evitando l’eccesiva monotonia espositiva che rischia di portare l’ascoltatore alla saturazione171. La sceneggiatura ha quindi coniugato da un lato il copione preparato per la voce narrante, interpretata da Antonio Andreetta, e dall’altro la lista delle domande da porre agli esperti nel corso delle interviste. Non essendo questi attori professionisti non era di fatto possibile proporre a ciascuno di loro un testo da imparare a memoria o da leggere senza incorrere nel rischio di avere un’interpretazione piatta. L’intervista, infatti, prevede la spontaneità di un non-attore che esprime con le sue parole un argomento di cui ha una buona conoscenza. Pertanto ci si è limitati a fornire loro sola la lista delle domande a cui avrebbero dovuto rispondere. Diversamente, per la voce narrante è stato scritto il copione. Scrivere un buon testo per la voce fuori campo non è facile, richiede talento e abilità nel mestiere. Essa prende vita nelle riprese, nelle fotografie, nelle illustrazioni, nelle mappe e nelle animazioni. Non deve descrivere solo ciò che si vede ma deve fornire anche informazioni ulteriori senza, tuttavia, confondere e disturbare lo spettatore ma accompagnandolo lungo tutta la storia. Scrivendo la narrazione bisogna sempre tenere in considerazione che il testo andrà intrepretato e parlato piuttosto che letto, questo comporta la preferenza per una sintassi semplice fatta di frasi brevi, parole concrete e facili da pronunciare172. Nel nostro progetto video la voce narrante, in aggiunta ai compiti già presentati, doveva dare una definizione di archeologia e dimostrare come i suoi principi siano applicati nelle metodologie proprie della disciplina. Attingendo ai più famosi scritti di archeologia teorica e traendo ispirazione dalle parole di grandi autori come Luis Frèdèric173, Andrea Carandini174 , Daniele Manacorda175, Colin Renfrew e Paul Bahn 176 , si è cercato di delineare una immagine affascinante, ma anche sincera, dell’archeologia per coinvolgere lo spettatore e condividere con esso la passione per questo mestiere. 171 COSTA, 2009, pp.172. 172 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 113-114. 173 FREDERIC, 1980, pp. 3. 174 CARANDINI, 2010, pp. 6-7, 11-12. 175 MANACORDA, 2004, pp.32. 176 RENFREW, BAHN, 2006. 85 86 Figura 20 - Schema con la struttura del documentario. Copione INTRODUZIONE – Voce narrante Si parla spesso di archeologia. Fiumi d’inchiostro sono stati scritti sull’argomento. Ma che cos’è veramente l’archeologia? Definirla con una sola parola è impossibile. Si potrebbe definire scienza di storia, scienza dell’umanità scomparsa, oppure… Narrazione dell’evoluzione umana che prende le mosse dagli oggetti e dalle tracce che il tempo non è riuscito a cancellare. L’archeologo ricostruisce le storie, erose dal tempo, custodite nel sottosuolo o appena sopra di esso, come un codice che deve essere decifrato da occhi e menti attente. Ma quali sono i suoi metodi? Per scoprirlo abbiamo chiesto a un team di archeologi dell’Università di Padova di raccontarci il loro lavoro presso il sito archeologico di Nora. Oggi sappiamo che Nora era un’antica città posta lungo la costa meridionale della Sardegna, ad ovest di Cagliari. Rimasta quasi del tutto sepolta per secoli, ha conservato i segni delle diverse culture che l’hanno plasmata nel tempo. Sulle sue coste approdarono prima i Fenici, mercanti orientali, con le loro capanne temporanee; poi i Cartaginesi, abili politici, che costruirono a Nora la prima città, e infine arrivarono i Romani che monumentalizzarono l'abitato… Trasformandolo in un ricco centro mercantile del Mediterraneo. Successivamente le invasioni dei Vandali, dei Goti, dei Saraceni spinsero gli abitanti nell’entroterra, e fu così che i grandi edifici… Abbandonati… Divennero ruderi, ruderi che ancora oggi vediamo. Ma come è stato possibile acquisire queste conoscenze e scrivere questa narrazione? In altre parole… Quali tracce si nascondono dietro la storia della frequentazione umana dell’isola? CORPO 1 – INTERVISTE AGLI ESPERTI LA PROGRAMMAZIONE DI UN INTERVENTO ARCHEOLOGICO Prof. Andrea Raffaele Ghiotto – Le ricerche preliminari: Come ha inizio un intervento archeologico? Quando venne individuata Nora e a quando risalgono le prime indagini del sito? Quali sono stati i progetti condotti dall’Università di Padova? Prof.ssa Rita Deiana – Le prospezioni geofisiche: Come si fa a capire dove iniziare a scavare? Che cos’è la geofisica? A Nora che tipo di prospezioni sono state fatte? 87 L’INTERVENTO ARCHEOLOGICO Prof. Jacopo Bonetto – Lo scavo archeologico: Quando viene programmata la fase di scavo? In cosa consiste lo scavo archeologico? Quali sono i principi e i metodi che segue lo scavo archeologico? Dott. Arturo Zara – La documentazione di scavo: Cos’è la documentazione di scavo e a cosa serve? Quali sistemi di documentazione si usano? Cos’è una stazione totale? Dott.ssa Valentina Mantovani – I reperti archeologici: Cosa sono i reperti archeologici? Perché è importante studiare i materiali e come si fa a datare un oggetto? Cosa sono le seriazioni morfologiche? Con quale procedimento lavora l’esperto di materiali? INTERVENTO CENTRALE – Voce narrante L’archeologia è quindi una disciplina pratica ed estremamente varia. Come è vario l’uomo stesso. Per ricostruire la storia dell’umanità l’archeologo, quindi, consulta documenti storici, interpreta analisi fisiche, fatica sotto il sole o si immerge per recuperare la storia sommersa, documenta quanto è rimasto del passaggio dell’uomo e studia gli oggetti che hanno accompagnato la sua evoluzione. Ogni lembo di terra mosso dall’uomo, ogni pietra toccata dall’uomo, ogni coccio plasmato dall’uomo ci raccontano la storia dell’uomo. Ma il lavoro dell’archeologo non si limita solo a questo. La conoscenza del nostro passato appartiene a tutti e, pertanto, una parte importante del suo lavoro consiste nel trasmettere i risultati delle sue ricerche al pubblico. CORPO 2 – INTERVISTE AGLI ESPERTI LA CONCLUSIONE DI UN INTERVENTO ARCHEOLOGICO Dott. Filippo Carraro – La protezione e conservazione di un sito: Cosa significa tutelare il patrimonio archeologico? Che problematiche sono state individuate nel sito di Nora? Come si è sviluppato il progetto Noramar? 88 Dott. Simone Berto – la ricostruzione 3D: Cos’è la ricostruzione tridimensionale e quali applicazioni ha in ambito archeologico? Che finalità ha la ricostruzione 3d? Quale procedimento viene seguito? Quali applicazioni sono state fatte nel sito di Nora? Prof. Jacopo Bonetto – La valorizzazione: Cos’è la valorizzazione archeologica? Quale valorizzazione è stata applicata nel sito di Nora? Come agisce la valorizzazione sulla divulgazione? CONCLUSIONE Il risultato di questa sequenza di lavoro e di metodi è la ricostruzione di culture, usi e costumi, relazioni sociali, economiche e politiche, credenze religiose... Ottenuta attraverso l'osservazione attenta di opere d’arte, innovazioni tecnologiche e oggetti d’uso comune... In una parola: il risultato è la ricostruzione della vita dell’uomo di allora. Grazie ad un grande sforzo interpretativo gli archeologi riescono a ricostruire tutto questo, per farlo hanno sviluppato l’abilità di ragionare all’indietro, in tempi rovesciati: come quando si perde un oggetto e si ripercorre la giornata… Al contrario di come si è svolta per ritrovarlo. Usano, quindi, la distruzione a vantaggio della ricostruzione. Nel caso di Nora è stato seguendo questa metodologia che gli archeologi sono riusciti a ricostruirne la storia penetrando tra le spighe del campo di grano che ad inizio ‘900 veniva coltivato tra le rovine del teatro e delle terme romane. È stato grazie alle continue ricerche e ai metodi scientifici elaborati nel corso del tempo che Nora è venuta alla luce insieme alla sua storia. Una storia di oltre 10 secoli che ha reso l’antica città un punto di riferimento per i traffici commerciali tra Oriente e Occidente e una delle città più importanti della Sardegna punica e romana. Ma la storia è un universo enorme e non sarà mai scritta fino in fondo: per questo le ricerche archeologiche che sono ancora in corso contribuiranno ad arricchire le conoscenze acquisite sulla storia di questa città antica in un incessante riformulazione del fluire della vita passata, specchio senza tempo dell’umanità presente e futura. 89 5.1.5 Il livello di comunicazione adottato Molto spesso, il problema della divulgazione dei risultati scientifici, come precedentemente ho sottolineato, sta nel livello di comunicazione che si sceglie di usare. L’iper-specializzazione delle discipline e l’abitudine a comunicare in un contesto accademico o composto esclusivamente di esperti, può indurre ad adottare, anche in modo inconsapevole, un linguaggio non idoneo per la comunicazione di massa. Lasciando agli esperti la possibilità di essere spontanei e di esprimersi con le loro parole vi era il rischio che gli stessi adottassero quel linguaggio, a loro più famigliare per trattare dati scientifici. Per ovviare questo problema a ciascuno di loro è stato fornito un testo, che non andava letto né imparato a memoria, ma che voleva essere un modello da prendere come riferimento, un esempio per migliorare la comprensibilità del discorso. I testi sono stati scritti, seguendo i suggerimenti della docente di psicologia Prof.ssa Francesca Pazzaglia. Nello specifico si è prestato attenzione a scegliere una sintassi semplice e una struttura del discorso in stile giornalistico, anticipando cioè, quando possibile, l’informazione principale e poi gli eventi ad essa collegati. Frasi brevi, verbi semplici, parole concrete e quotidiane hanno contribuito a rendere più famigliari gli argomenti. Per sostenere la motivazione, poi, si possono adottare anche altre modalità, fra cui l’esempio. Infatti come altri tipi di comportamento, anche la motivazione è soggetta all’apprendimento “per imitazione”. Pertanto, quando necessario, è utile riportare nel discorso qualche esempio pratico per raffigurare quanto di sta affermando. Anche esprimersi con entusiasmo aiuta. L’entusiasmo è, infatti, contagioso e rafforza la motivazione. Tuttavia non è sempre facile trasmettere quest’ultima a parole. Pertanto agli esperti sono state consigliate alcune accortezze da seguire per esprimersi al meglio: • usare espressioni para-linguistiche (come la modulazione del volume, del tono e della frequenza della voce) per attirare l’attenzione dell’ascoltatore; • servirsi degli atteggiamenti non verbali per sottolineare i punti più importanti del discorso, (per esempio enfatizzare alcune espressioni facciali per sottolineare quanto si sta dicendo o lanciare sguardi eloquenti e illuminati, come se si stesse guardando qualcosa di importante); • avvalersi di atteggiamenti prossemici che enfatizzano la gestualità delle mani, per esempio con costanti gesti dimostrativi, e del corpo. Come in tutte le cose è bene, anche in questo caso, non eccedere troppo nell’esprimere entusiasmo. Infatti, nonostante l’intenzione di incoraggiare a volte gli incentivi sortiscono l’effetto contrario. La passione armoniosa è infatti considerata positiva e genera comportamenti volontari costruttivi 90 (voglio/vorrei), quella ossessiva invece è negativa e porta spesso a subire degli obblighi (devo/dovrei) nei confronti di qualcosa177. Per sviluppare la passione armoniosa è importante anche sviluppare un clima autonomo e controllante178. Riporto di seguito i modelli di riferimento preparati e consegnati agli esperti alcuni giorni prima dell’inizio delle riprese come esempio del livello comunicativo da adottare. Modelli di riferimento LE RICERCHE PRELIMINARI Programmare un intervento archeologico Come ha inizio un intervento archeologico? Ogni intervento archeologico inizia con l’individuazione di un sito o di un elemento che compone il paesaggio del passato. Ci sono aree archeologiche che sono note da sempre (pensiamo alle piramidi d’Egitto o all’antica Roma, per esempio); altre che sono conosciute solo da un certo periodo storico; altre invece che devono essere ancora scoperte. Un numero notevole di siti è stato individuato per caso, grazie a rinvenimenti fortuiti, lavori agricoli o edili. Quando un archeologo deve localizzare un sito procede invece metodicamente: 1. studia le fonti scritte storiche e cartografiche; 2. svolge ricognizioni territoriali, 3. analizza le fotografie aeree delle ricognizioni da remoto 4. e ancora effettua delle prospezioni per indagare il sottosuolo. Nora, le prime indagini Quando venne individuata Nora e a quando risalgono le prime indagini del sito? Fino al XVI secolo l’antica città di Nora non era stata ancora individuata. I rinvenimenti sparsi e i ruderi che emergevano dal terreno ne suggerivano solo in parte l’importanza. Le prime indagini accurate risalgono alla fine del 1800 quando Giovanni Patroni individuò una grande necropoli appartenente a una città di “antichissima origine”: era stata così scoperta Nora, che Pausania indicava come “la prima città dell’isola”! 177 Si è soliti attribuire alla motivazione solo emozioni positive ma non è così. A volte si può essere anche spiacevolmente motivati, magari perché costretti o impegnati in passaggi sgradevoli, ma necessari per raggiungere ciò verso cui ci si motiva. 178 MOÈ, 2010, pp. 187-190; MOÈ, 2011; MOÈ, 2012. 91 Lo scavo metodico dell’insediamento iniziò solo nel 1952 quando il soprintendente Gennaro Pesce cominciò a riportare in luce gran parte dell’antica città romana. L’obbiettivo finale era rendere visitabile il sito al pubblico. Dal 1990 alcuni Atenei italiani hanno ripreso gli scavi archeologici a Nora, per poter acquisire nuovi e più puntuali dati sulla storia dell’antica città. La missione archeologica dell’Università di Padova Quali sono stati i progetti condotti dall’Università di Padova? L’università di Padova, a partire dalle relazioni lasciate dagli archeologi precedenti, ha indagato dal 1997 la grande piazza romana, il foro, dal 2007 il tempio d’età imperiale vicinissimo alla piazza e, negli ultimi anni, l’area delle necropoli fuori dalla città e il rapporto della città stessa con il mare. LE PROSPEZIONI GEOFISICHE Geofisica e archeologia Come si fa a capire dove iniziare a scavare? La documentazione storico-cartografica è fondamentale per conoscere un sito archeologico. Grazie al suo studio, per esempio, gli archeologi hanno saputo dove si trovava il foro di Nora e in quel punto hanno iniziato lo scavo. Quando però s’intraprende un’indagine archeologica in aree che non sono state studiate in precedenza, è necessario decidere dove stabilire il cantiere e raccogliere tutte le informazioni relative al terreno prima di iniziare a scavare. Per fare questo l’archeologia usa le prospezioni geofisiche. Definizione di geofisica Che cos’è la geofisica? In generale la Geofisica è per definizione la scienza che studia le proprietà fisiche della Terra e le variazioni di queste proprietà nello spazio e nel tempo. Per esempio, si può osservare come una corrente elettrica attraversa il sottosuolo o con che velocità un segnale elettromagnetico o un segnale meccanico viaggiano nel terreno. Ogni materiale, in base alle sue caratteristiche, risponde in modo diverso e questo consente di individuare le “anomalie” che, in archeologia, sono i reperti sepolti. Il lavoro del geofisico quindi non è molto diverso da quello di un medico quando fa una radiografia o una TAC per capire dove si deve intervenire. Analisi effettuate a Nora A Nora che tipo di prospezioni sono state fatte? Gli strumenti che usa il geofisico per poter fare una “fotografia del sottosuolo” in cui vedere le anomalie sono tanti ma non tutti sono utilizzabili in ogni luogo. A Nora, per esempio, la vicinanza del mare e la presenza di rifiuti metallici ha impedito l’uso di diversi metodi. Si è scelto di usare, invece, due strumenti 92 in particolare: il georadar e la tomografia elettrica. Si tratta di due metodi che evidenziano le variazioni delle proprietà elettriche del suolo. Poiché la corrente elettrica non può passare attraverso il vuoto, è stato possibile individuare cavità nel terreno. Gli archeologi, scavando in corrispondenza di questi vuoti, hanno potuto individuare con grande facilità le tombe scavate nella roccia che risalgono al periodo in cui Nora era frequentata dai Cartaginesi. LO SCAVO ARCHEOLOGICO La fase di scavo Quando viene programmata la fase di scavo? Una volta raccolte tutte le informazioni di carattere storico e quelle relative alle anomalie geofisiche del sottosuolo, l’archeologo programma la fase dello scavo. Scavare è un’operazione vecchia come il mondo: da sempre infatti l’uomo ha scavato il terreno per costruire una capanna, per creare una tomba, per gettare le fondamenta di un edificio, per sotterrare oggetti e molto altro ancora. In seguito l'uomo ha cominciato a scavare per cercare nel terreno ciò che qualcuno vi aveva lasciato o sepolto in altro momento. Questo scavo veniva fatto però senza alcun criterio tecnico e mirava soprattutto a ritrovare qualcosa di importante o prezioso. Lo scavo archeologico In cosa consiste lo scavo archeologico? Lo scavo archeologico, invece, è un’operazione complessa e metodica che serve per raccogliere, nel modo più completo possibile, tutte le informazioni che il terreno conserva e portare alla luce strutture e reperti archeologici. La stratigrafia Quali sono i principi e i metodi che segue lo scavo archeologico? Grazie alle osservazioni e agli studi avviati dai geologi e portati avanti dagli archeologi, abbiamo imparato che il terreno sotto i nostri piedi non è una massa di sedimenti indistinti, ma è il prodotto della sovrapposizione di tanti strati, diversi tra loro, che si sono formati nel corso del tempo in vari modi. Gli strati più recenti sono naturalmente quelli posti ad una quota più alta (“stanno sopra”), quelli più antichi si trovano a maggiore profondità (“stanno sotto”). Scavando l’archeologo sfoglia il terreno, strato per strato, dai più recenti ai più antichi: analizza dunque la stratigrafia, seguendo un ordine contrario rispetto quello con il quale si è formata, e ricostruisce la storia dell’area indagata! In base alla sequenza di questi strati, chiamati unità stratigrafiche, deve riuscire a capire che cosa è avvenuto prima e cosa dopo, ricostruendo una sequenza cronologica relativa. Ogni asporto o apporto di terra, fatto per qualsivoglia motivo, lascia delle tracce nel terreno o sulle strutture e l’archeologo, come un detective, riesce a individuarle e interpretarle. 