Gli uomini e il tempio
Introduzione
“Tu, o Dio mio Signore,
Tu mia Madre, Tu mio Padre,
Tu signore della collina e della valle
Ora, dopo tre soli, dopo tre giorni,
Comincerò a raccogliere il mio grano
Davanti alla Tua bocca, davanti alla Tua faccia.
Un poco del cibo e della bevanda, che sono Tuoi, io
li do a te.
È quasi nulla ciò che do a Te,
Ma io ne ho in abbondanza, per me,
Da mangiare e da bere;
Tu l’hai rivelato al mio spirito e alla mia vita:
Tu mia Madre, Tu mio Padre.
Io comincerò la mietitura,
Ma in questo giorno io non sono pronto per la
mietitura
Senza la Tua parola e senza il Tuo favore.
Chi sa per quanti soli, per quanti giorni mieterò?
Ci vuol tempo per mietere fra le erbacce.
Io non posso farlo che lentamente.
Chi sa fino a quando potrò parlarti,
O Tu mia Madre, o Tu mio Padre,
Tu Essere celestiale, Signore delle colline e delle
valli?
Io ti parlerò ancora:
Perché no, mio Dio?”
Gli inizi della religione si perdono nella più remota antichità, ma possiamo dire che da quando i primi uomini cominciarono a seppellire i propri morti ed a venerare esseri misteriosi e terribili, il cui potere avvertivano nei fenomeni della natura, ma dei quali non avevano esperienza diretta, la religione ha accompagnato, in varie forme, tutte le vicende della specie umana. Certo, sono sempre esistiti, e tuttora esistono - in gran numero - uomini non religiosi. Ma per moltissimi uomini di tutti i tempi è stato il rapporto col divino ciò che ha dato forma e senso alla propria vita.
Il testo che precede, ad esempio, è un antico canto della mietitura, in uso presso una tribù del nord America, gli indiani Kekchi. Come molti altri inni simili, è stato tramandato oralmente, di generazione in generazione, e solo in tempi molto recenti alcuni studiosi occidentali l’hanno registrato, tradotto, e messo nero su bianco. Il testo così come è arrivato a noi ha alcuni aspetti primitivi, altri che denotano un pensiero religioso già complesso ed elaborato (si parla, tra l’altro, di “un Essere Celestiale”, cosa che presuppone un elevato livello di astrazione). Ciò che conta per noi, all’inizio del nostro percorso sulle religioni del mondo antico e del medioevo, è sottolineare alcune caratteristiche, che si possono trovare in diverse epoche della storia delle religioni. Anzitutto, la comunità degli indiani Kekchi si affida alla protezione del suo Dio in uno dei momenti decisivi della sua vita di piccola società agricola: la mietitura, il raccolto. Ciò che è più importante viene affidato all’opera del Dio, senza il quale lo sconosciuto, antico cantore indiano ritiene di “non essere pronto” per il suo lavoro, dal quale dipenderà il benessere e la sopravvivenza stessa della sua comunità. Il rapporto col Dio, pertanto, è senz’altro di deferenza e sottomissione - il Dio è “Signore della collina e della valle” - ma non è privo di una evidente tenerezza: e infatti, prima che Signore, il Dio è definito “Madre” e “Padre”. Al Dio si sacrifica una parte della propria modesta ricchezza, in segno di riconoscenza per il suo aiuto. Infine, parte essenziale di questo rapporto è la Parola del Dio, e la possibilità di parlare con lui e di esserne ascoltati (“Io ti parlerò ancora: perché no, mio Dio?”).
Ricordiamoci di tutti questi elementi - rapporto con un Dio persona, comunicazione orale continua, preghiera, sacrificio, centralità sociale. Sono quelli fondamentali per studiare e comprendere il fenomeno religioso.
Preistoria
Il culto dei morti
Cranio di un uomo di Neandertal, ritrovato in una grotta presso san Felice al Circeo.
È ben visibile l’allargamento del foro occipitale, fatto allo scopo di estrarne il cervello. Il cranio è stato ritrovato su un tratto lastricato di pietre, e intorno al teschio - seppellito senza il resto del corpo - sono stati ritrovate delle pietre disposte in cerchio. La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che si tratti dei resti di un sacrificio umano.