93 LA DOCUMENTAZIONE DI SCAVO La documentazione di scavo Cos’è la documentazione di scavo e a cosa serve? Lo scavo consente quindi di raccogliere molte informazioni ma, allo stesso tempo, porta alla distruzione della stessa fonte di conoscenza: la stratigrafia! Quando uno strato viene scavato, viene logicamente tolto e non è più possibile tornare indietro. Ecco perché bisogna documentare ogni fase del lavoro. Metodi di documentazione Quali sistemi di documentazione si usano? Giorno dopo giorno, quindi, ogni archeologo registra con pazienza tutte le operazioni che compie e tutte interpretazioni che da allo scavo in un diario personale: il diario di scavo. Ogni strato scavato viene poi descritto in apposite schede US, abbreviazione che sta per “unità stratigrafiche”: queste sono una sorta di carta d’identità che raccoglie tutte le informazioni dello strato. Ad ogni unità stratigrafica vengono anche scattate varie foto. Nelle foto dev’essere presente un riferimento metrico e una freccia che indichi il nord. Poi, per identificare il soggetto della foto, viene scritto in una lavagnetta il nome con cui è stato classificato. Infine, per rappresentare le relazioni tra tutti gli strati e le strutture scavate si disegnano piante e sezioni. Precisamente, le piante consentono una visione dall’alto dello scavo; invece le sezioni mostrano uno spaccato, come la fetta di una torta mille-strati. Per fare questi disegni è necessario prendere tante misure con uno strumento particolare: la stazione totale. Cos’è una stazione totale? Questa macchina è dotata di un raggio laser che serve da distanziometro, misura cioè con precisione millimetrica l’altezza e le distanze dei punti che ci interessano. Questi dati vengono in seguito visualizzati con un computer come punti nello spazio. Unendo questi punti secondo un ordine stabilito sul campo, proprio come nei giochi della settimana enigmistica, vengono disegnate piante e sezioni. I MATERIALI I reperti archeologici Cosa sono i reperti archeologici? Scavando l’archeologo trova anche oggetti, interi o più frequentemente in frammenti, in ceramica, vetro, metallo o pietra, che vengono chiamati con un termine abbastanza generico “reperti antichi”. Questi materiali sono un’altra testimonianza della storia dell’uomo, ed entrano a far parte dell’unità stratigrafica perché qualcuno, nel passato, li ha rotti e quindi abbandonati in terra, ad esempio, oppure persi, sotterrati per nasconderli, o molto altro ancora. 94 Lo studio dei materiali Perché è importante studiare i materiali e come si fa a datare un oggetto? Lo studio dei materiali è importante perché consentono di capire quando uno strato si è formato. Sono infatti degli indizi di cronologia assoluta: aiutano, cioè, a stabilire a quale periodo risale lo strato. Ma come si fa a datare un oggetto? C’è un principio alla base di questa informazione: i materiali prodotti in un determinato periodo e luogo hanno un aspetto esteriore, come ad esempio il colore, la forma e la decorazione, riconoscibili e diversi da quelli prodotti in luoghi o in periodi differenti. Partendo da questa affermazione nel corso degli anni diversi studiosi si sono dedicati allo studio proprio di questi elementi di distinzione, classificando i materiali in base alle loro caratteristiche fisiche, e costruendo così complesse seriazioni morfologiche. Cosa sono le seriazioni morfologiche? In altre parole… Questi studiosi hanno diviso gli oggetti antichi per materiale (raggruppando la ceramica con ceramica, metallo con metallo, ecc.), poi sulla base dell’aspetto esteriore, ottenendo così delle classi, quali, ad esempio, la ceramica a vernice nera (caratterizzata da un colore della superficie nero), e la terra sigillata, (caratterizzata invece da superfici di colore corallo). All’interno dei gruppi così ottenuti hanno poi individuato le forme basandosi sui modelli e le loro funzioni (in questo caso parleremo di brocche per versare liquidi, bicchieri per bere e tanti altri). Infine, con le ultime caratteristiche fisiche differenti, hanno individuato i tipi. Per ciascuno dei tipi hanno creato una sorta di “carta di identità”, nella quale è possibile trovare informazioni relative al nome dell’oggetto, quando e dove è stato prodotto. Confrontando con queste carte d’identità il frammento proveniente dall’unità stratigrafica appena scavata è possibile risalire all’origine del pezzo, alla sua datazione e, quindi, a quando si è formata lo strato stesso. Il metodo Con quale procedimento lavora l’esperto di materiali? Ovviamente, lo studio dei materiali non si fa solo in biblioteca, ma inizia già sullo scavo, con la pulitura, la siglatura e l’inserimento di ciascun oggetto in un database, e prosegue poi in laboratorio, dove si effettuano i disegni e le fotografie, indispensabili alla successiva ricerca in biblioteca, condotta proprio utilizzando le seriazioni morfologiche. LA PROTEZIONE E CONSERVAZIONE DI UN SITO La tutela del patrimonio archeologico Cosa significa tutelare il patrimonio archeologico? 95 Per trasmettere i risultati delle ricerche ad un pubblico futuro è necessario salvaguardare le strutture che studiamo: è questo il significato della tutela del patrimonio archeologico. Ogni sito ha le sue problematiche ed è bene evidenziarne le situazioni a rischio e facilitarne la conservazione. Il progetto Noramar Che problematiche sono state individuate nel sito di Nora? Rientra anche in quest’ottica il progetto “Nora e il mare”. Oggi, come in passato, Nora sorgeva sul mare e con il mare si relazionava. La presenza di strutture archeologiche oggi sommerse è stato il primo indizio utile per capire che, nel corso dei secoli, qualcosa nel rapporto tra la città e la costa era cambiato. Dal confronto con altre discipline scientifiche e dalla collaborazione con l’ENEA si è appreso che il mare è cresciuto negli ultimi due mila anni di circa 1 metro e 40 centimetri. Questo innalzamento, e le forti mareggiate, mettono in pericolo i resti archeologici lungo la costa. Per esempio: in soli tre anni parte della necropoli punica, che si trovava a ridosso del mare, è crollata! È dunque necessario intervenire e documentare il progressivo avanzamento del mare e le sue conseguenze sul sito archeologico. Ma come fare? Metodologia e risultati Come si è sviluppato il progetto Noramar? Per prima cosa si è indagato l’andamento della superficie del terreno, emerso e sommerso. Le strutture sommerse sono state rilevate con la stazione totale. Il fondale marino è stato mappato con il sonar, uno strumento che emette frequenze acustiche. E infine questi dati sono stati confrontati con le fotografie aeree storiche della zona. Risultati Tutto questo ha confermato, con rigore scientifico, che il territorio emerso in passato era più esteso, e di conseguenza lo era anche la città; che l’ampia fascia costiera poteva essere usata per sfruttare le risorse marine, costruire infrastrutture come il porto e in alcuni punti opere di contenimento e protezione, opere che anche oggi si stanno costruendo per difendere questo sito archeologico dall’erosione del mare. LA RICOSTRUZIONE 3D Le nuove tecnologie Cos’è la ricostruzione tridimensionale e quali applicazioni ha in ambito archeologico? La ricostruzione tridimensionale, in archeologia, è uno strumento molto utile con il quale, sostanzialmente, si cerca di “ricostruire” l’aspetto originario dei manufatti antichi o delle strutture che vengono portate alla luce durante lo scavo. È quindi uno strumento utile per comunicare visivamente i risultati della ricerca archeologica. 96 La ricostruzione 3D Che finalità ha la ricostruzione 3d? In questo senso la ricostruzione tridimensionale ha due finalità principali. 1. In primo luogo possiede un grande valore scientifico: ad esempio, per l'archeologo ricostruire virtualmente un edificio antico è un'ottima occasione per comprendere se le ipotesi su cui la ricostruzione stessa si basa sono corrette o meno. 2. In secondo luogo svolge un’efficace funzione comunicativa, migliorando la comprensione di una determinata area archeologica che, ad esempio, potrà essere maggiormente apprezzata da parte dei visitatori. Quale procedimento viene seguito? Normalmente, quando si cerca di elaborare un'ipotesi ricostruttiva, si seguono pochi semplici passaggi: 1. Prima di tutto si parte da una pianta dello scavo, 2. Poi si confrontano i dati emersi dallo scavo con le fonti antiche e si cercano dei confronti pertinenti all’edificio che si vuole ricostruire, 3. infine, attraverso software specifici per la modellazione e il disegno tridimensionale, si cerca di proporre l'ipotesi più verosimile. Applicazioni Quali applicazioni sono state fatte nel sito di Nora? Seguendo questo procedimento a Nora sono state eseguite proposte di ricostruzione virtuale per alcuni edifici, uno tra questi è per esempio il Tempio Romano. Servendosi di questa tecnologia il turista che si approccia alle rovine può, attraverso l’uso di determinati software e visualizzatori, vivere una coinvolgente esperienza visiva e ammirare la realtà storica ricostruita, su base scientifica, davanti a suoi occhi. In questo modo viene rispettato anche il fine ultimo della ricerca archeologica, ovvero la valorizzazione e la divulgazione dei dati acquisiti. LA VALORIZZAZIONE La valorizzazione archeologica Che cos’è la valorizzazione archeologica? Ogni intervento archeologico completato va valorizzato. Ma cosa significa esattamente? Valorizzare significa dare un valore, un significato, un’importanza e per farlo bisogna riuscire a far capire il passato e le realtà antiche. Molto spesso accade, andando a visitare un sito archeologico, di leggere la descrizione di un monumento ma di vedere nella realtà poche pietre consumate dal tempo. Un intervento archeologico concluso mostra, 97 infatti, tracce del passaggio dell’uomo appartenenti ad epoche diverse, buche nel terreno e spesso mucchi di terra. Tutto questo rende lo scavo di difficile comprensione, anche all’archeologo più esperto. Ecco perché l’archeologo deve trovare il modo migliore per presentare i risultati delle ricerche al pubblico. Le possibilità nel campo della valorizzazione sono tantissime: i resti si possono restaurare, ricostruire con cautela, o risistemare per renderli più leggibili. Foro e Tempio romano di Nora Quale valorizzazione è stata applicata nel sito di Nora? Ad esempio nel sito archeologico di Nora, partendo dai dati di scavo, abbiamo cercato di ricostruire la città antica nell’immaginario del turista. All’interno del sito, e precisamente nel Foro e nel Tempio Romano, si è scelto di agire in modo da avere il minor impatto possibile sulle strutture antiche. Sono stati così utilizzati ghiaini di diversi colori per far percepire l’articolazione degli ambienti all'interno del monumento. Divulgazione risultati Come agisce la valorizzazione sulla divulgazione? Valorizzare significa anche divulgare le conoscenze al grande pubblico e alla società. Il modo più efficace per farlo sono le pubblicazioni, accessibili e comprensibili da tutti. Un altro modo altrettanto utile è organizzare conferenze e coinvolgere le comunità nelle attività archeologiche e di recupero dei beni culturali nell’ottica di quell’archeologia che è stata definita “pubblica”. 5.1.6 Risorse economiche, strumentazione e troupe Una volta definito il soggetto e la struttura del documentario è possibile prevedere i costi e i tempi di produzione, la strumentazione utile e il numero di persone necessarie per la realizzazione del progetto. La pre-produzione, come si è visto, è un processo molto dinamico, definisce gran parte dell’estetica e della qualità del documentario. Una buona pianificazione influisce sulla buona riuscita sia della produzione sia della post-produzione. La pianificazione del lavoro, però, è spesso influenzata dall’ammontare del budget e i problemi legati ad essa possono avere ripercussioni in ambito economico. Inoltre, sia il piano di lavoro sia il budget dipendono strettamente dal tipo di copione realizzare179. Il budget non ha bisogno di essere dettagliato, dovrebbe per lo più proporre una stima 179 98 LONG, SCHENK, 2002, pp. 9. dei costi per le varie fasi del progetto. La pre-produzione, la produzione e la post-produzione costano tanto quando le spese di distribuzione. Il budget è di solito preparato dal documentarista, che ha l’esperienza di mettere insieme i dati. Il ruolo dell’esperto, in questo caso dell’archeologo, sarà quello di guidare il documentarista provvedendo a fornire informazioni sui costi relativi alle ricerche, ai viaggi, alle spese in laboratorio e sul campo. Fortunatamente gli archeologi scrivono continuamente proposte di progetti per supportare il loro lavoro e perciò hanno familiarità con la stesura di un preventivo importante180. Il documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” è un progetto di tesi magistrale e, pertanto, si inserisce in ambito universitario. Questa felice collocazione non necessitava della stesura di un budget poiché non prevedeva spese di produzione. La collaborazione con gli studiosi e i tecnici di cinematografia del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Padova ha permesso, infatti, di usufruire a costo zero della strumentazione professionale presente in laboratorio. Una fortuna in cui non tutti i progetti di ricerca archeologica possono sperare: molto spesso i budget a disposizione solo limitati e sufficienti esclusivamente per le attività strettamente legate all’indagine archeologica. Tuttavia, ribadisco nuovamente, oggi è davvero economico ottenere e utilizzare un sistema di ripresa di qualità cinematografica in quanto il panorama commerciale offre strumentazione eccellente a costi contenuti. In realtà oggi il problema appare quasi l’inverso: c’è talmente tanta scelta che decidere la strumentazione da usare è davvero complesso. La rivoluzione digitale, inoltre, consente a un qualsiasi possessore di smartphone o tablet di girare video in buona definizione. L’attrezzatura richiesta da un documentario, invero, è molto ridotta rispetto a quella necessaria a un film tradizionale. Quindi, se nel passato l’attrezzatura era uno dei principali problemi da sormontare, oggi è diventato l’aspetto più semplice di una produzione181. Il Laboratorio audio-video e fotografico del Dipartimento dei Beni Culturali è in possesso delle seguenti postazioni e attrezzature: • corredi di video-produzione per i Laboratori didattici; • stazioni di post-produzione digitale audio-video; • consolle di produzione dedicato ai riversamenti e all’archiviazione del Progetto di digitalizzazione della raccolta filmica; • corredi camcorder video professionali con parco microfoni e altre attrezzature di supporto; 180 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 68-69. 