La stirpe degli uomini di Neandertal fu il tipo di ominide dominante durante la terza era interglaciale, e la prima parte dell’ultima glaciazione. Anche se il loro aspetto era tozzo e sgraziato, almeno in base ai nostri standard estetici, essi erano creature molto intelligenti, e il loro cranio, più basso di quello tipico dell’Homo sapiens, aveva una capacità molto ampia, ed ospitava un cervello di dimensioni simili alle nostre. Non a caso, dobbiamo ad essi alcuni importanti passi in avanti lungo la strada che ha portato allo sviluppo di quella che oggi consideriamo l’umanità. In altri capitoli ci occupiamo della loro abilità nel costruire utensili, ed abiti contro il freddo feroce dell’era glaciale, ma qui ci occupiamo di un altro grande passo in avanti che essi hanno compiuto, quella che potremmo chiamare la scoperta della dimensione religiosa dell’esistenza umana. Nei siti dove sono stati trovati i resti fossili di questi antichi ominidi, infatti, sono stati ritrovati inequivocabili segni della loro usanza di seppellire i morti in modo cerimoniale: lastre di pietra e corni d’animale venivano usati per delimitare le tombe, ed accanto ai morti venivano lasciati cibo e attrezzi. Non c’è dubbio che tutto ciò indichi la credenza in qualche forma di sopravvivenza dopo la morte, ed è anzi possibile che i defunti fossero ritenuti depositari di poteri misteriosi e spaventosi, ed occorresse quindi renderseli propizi con riti e con doni.
I canti delle ombre.
Le antiche credenze legate al culto dei morti sono state rivissute e rielaborate lungo una grande parte della cultura africana. Qui riportiamo un esempio tratto dall’opera di uno dei più grandi poeti africani moderni, Leopold Senghor, protagonista del processo di decolonizzazione. I versi sono tratti dalla sua prima raccolta di poesie, Chants d’ombre (1945)
“Coloro che sono morti non se ne sono mai andati:
essi sono nell’ombra fitta.
I morti non sono sotto terra:
sono nell’albero che stormisce,
sono nel bosco che si lamenta,
sono nell’acqua che scorre,
sono nell’acqua che dorme,
sono nella capanna, sono in mezzo alla folla, i morti non sono morti
Coloro che sono morti non se ne sono mai andati:
essi sono nel seno della donna,
sono nel bambino che si lamenta,
nell’incendio che brucia.
I morti non sono sotto terra:
sono nel fuoco che si spegne,
sono nell’erba che piange,
sono nelle rocce che gemono,
sono nella foresta, sono nella casa,
i morti non sono morti”.
Gli uomini di Neanderthal non sopravvissero all’ultima glaciazione: le loro pratiche religiose furono però riprese e reinterpretate dalla stirpe vincente di ominidi, quella dell’Homo sapiens, dalla quale tutti noi discendiamo. Le forme più primitive di sepoltura praticate dall’Homo sapiens erano molto simili a quelle dei neandertaliani, ma col tempo si manifestarono importanti differenze: venne introdotta, ad esempio, la pratica della sepoltura secondaria, con la quale i corpi venivano prima lasciati decomporre completamente, per poi seppellire le ossa. A partire dal periodo neolitico, poi, divenne diffusa la pratica di bruciare i cadaveri e di conservarne le ceneri (cremazione). E, sempre nel periodo neolitico, i beni che venivano lasciati accanto ai defunti divennero più ricchi e più abbondanti: i bisogni dei morti nell’aldilà si facevano più lussuosi, mano a mano che la società da cui essi provenivano si faceva più ricca e più stratificata. Ed anche i morti non furono più tutti uguali: sono state ritrovate sepolture molto parche, spesso accanto ad altre molto più sfarzose.
È difficile dedurre da questi ritrovamenti l’esistenza di una fede ben definita nell’immortalità dell’anima individuale, e in generale non si può determinare l’avvento di un concetto così complesso basandosi solo sulle prove archeologiche (che peraltro sono le uniche di cui disponiamo, per questo periodo). Se confrontiamo infatti queste pratiche con quelle dei popoli che ai nostri giorni vivono in condizioni analoghe a quelle dei popoli del neolitico, vediamo che pratiche simili corrispondono a concezioni dell’aldilà molto differenti tra loro. Ciò di cui possiamo esser certi, comunque, è che queste pratiche indicavano un collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti. E questo legame tra cielo e terra, che forse comportava qualche primitiva forma di culto degli antenati, si può considerare alle origini della religione.
L’arte paleolitica
Dipinti preistorici.
Bisonte dipinto sulle pareti della grotta di Altamira, e dipinto di cavallo ritrovato nella grotta di Lascaux. Entrambi i dipinti risalgono, all’incirca, al 15.000 a.C.
Una delle testimonianze più sorprendenti giuntaci dal mondo degli antichi ominidi è senz’altro quella della loro splendida arte figurativa. Si può dire, in effetti, che nelle antiche e primitive tribù di cacciatori nomadi ci siano stati gli inventori dell’arte figurativa. Gli esempi maggiori dell’abilità artistica dei primitivi sono stati scoperti nelle caverne di Altamira, in Spagna, e in quelle di Lascaux, in Francia, e sono databili intorno al 15.000 a.C. Spettacolari gruppi di dipinti dai colori vivaci ricoprono le pareti di queste caverne, e ritraggono centinaia di animali - cervi, bisonti, cavalli - e scene di caccia.