181 LINDENMUTH, 2011. 99 • corredo per l’illuminazione artificiale delle riprese; • workstation dedicate all’acquisizione e all’elaborazione fotografica; • corredi digitali per la ripresa fotografica; • sistema di sintonizzazione, acquisizione e registrazione via etere. Precisamente, per effettuare le riprese del documentario, ci siamo serviti della seguente strumentazione: 1. Una videocamera Canon XA10, con obiettivo incorporato. 2. Un treppiede a testa fluida: la testa fluida sostiene con solidità il corpo macchina e consente di effettuare delle riprese stabili, il pubblico percepisce immediatamente come amatoriale un documentario realizzato con immagini che tremolano irrazionalmente a causa di un operatore non esperto. 3. Le riprese delle interviste sono state effettuate presso lo studio di registrazione del Dipartimento dei Beni Culturali di via Beldomandi a Padova. Lo studio, insonorizzato e illuminato correttamente, come vedremo, ha permesso di eseguire delle riprese di ottima qualità e di ridurre al minimo il lavoro di equalizzazione del suono e delle immagini nella fase di post-produzione (fig. 21). 4. L’audio è stato registrato con un microfono direzionale da studio e di alta qualità, collocato subito fuori dalla presa video in posizione sopraelevata su uno stativo. Spesso registrare il sonoro è assai più difficile che riprendere il visivo e il microfono della videocamera è adatto per raccogliere il suono ambientale, ma non per registrare l’audio di un’intervista. In questi casi è meglio appunto usare un microfono esterno da collegare alla videocamera. 5. Per verificare direttamente la qualità dal sonoro è stato utile servirsi anche di un paio di cuffie HI-FI. Ciò che si ascolta nelle cuffie è ciò che viene registrato: in questo modo è possibile individuare subito eventuali rumori o disturbi e correggere il problema. Anche se lo studio di registrazione è insonorizzato, infatti, ci può essere sempre qualche disturbo proveniente dalle stanze adiacenti o dall’ambiente cittadino. 6. Quando si effettuano delle riprese, inoltre, è importante fare affidamento su una sorgente di luce sicura: un’immagine scura risulterà sgranata. Lo studio di registrazione è dotato anche di un completo corredo di illuminazione del quale abbiamo usufruito di pannelli diffusori a LED. Per effettuare le riprese presso il sito archeologico di Nora, invece, è stata usata la strumentazione in possesso di chi scrive, ottenendo comunque nell’insieme, del buon materiale per il montaggio: 1. Fotocamera modello Nikon D5200 2. Obiettivi AF-S DX NIKKOR 18-105mm f/3.5-5.6G ED VR e AF-S VR Zoom-Nikkor 70300 f/4.5-5.6G IF-ED 100 3. Treppiede Manfrotto 728B digi, dotato di tre movimenti e ideale anche per riprese a 360°. Infine, ultimo aspetto da tenere in considerazione è la composizione della troupe, ovvero la compagine dei collaboratori. Anche questo è compito del documentarista, in accordo con il produttore e tenendo conto del budget di produzione. La troupe di un documentario differisce da progetto a progetto, a seconda dei soldi a disposizione ma anche in relazione alla natura della singola storia e alle sue necessità182 . Una delle cose più difficili è spesso quella di formare un gruppo di lavoro perfettamente omogeneo, in cui ogni persona abbia dei compiti specifici e tragga la massima soddisfazione dalle proprie attività. Una troupe ideale è composta di un regista, un autore, un direttore della fotografia, un direttore della produzione, un fonico, un microfonista, un operatore alla camera con il suo assistente, un elettricista, un interprete e un autista o una guida (queste ultime tre figure sono molto utili in caso ci si trovi in un paese straniero)183. Quando si ha a disposizione un budget medio-alto e si ha a che fare con lavorazioni complesse tutte queste figure possono essere necessarie, ma in situazioni particolari, per una buona riuscita del documentario, è preferibile non inserire ulteriori mediazioni e ridurre al minimo le persone. Figura 21 - studio di registrazione DAMS Università di Padova. 182 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 89. 183 FANTINI, 2005, pp. 105-108. 101 La troupe per la realizzazione del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” è stato composta dalle seguenti persone: 1. chi scrive nel ruolo di regista: generalmente questa figura ha il compito di plasmare il documentario dando forma ai suoi contenuti, caratterizzando dal punto di vista visivo ed emotivo il prodotto finale; 2. il professore Mirco Melanco nel ruolo di produttore: compito principale del produttore è gestire ed organizzare l’intero progetto in ogni suo aspetto; 3. il professore Jacopo Bonetto e l’autrice del presente lavoro nel ruolo di autori: costui è la persona che si occupa in maniera meticolosa dei contenuti. Il lavoro dell’autore inizia pertanto molto prima dell’inizio delle riprese, insieme al regista, progetta e immagina il prodotto finito e stabilisce il taglio che le domande dovranno avere per ottenere dall’intervistato risposte che possano facilmente raccordarsi con la storia; 4. i dottori Antonio Zanonato e Alberto Fanin, rispettivamente responsabile del laboratorio e assistente tecnico, si sono occupati, invece, di tutti gli aspetti tecnici, dalla gestione delle luci alla gestione del suono, dalle riprese al montaggio, e così via. L’assegnazione di questi ruoli non va intesa in maniera rigida, è stato infatti il costante confronto e interazione tra le parti a garantire la buona riuscita del progetto. Per esempio, l’esperienza del professor Melanco e i consigli professionali dei dottori Zanonato e Fanin, condivisi con chi scrive, hanno permesso la realizzazione di un prodotto video di ottima qualità. Invece, il continuo scambio di idee con il professor Bonetto ha consentito la stesura di un saldo contenuto scientifico che, controllato dalla professoressa Pazzaglia ha rispettato le condizioni di comprensibilità descritte in precedenza. 5.2 Produzione 5.2.1 L’organizzazione del materiale raccolto L’organizzazione di un documentario richiede un impegno considerevole di tempo, e diventa spesso un’ancora di salvezza per il suo autore o la troupe impostare il lavoro in modo preciso e professionale, fin dalla gestione del materiale di repertorio e della raccolta delle informazioni. È utile organizzare 102 in cartelle dai nomi chiari e precisi i file di testo, il materiale fotografico, gli eventuali materiali d’archivio e tutti gli appunti raccolti nel corso delle ricerche184. Avere molto materiale a disposizione è preferibile: aumenta la possibilità di scelta in fase di montaggio e garantisce un costante accompagnamento visivo a quanto viene detto dagli intervistati.185 Il materiale, se ordinato, è più facile da trovare in fase di montaggio. Seguendo questa metodica, pertanto, si è proceduto ad organizzare il materiale raccolto nel corso delle ricerche in cartelle in base alle tematiche in esso affrontate. In questo modo è stato possibile avere un’idea della quantità della documentazione utilizzabile ed individuare eventuali carenze da colmare successivamente con delle riprese supplementari. Documentazione fotografica e video su Nora Foto storiche del promontorio di Pula, Soprintendenza alle antichità della Sardegna, Cagliari. FOTO D’EPOCA Foto di Gennaro Pesce. Foto scavi storici del foro, tempio romano e della necropoli fenicia e punica. Filmato dall’Archivio dell’Istituto Luce, Roma, Città sommersa, regia di Giovanni D’Eramo, 1950. Itinerario quiz. Viaggio a Premi attraverso l’Italia: Sardegna, regia di Pietro Turchetti, testi Nissim Renzo, editore Rai - radiotelevisione italiana, anno di trasmissione 1962. VIDEO D’EPOCA Documentario su Nora con gli interventi di Piero Bartoloni e Carlo Tronchetti, Nora, la più antica città della Sardegna. Documentario Pula, sulle tracce dell’antica Nora, produzione Wilder srl, autore Spadetta Giulio, regia Jones Peter, editore Regione autonoma della Sardegna, 2009. FOTO CONTEMPORANEE NORA 184 FANTINI, 2005, pp. 25 185 LINDENMUTH, 2011. Ortofoto degli anni 1960, 2002 e 2006. Foto aeree della penisola e delle strutture del sito (foro, tempio romano, teatro, terme a mare, casa dell’atrio tetrastilo), Gianni Alvito. 103 Documentazione fotografica di scavo, missione Nora Università degli Studi di Padova. Documentazione fotografica, Anna Ferrarese. Video subacqueo Molo Schmiedt. Archivio filmati immersioni con Go-pro. Documentazione fotografica del progetto Noramar, missione Nora Università NORAMAR degli Studi di Padova: foto barriere di protezione in costruzione, foto mareggiate, foto archeologi al lavoro, foto strutture sommerse. Video uso software Globalmapper, variazione livello marino (Filippo Carraro). Foto materiali in ceramica, vetro, metallo, pietra. MATERIALI Esempio seriazione classe ceramica da MOREL 1981. Ricostruzione 2D foro, tempio romano e terme. Camminata attraverso Nora 3D. Ricostruzione 3D di Nora, transizione dal periodo fenicio a quello romano e RICOSTRUZIONI 3D attuale. Video uso software Vectorworks per rielaborazione grafica 3D. Video uso software Mashlab, Simone Berto. Video rilievo tridimensionale necropoli, Simone Berto. Documentazione fotografica di scavo, missione Nora Università degli Studi di Padova. PROSPEZIONI GEOFISICHE Foto area di lavoro e relativi disturbi ambientali: il mare e i rifiuti metallici. Immagini dei risultati (geoelettrica e georadar) ed elaborazione pianta di scavo. Video uso software Vectorworks per documentazione di scavo (piante e DOCUMENTAZIONE sezioni). DI SCAVO Esempio piante e sezioni. Esempio foto di documentazione di scavo. SCAVO Documentazione fotografica scavo, missione Nora Università degli Studi di Padova. 104 Documentazione fotografica, Anna Ferrarese. Fotografie foro e tempio romano, Gianni Alvito. Pubblicazioni scientifiche: Collana Quaderni Norensi, codice identificativo della collana ISSN 2280-983X; J. BONETTO, A. R. GHIOTTO, M. NOVELLO, VALORIZZAZIONE Nora. Il foro romano, Padova 2009; J. BONETTO (a cura di), Nora e il mare. Le ricerche di Michael Cassien (1978-1984), Padova 2014; J. BONETTO, G. FALEZZA (a cura di), Vent’anni di scavi a Nora, 1990-2010, Padova 2011. Pubblicazioni divulgative: C. TRONCHETTI, Sardegna archeologica, guide e itinerari, Nora, Sassari 2001. 5.2.2 L’allestimento della scenografia Per scenografia, in teatro, si intende lo sfondo (in genere, artificiale, appositamente progettato) davanti al quale si svolge l'azione drammatica. Nel cinema tutto si complica per il fatto che a ogni inquadratura corrisponde inevitabilmente un aspetto diverso della scenografia-madre (così si può denominare l'ambiente scenico nel suo complesso) e dunque si potrebbe a ragione sostenere che a ogni inquadratura corrisponde una scenografia diversa. In questo modo la scenografia, una soltanto sul set, può diventare, nel film, molte scenografie, non solo in rapporto al taglio dell'inquadratura, ma anche ai cambi d'illuminazione, alle variazioni della profondità di campo, ai tipi di obiettivo, nonché ad altri elementi. L'unità della scenografia, nel cinema, si trasmette tale e quale dal set al film soltanto ove si privilegi il ricorso all'inquadratura fissa186. Parliamo ora del piazzato 187 scelto per le interviste del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo”, in cui, per motivi d’unità d’immagine, si è preferito usare proprio un’inquadratura fissa. 186 CAPPABIANCA, Enciclopedia del cinema 2004, voce scenografia: http://www.treccani.it/enciclopedia/scenografia_(Enciclopedia-del-Cinema)/ 187 Con il termine “piazzato” si intende un set (spesso di modeste dimensioni) creato per un’esigenza specifica, che nei documentari è per lo più l’intervista. Il piazzato prevende una camera posizionata su cavalletto, puntata verso l’intervistato, e un certo numero di luci puntate sul soggetto secondo degli schemi quasi standard (FANTINI, 2005, pp.119). 105 5.2.2.1 Composizione dell’inquadratura Solitamente per la composizione dell’inquadratura si intende disporre gli oggetti all’interno del campo visivo della macchina da presa. La composizione dipende dalla posizione delle persone rispetto agli oggetti e dalla posizione della focale della camera rispetto a tutti. Nel complesso si tratta di un misto di gusto estetico e di tecnica 188 . Nel nostro caso abbiamo scelto di riprendere gli intervistati su uno sfondo nero, neutro, in modo da non creare distrazioni. Centro dell’attenzione era quindi esclusivamente l’esperto. Figura 22 - Composizione d'immagine adottata. Figura 23 – La sezione aurea. Uno degli elementi importati per determinare la composizione dell’inquadratura è il formato dell’immagine, che nel nostro caso è stato di 16:9. Gli intervistati non sono stati ripresi al centro dell’inquadratura ma seguendo le regole di composizione della sezione aurea che spostano il soggetto dell’immagine appena fuori dal centro (fig. 22), nei punti di intersezione della griglia visibile nella figura 23, o almeno con le linee di questa. Questo consente di ottenere un’inquadratura molto più equilibrata e naturale. 5.2.2.2 La fotografia La bellezza di un documentario passa, innanzi tutto, attraverso la fotografia. Avendo una giusta conoscenza dei mezzi tecnici e delle loro possibilità si possono ottenere diversi effetti nella creazione di un’atmosfera, soprattutto grazie al posizionamento delle luci (fig. 24). 188 FANTINI, 2005, pp.116. 106 Figura 24 – Alcuni esempi di tecniche d’illuminazione: soggetto con luce frontale, laterale, controluce e silhouette (FANTINI, 2005). Lo schema d’illuminazione di base, adatto ai documentari o alle interviste, richiede due o tre luci complete di treppiede, paraluce regolabili e diffusori. Serviranno come luce chiave (di solito posta frontalmente e più intensa, magari riflessa negli occhi del soggetto così che sembri più vivace), come luce di riempimento (posta frontalmente ma opposta alla luce chiave così da eliminare ogni ombra, di solito ha un’intensità dimezzata) e come retro illuminazione189. Quest’ultima si è rivelata molto importante per separare il soggetto dal fondo nero e illuminare la silhouette delle persone con i capelli più scuri (fig. 25; 26). Appena più problematico è stato il posizionamento delle luci per i soggetti con gli occhiali. Il sistema d’illuminazione è stato quindi per cui impostato in modo da di far apparire il meno possibile il riflesso sulle lenti da vista. Figura 25 – Schema esemplificativo del sistema Figura 26 – Fotografia scattata all’inizio delle riprese tradizionale d’illuminazione (LINDENMUTH, 2011). con il Dott. Filippo Carraro, è visibile la disposizione delle luci e la scelta dell’illuminazione. 189 LINDENMUTH, 2011. 107 5.2.2.3 Posizionare la macchina da presa Successivamente, è stato il momento di posizionare la macchina da presa. Facendo riferimento al livello registico, le interviste possono essere registate con una o più videocamere, scelta che va fatta sulla base del risultato che si vuole ottenere e, naturamente, dei mezzi a disposizione. Nel nostro caso ci siamo serviti di una sola videocamera. Questa è stata collocata in posizione frontale all’intervistato ad una distanza di quasi 2 metri. Regolando il punto di ripresa leggermente più basso del suo sguardo è stato possibile escludere la ripresa dall’alto ma, allo stesso tempo, evitare l’effetto “doppio mento”. Era, inoltre, preferibile che l’intrevistato non guardasse direttamente in macchina, Figura 27 – Diagramma che indica la pertanto l’intrevistatore si è seduto a lato della video camera: posizione ideale del treppiede per i questo modo gli esperti sono stati ripresi leggermente girati un’intervista (LINDENMUTH, 2011). di ¾ mentre interloquivano con l’intervistatore (fig. 27). 5.2.3 Le riprese delle interviste Una volta determinata la location delle interviste, predisposto la scenografia e settato la video camera, si può procede con le riprese programmate. Dialoghi e interviste sono elementi cardine di un documentario. Dal punto di vista del linguaggio i dialoghi si accordano a una modalità più cinematografica del racconto, ne valorizzano la fluidità e la partecipazione dello spettatore; invece l’intervista è uno strumento più classico, che evidenza la presenza dell’intervistatore (nell’inquadratura o in voce, quest’ultima spesso esclusa durante la fase di montaggio): tale presenza genera un atteggiamento diverso nel pubblico, che si rende conto della funzione di “mediatore” tra se e l’intervistato svolta dall’autore e la cosa lo distanzia dalla narrazione. Quindi nell’intervista la prima opzione è: 1. Lasciare l’intervistatore fuori campo e fare in modo che le sue domande siamo escludibili: in questo modo la struttura narrativa non viene interrotta. È necessario però che l’intervistato si raccordi alla domanda posta in modo che la risposta, in fase di montaggio, non perda senso. 108 2. L’intervistatore è in campo (visivo e/o sonoro), conserva in montaggio le sue domande e segna, in qualche modo, la sua presenza190. Per il documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” abbiamo preferito escludere l’intervistatore dallo schermo. Avendo consegnato in anticipo le domande agli esperti la figura dell’intervistatore non era indispensabile se non per ripetere le domande e guidare l’intervistato nel discorso. Generalmente, un grave errore da evitare in questa fase è parlare sopra all’intervistato, interromperlo o, peggio ancora, rispondere alle domande aggiungendo troppo a quanto serve dire. L’autore deve, pertanto, sparire piuttosto che apparire (fig.28; 29). Figura 28; 29 – Fotografie scattate dal punto di vista dell’intervistatore: a sinistra il Prof. Andrea Raffaele Ghiotto e destra il Dott. Arturo Zara. Tuttavia, se nel corso delle riprese l’intervistato devia il discorso verso una direzione inaspettata, senza però esulare troppo dal soggetto, è accettabile procedere in quel verso per concedergli maggiore libertà d’espressione e osservare l’argomento da un altro punto di vista. Infine, conclusa la lista delle domande stabilite è possibile chiedere all’intervistato se c’è qualcos’altro che vorrebbe aggiungere a quanto già detto: sono in questi casi che vengono pronunciate le risposte più affascinanti, perfette per essere inserite nella conclusione del documentario. 190 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 115-118. 109 All’intervistatore spetta non solo il coordinamento dell’intervista, ma anche il compito di far sentire a proprio agio l’intervistato: quest’ultimo infatti può mostrare nervosismo, specie se non si è mai trovato di fronte ad una macchina da presa. In questo contesto la prima domanda è piuttosto importante: dev’essere una una domanda semplice, mirata a guadagnare la fiducia dell’intervistato e rompere il primo imbarazzo. In alcuni casi conviene anche ripetere le prime domande alla fine dell’intervista, così da ottenere risposte più rilassate. In genere, comunque, dopo un quarto d’ora, anche i soggetti più tesi tendono a dimenticarsi della videocamera e a concentrarsi sull’oggetto dell’intervista. È essenziale anche che l’intervistatore mantenga il contatto visivo con l’intervistato e dimostri un genuino interesse in ciò che quest’ultimo sta dicendo. Ciò stimolerà risposte efficaci e frasi ad effetto utilizzabili nella seguente fase di montaggio191. 5.2.4 La registrazione della voce narrante Cosa ci spinge a fare un documentario? Forse la voglia di presentare delle informazioni e delle immagini per far conoscere vicende, luoghi e scoperte. Qualunque sia il motivo, il compito di un bravo documentarista non è solo quello di riportare fedelmente le cose che vede ed essere assolutamente certo dei dati che cita; ma è anche quello di raccontare delle storie in modo emozionante e per certi versi “poetico”. Il pubblico ha sete di sogni oltre che di informazioni192. La voce narrante, in questo, è uno strumento potente perché comunica direttamente con il pubblico e aggiunge valore alle semplici immagini. Ecco perché la voce narrante è sinonimo stesso di un documentario. Viene particolarmente usata nei documentari con copione in cui occorre comunicare con il pubblico molti fatti e informazioni, può inoltre imprimere emotività al documentario e rendere più interessanti i dati esposti. In generale, comunque, la voce fuori campo deve comunicare la storia senza intralciarla: per questo motivo essa deve adattarsi al soggetto di cui andrà a parlare incarnando i contenuti e i toni del documentario193. “Nora il racconto dell’archeologo” fonda la sua narrazione sull’intreccio delle interviste, queste ne costituiscono l’ossatura e la voce narrante serve per fornire le informazioni necessarie alla 191 LINDENDMUTH, 2011; PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 101-106. 192 FANTINI, 2005, pp.121-123. 193 LINDENDMUTH, 2011, PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 115-116. 110 comprensione del documentario, più tutti gli elementi indispensabili per unire tra loro i diversi argomenti affrontati dalle sue immagini. Per rispettare l’atmosfera del documentario è stato chiesto ad Antonio Andreetta, di interpretare la voce fuori campo. Docente a contratto dell’Università di Padova e ancor prima regista, produttore e attore teatrale, Antonio Andreetta ha messo a disposizione la sua esperienza professionale, non solo per leggere usando la giusta dizione e timbro di voce il testo proposto, ma anche per consigliare alcune modifiche che hanno reso più chiaro e fluido il copione. Come per le interviste, la registrazione della voce narrante è avvenuta in studio mediante un microfono direzionale e di alta qualità posizionato appena sopra l’attore (fig.30). Figura 30 – Fotografia scattata durante le riprese della voce narrante con Antonio Andreetta. 5.2.5. Le riprese esterne Una volta concluse le interviste e registrata la voce narrante, è il momento di effettuare le riprese in esterno. Si tratta, invero, del metraggio supplementare che andrà a colmare eventuali carenze nel repertorio alternandosi, in fase di post-produzione, alla ripresa principale. Effettuare delle riprese illustrative è uno dei perni nella realizzazione di un documentario. Inoltre la scelta delle tecniche di ripresa, dell’inquadratura e dell’angolo visuale contribuisce a determinarne anche lo stile. Per rispettare il soggetto e ottenere del girato utile e attinente, è buona abitudine progettare le riprese da fare: stilare una lista delle inquadrature insomma, in cui individuare cosa manca, cosa andrebbe integrato, cosa migliorato e così via. In questi casi lavorare con un copione è utile perché consente di pianificare con largo anticipo quali inquadrature realizzare; viceversa, quando non si dispone di un copione, si avrà un’idea precisa del materiale da raccogliere solo dopo aver concluso le riprese del 111 parlato. Una volta che si ha chiara l’idea di come si svilupperà il documentario si può provare a visualizzarla nella propria mente, annotando tutte le idee o abbozzando visualmente le scene che si intendono girare (fig.31; 32)194. Figura 31; 32 – Esempi di bozzetti realizzati. In genere i documentari hanno un rapporto girato/usato pari a 30:1, il che significa che per un’ora di documentario occorrerà filmare almeno 30 ore di girato. Due terzi di questo materiale costituiranno il repertorio. Nel nostro caso, essendo la durata complessiva del documentario di 30 minuti, occorreranno complessivamente circa 15 ore di girato dalle quali si ricaveranno 10 ore di repertorio. Per effettuare delle riprese di buona qualità, infine, è bene prendersi tutto il tempo che occorre. La cosa peggiore che può capitare è quella di filmare materiale scadente. Conviene pertanto avere sempre più materiale a disposizione di quanto sia necessario195. Il materiale raccolto per il documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” era già molto, pertanto è stato semplicemente sufficiente integrarlo. In particolare, in collaborazione con il laboratorio audiovideo e fotografico del Dipartimento dei Beni Culturali, sono state effettuate delle riprese per illustrare lo studio dei materiali, le prospezioni geofisiche e le modalità con cui si svolge la documentazione archeologica. Con i mezzi di chi scrive, invece, sono state effettuate le riprese presso il sito archeologico di Nora mirate, soprattutto, a coprire la voce narrante (fig. 33-36). Per ogni scena sono state effettuate più riprese da più angolazioni, ad esempio una grandangolare, una a mezza distanza e una ravvicinata, così da avere più scelta in fase di montaggio. Vista la varietà 194 Trattandosi di un documentario, e non di un film di finzione, comunque, l’importante è essere flessibili per non alterare la realtà. 195 LINDENDMUTH, 2011. 112 dei soggetti, poi, è stato possibile effettuare sia inquadrature in movimento sia fisse. Infine, in tutti i contesti si è preferito usare la luce naturale. Trattandosi di materiale di riempimento non è invece stato necessario preoccuparsi della registrazione audio. Figura 33; 34; 35; 36 – Alcune fotografie scattate durante le riprese al laboratorio di archeologia di Ponte di Brenta, all’anfiteatro romano di Padova e nel sito archeologico di Nora. Ogni inquadratura che verrà utilizzata, e l’ordine con cui si deciderà di montarla, dovrà trasmettere il senso del documentario. A volte, pur di ottenere del materiale indispensabile, occorre effettuare delle simulazioni, ad esempio mettendo in scena alcuni avvenimenti non realmente accaduti. L’ “imbroglio” può essere anche, semplicemente, una persona che lavora al computer per avere un filmato da mostrare mentre l’intervistato parla della documentazione di scavo o della catalogazione dei reperti. Anche se la persona inquadrata sta solo fingendo di lavorare la scena risulterà comunque veritiera. Questo stratagemma è stato utilizzato sia per le riprese presso il laboratorio di Archeologia di Ponte di Brenta, 113 sia per le riprese riguardanti le prospezioni geofisiche, quest’ultime effettuate presso l’anfiteatro romano di Padova. Per motivi d’uniformità d’immagine si è prestato comunque attenzione a non comprendere elementi che denunciassero l’ambientazione diversa da quella del sito archeologico di Nora. 5.3 Post-produzione Anche se viene per consuetudine associata puntualmente al montaggio, la post-produzione di un documentario consiste di numerosi fasi che è fondamentale non trascurare196: • visione del girato; • trascrizione delle interviste; • prima fase del montaggio (rough cut); • abbozzo di narrazione; • aggiunta proposte musicali; • modifiche alla prima fase di montaggio e generazione versione più avanzata (final cut); • visione del final cut per approvazione o modifiche; • aggiunta versione definitiva narrazione; • aggiunta musiche definitive; • generazione versione video definitiva (fine cut); • post-produzione audio. 5.3.1 La trascrizione delle interviste La trascrizione testuale delle interviste può sembrare, a primo avviso, un enorme lavoro e una perdita di tempo. Tuttavia, il tempo investito in questa fase consentirà di velocizzare il successivo montaggio. Vedere scritto il discorso pronunciato dagli esperti, infatti, consentirà di individuare subito in quali punti inserire le immagini di repertorio e le riprese in esterno senza necessariamente ascoltare in continuazione l’intervista per individuare, di volta in volta, il punto di nostro interesse. 196 FANTINI, 2005, pp.123. 114 La trascrizione delle interviste LE RICERCHE PRELIMINARI Ogni intervento archeologico ha inizio con l’individuazione di un sito di un monumento o di altre tracce del passato. Vi sono aree archeologiche che sono note da sempre; altre che sono state individuate nel corso del tempo; altre ancora che non sono state ancora individuate Molti dei siti attualmente conosciuti sono stati rinvenuti fortuitamente, altri invece vengono individuati con metodologie avanzate dagli archeologi. Per l’individuazione dei siti gli archeologi si avvalgono delle fonti antiche, scritte oppure anche delle fonti cartografiche, si avvalgono di ricognizioni territoriali, dello studio d’immagini aeree oppure da satellite e poi sul terreno in modo specifico utilizzano anche prospezioni geofisiche per individuare e verificare l’esistenza di strutture nel sottosuolo. Per lunghi secoli l’antica città di Nora non era stata individuata con precisione. Qua e là emergevano dei ruderi venivano effettuati dei ritrovamenti ma tutto questo suggeriva solamente l’esistenza di un’antica città senza poterne definire esattamente il nome. I primi scavi archeologici condotti con metodo scientifico risalgono alla fine del 1800 quando è stato individuato il Tophet, un particolare tipo di santuario di età punica, e buona parte di una grande necropoli. Tutti questi ritrovamenti sono stati ricondotti, appunto, alla presenza di questa antica città, la città di Nora, che Pausania definiva come “la prima città dell’isola”! Le ricerche all’interno dell’abitato sono iniziate invece nel 1952 grazie all’intervento del sovrintendente Gennaro Pesce che ha portato alla luce molti dei monumenti che ancora adesso vediamo e che ha reso possibile la loro fruizione da parte dei turisti e degli studiosi. In seguito, a partire dal 1990 alcune Università Italiane hanno ripreso le ricerche a Nora, in modo particolare all’interno dell’abitato, per approfondire determinati aspetti che ancora sfuggivano della città antica. Nell’ambito delle nuove ricerche a Nora l’Università di Padova ha scavato dal 1997 l’area del foro, la principale piazza della città romana, poi, dal 2007 ha indagato il vicino tempio romano e, in tempi ancora più recenti, ha ripreso gli scavi nell’area della necropoli, all’esterno dalla città, inoltre ha indagato il rapporto tra la città e il mare i mutamenti che sono avvenuti nel corso dei secoli relativamente a questo rapporto. LE PROSPEZIONI GEOFISICHE La documentazione storico-cartografica è fondamentale per conoscere un sito archeologico. Grazie al suo studio, per esempio, gli archeologi hanno saputo dov’era il foro di Nora e hanno iniziato in quel punto lo scavo. Per iniziare un’indagine archeologica, nel caso in cui non si abbia a disposizione questa documentazione, è necessario comunque conoscere a priori le caratteristiche del suolo e per fare questo gli archeologi usano le prospezioni geofisiche. 115 La Geofisica letteralmente è la scienza che studia le proprietà fisiche della terra e le sue variazioni nello spazio e nel tempo. Tutti i materiali hanno caratteristiche proprie per cui, variazioni di queste proprietà indicano anomalie che sono per gli archeologi i reperti sepolti. Con la geofisica si possono studiare diverse proprietà, per esempio, la distribuzione della corrente elettrica nel suolo o il tempo di transito di un segnale elettromagnetico o un segnale meccanico. In pratica il lavoro del geofisico è come quello di un medico quando fa una radiografia o una TAC per capire dove si deve intervenire. Numerose possono essere le prospezioni geofisiche ma non tutte sono adatte in ogni luogo. A Nora, per esempio, la presenza del mare e la di rifiuti metallici ha impedito l’uso di tutti i metodi e in particolare si è deciso di utilizzare la geoelettrica e il geo radar. La mancata distribuzione della corrente elettrica in vuoti consente l’individuazione di questi e pertanto gli archeologi hanno effettuato lo scavo individuando le tombe relative la frequentazione dei Fenici e dei Cartaginesi a Nora. LO SCAVO ARCHEOLOGICO L’azione per molti versi conclusiva e anche decisiva, del percorso di ricerca archeologica, è costituita dallo scavo. Lo scavo è l’operazione conclusiva perché segue tutta una serie di attività preliminari o preparatore, che sono già state descritte, e che servono appunto ad indirizzare questa operazione di scavo che è, quanto mai, onerosa e complessa. È anche un po’ l’operazione decisiva perché, da un certo senso, lo scavo produce tutta una serie di dati che non sono, o non possono essere, surrogati o sostituiti da alcuna interpretazione. Sono i dati nuovi che l’archeologo cerca e che pone sul tavolo, poi, della discussione per creare tutta una serie di nuove considerazioni e valutazioni di ordine storico, o per ripensare alle precedenti valutazioni storiche già costituite. L’uomo si è sempre dedicato ad attività di scavo, a scavare il terreno, ma lo ha fatto per ragioni diversissime: lo ha fatto per nascondere qualcosa, lo ha fatto per diseppellire qualcosa, lo ha fatto per costruire, per demolire… Ma l’archeologo, in età moderna o contemporanea ha pensato allo scavo in maniera molto diversa. In età moderna si scavava, sostanzialmente, rimuovendo il terreno che copriva grandi complessi monumentali. In età, invece, contemporanea, diciamo degli ultimi venti o trent’anni, lo scavo è stato ripensato, è stato riformulato nei suoi principi ed è diventata un’operazione estremamente delicata. Quasi un’operazione chirurgica. Lo scavo archeologico contemporaneo, che è detto stratigrafico, ha mutuato i suoi principi e le sue regole dalla geologia. Lo scavo contemporaneo prevede una