Questi esempi spettacolari non sono le prime espressioni artistiche che ci sono giunte dal passato: figure in pietra e in avorio erano state intagliate e scolpite molti millenni prima, e molte di esse raffiguravano figure femminili, spesso dai fianchi larghi e dai seni abbondanti, segno ed auspicio di fecondità.
La funzione di queste prime espressioni artistiche non era solo estetica: i primi pittori non rappresentavano i loro animali per il puro piacere di farlo, ma con una precisa intenzione magica e propiziatoria. Queste raffigurazioni facevano parte di rituali che avevano lo scopo di assicurare il buon esito delle cacce future: raffigurare la selvaggina, infatti, significava in qualche modo controllarla, impadronirsi della sua forza. E raffigurarla nel momento in cui veniva ferita mortalmente significava favorire la ripetizione di un simile esito. Gli antichi pittori erano dunque anche degli sciamani: venivano ritenuti cioè depositari di poteri magici, importanti al punto che venivano esentati dal lavoro manuale degli altri, e divennero degli specialisti del sacro. Nella egualitaria struttura sociale delle tribù nomadi del paleolitico si insinuava così la prima differenziazione tra chi lavorava e chi controllava il potere, un processo che destinato ad avere molti e complessi sviluppi ( percorso sulla società).
Le Veneri della preistoria.
La cosiddetta “Venere di Willendorf” (Vienna, Museo di Storia Naturale), accanto ad un’altra immagine femminile, anch’essa risalente al paleolitico superiore.
L’immagine della donna, nell’arte paleolitica, era legata all’idea di fecondità, ed era spesso rappresentata in modo da evidenziare questa sua caratteristica.
E in effetti l’importanza sociale dei dipinti e delle prime raffigurazioni artistiche era paragonabile a quella propiziatoria: i precari e mutevoli gruppi di cacciatori venivano ad avere un repertorio di immagini in comune, che sentivano come appartenente alla propria tribù. Ciò facilitò l’affermarsi di un’identità collettiva, non più limitata alle esigenze tecniche della caccia e della sopravvivenza, ma fondata artificialmente - un’appartenenza che veniva ritenuta magica, e quindi tanto più forte e pervasiva.
Totem e tabù
La divisione tra bene e male, l’identificazione di un sistema di doveri e di virtù sancito dalla volontà della divinità, è stata senz’altro un passo molto precoce nella storia dell’uomo, anche se questi concetti-guida avevano, nelle religioni delle origini, una forma diversa da quella etica con cui noi li identifichiamo. Ovviamente è impossibile dire quando esattamente queste idee si sono affermate, ma in molte culture tribali le idee di bene e male sono chiaramente legate alla volontà degli dei e degli antenati. Il concetto di male, in questo antico senso, si indica con la parola tabù, che è un termine polinesiano che indica ciò che è “segnato dagli dei”, e quindi è proibito: ciò può valere per alcuni luoghi, per alcuni oggetti ed anche per alcune persone, che non possono essere toccate dagli altri membri della tribù. Ad esempio, alcune tribù ritengono “tabù” le donne durante il periodo mestruale, molte altre considerano tabù i cadaveri, ma ce ne sono anche di quelle che considerano tabù il terreno toccato da un neonato.
Ciò che invece noi chiameremmo bene è spesso identificato con un oggetto naturale, che viene definito col termine totem. Il totem può essere un oggetto inanimato o un animale, o anche un fenomeno atmosferico. Ciò che conta è che con esso si instaura una particolare relazione di appartenenza, di intimità con un gruppo di persone, che acquista la sua identità proprio con l’identificarsi come “coloro che appartengono a quel particolare totem”. Il totem è visto come un compagno, dotato di poteri soprannaturali, e come tale è rispettato e venerato. Ciò che appartiene al totem è sentito come “buono”, e preferibile a tutto ciò che non gli appartiene.
Sciamano che cura un suo paziente.
Lo sciamano è colto in uno dei classici gesti curativi, quello della “imposizione delle mani”. Questa statuetta, custodita al museo Larco Herrera di Lima, proviene dall’America precolombiana. Con l’arrivo di Colombo, e poi dei conquistadores e dei missionari, quelle popolazioni sono state convertite, più o meno forzatamente, al cristianesimo, ma alcune usanze sciamaniche sono rimaste ben radicate, anche se si sono mischiate al nuovo credo. Un fungo allucinogeno, ad esempio, di quelli usati dagli sciamani per ottenere le proprie visioni, viene chiamato “erba di san Pietro”, perché, come il santo, possiede le chiavi del Paradiso.
Gli sciamani
Abbiamo incontrato i primi sciamani nei paragrafi precedenti, come specialisti della raffigurazione magica e propiziatoria degli animali. Ma lo sciamanismo fu un fenomeno complesso, che col tempo finì col comprendere una grande varietà di pratiche e credenze - ed in effetti le comprende ancora, in tutte quelle parti del mondo dove esistono ancora culture la cui organizzazione sociale somiglia a quelle dei gruppi primitivi di cacciatori e raccoglitori. Proprio lo studio di queste culture permette agli studiosi contemporanei di formulare ipotesi attendibili sugli sciamani preistorici.
Basandoci su questi dati, e su alcune evidenze archeologiche di difficile interpretazione, possiamo considerare una caratteristica degli sciamani il frequente ricorso all’estasi (spesso facilitata con l’uso di erbe e droghe atte a produrre allucinazioni). Attraverso l’estasi lo sciamano entrava in rapporto col mondo degli dei, cosa che gli assegnava un peculiare ruolo nella struttura sociale: egli infatti occupava lo spazio intermedio che separava gli uomini dagli dei, ed era già un po’ al di sopra degli altri uomini, in quanto un po’ più vicino agli dei. Gli altri membri delle tribù primitive si abituarono a dipendere da lui per ottenere l’intervento di quelle potenze sovrannaturali - la pioggia, il fuoco, la procreazione, etc. - che erano decisive alla sopravvivenza degli uomini e del loro nascente sistema sociale.
Un'altra comune credenza che ruotava intorno alla figura ed al ruolo degli sciamani era quella negli spiriti guardiani, creature benevole, spesso in forma animale, che lo sciamano poteva evocare per accompagnare i morti nel loro viaggio verso l’aldilà, o anche per aiutare qualcuno che fosse gravemente ammalato, o in un momento particolarmente difficile. La speranza nel soccorso degli aiutanti magici è rimasto un bisogno potente nella vita degli uomini, anche molto dopo la fine dell’età della pietra: creature del genere si trovano in moltissime fiabe di tutte le tradizioni (compresa quella occidentale degli Andersen e dei fratelli Grimm), e sono ancor oggi esperienza comune e precoce di tutti i giovani spettatori dei film di Walt Disney.
Un ulteriore potere attribuito agli sciamani era quello di viaggiare nell’aldilà, per lo più nel corso di visioni estatiche, nelle quali il loro corpo restava in trance, mentre il loro spirito visitava le case degli dei. Ci sono numerosi racconti di sciamani che hanno visitato i regni dell’oltretomba, e ne sono tornati con lo spirito di un uomo da poco defunto, che veniva così resuscitato. Infine, il potere più importante tra quelli esercitati dagli sciamani era la capacità di guarire gli uomini da sofferenze, ferite e malattie: queste guarigioni venivano ottenute con pratiche e riti magici, certo (che facevano certo un sapiente uso del potere di suggestione), ma anche con l’oculato uso di erbe mediche, il cui segreto di solito veniva tramandato di generazione in generazione.
Quest’ultimo aspetto ci mostra una delle inevitabili implicazioni di questa concentrazione di potere in una parte così piccola della società primitiva: il potere e il sapere degli sciamani venivano spesso tramandati di padre in figlio, determinando così la formazione di una casta, un’élite, che col tempo finì col dare vita alle classi sacerdotali che domineranno le complesse società dell’età neolitica e dell’età del bronzo.
I sacrifici
Festa di sacrificio.
I Melpa, tribù della Papua Nuova Guinea, celebrano periodicamente delle feste, nelle quali sacrificano decine di maiali in onore degli dei e degli antenati.
Una delle forme più antiche di devozione religiosa è rappresentata dalla pratica del sacrificio: nella maggior parte dei casi, il sacrificio consisteva nell’offerta di un oggetto o di un essere vivente ai defunti oppure alla divinità, e (spesso) nella sua distruzione. Nella maggior parte dei casi, l’essere vivente era un animale, ma poteva anche trattarsi, in occasioni speciali, di un essere umano. La distruzione rituale dell’oggetto del sacrificio avveniva in vari modi: col fuoco, con un’uccisione, oppure, se si trattava di un liquido, spargendolo al suolo o sull’altare. In alcuni casi, comunque, gli oggetti non venivano distrutti, e l’offerente si limitava ad abbandonare l’oggetto nel luogo abitato dal dio, per poi allontanarsi: l’oggetto diventava allora possesso delle persone sacre (sciamani, sacerdoti, etc.), o anche dell’intero popolo, e se si trattava di cibo, veniva mangiato. È probabile, anzi, che le prime forme di “sacrificio” consistessero solo nei regali fatti agli sciamani, come temuti intermediari col mondo soprannaturale.
In ogni caso, sacrifici di vario tipo appaiono fin dalla più remota antichità. Accanto alle tombe degli uomini di Neandertal sono stati ritrovati, ad esempio, dei pozzi con alcune ossa di animali, ed è probabile che esse rappresentassero delle offerte ai defunti. Altri precoci esempi di pratiche sacrificali erano la preservazione rituale di oggetti, i cui primi esempi sono stati rintracciati nella prima età paleolitica (accanto ai resti di alcuni bambini neandertaliani sono state ritrovate delle amigdale, chiaramente mai usate), ma che divennero più frequenti col passare del tempo: armi e gioielli sono stati ritrovati in gran numero nelle tombe dell’età neolitica, e dell’età del bronzo. Si trattava, probabilmente, del sacrificio di una parte del bottino di guerra a divinità o antenati benevoli, che si riteneva avessero contribuito al successo dell’impresa.