regola molto semplice: ogni azione antropica, cioè 116 prodotta dall’uomo, o naturale lasciano una traccia sul terreno, lasciano spessissimo un deposito di materiale. Compito dell’archeologo è riconoscere questi depositi, corrispondenti ad azioni, e riscostruire la sequenza degli strati e delle azioni per ricostruire la storia di un luogo. Naturalmente non è semplice così come si dice. La deposizione del terreno, per ragioni naturali o antropiche, avviene spesso in maniera caotica, in maniera molto complessa, e sta all’archeologo con un’operazione delicata, da condurre sotto un profilo estremamente professionale, ricostruire quale è stata questa sequenza e quali sono i rapporti tra i singoli strati e tra gli strati e le strutture. Fissata questa relazione, si avrà una sequenza di cronologia relativa: quale strato e quindi quale azione sta prima e sta dopo a quale altra azione. Al termine dell’operazione si passa da una cronologia relativa, quindi da una sequenza di strati, ad una cronologia assoluta, cioè una definizione del tempo assoluto storico in cui ogni azione si è svolta. Per far questo l’archeologo usa una serie di metodi che vanno da sistemi archeometrici, come l’analisi del carbonio 14, alla raccolta di reperti che si possono trovare all’interno di ciascuno strato. Metodi archeometrici e metodi di analisi cronotipologica dei materiali ci portano alla datazione degli strati e, quindi, alla costruzione di una sequenza storica di azioni e quindi alla storia di un luogo. LA DOCUMENTAZIONE DI SCAVO La documentazione di scavo è una procedura attraverso la quale l’archeologo riesce a registrare tutti i dati che incontra nel corso dello scavo. Essa è necessaria in quanto lo scavo stratigrafico porta ad una distruzione irrimediabile della fonte d’informazioni principale: ossia la stratigrafia. Quando uno strato viene scavato, infatti, viene rimosso e perso per sempre. Non è più possibile, infatti, in questo modo tornare indietro. Ecco perché è fondamentale documentare ogni singola azione. Nel tempo i sistemi di documentazione si sono evoluti, tra questi vi è anche il diario di scavo. Un tempo il diario era redatto solamente in forma cartacea, mentre oggi i dati vengono riversati in banche dati informatiche. Gli scavi di archeologia classica dell’Università degli Studi di Padova utilizzano il database online ADAM (acronimo che significa Archaeological Data Management). In questo ambiente, oltre alla descrizione delle giornate di lavoro, vengono inseriti anche i dati relativi ogni singola unità stratigrafica. Infatti, in forma digitale, si ritrovano anche le schede US, per l’appunto “unità stratigrafica”. In ogni scheda vengono indicate in maniera sintetica, ma esaustiva, tutte le caratteristiche di una unità stratigrafica, come può essere ad esempio il colore, i materiali contenuti, ma anche i rapporti con strati circostanti. 117 Per ogni unità stratigrafica vengono anche scattate varie foto. In ogni foto è necessario sia inserito un riferimento metrico, un’indicazione del nord geografico, ma anche un supporto in cui, in forma testuale, vengono indicate le informazioni principali per riconoscere il soggetto inquadrato. Infine, per rappresentare le strutture e le unità stratigrafiche individuate, è necessario fare anche dei disegni: delle piante e delle sezioni. Le piante riproducono in forma semplificata gli strati e le strutture individuate, conferendo una visione d’insieme dello scavo; le sezioni, invece, mostrano uno spaccato dell’area indagata e permettono di visualizzare graficamente la sovrapposizione tra gli strati. Per fare questi disegni è necessario avere delle serie di misure di altissima precisione acquisite attraverso uno strumento denominato stazione totale. La stazione totale è un apparecchio elettronico dotato di un distanziometro. Attraverso un raggio laser, infatti, vengono individuate le posizioni nello spazio di punti fondamentali individuati nello scavo. Questi punti, acquisiti attraverso lo strumento, vengono in un secondo momento riversati in un programma di grafica vettoriale come punti tridimensionali. Unendo attraverso delle linee spezzate questi punti, si vanno a ricostruire sia le strutture che le unità stratigrafiche individuate. Sono questi solo alcuni degli esempi di quanto minuzioso debba essere il lavoro dell’archeologo perché nessun dato vada perso e perché il passato possa essere ricostruito. I MATERIALI I reperti archeologici sono tutti quegli oggetti antichi in vetro, in ceramica, in metallo ad esempio, che l’archeologo rinviene durante lo scavo. Ovviamente questi materiali sono un’altra testimonianza della storia antica, ed entrano a far parte dell’unità stratigrafica perché sepolti volontariamente, ad esempio, o rotti e presi dall’uomo antico. Lo studio dei reperti archeologici è importante perché ci permette di definire quando si è formata l’unità stratigrafica all’interno della quale i materiali sono stati rinvenuti. Questo è possibile perché materiali prodotti in un determinato luogo e in uno specifico momento storico hanno delle caratteristiche differenti da materiali prodotti in altri luoghi e in altri momenti storici. Partendo da questa presupposto, quindi, gli studiosi di materiali antichi hanno creato una serie di classificazioni che si basano soprattutto sullo studio di queste differenze e caratteristiche e che permettono quindi di recuperare dai materiali antichi tutta una serie di informazioni. In altre parole, gli studiosi di materiali, hanno creato delle vere e proprie seriazioni morfologiche che altro non sono che delle classificazioni che appunto si basano su queste diverse caratteristiche. Gli studiosi di materiali hanno quindi prima raggruppato tutti quegli oggetti costituiti da un comune elemento denominatore, ad esempio la ceramica, il vetro il metallo. Successivamente, all’interno di questi gruppi sono 118 state fatte ulteriori suddivisioni basate su quelle che erano le caratteristiche estetiche di questi oggetti, creando quindi dei sotto gruppi che possiamo definire classi. Le classi si differenziano appunto per colore diverso, forma diversa e decorazioni diverse. Una di queste classi può essere, ad esempio, la ceramica a vernice nera, che è caratterizzata appunto da un rivestimento di colore nero; o ancora, la terra sigillata che invece ha un rivestimento di colore rosso. Successivamente gli studiosi hanno poi identificato le varie forme presenti, quali ad esempio le coppe, i bicchieri, i piatti e le bottiglie. Alla fine di questo lungo processo di classificazione, quindi, si ottiene una vera e propria seriazione morfologica, che altro non è che una carta d’identità del nostro oggetto antico. Ovviamente, lo studio degli oggetti antichi inizia già al momento del loro rinvenimento, sullo scavo, momento nel quale, appunto, prima si effettua il lavaggio e la pulitura degli oggetti, e successivamente la siglatura e l’inserimento nei database di riferimento. Una volta in laboratorio si procede a fotografare e a disegnare gli oggetti e, solo successivamente, in seguito a questi step iniziali, si può proseguire ed approfondire la ricerca e lo studio di questi oggetti in biblioteca attraverso la ricerca bibliografica che si basa appunto sull’utilizzo delle seriazioni morfologiche. LA PROTEZIONE E CONSERVAZIONE DI UN SITO Tutela è protezione e conservazione. È in altre parole un dovere nei confronti del presente e delle generazioni future affinché tutti possano fruire e studiare ciò che fino ad oggi si è conservato. Sul sito di Nora agiscono dei fenomeni che minacciano questa conservazione. Uno di questi fenomeni è l’erosione costiera provocato da un lato dalle forti mareggiate stagionali e dall’altro da un fenomeno di ben più vasta scala, causato dall’innalzamento del livello marino causato a sua volta dal surriscaldamento globale. Gli effetti di questo fenomeno sono ben visibile dal confronto tra le foto aeree storiche e anche dal monitoraggio di quelli che sono stati degli importanti crolli avvenuti lungo la costa. Di fronte a tale rischio si è deciso di intervenire, da un lato con i mezzi più propri dell’archeologia, che sono la documentazione e la ricerca, dall’altro con degli interventi di protezione del litorale. È nato così il progetto Nora e il Mare. Dal punto di vista degli obiettivi e delle metodologie il progetto può essere diviso in 3 fasi. In primo luogo sono state documentate tutte le strutture che si trovano lungo la fascia costiera. Ogni struttura è stata disegnata, mediante un rilievo a stazione totale, e corredata da una scheda descrittiva che riporta quanto fino ad ora noto e quanto di nuovo è risultato dal rilievo. 119 Il secondo obiettivo è stato ricostruire lo scenario antico entro cui inserire queste strutture. Per questo abbiamo ricostruito il modello tridimensionale della penisola, integrando quella che è la parte emersa con una batimetria, che è la ricostruzione del fondale marino. Su questo modello abbiamo tracciato quella che doveva essere l’antica linea di costa. Gli studi infatti dimostrano che il mare in epoca antica dovesse essere circa 1m e 40 cm al di sotto del livello attuale. Questo significa che lo spazio urbano, in epoca antica, era molto più esteso rispetto a quello attuale, e quindi diverso doveva essere il rapporto tra la città e il mare. Infine il terzo obiettivo è stato quello di individuare quelli che sono gli elementi più a rischio lungo la costa, e collaborare quindi con Soprintendenza ed Enti pubblici per avviare delle opere di protezione. Questi interventi sono stati realizzati nell’estate 2015 e insieme alle informazioni e alla documentazione raccolta sul campo, favoriranno la tutela del sito di Nora. LA RICOSTRUZIONE 3D La ricostruzione tridimensionale, in archeologia, è uno strumento molto utile con il quale, sostanzialmente, si cerca di “ricostruire” l’aspetto originario di manufatti o strutture antiche che, ad esempio, possono essere ritrovati durante uno scavo archeologico. La ricostruzione 3D è quindi un mezzo fondamentale per comunicare visivamente i risultati della ricerca archeologica. La ricostruzione tridimensionale ha due finalità principali. In primo luogo possiede un grande valore scientifico: ad esempio, per l'archeologo il momento della ricostruzione virtuale è un’ottima occasione per verificare l’affidabilità delle ipotesi su cui la ricostruzione stessa si basa. In secondo luogo svolge un’efficace funzione comunicativa, migliorando la comprensione di una determinata area archeologica che, ad esempio, potrà essere maggiormente apprezzata da parte del visitatore. Normalmente, quando si cerca di elaborare un'ipotesi ricostruttiva, si seguono pochi semplici passaggi: prima di tutto si parte da una planimetria dello scavo, successivamente si confrontano i dati emersi dallo scavo con le fonti antiche e si cercano dei confronti pertinenti con l’edificio o il manufatto che si vuole ricostruire, infine, attraverso software specifici per il disegno o per la modellazione tridimensionale, si cerca di proporre l'ipotesi più verosimile. Seguendo questo procedimento sono state eseguite proposte di ricostruzione virtuale per alcuni edifici della città antica, uno tra questi è per esempio il Tempio Romano. Grazie a questa tecnologia il visitatore che si approccia alle rovine può, attraverso l’uso di speciali visori, vivere una coinvolgente esperienza visiva dell’ambiente e osservare, davanti a suoi occhi, la realtà storica ricostruita su base scientifica. 120 In questo modo viene rispettato il fine ultimo della ricerca archeologica, ovvero la valorizzazione e la divulgazione del dato. LA VALORIZZAZIONE La valorizzazione è l’obiettivo più importante che un archeologo o uno storico si deve porre. Valorizzare significa, appunto, dare un significato, dare un’importanza, dare un valore e per dare un valore bisogna far capire quello che era ed è stato il mondo antico. L’archeologo, quindi, al termine di tutte le operazioni d’indagine, esse siano preliminari o poi effettive di scavo, ha questa mission, questo deciso obiettivo di far capire al pubblico le realtà antiche. Spesso le realtà antiche si presentano in forme incomprensibili e quindi l’archeologo deve agire sui resti archeologici attraverso una serie di operazioni che possono essere di restauro, che possono essere, con molta cautela, di ricostruzione, o che possono essere di sistemazione dei resti per renderli appunto leggibili da qualsiasi persona, anche non archeologo. Nel caso di Nora abbiamo applicato dei sistemi quanto più delicati possibili e non siamo intervenuti direttamente sugli edifici, attraverso ricostruzione o restauri pesanti, ma abbiamo agito attraverso la ricomposizione dei piani d’uso antichi dando ad essi dei colori diversi attraverso ghiaini di colore diverso. Così il pubblico, che oggi passeggia per la città antica, può apprezzare le diverse funzioni delle diverse aree e capire quindi, in età romana o ancor prima in età punica, come le diverse zone della città venivano utilizzate a anche da chi. Valorizzare significa anche divulgare, trasferire le conoscenze al grande pubblico e alla comunità. Per questo, una delle forme di divulgazione più efficaci è la produzione di pubblicazioni, di carattere naturalmente divulgativo e accessibili al grande pubblico. Oppure, ancora, tenere, svolgere, organizzare conferenze per il pubblico ma ancora coinvolgere il pubblico, cioè coinvolgere le comunità nelle stesse attività archeologiche o nelle stesse attività di riprestino e adeguamento dei siti per quella che ultimamente è stata chiamata archeologia “pubblica”. 5.3.2 Il montaggio Spesso non si valuta sufficientemente la rilevanza del montaggio nel documentario. Questo non va considerato semplicemente come la disposizione in sequenza delle migliori inquadrature realizzate nel corso delle riprese, né la presentazione ordinaria di un girato, ma al contrario è un vero e proprio 121 momento magico nel quale tutto il lavoro compiuto nell’ideazione e nella realizzazione del documentario si fonde per restituire qualcosa, un prodotto finito che poco prima non esisteva. In poche parole, in un documentario è il montaggio che fa il film197. È qui che entra in gioco la creatività del produttore. Dal punto di vista tecnico, invece, è solo questione di conoscere il programma che si ha a disposizione così da poter eseguire a meglio quello che la nostra creatività ci suggerisce198. Il montaggio è il giudice ultimo della qualità del lavoro eseguito in fase di ripresa. La cattiva gestione del “set” o le incertezze del regista si pagano proprio in sala di montaggio. Non è possibile, infatti, fare miracoli in post-produzione: un video o un audio di cattiva qualità resteranno di cattiva qualità. L’eventuale correzione cromatica consumerà molto tempo e spesso non andrà a buon fine199. Una delle cose più difficili da imparare è forse proprio questo: rassegnarsi a tagliare, tagliare, tagliare. L’affetto che nasce nei confronti di determinate immagini o inquadrature spinge spesso gli autori più giovani a compiere l’errore di inserirle nella loro opera, anche a scapito della buona riuscita del prodotto finale. Bisogna sempre tenere a mente che il montaggio non deve essere il semplice accostamento di pezzi indipendenti. Tutto deve fluire da una cosa all’altra, da un suono all’altro senza creare disturbo o sensazione di discontinuità a chi segue200. Affidarsi ad un montatore esperto può essere d’aiuto in questo: essendo meno coinvolto nella storia, infatti, egli ha una distanza verso il materiale girato e può far riflettere su alcuni passaggi con maggiore lucidità201. Riassumendo, le fasi che caratterizzano il montaggio di un documentario sono: 1. il pre-montato (rough cut), ossia la prima fase in cui il montaggio da zero arriva ad una forma molto grezza. È normale che in questa fase manchino ancora alcune immagini, che le grafiche siano rudimentali, l’audio incompleto, o magari con musiche di riferimento non definitive. La cosa che conta è l’ordine visivo degli elementi, e che non siano presenti troppi errori tecnici e di forma. Questa versione ha lo scopo di mostrare la linea narrativa del prodotto al fine di essere visionato, commentato ed eventualmente modificato per arrivare alla fase successiva. 2. La seconda fase è detta final cut ed è praticamente il montato definitivo, che tuttavia non ha ancora subito trattamenti dell’immagine e del suono tali da renderlo perfetto. L’ordinamento 197 FANTINI, 2005, pp.123; BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 123. 198 LINDENMUTH, 2011. 199 Ibidem. 