Ma perché popolazioni spesso poverissime, che lottavano quotidianamente per la sopravvivenza, sacrificavano una parte importante delle loro risorse in questo modo? I motivi che spingevano gli antichi uomini al sacrificio alla divinità non sono troppo diversi da quelli che spingono oggi allo stesso tipo di azione uomini di tutte le religioni: spesso si trattava di una forma di adorazione, una manifestazione di rispetto per le potenze soprannaturali; a volte si trattava di ringraziamento, come nel caso del bottino di guerra che abbiamo appena visto; altre volte si può parlare di mercato: si offriva qualcosa alla divinità, per ottenere in cambio qualcos’altro; in molti casi, poi, si trattava di propiziarsi la divinità, di rendersela favorevole, o almeno placarne l’ira, con adeguate offerte, senza chiedere però nulla di preciso.
Naturalmente, qui stiamo parlando solo del sacrificio materiale. Ma queste pratiche, per primitive che possano apparire, sono un precedente significativo di atti religiosi che siamo soliti considerare molto più elevati e spirituali: come quando il fedele sacrifica una parte dei suoi desideri, ed a volte la sua stessa vita, per compiere azioni che ritiene gradite alla divinità, o per evitare di commettere azioni ad essa sgradite.
Stonehenge (Inghilterra).
Gli enormi blocchi di pietra che compongono la struttura del tempio venivano dalle lontane colline del Galles. Basandosi sulla disposizione di queste grandi pietre, alcuni studiosi hanno ipotizzato che l’intera struttura servisse a predire i solstizi, gli equinozi, ed anche le eclissi - forse in rapporto a qualche culto solare oramai dimenticato.
I megaliti
Moai dell’isola di Pasqua.
Al momento della invasione che distrusse la civiltà dei costruttori di Moai, le gigantesche statue qui raffigurate erano sparse per tutta l’isola, ed erano circa 600.
Le affascinanti opere d’arte “figurative” dell’età della pietra antica non sono le uniche forme espressive legate ai culti preistorici. In effetti, non appena le tecniche a disposizione lo permisero, nell’età neolitica, gli uomini cominciarono a costruire luoghi sacri, templi, ed altre opere grandiose: nacque così l’architettura religiosa. A quell’epoca risalgono costruzioni gigantesche, di cui alcuni esempi impressionanti si possono ammirare ancora oggi, soprattutto in zone dove l’età della pietra è durata più a lungo, e le cui costruzioni dunque hanno dovuto resistere per un tempo relativamente più breve all’erosione atmosferica, e sono potute giungere pressoché intatte fino a noi. Tra esse si può ricordare il misterioso tempio di Stonehenge, nel sud-ovest dell’Inghilterra, o le enormi statue megalitiche
Megalito = grande pietra. I megaliti sono enormi strutture in pietra, fatte da grandi massi isolati, con una precisa forma dotata di significato, o uniti insieme, a formare un insieme complesso. Strutture megalitiche si trovano in ogni parte del mondo. ritrovate nell’Isola di Pasqua, ad ovest del Cile, nell’oceano Pacifico. L’impegno per costruzioni del genere fu certamente enorme per società che erano, sì, più ricche delle precedenti, ma che ancora potevano contare su risorse abbastanza scarse.
Stonehenge non sappiamo esattamente cosa sia: si è ipotizzato che fosse un tempio dove venivano celebrati complessi rituali, e sacrifici. Certo è che si tratta di un grande complesso di menhir, ovvero di massi giganteschi, trasportati in quel luogo dell’Inghilterra fin dal Galles, e disposti in quattro cerchi concentrici. I menhir sono orientati in base a precise conoscenze astronomiche, forse in modo da poter predire i solstizi e le eclissi. Gli studiosi ritengono che l’intera struttura dovesse essere connessa con l’antico culto del sole.
Ancora più misteriosi sono forse i grandi moai, le teste di pietra ritrovate a centinaia nell’isola di Pasqua. Alte dai 3 ai 12 metri, sono fatte di una pietra vulcanica presente in una parte remota dell’isola, all’interno di un cratere dove probabilmente venivano lavorate, per poi essere trasportate sulla costa, dove molte di esse sono tuttora. All’interno del cratere, comunque, è stata trovata una gigantesca statua di 21 metri, incompiuta, alla quale probabilmente gli antichi abitanti dell’isola stavano lavorando quando un’improvvisa invasione di indigeni provenienti dalla Polinesia li sorprese, e li sterminò. Gli invasori dopo di allora distrussero centinaia di statue, ma non riuscirono a cancellare tutte le tracce dei loro predecessori. Gli studiosi ritengono che le statue avessero un significato religioso, ma è difficile stabilire quale possa essere stato.
Una cosa è certa: le costruzioni megalitiche richiedevano un’enorme quantità di lavoro, dedizione ed abilità. Il solo trasporto dei menhir e dei moai deve aver richiesto uno sforzo gigantesco a quegli antichi popoli. Ed è chiaro che essi non si sarebbero mai sottoposti ad simile dispendio di forze, se la religione non fosse stata una molla così importante nelle loro vite. D’altra parte lo sforzo necessario per costruire megaliti era evidentemente uno sforzo sociale: era necessario il lavoro dell’intero popolo. Si costituiva così l’abitudine all’obbedienza, e la volontà degli dei giustificava agli occhi degli uomini il loro sudore e la loro fatica. Chiaro poi che la volontà degli dei andasse interpretata da chi poteva ascoltarli, chi era in grado di parlare con loro e di ricevere le loro istruzioni. Fu così che nacque il potere del sacerdote, una figura sociale esentata dalla fatica fisica, e specializzata nel rapporto col mondo soprannaturale, e nei riti sempre più complessi che questo rapporto richiedeva. Il sacerdote fu l’evoluzione del ruolo che, in un mondo più semplice, aveva gestito lo sciamano. Fu questa la figura che finì col diventare quella dominante, nella fase conclusiva dell’età neolitica, e in quella dei grandi imperi fluviali, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo ( percorso sul potere) ( percorso sull’immaginario).
Antiche civiltà
L’uomo servo degli dei: la religione della Mesopotamia
La dea Ishtar.
Presso molti popoli babilonesi la dea Ishtar era la Grande madre, la dea dell’amore e della fertilità. Ma si trattava di una divinità ambigua, ed alcuni sui attributi erano più distruttivi: gli Assiri, ad esempio, la videro come una divinità guerriera, e la rappresentarono sempre con spada e frecce.
Il mito fondativo della civiltà babilonese è la storia di una ribellione. La storia era raccontata e rappresentata in un rito, all’inizio di ogni anno, recitato dai sacerdoti del tempio. Il rito raccontava della lotta tra gli dei dell’ordine e gli dei del caos, avvenuta all’inizio dei tempi, ed è chiamato Enuma Elish, l’Inno della creazione. A capo degli dei del caos c’era un terribile mostro, Ti’amat, che aveva partorito un intero esercito di raccapriccianti creature. Le antiche tavolette le descrivono come “fiere terribili, dai denti aguzzi e dalle lunghe zanne”, nelle cui vene Ti’amat “versava veleno al posto del sangue”. Terrorizzati, gli dei dell’ordine, (che fino a quel momento avevano vissuto senza un capo che li governasse, in una sorta di divina democrazia, anche se il dio più importante era l’antico dio sumero Enlil), prescelsero il più forte e coraggioso di loro - Marduk - per guidarli nella lotta contro Ti’amat, e lo nominarono loro re. Seguì una grande battaglia, nella quale gli esseri mostruosi furono tutti sconfitti, tranne Ti’amat, che fu sfidata a duello da Marduk stesso. Egli riuscì a prevalere con l’astuzia, contro un avversario che forse era più forte di lui: la immobilizzò con una rete, tenuta agli angoli dai quattro venti, la sventrò e le trafisse il cuore con una freccia (fin dalla sua elezione Marduk aveva scelto l’arco - lo strumento che può colpire anche a distanza, se maneggiato con abilità e forza - come sua arma prediletta). Dopo aver ucciso Ti’amat, Marduk ne divise il corpo in due, come un’ostrica, ne sollevò metà, e con quel corpo sventrato creò il cielo, con l’altra metà creò la terra. Più nulla contrastava il dominio di Marduk, che poté assegnare a ciascun Dio il suo compito, e la sua posizione del mondo. L’ordine del mondo era salvo.
Ti’amat.
La dea Ti’amat rappresentava l’acqua salata dell’oceano, o anche la palude originaria, prima che la Mesopotamia divenisse fertile. Qui è rappresentato un momento decisivo della sua lotta col dio Marduk, uno dei suoi tantissimi figli.