200 FANTINI, 2005, pp.130. 201 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 125. 122 visivo della fase precedente si allarga comprendendo la percezione di un maggior numero di effetti psicologici. Sebbene il documentario sia vicino alla sua forma definitiva, può ancora subire cambiamenti importanti. 3. La terza ed ultima fase è il fine cut, nel quale il documentario assume, in tutto e per tutto, la forma definitiva pronta per l’ultimissima approvazione, che porterà alla generazione delle tracce audio e del master definitivo. L’emozione diventa qui opinione: opinione personale, sociale e politica del regista202. Per il montaggio del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo” ci siamo serviti del software di video editing digitale e non lineare Sony Vegas Pro 12 (fig. 37). Questa tipologia di software apre le porte ad una ampia gamma di possibilità per l’editor, non solo perché è possibile iniziare il montaggio da dove si preferisce, ma anche perché consente di apportare modifiche dovunque e ogni volta che lo si ritiene necessario. In questo modo è fattibile prima portare a compimento la produzione e poi tornare sui propri passi per perfezionarla203. Figura 37 – Screenshot del programma usato Sony Vegas Pro 12. (http://www.sonycreativesoftware.com/vegaspro) Nel presente progetto video il montaggio è iniziato a partire dalle interviste. Le risposte alle domande poste sono state montate in modo tale da creare un discorso che non durasse più di 3 minuti per intervistato. Questa scelta ha reso possibile, da un lato, di mantenere una certa omogeneità in tutto il corso del video, dall’altro, di migliorare l’attentività dell’ascoltatore e la comprensibilità dell’argomento trattato. Un tempo superiore ai 3 minuti avrebbe infatti reso l’intervista noiosa da ascoltare, una durata eccessivamente inferiore, invece, non avrebbe dato la possibilità all’esperto di spiegare con accuratezza l’argomento di cui era portavoce. 202 FANTINI, 2005, pp.131; BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 124. 203 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp.134. 123 Il rough cut ottenuto è stato in seguito integrato con le immagini di repertorio e le riprese in esterno. Parallelamente, e in un altro progetto Vegas, si è proceduto con il montaggio della voce narrante. Fin da subito grande importanza è stata data a quei legami in grado di rendere il montaggio vivo: le pause, i respiri e le attese204 . Completato l’audio con le immagini didascaliche, il rough cut della voce narrante è stato unito a quello delle interviste ottenendo pertanto il final cut complessivo del progetto. È stata allora generata una versione più avanza del montaggio, con attenzione alle inquadrature, alle tempistiche con cui apparivano le immagini, alle transizioni e ai tutti gli altri piccoli dettagli visivi. Per esempio, una persona deve poter guardare un documentario senza notare il montaggio, quindi la maggior parte delle transizioni saranno dissolvenze verso altre immagini o a nero. Questo tipo di transizione si adatta bene per passare da una persona all’oggetto di cui sta parlando, specialmente se racconta qualcosa avvenuto nel passato205. Tutti gli effetti speciali e la grafica vanno considerati un bonus, non sono degli extra che aggiungono valore al documentario. Pertanto vanno usati solo se possono apportare qualche contenuto valido206. Nello specifico abbiamo cercato di ottenere un effetto particolare ed immersivo nella scena che mostra l’uso del visore Samsung Gear VR (Fig. 38; 39): attraverso il ripetuto spostamento dell’inquadratura all’interno della ricostruzione virtuale si è cercato di trasmettere allo spettatore l’esperienza che stava provando la persona inquadrata. Figura 38, 39 – Inquadrature tratte dal documentario Nora, il racconto dell’archeologo. In questa fase del montaggio è stato anche equalizzato il suono integrandolo poi con della musica, la scelta di quest’ultima verrà approfondita nel prossimo paragrafo. 204 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 125. 205 LINDENMUTH, 2011. 206 Ibidem 124 Infine, ottenuto oramai il fine cut, sono stati inseriti i titoli di testa e di coda. La funzione primaria dei titoli di un film è quella di comunicare informazioni che siano chiare e comprensibili: tutto il resto è superfluo. I titoli di testa possono essere sovraimpressi o meno alla sequenza iniziale. In genere durano 20-60 secondi includono il titolo del programma, il produttore, il regista e l’eventuale compositore della colonna sonora. Tutte le persone coinvolte nel documentario e il resto dei ringraziamenti viene, invece, elencato nei titoli di coda. Lo stile adottato per entrambi dev’essere quello usato in tutto il resto del documentario207. I titoli di testa scelti per il documentario “Nora il racconto dell’archeologo” sono stati molto semplici e ridotti: il documentario è iniziato con il solo titolo lasciando tutti i crediti e i ringraziamenti nei titoli di coda. In questo modo il pubblico non viene annoiato e può fruire subito dei contenuti. Titoli di coda Soggetto Sceneggiatura Jacopo Bonetto Mirco Melanco Anna Ferrrarese Alberto Fanin Riprese e montaggio Anna Ferrarese Antonio Zanonato Supervisione Antonio Zanonato Produzione Mirco Melanco Voce narrante Antonio Andreetta Regia Anna Ferrarese Consulenza Francesca Pazzaglia Simone Berto Jacopo Bonetto Filippo Carraro Interventi Rita Deiana Andrea Raffaele Ghiotto Valentina Mantovani Arturo Zara 207 LINDENMUTH, 2011. 125 Nora – Pula (CA) Riprese in esterni Laboratorio di Archeologia – Ponte di Brenta (PD) Anfiteatro romano di Padova Soprintendenza Archeologica Belle Arti Paesaggio delle province di Cagliari e Oristano Comune di Pula (CA) Teravista – Cagliari IKON – Cagliari Ringraziamenti Gianluca Olla Cop.Tur. – Pula (CA) Alessandro Mazzariol Federica Stella Mosimann Maria Chiara Metelli Federica Patuzzi Wisps of Whorls, Kevin MacLeod (incompetech.com), http://creativecommons.org/licenses/by/3.0 Brani musicali Relaxing, Bensound.com Slowmotion, Bensound.com Documentario realizzato a scopo didattico scientifico Anno di realizzazione 2016 5.3.3 La musica I produttori e autori Dale Newton e John Gaspard nel libro Digital Filmmaking 101 – An essential guide to Production Low-Budget Movies, asseriscono che ci sono poche cose in grado di integrare un’immagine in movimento come la musica di sottofondo. Lo stesso si può dire per i documentari. Selezionare la musica più adatta può migliorare il documentario, al contrario una scelta sbagliata rovinerà l’intera produzione208. Effettivamente, se le immagini fanno immergere lo spettatore visivamente in un contesto, la musica e i suoni tramettono più immediatamente le sensazioni che è possibile vivere al suo interno. La musica 208 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp.137. 126 è, altresì, un elemento “non realistico” perché viene aggiunto in post-produzione, pertanto va usata con molta attenzione. Toccando corde profonde, a volte imprevedibili, può portare lo spettatore lontano da dove la storia lo potrebbe condurre. Di fatto è un’ “imposizione” sull’immagine, quindi con tutta evidenza un segno profondo dell’autore: marca la sua valenza espressiva.209. Se ne propongono vari usi: la musica può avere un timbro contrapposto a quello della scena, raffreddandone l’emotività o, al contrario rendendola più intensa; può accompagnare l’immagine e quindi assecondarla e dialogarvi; o anche potenziarla, qualora la scena non restituisca l’emozione o la forza che si è sprigionata nella realtà; infine può essere altresì uno stratagemma per legare tra loro scene altrimenti diverse. In ogni caso la musica non deve distrarre l’osservatore o disturbare le altre voci presenti nel documentario. Di conseguenza, la musica cantata sarà più adatta ai titoli di testa e di coda, mentre la musica strumentale sarà idonea a sottolineare l’importanza delle parole dette. Comunque la si utilizzi, il regista può affidare alla musica il suo punto di vista, consegnarle parte del suo sguardo su un personaggio o su una situazione210. Ecco perché, quando si affronta la realizzazione di un documentario, è bene darsi da fare immediatamente per cercare qualcuno che si occupi di individuare la musica che gli farà da colonna sonora. La situazione migliore prevede la consultazione di veri e propri professionisti del settore che comporranno della musica appositamente per la storia e per le atmosfere presenti nel documentario. In molti altri casi, invece, bisogna ricorrere a musiche già composte, prestando naturalmente attenzione al diritto d’autore. Nelle produzioni a basso costo è impossibile ottenere la licenza d’uso di brani editi già famosi, sia per i costi proibitivi, sia per i lunghi tempi necessari ad ottenere il contratto firmato. In questi casi la soluzione migliore è quindi l’uso di musica priva di diritti d’autore211. Certo, la musica non basta. Ruolo altrettanto importante è giocato dai suoni che completano, riempiono e ricreano l’ambientazione di una scena, in particolare nel caso del documentario naturalistico. L’audio, in questo caso, può essere registrato durante le riprese oppure ricostruito mediante una banca suoni. Anche questi effetti devono venire usati solo per aggiungere contenuti al 209 FANTINI, 2005, pp. 132; BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 131. 210 BALSAMO, PANNONE, 2009, pp. 132; LINDENMUTH, 2011. 211 FANTINI, 2005, pp. 132-133; LINDENMUTH, 2011. 127 documentario o per sostituire il sonoro già presente nei filmati: è importante, infatti, che il realismo venga mantenuto212. Il montaggio audio è un processo piuttosto lungo, che richiede una cura estrema sui volumi, che devono essere bene equilibrati e uniformi, per tutta la durata del documentario, e sui tagli, che devono essere ammorbiditi da veloci dissolvenze213. Nel montaggio del documentario “Nora il racconto dell’archeologo”, la musica è stata inserita come accompagnamento della voce narrante e per rimarcare il cambio di argomento tra le interviste. Per dare il senso di uniformità tra il parlato e la musica sono state applicate lente dissolvenze che hanno sfumato la colonna sonora portandola in secondo piano rispetto alle parole dette. La scelta dei brani è stata influenzata da due parametri: da un lato, la necessità di non violare i diritti d’autore ha comportato la scelta di brani liberi di copyright214; dall’altro, l’esigenza di non disturbare il parlato, rendendolo così di difficile ascolto e comprensione, ha portato a preferire brani strumentali caratterizzati da un ritmo lento e soffuso, privo di quei suoni forti che, per esempio, potevano essere generati dall’introduzione di chitarre o di percussioni. In ogni caso, come ulteriore precauzione, i brani sono stati equalizzati e resi più armonici per adeguarsi nel modo più ottimale possibile al parlato del documentario. Di seguito i brani scelti e inseriti nel documentario “Nora il racconto dell’Archeologo”: • Wisps of Whorls, di Kevin MacLeod (incompetech.com) http://creativecommons.org/licenses/by/3.0; • Relaxing, Bensound.com (http://www.bensound.com/royalty-free-music); • Slowmotion, Bensound.com (http://www.bensound.com/royalty-free-music). 212 FANTINI, 2005, pp. 133; LINDENMUTH, 2011. 213 FANTINI, 2005, pp. 133-134. 214 In internet si trovano numerosi siti che compongono brani musicali liberi di copyright e dotati di licenza Creative Commons. Tra questi sono stati consultati: http://www.bensound.com e http://incompetech.com/wordpress/. 128 5.4 Distribuzione e fruizione 5.4.1 Accenni di distribuzione e vendita Molti archeologi che hanno sognato di fare un documentario sul proprio progetto di ricerca probabilmente hanno immaginato anche di vederlo trasmesso su una rete televisiva, proiettato al cinema o distribuito in DVD215. Un’analisi di tutte le forme di distribuzione di questa categoria di prodotto e delle leggi che regolano il suo mercato sarebbe troppo ampia e complessa, oltre che non coerente con il prodotto realizzato in questa sede. Il documentario “Nora, il racconto dell’archeologo”, infatti, è stato realizzato in ambito universitario per fini esclusivamente didattici e divulgativi: pertanto sarebbe improprio parlare di vendita. Tuttavia, per completezza, si propone una breve riflessione anche su questo argomento. La distribuzione e la vendita sono due fasi che spesso non vengono considerate nella letteratura dedicata al documentario, ma che sono invece di fondamentale importanza. Anche se esse non fanno propriamente parte della realizzazione del prodotto, ci troviamo infatti pur sempre nell’ambito della comunicazione e, se il messaggio non arriva ad un destinatario, questo fine ultimo non viene perseguito. Un documentario dev’essere guardato da qualcuno. Quando si fa un documentario, oltre a produrre un’opera di livello artistico, si crea anche un prodotto che dovrà trovare una collocazione in determinati contesti mediatici. Ma vendere un documentario è tutt’altro che facile, e uno dei problemi maggiori di questa categoria di prodotto è quello di essere spesso considerato, soprattutto in Italia, elitario, poco interessante e debole dal punto di vista dell’intrattenimento. Il primo grosso sforzo per evitare che ciò accada deve venire, ovviamente, da chi i documentari li fa, piuttosto che da chi li produce e li distribuisce. Il suggerimento di Luca Fantini, nel suo libro Fare un documentario, è quello di sforzarsi di vendere il documentario come una possibile forma d’intrattenimento, al di là d’ogni opinione e gusto personale. Appassionante, veloce, commovente, entusiasmante, strabiliante. Un’altra carta vincente sarà poi quella di sapere sempre con chi si avrà a che fare216. 215 Per approfondimenti si rimanda a PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp.151-157. 216 FANTINI, 2005, pp. 18, 32. 129 5.4.1.1 La distribuzione del documentario “Nora il racconto dell’archeologo” Il documentario prodotto in questa sede, ribadiamo, è stato realizzato per fini didattici e divulgativi, la sua divulgazione e la sua fruizione non seguiranno quindi le leggi del mercato moderno. Ciò non significa che la sua produzione sia fine a sé stessa. Ma, piuttosto, che troverà applicazione in altri ambiti. Di seguito alcune possibili forme di diffusione. In primo luogo in ambito universitario. In questa sede, in particolare, il documentario “Nora il racconto dell’archeologo” può avere una duplice valenza: 1. può orientare uno studente interessato ad iscriversi al Corso di Laurea Triennale in Archeologia, proposto dall’ Università degli Studi di Padova, guidandolo nella comprensione di quali siano alcune delle competenze che potrà acquisire nel corso dei suoi studi; 2. può anche rendere conto alla comunità dei risultati ottenuti dalle ricerche universitarie e dimostrare il rigore scientifico con le quali queste sono condotte. Riporto qui, a scopo esemplificativo, due tra le iniziative più importanti a cui aderisce il dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Padova: la Notte europea dei ricercatori e Galileo, il festival dell’innovazione. Sono queste solamente alcune occasioni durante le quali il documentario potrebbe trovare la sua applicazione come strumento di presentazione delle attività condotte nell’ambito degli scavi di archeologia classica dell’Università degli Studi di Padova. In questa sede il documentario prodotto sarebbe quindi un valido strumento per rispondere alle esigenze della “terza missione” delle Università italiane contribuendo così a intensificare il dialogo tra la ricerca e la società. Il mezzo espressivo video-narrativo, infatti, viene percepito dal cittadino medio, abituato ad informarsi attraverso internet e reti televisive, come più accattivante rispetto a pubblicazioni e conferenze istituzionali. Allo stesso modo altre manifestazioni esterne all’ambito universitario, come i già nominati Film Festival, sarebbero dei contesti adatti alla diffusione del filmato realizzato. In questo contesto esso risponderebbe anche alla necessità di sensibilizzare e raggiungere il grande pubblico sui temi della ricerca archeologica e sulla tutela del patrimonio culturale. I Film Festival sono un eccellente sede sia per presentare sia per promuovere un documentario. I vantaggi di partecipare a questi festival sono notevoli: contribuiscono a pubblicizzare il prodotto video, garantiscono una copertura mediatica, consentono di ottenere riconoscimenti critici o di 130 vincere premi e, inoltre, danno l’opportunità di relazionarsi con coloro che distribuiscono i documentari nel mercato mediatico217. Per