O meglio. Ancora qualcosa mancava, perché tutto fosse ordinato alla perfezione, e gli altri dei, pur grati a Marduk per averli salvati, non mancarono di farglielo notare. Di qui in poi, possiamo seguire il racconto così come era raccontato negli antichi testi mesopotamici:
“Signore Marduk - gridarono gli dei tu ci hai assegnato le nostre incombenze, hai affidato un compito a ciascuno di noi. Ma non hai dato a nessuno l’incarico di servirci e di sostentarci mentre noi svolgiamo il nostro compito. Chi dunque accudirà alla nostra casa, chi penserà a prepararci il cibo?” Quando Marduk ebbe inteso queste parole, cadde in profonda meditazione. Poi, d’improvviso, il suo volto si illuminò. “Ora so - disse fra sé - ciò che debbo fare. Prenderò sangue ed ossa e ne formerò un piccolo fantoccio. Il suo nome sarà Uomo. Uomo servirà gli dei, accudirà ai loro bisogni, mentre essi eseguiranno i loro compiti! Ma quando fece parte del suo piano ad Ea, quel saggio e astuto Dio seppe immediatamente trovarne uno migliore. Perché - domandò - nuovo sangue e nuove ossa? Prendile da uno dei ribelli. Così Marduk diede ordine che i ribelli incatenati fossero condotti davanti a lui e li interrogò, e comandò loro di dichiarare il vero e di dire chi di essi fosse stato il maggior colpevole, perché quello egli avrebbe messo a morte. In verità, i ribelli erano stati solo dei semplici soldati nell’esercito di Ti’amat, e non vedevano nessuna ragione perché uno di essi dovesse scontare le colpe della guerra. “Il maggior colpevole - risposero concordemente - è stato Kingu. Egli è stato il nostro comandante, egli ha ideato il piano di guerra e lo ha diretto!” E Kingu, allora, venne portato fuori dalla prigione e consegnato nelle mani di Ea. Ed Ea gli tagliò la testa, gli aperse le vene, e con le sue ossa e il suo sangue formò un fantoccio al quale venne dato il nome di Uomo, per servire gli dei ed accudire ad essi
Da Theodor Gaster, Le più antiche storie del mondo, Einaudi 1989..
Statua di persona in preghiera.
L’obbedienza era la prima virtù richiesta dagli dei mesopotamici ai loro fedeli, che sono spesso raffigurati con le mani giunte, o in atteggiamento adorante.
Questa storia, di cui abbiamo raccontato una piccola parte, ci insegna molto sulla società e sulle credenze dell’oriente mesopotamico. Si trattava, in effetti, di un mondo in cui l’importanza della religione nella vita individuale e collettiva era straordinaria. La religione, infatti, forniva l’unica struttura possibile per comprendere le forze che guidavano l’esistenza, e dunque era l’unica via per capire come regolare la propria condotta, a chi obbedire, cosa sperare per la propria vita. La religione, pertanto, condizionava tutta la vita di quella società, ed era alla base di tutte le sue istituzioni politiche, economiche e militari. Centro delle città era il tempio, nel quale vivevano i sacerdoti, e che ospitava (e controllava) all’interno del suo recinto molte delle attività più importanti - soprattutto quelle che richiedevano l’impiego di tecniche complesse e note solo ad una ristretta élite (come la scrittura, o la fusione dei metalli). La posizione stessa del tempio era di solito eminente, in alto, su una torre a gradoni - la cosiddetta ziggurat - in modo da dominare la città ai suoi piedi, e da comunicare immediatamente una sensazione di forza, suggerendo al tempo stesso una posizione intermedia tra il mondo degli uomini e il mondo celeste degli dei.
Nella storia della lotta tra Marduk e Ti’amat, ed in quella della creazione dell’uomo, l’assetto di quel mondo è chiaramente definito. Potremmo dire che si tratta di un mito politico-ecologico: infatti Ti’amat, la divinità originaria, è una divinità femminile, forte anzitutto del suo potere di generare, che però, se non controllato, genera mostruosità e caos. Trattandosi di una terra come la Mesopotamia, i cui abitanti sono riusciti a governare e rendere fertile un ambiente all’inizio paludoso ed ostile, è facile vedere in Ti’amat la palude originaria, un caos potenzialmente fecondo, che andava però imbrigliato e disciplinato. Ma nella sconfitta di Ti’amat si può vedere in controluce anche l’antica affermazione di un potere maschile - che si autocaratterizza come dotato di forza ed intelligenza - nei confronti del mondo femminile, che non può essere lasciato a se stesso. È significativo che Marduk, nell’annunciare il suo desiderio di combattere Ti’amat, dica “Chi ne ha paura? Ti’amat non è che una donna, ed io sono pronto a combatterla” ( percorso sulla donna).
Divinità che incede sul dorso di un leone.
In questa placca di bronzo sbalzato, risalente all’VIII o al VII secolo a.C., il leone è simbolo di forza e regalità. Di fronte a lui una figura in atteggiamento d’adorazione.