verificare la sua valenza formativa, invece, si potrebbe presentare il documentario come una sperimentazione in ambito scolastico. In questo contesto sarebbe possibile confrontare quale sia il mezzo più efficace per l’apprendimento didattico organizzando, in alcune classi, lezioni frontali tradizionali sul metodo della ricerca archeologica e, in altre, proiettando il filmato “Nora il racconto dell’archeologo”. Mediante la compilazione di un questionario verrebbero raccolte le opinioni degli studenti e verificato con quale tipologia di lezione sono state assimilate maggiori informazioni. Infine, presentando il caso studio di un sito archeologico di grande valenza culturale, un altro ambito di applicazione potrebbe coerentemente essere quello turistico. Fin dall’inizio, infatti, questo documentario vuole rivolgersi anche al turista che, visitata l’area archeologica di Nora, desidera informarsi su come la sua storia sia stata ricostruita. L’attuale mancanza di strutture adatte alla proiezione di un filmato nei pressi del sito esclude, naturalmente, la visione contestuale del documentario nel momento della visita. La già citata rassegna culturale Pularchaios, viceversa, si presta ad essere un’occasione di diffusione del lavoro condotto dall’Ateneo patavino e un’opportunità di confronto metodologico con le altre Università Italiane coinvolte nello studio di questo antico insediamento. In conclusione, per sopperire alla necessità di comunicare con il turista e di sensibilizzare i cittadini sul tema della ricerca archeologica, cercando di raggiungere un numero sempre più ampio di spettatori, un ulteriore canale di diffusione potrebbe essere la rete. La durata del documentario, purtroppo, non si adatta a questo canale mediatico. Tuttavia la strutturazione in capitoli e in sotto argomenti permette di frammentare il video in filmati più brevi, mirati a spiegare esclusivamente una determinata sequenza metodologica o una specifica fase del lavoro dell’archeologo. Per esempio, dal documentario principale si può ricavare un filmato più breve in cui vengono spiegate quali procedure precedono un intervento di scavo (ovvero gli argomenti trattati dal Prof. Andrea Raffaele Ghiotto e dalla Prof.ssa Rita Deiana); oppure, frazionando ulteriormente il documentario, ricavare dei filmati ancora più specifici per ogni argomento (la geofisica, per esempio, o lo scavo archeologico o, ancora, lo studio dei materiali, ecc.). Ecco che in questo modo è possibile per l’utente interagire con gli argomenti proposti soffermandosi solo su quanto è oggetto d’interesse. 217 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 165-168. 131 5.4.1.2 Promuovere il documentario: la creazione del trailer Promuovere un documentario è un passaggio fondamentale per il successo della distribuzione. Quando lo scopo è quello di far conoscere al grande pubblico l’esistenza di un documentario, allora internet è sicuramente la forma di pubblicità più economica e facilmente accessibile. Uno degli strumenti di promozione più importanti per la diffusione un audio visivo è sicuramente il trailer (promo in lingua italiana) perché è facilmente fruibile da chiunque. Su internet, per esempio, è molto più probabile che una persona sia invogliata maggiormente a guardare un trailer piuttosto che leggere una recensione218. “Trailer” letteralmente significa rimorchio, questa accezione è dovuta al fatto che in origine veniva proiettato alla fine del film. Viceversa, oggi viene proiettato, con scopi pubblicitari, prima dell’uscita di un film come anteprima e presentazione del film stesso. Il trailer risponde alle esigenze comunicative del mondo moderno in cui il passaggio d’informazioni deve avvenire nel modo più veloce possibile. Per questo motivo molti trailer non superano i 150 secondi. La loro durata ottimale, tuttavia, si aggirerebbe tra i 90 e i 120 secondi. Detto questo, vi sono anche trailer molto più lunghi. In questo breve lasco di tempo va offerta al pubblico la prima impressione del filmato realizzato e stimolato il suo interesse. In due-tre minuti bisogna riassumere la storia raccontata dando un’idea chiara dei suoi contenuti e prestando comunque attenzione a non svelarne il finale. Inoltre, dal momento che un documentario è basato sui fatti, il trailer non può trarre in inganno il pubblico, deve presentare tutte le informazioni con lo stesso tono usato all’interno di tutto il programma219. P. Pepe e J. W. Zarzynski, nel loro libro Documentaru Filmmaking for Archaeologist, riassumono efficacemente le principali caratteristiche di un trailer. Gli autori affermano che un trailer dovrebbe: 1. fornire il titolo del documentario; 2. presentare la compagnia di produzione ed eventualmente quella di distribuzione; 3. catturare subito l’attenzione dello spettatore; 4. introdurre gli spettatori alla storia del documentario e ai suoi conflitti; 5. introdurre i protagonisti del documentario; 6. riassumere brevemente il documentario senza svelarne il finale; 7. usare le migliori riprese per interessare gli spettatori; 8. esibire alcune qualità cinematografiche; 218 LINDENMUTH, 2011. 219 PEPE, ZARZYNSKI, 2012, pp. 181-184; LINDENMUTH, 2011. 132 9. usare una musica grandiosa e cambiarla più volte nel corso del 150 secondi previsti; 10. ribadire il titolo del documentario e riportare il cast, la troupe e le altre informazioni necessarie alla fine. La realizzazione di un trailer per il documentario “Nora il racconto dell’archeologo”, piuttosto che per scopi pubblicitari, è legata maggiormente alla necessità di presentare il filmato alla commissione nel giorno della discussione e in tutti quei contesi in cui, per motivi di tempo, non sarebbe possibile mostrarlo nella sua interezza. Come K. J. Lindenmuth suggerisce, nel suo libro Come girare documentari, la realizzazione del trailer può iniziare solo successivamente la conclusione del montaggio del documentario. Solo con i contenuti definitivi ed avendo ben chiaro lo sviluppo della storia, infatti, è possibile estrarre i fotogrammi migliori 220 . Pertanto, riguardando più volte il prodotto finito, si è proceduto all’annotazione delle parti più rilevanti e delle frasi più significative in grado di comunicare, sinteticamente, il maggior numero di informazioni e restituire una visione d’insieme dell’intero filmato. Avendo poco tempo a disposizione era necessario catturare subito l’attenzione, si è deciso così di adottare un ritmo vivace e incalzante. Per fare questo è stato necessario ricorrere all’alterazione di alcune sequenze e all’accompagnamento musicale (alterazione che riguarda, naturalmente, l’aspetto formale e non quello contenutistico). Infatti, anche per la creazione dell’anteprima è importante prestare attenzione alla comunicazione con il pubblico e rispettare i principi divulgativi ed istruttivi del filmato. Pertanto alle immagini di presentazione del sito di Nora sono state intervallate scene che illustrano particolari aspetti del lavoro dell’archeologo. In questo modo si riesce a trasmettere, in un lasco di tempo breve, un’idea sia del sito archeologico stesso, sia della complessità dei metodi delle indagini scientifiche in corso. 5.4.2 La fruizione turistica Come più volte specificato, il documentario realizzato si rivolge a due target di spettatori principali: gli studenti e i turisti. Mentre il gruppo rappresentato dagli studenti è, di per sé, facilmente definibile e circoscritto, non solo per età e formazione, ma anche per gli aspetti motivazionali legati all’apprendimento e all’orientamento universitario, il gruppo variegato rappresentato dai turisti 220 LINDENMUTH, 2011. 133 necessita invece di un’ulteriore specificazione. Fondamentale, anche in questo caso, è partire dalla base dell’argomento: ovvero definire il fenomeno turistico. A differenza del viaggio, che è un’attività assai antica221, il turismo ha una lunga tradizione ma una breve storia. Il fenomeno turistico infatti non è sempre esistito. È nato durante l’età moderna, parallelamente alla rivoluzione industriale: per la precisione la sua data di nascita si colloca alla fine del XVIII secolo, in Inghilterra222. Le evoluzioni subìte da allora lo hanno reso un fenomeno complesso e un ambito di ricerca recente, stimolante e, allo stesso tempo, di particolare interesse per molte discipline223. Le difficoltà di definizione del suddetto fenomeno emergono già nel momento in cui si cerca di definire il termine stesso. La parola turismo, infatti, si presenta non specifica e di uso comune224. Quindi, per non correre il rischio di perdersi in una babele di significati, è necessario individuare le diverse accezioni del termine adottando un criterio d’analisi e stabilendo il criterio logico dei vari significati presi in esame. Tre sembrano essere gli usi principali del concetto: 1. turismo come evento del mondo esterno, ossia il comportamento messo in atto dai turisti; 2. turismo come campo d’indagine accademico, una comunità il cui scopo è quello di costruire un corpo di conoscenze; 3. turismo come educazione, un fenomeno che ha assunto importanza negli ultimi anni a fronte della necessità di formare operatori preparati. Da quanto detto si comprende la difficoltà nel trovare una risposta alla domanda “cos’è il turismo?”. Non esiste, infatti, una lettura univoca del fenomeno né a livello del senso comune né a quello della conoscenza scientifica. Conseguentemente non esiste nemmeno un unico approccio metodologico da 221 Si riscontra in genere una distinzione tra viaggio e turismo in merito al comportamento e alla profondità dell’esperienza di viaggio. Il turista è separato, contrapposto al viaggiatore, quest’ultimo è in grado di stabilire un contatto più profondo con i luoghi e le persone incontrate, entrando immediatamente in una sorta di relazione autentica con la popolazione locale. Per approfondimenti vedi VILLAMIRA, 2001, pp. 9-25. 222 MAERAN 1996, pp. 22-24. 223 MAERAN, 2006, pp.15. 224 Il termine turismo ha le sue origini agli inizi del XIX sec (The Oxford English Dictionary, 1814). Dumazadier riporta che la parola turismo fu inventata da Stendhal per indicare chi viaggia per divertimento, per istruzione e non più per interesse o necessità (MAERAN 1996, pp. 23). 134 parte delle discipline che si intessano del suo studio, tra queste: la psicologia, la geografia, l’economia, sociologia e l’antropologia225. 5.4.2.1 La motivazione turistica Le persone, guidate da scopi precisi e tese alla soddisfazione dei propri bisogni, si muovono nell’ambiente in modo da essere in grado di cogliere le opportunità che esso offre. Molto ragionevolmente possiamo dire che, se non esistesse nell’uomo un bisogno forte e radicato (curiosità, desiderio di conoscere l’ignoto, avventura, desiderio di cambiamento) in grado di spingerlo al viaggio, il turismo come pratica sociale, così come oggi noi lo viviamo, non esisterebbe226. Incorre, dunque, anche nell’agire turistico, il concetto di motivazione, già delineato nel paragrafo 2.1 di questo elaborato 227 . In questo contesto, si parla di motivazione per indicare le forze sociopsicologiche che inducono una persona a scegliere l’esperienza turistica o, più in specifico, una determinata località o tipo di attività228. La motivazione tradizionale, che vede la vacanza come un periodo di riposo dallo stress quotidiano, venne nel tempo gradualmente sostituita da un concetto di vacanza come un periodo attivo in cui conoscere e sperimentare situazioni, luoghi nuovi e interessanti e comunicare con persone di altri paesi. La vacanza divenne quindi sempre più una necessità e, nel contempo, una combinazione di impegno e di svago. Così oggi i prodotti non vengono più considerati solo per le caratteristiche materiali e funzionali, ma per la loro capacità di fornire gratificazioni psicologiche strettamente connesse con la definizione della propria personalità. Accanto alle classiche motivazioni di carattere propriamente fisiologico (recupero dell’energia) vengono sempre più evidenziate motivazioni relative al bisogno di stima e di autorealizzazione che rendono il turismo un oggetto socialmente non neutro229 (tabella IV). Categorie motivazionali Motivazioni fisiche Motivazioni • riposo del corpo e della mente • per motivi di salute (prescrizione medica) 225 MAERAN, 2004, pp. 4-5. 226 MAERAN, 2004, pp. 6. 227 È necessario precisare che il concetto di motivazione al viaggio non dev’essere confuso con quello di domanda turistica. Più correttamente la domanda è il risultato della motivazione. 228 Per approfondimenti vedi MAERAN, 2004, pp. 32-36; MAERAN, 1996, pp. 57. 229 MAERAN, 2004, pp. 19; MAERAN, 2006, pp.18. 135 • per fare sport • per piacere, divertimento, fare acquisti • curiosità per paesi, luoghi e persone stranieri • interessi in campo artistico, musicale e folkloristico Motivazioni culturali • interesse per luoghi storici (monumenti, chiese, rovine) • sperimentare eventi specifici • visitare amici e parenti • incontrare nuove persone e cercare nuove amicizie • cercare nuove e differenti esperienze in ambiti diversi Motivazioni personali • fuggire dal proprio ambiente sociale (desiderio di cambiamento) • l’eccitazione personale dovuta al viaggiare • visitare luoghi e persone per ragioni religiose, spirituali (pellegrinaggi) • viaggiare per viaggiare • per hobbies • per continuare lo studio e la propria formazione Motivazioni di status e prestigio • per cercare contatti d’affari e obiettivi professionali • per conferenze e meetings Tabella IV – Le motivazioni del turista (MCINTOSH, 1977 in MAERAN, 1996). 5.4.2.2 Dal turismo ai turismi: un pubblico per “Nora il racconto dell’archeologo” In quest’ottica, dunque, non si può più parlare di un'unica forma di turismo, il turismo di massa dell’epoca moderna (le cui variabili tradizionali erano il sole, la natura e la famigliarità), ma ci troviamo costretti a parlare di turismi e, conseguentemente, delle diverse categorie di turisti che segnano l’epoca post-moderna. 136 Nel classificare i comportamenti turistici bisogna considerare le intenzioni alla base del modo di agire delle persone. Nel modello di Fishbein e Ajzen (1975) le intenzioni derivano sia dall’atteggiamento che dalla pressione sociale. Gli atteggiamenti sono determinati dall’aspettativa del risultato moltiplicata per il valore attribuito al risultato stesso; mentre la pressione sociale deriva dalle assunzioni normative moltiplicate per la motivazione ad aderire, cioè da quello che gli altri si aspettano che la persona faccia e dalla motivazione a conformarsi ai desideri degli altri230. Varie sono le classificazioni dei comportamenti turistici in base agli aspetti del viaggio, ne riportiamo di seguito alcune. In base allo stile di viaggio Perrault e Dardern (1977) hanno individuato 5 tipologie di turista231: • i viaggiatori a risparmio: hanno un reddito medio, sono attenti agli aspetti economici della vacanza, scelgono il campeggio, i viaggi storici ed educativi; • gli avventurieri: sono in prevalenza giovani con un buon livello di istruzione e con un reddito medio-alto preferiscono viaggi rischiosi e le attività da jet-set; • i moderati: si collocano nella media sia rispetto alle variazioni demografiche (età, scolarità, ecc.) si per reddito, rappresentano il turista medio; • i casalinghi: preferiscono viaggi rilassanti ma non amano particolarmente viaggiare; • i vacanzieri: hanno un’istruzione più bassa, sono molto attivi da un punto di vista sociale, trascorrono le vacanze con la famiglia sperando di fare viaggi cosmopoliti e progettando con molto anticipo le vacanze232. Krippendorf (1971), invece, ha analizzato le esigenze turistiche utilizzando una tecnica che integrava la segmentazione motivazionale (per individuare gli atteggiamenti verso il prodotto turistico) con quella della segmentazione psicografica (per definire gli stili di vita adottati dai consumatori). L’autore ha così identificato sei tipologie comportamentali: • alfa: persone dotate di un’elevata carica motivazionale • beta: persone poco aperte alle innovazioni e alle nuove attività; • kappa: persone conservatrici e tradizionaliste; • gamma: persone impegnate politicamente e culturalmente, ambientalisti e intellettuali; • sigma: persone che frequentano locali pubblici notturni; 230 MAERAN 2004, pp. 64-65. 231 Il campione in esame era costituito da cittadini nord americani. Precisazione questa necessaria poiché in base alla cultura del paese d’origine si distinguono anche forme di turismo diverse. 232 MAERAN 1996, pp. 42-43; MAERAN, 2004, pp. 65-66. 137 • omega: persone che vivono in condizioni di emarginazione, non integrate pienamente nella società233. Diversamente, Cohen (1974) pone la sua attenzione sull’elemento essenziale del turismo: la ricerca di novità e di cambiamento. L’autore individua così le seguenti tipologie di turista: • il vacationer trascorre in modo abitudinario le proprie vacanze, non è alla ricerca della novità ma di elementi conosciuti che possano infondergli sicurezza. Può altresì essere definito come il turista abituale attratto dal sole, dall’aria sana, dal buon cibo, e da un alloggio confortevole. • il sightseer ricerca la novità e rappresenta il turista nel senso più letterale del termine. Visita varie località, individuate e studiate accuratamente prima di partire. La sua attenzione è rivolta al movimento, al viaggio e meno al soggiorno. Ricerca i monumenti, i siti archeologici, i beni artistici o paesaggistici che rendono unica una nazione rispetto ad un'altra; • il drifter ama, invece, l’avventura per l’avventura. Ricerca destinazioni sempre nuove e diverse, parte senza una meta precisa e previlegia le località poco frequentate alla ricerca dell’autenticità in un esperienza esistenziale234. Gulotta (1991) riprende le analisi di Cohen e sviluppa il concetto di competenza turistica: l’autore ritiene ovvero che il comportamento turistico sia influenzato e determinato dal complesso di atteggiamenti, aspettative e motivazioni che fanno parte del bagaglio di esperienze propri dell’individuo. Le persone con una bassa competenza turistica ricercano nella vacanza soprattutto ricreazione (intesa come pura evasione, famigliarità, sicurezza e organizzazione); per chi, invece, possiede un’elevata competenza turistica, la vacanza è soprattutto attività (sportiva, culturale, ecc.) novità, ricerca del diverso, dell’inaspettato, autonomia e creatività235. Queste classificazioni non costituiscono, chiaramente, schemi fissi, bensì una persona può entrare a far parte di ognuna di queste tipologie in periodi diversi della propria vita o della propria carriera turistica. Ciò che in questa sede è di nostro interesse sottolineare, è che vi sono alcune caratteristiche in comune tra le classificazioni riportate che consentono di individuare un destinatario preciso all’interno del troppo vasto e variegato sistema composto dai turisti. 233 MAERAN 1996, pp. 42; MAERAN, 2004, pp. 67. 234 MAERAN, NOVELLO 1991, pp. 33; MAERAN 1996, pp. 45-46; MAERAN, 2004, pp. 68-69. 235 MAERAN 1996, pp. 50; MAERAN, 2004, pp. 70-71. 138 Il documentario “Nora, il racconto dell’archeologo”, infatti, si rivolge precisamente al turista che sceglie il viaggio storico ed educativo, una persona culturalmente impegnata e con un’elevata carica motivazionale. Si può a ragione credere che, ricercando la novità o attività alternative, questa tipologia di turisti sia interessata a partecipare ad una rassegna culturale. Essi, infatti, considerano la vacanza come cambiamento e apprendimento insieme. Altrettanto si può affermare per la categoria di turisti che prepara il viaggio studiando la destinazione, informandosi sulla storia del posto e cercandone le caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono. La raccolta delle informazioni è decisiva per la scelta della destinazione turistica. Nel corso della progettazione del viaggio i turisti potrebbero, per esempio, imbattersi nella visione del documentario online e, incuriositi, essere indotti a visitare il sito archeologico di Nora. Una precisazione questa importante in quanto, ogni forma di comunicazione risulta efficace qualora si abbia in mente il destinatario del messaggio e ad esso venga adattata forma e contenuto della comunicazione stessa. 139 140 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Se “Nora, il racconto dell’archeologo” possa divenire un esempio di divulgazione archeologica di successo solo la diffusione potrà dirlo. Ciò che in questa sede si intende sottolineare, invece, è che esso rappresenta un esempio di divulgazione scientifica basato su saldi contenuti ma costruito con un lessico e un livello di comunicazione adatto ad un pubblico medio. L’esperienza fatta nel montaggio di questo documentario mi porta a ribadire l’importanza di alcune considerazioni scritte nelle pagine del presente elaborato. La prima e forse fondamentale constatazione è legata al ruolo centrale assunto dalla comunicazione nella società attuale. Come già scritto in precedenza, l’importanza delle cose è oggigiorno direttamente proporzionale alla nostra capacità di comunicarle in modo appropriato 236 . Questo pensiero è riscontrabile soprattutto nelle nuove generazioni: l’abitudine di pubblicare, condividere, cercare aggiornamenti è ormai parte della loro quotidianità. Le discipline scientifiche, se vogliono sopravvivere, devono adeguarsi a questa continua richiesta d’informazioni e sfruttare tutti i mezzi che la rivoluzione delle comunicazioni ha messo a loro disposizione. Attualmente uno dei principali canali di comunicazione è rappresentato dai social network che costituiscono uno strumento di informazione rapido, globale ed efficace. Prescindere dal loro uso, oramai, non è più possibile: infatti, molti sono i progetti di ricerca dotati di una pagina Facebook, di un account Twitter o, nei casi più illuminati, di un canale YouTube dedicato alla diffusione di brevi filmati divulgativi. Questo non deve chiaramente inficiare base scientifica dei contenuti: infatti, si può essere scientificamente corretti ma allo stesso tempo semplici ed efficaci. L’importanza della semplicità espressiva in contesti accademici o di ricerca viene, talune volte, inconsapevolmente sottovalutata. Invece, nel momento in cui ci relazioniamo con il pubblico dovremmo chiederci: come faccio a rendere interessante lo studio di una cisterna romana? Oppure, come possono spiegare in maniera avvincente che l’analisi di un certo deposito archeologico ha dato 236 ZANINI, RIPANTI, 2012. 141 luogo ad una certa ricostruzione storica? Dopotutto un conto è scrivere relazioni stratigrafiche e compilare diagrammi matrix, un conto è farsi narratori del proprio lavoro e protagonisti di quelle riflessioni che stanno alla base delle interpretazioni sul campo. In secondo luogo, la scelta del mezzo video-narrativo per la divulgazione scientifica può rappresentare una risposta valida da parte della disciplina archeologica nell’era digitale della multivocalità, della velocità di scelta e della grande portata comunicativa. Oggi, il modo con cui scegliamo di dire le cose ha un notevole impatto sul risultato e sulla divulgazione della conoscenza stessa. Il video, in questo contesto, costituisce una forma di comunicazione dinamica, moderna e creativa in grado rispondere efficacemente alle necessità di una disciplina varia come l’archeologia e alle continue richieste di una società che ha sete di conoscenza. Inoltre, le sue molteplici possibilità di declinazione consentono di raggiungere un pubblico sempre più ampio, nell’ottica di quel continuum comunicativo che è stato precedentemente descritto. Il linguaggio tradizionale può essere così affiancato da un nuovo tipo di comunicazione adatta alla trasmissione della conoscenza sia all’interno dello stesso gruppo di ricerca, sia nella più ampia comunità scientifica e sia nella società in generale, in direzione di un linguaggio espressivo comune. Un’edizione scientifica di uno scavo archeologico non potrà essere sostituita da un video, ma certamente da esso affiancata nell’ottica di raggiungere un pubblico di fruitori molto più ampio. Le potenzialità del mezzo video narrativo possono, inoltre, venire rafforzate se veicolato dagli attuali prioritari canali di comunicazione. Facebook, per esempio, ha dato ampio spazio negli ultimi tempi al video come strumento fondamentale di narrazione. Alcune prospettive di sviluppo del presente progetto si accodano proprio a queste considerazioni e sfruttano le possibilità offerte dal mondo dei social: si programma infatti di realizzare, nel corso della missione archeologica 2016, dei brevi e semplici video divulgativi da pubblicare settimanalmente sulla pagina Facebook di rappresentanza 237 . L’obiettivo è quello di coinvolgere e aggiornare la comunità virtuale sul prosieguo delle indagini e sui risultati ottenuti, senza essere sottoposti a limiti di target o numero di persone raggiungibili. Una volta confermato il successo di questo modello di comunicazione ulteriori prospettive di sviluppo potrebbero riguardare la produzione di filmati più elaborati e lunghi che, per queste stesse caratteristiche, non avrebbero fortuna sui social ma potrebbero trovare un efficace canale di diffusione su YouTube. Raggruppati in playlist, in base agli argomenti trattati o alle tematiche sfiorate, i 237 https://www.facebook.com/scavidinora/?fref=ts 142 cortometraggi divulgativi costituirebbero una piccola serie documentaria che andrebbe a completamento del documentario già prodotto. In terzo luogo, raccontare una storia significa anche comprenderla, farla propria. La divulgazione perciò ha il duplice vantaggio di istruire, istruendo. Per riuscire a spiegare qualcosa a qualcuno, infatti, è necessario acquisire una conoscenza approfondita di quell’argomento e di tutto il contesto che gli fa da sfondo. Ritornare sulle ricostruzioni interpretative e sforzarsi di ripensarle in termini più quotidiani e concreti può portare gli stessi archeologi a porsi nuove domande e riflessioni più approfondite circa gli sviluppi e i metodi della propria ricerca. Tutte queste riflessioni si possono, a ragione, inserire nell’ambito di quella che recentemente è stata chiamata archeologia sociale e/o pubblica. Essa è da intendere, invero, come quel processo di ricerca ed azione che vuole investigare i rapporti e le interazioni tra archeologia e contemporaneità per avviare una vera e propria operazione culturale238. L’obiettivo è, da un lato, cercare di coinvolgere la comunità locale nelle stesse attività archeologiche e di tutela dei beni culturali e, dall’altro, di riassegnare importanza alla figura professionale dell’archeologo e al suo ruolo di mediatore tra presente e passato nella convinzione che la conoscenza archeologica possa dimostrarsi utile alla società. Con la produzione del documentario “Nora, il racconto dell’archeologo”, e con lo studio teorico che ad esso si è affiancato, si è cercato di riflettere su questi temi, che oggi più che mai sono di vitale importanza per la disciplina, e trovare risposta agli interrogativi sollevati: archeologia e video sono compatibili? Può lo strumento video narrativo apportare un contribuito positivo nell’ambito della divulgazione archeologica? Esaminando il lavoro appena concluso la risposta non può che essere affermativa. Il binomio videoarcheologia si rivela, infatti, uno strumento valido per dare voce all’archeologo e far parlare l’archeologia stessa, inoltre, fare video per la divulgazione scientifica risulta perfettamente coerente con le forme di comunicazione del mondo contemporaneo. 238 PATERLINI, RIPANTI, 2016. 143 144 ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE ANVUR, 2014. 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Innanzi tutti ringrazio il Prof. Jacopo Bonetto che ha voluto osare proponendomi un argomento inusuale, una tesi diversa e alternativa, e ha saputo sostenermi durante tutto il suo sviluppo. Il suo entusiasmo mi ha spinta a vincere l’iniziale indecisione e mi ha incoraggiata ad intraprendere questa nuova strada. La Prof.ssa Francesca Pazzaglia che ha allargato le mie conoscenze e proposto fruttuosi spunti di riflessione, i suoi suggerimenti si sono rivelati un saldo punto di riferimento per affrontare le tematiche, a me non famigliari, legate alla psicologia. Il Prof. Mirco Melanco che ha condiviso con me la sua esperienza professionale rendendo possibile la produzione di questo documentario. Il Dott. Antonio Zanonato e Alberto Fanin che, con pazienza e competenza, mi hanno aiutata nelle riprese e nella realizzazione di “Nora, il racconto dell’archeologo” sviluppando la mia esperienza di montaggio video e approfondendo le mie conoscenze tecniche sull’argomento. Il Prof. Antonio Andreetta che ha prestato la sua voce per narrare il meraviglioso ed emozionante mondo dell’archeologia, mondo che spero continui ad essere parte integrante della mia vita. Ma non solo, dietro ad ogni grande film ci sono grandi attori e i miei ringraziamenti vanno anche a tutti coloro che, vinta la timidezza e l’imbarazzo iniziale, si sono posti davanti all’obiettivo mettendo a disposizione, non solo le loro competenze, ma anche le loro personalità e le loro idee. Il Prof. Andrea Raffaele Ghiotto con la sua immancabile precisione, l’entusiasmo della Prof.ssa Rita Deiana, la totale spontaneità di Arturo Zara, l’appoggio appassionato di Simone Berto, il coraggio di Valentina Mantovani e la professionalità di Filippo Carraro. Le vostre opinioni e i vostri consigli sono stati un costate stimolo per migliorare; gli scambi di idee, uniti agli inaspettati cambi di rotta, una fonte d’ispirazione. 157 Un affettuoso grazie anche ai migliori attori non protagonisti, Federica Stella, Maria Chiara Metelli, Alessandro Mazzariol, Federica Patuzzi e Andrea Lintas che, con pazienza ma spero anche una buona dose di divertimento, sono state le comparse di questo documentario, assieme ai già nominati Filippo e Arturo. Grandi! Alle spalle di una grande sceneggiatura vi è poi una fantastica storia. Quella che vi ho raccontato è stata costruita sui libri e sui banchi del Liviano, ha viaggiato in treno, è volata fino ad Istanbul ed è scesa giù nelle miniere della Val Leogra, si è avventurata tra rovi e zecche, ha scavato nell’umidità di un sito palafitticolo e, allo stesso tempo, sotto il sole sardo, con la cazzuola in una mano e l’asta del prisma nell’altra (“bollaaa…”) e, come in molti dei piatti cucinati in casa Olla, anche qui c’era un ingrediente segreto: la passione! Molte sono le persone che hanno fatto parte di questa storia e hanno contribuito a renderla indimenticabile. L’elenco di certo sarebbe infinto e nominarli tutti impossibile! Ci tengo, in ogni caso, a ricordare il mitico Prof. Armando De Guio, la carissima Prof.ssa Mara Migliavacca e tutti gli archeo-ricognitori con cui mi sono avventurata lungo i pendii e le valli del torrente Leogra: in particolare, gli immancabili Filippo Carraro, Amy Rodighiero, Alberto Panozzo, il Dott. Zotti con la dolce Agnese, Marika Cogo, Don Gianatonio Urbani, e Andrea Meleri. Lo squadrone Norense che ha contribuito a rendere la penisola di Nora la migliore scenografia di sempre: Federica Stella, in arte DJ Fedez, amica vēra (che, si sa, è molto più di vera), l’orso Alessandro Piazza e il polemico Leonardo B(a)ison, compagni di serate like no tomorrow; gli inimitabili squalorsi, una spēcie davvēro rara, Alessandra Marinello, Giulia Fioratto, Chiara Andreatta, Roberta d’Andrea, detta Robyonecheroby, Francesco Verdirosa e, chiedo scudo, anche Luca Giurato; il fenicio Alessandro Coppola, Federica Trivisonno, Caterina Previato, Ludovica Savio e Matteo Tabaglio; infine, i grandi divulgatori di Nora 2016 Arturo Zara novello Alberto Angela affiancato da un Edoardo Brombin improvvisato Piero Angela, Alessandro Mazzariol che da quel ciak non smetterà mai di odiarmi, Eliana Bridi con il suo sorriso “tagliente”, Alessandra Marinello per tutti i divertentissimi 22 ciak e Luca Zamparo, il solito PQttone; ma ancora tutta la troupe che ha collaborato in questa esperienza “social”, Beatrice Marchet, Jessica Capellato, Emily Salamon, Beatrice Peripoli e Matteo Zampar. Infine, spostandomi verso paesaggi più famigliari, desidero ringraziare anche le amiche di una vita, Chiara, Stella, Lalla e Betta che sanno essermi vicine anche quando i chilometri e gli impegni ci distanziano. Il mio ragazzo Luca che mi sostiene e mi vizia, qualcuno dice anche sopporta… Una cosa è certa, la vita con te è un’instancabile e meravigliosa avventura! 158 Dulcis in fundo, il pensiero più affettuoso va alla mia famiglia, senza il cui appoggio tutto ciò non sarebbe stato possibile. A mia sorella Erica, sempre pronta ad ascoltare, che davanti alle mie indecisioni mi incoraggia a pensare con la pancia (lei certo capirà cosa intendo). Ai miei più grandi fans: la mia super mamma, controparte di discussioni vivaci che nascono solo perché ci vogliamo tanto bene, e il mio caro papà che è la persona più forte e coraggiosa che conosca, voglio che sappia che faccio sempre il tifo per lui. Forza papi! Sono loro le colonne portanti su cui posso sempre contare e alle quali dedico questo lavoro. 159