Nella forza e nell’abilità di Marduk, e degli dei dell’ordine, si può vedere altresì la traduzione del sapere dei sacerdoti, che proteggono il mondo dal pericolo, ricorrente, di tornare al caos originario - cosa che in effetti poteva anche accadere, se il complesso sistema di irrigazione e canalizzazione che permetteva la fertilità della Mesopotamia, controllato dai sacerdoti stessi, avesse smesso di funzionare. Ma nell’accentuazione della figura di Marduk, sovrano coraggioso e vincitore, c’è anche qualcosa di più, la traduzione mitica dell’emergere del potere monarchico nelle città mesopotamiche, che si affianca a quello tradizionale dei sacerdoti. La posizione degli uomini comuni, poi, è chiaramente disegnata dalla creazione di Uomo come servo degli dei: gli uomini in effetti hanno un’anima, che vive eternamente, e che è la traccia della vita del Dio dentro di loro. Ma si tratta di un Dio ribelle ed inferiore, e per evitare di fare la stessa fine gli uomini faranno meglio a non seguire il suo esempio: l’obbedienza è la prima virtù che gli dei chiedono agli uomini, che dopotutto sono stati creati solo per lavorare. E per obbedienza agli dei, in concreto, si intende per lo più obbedienza ai sacerdoti, che della volontà degli dei sono interpreti. Di fatto, quindi, gli uomini comuni finiscono col lavorare per il tempio e per i suoi abitanti. Se non lo fanno, l’intero sistema della loro cultura li condannerà, a partire dagli inevitabili sensi di colpa che nascono quando violiamo comandamenti che ci sono stati impartiti fin dai primi anni di vita, al punto che essi sembrano naturali.
Gilgamesh.
Gilgamesh era un personaggio storico, re della città babilonese di Ur intorno al 2.000 a.C. dopo la sua morte, però, sul suo conto cominciarono a fiorire un gran numero di leggende, alcune delle quali sono raccontate nel poema epico che porta il suo nome, e racconta delle sue straordinarie avventure. Alla ricerca del segreto dell’immortalità, Gilgamesh visitò l’oltretomba, dove riuscì a trovare la pianta magica che avrebbe dato a lui e a tutti gli uomini l’immortalità. Intraprese allora il lungo viaggio di ritorno, ma un serpente gli rubò la pianta prima che riuscisse a far ritorno sulla terra.
I lavori per la costruzione del palazzo di Sennecherib, a Ninive (VII secolo a.C.)
In questo tipo di lavori, molto faticosi e pericolosi, venivano impiegati di solito gli abitanti delle nazioni sconfitte. Ma i sudditi mesopotamici non erano affatto esenti dal lavorare per i loro sovrani. In fondo gli dei li avevano creati per lavorare…
I Babilonesi, il cui sistema sociale è così ben esemplificato nel loro Inno della creazione, non erano stati i primi a governare la Mesopotamia, anzi le prime forme organizzate di governo risalivano a molti secoli prima, a partire dalle città-stato dei Sumeri del terzo millennio a.C. ( manuale). Dopo i Sumeri, poi, molti popoli si erano succeduti al potere, ma l’impianto di base delle religioni mesopotamiche, pur nel continuo variare delle dominazioni, era rimasto quello degli antichi Sumeri. Esso venne assimilato, con pochi mutamenti, dai loro successori accadi e babilonesi, fino a giungere agli Assiri (il temibile popolo guerriero che governò la regione per parte del primo millennio a.C.). Naturalmente, mano a mano che si succedevano i cambiamenti politici, corrispondenti cambiamenti si verificano anche nello stato degli dei, e ad esempio il regno di Marduk sugli altri dei cominciò solo quando la sua città, Babilonia, si impadronì del potere su gran parte della Mesopotamia. Ma ciò che rimase costante, in tutte le vicende degli dei, fu la posizione dell’Uomo, il servo degli dei, il cui compito rimase, per millenni, quello di servirli, come si serve un padrone, e di obbedire con prontezza ai loro ordini, che sempre gli vennero comunicati dai sacerdoti che abitavano nel tempio. E naturalmente questi ordini ben difficilmente erano contrari agli interessi di casta dei sacerdoti stessi.
L’antico Egitto: la religione dell’ordine precario
La grande piramide e la Collina primordiale.
Ogni anno, dopo le piene del Nilo, rimanevano lungo le rive piccoli depositi di fango, a forma di collina. Ben presto queste colline, fatte di materiale fertilissimo, si ricoprivano di erbe, e cominciavano a brulicare di insetti e di vita animale. La terra stessa sembrava essere la fonte di miriadi di nuove creature. Secondo l’egittologo R.T. Rundle Clark, questo stesso fenomeno, allargato a dimensioni cosmiche, era l’idea che gli egiziani avevano di Atum, il dio creatore, all’origine del tempo. E la forma della collina fu presto stilizzata con una ripida altura, o da una piattaforma circondata da ogni parte da gradini. È questa “collina originaria” che è simbolizzata, probabilmente, dalla piramide a gradoni. Nella foto vediamo la grande piramide a gradoni di Saqquara, risalente all’inizio della storia egiziana (III dinastia)
“Gli Egiziani” diceva Erodoto “sono il popolo più religioso del mondo”. È difficile dire se l’antico storico greco avesse del tutto ragione, su questo punto, ma certamente egli coglieva, in questo modo, un aspetto centrale della civiltà egiziana, l’assoluto rilievo e centralità che in essa aveva la religione. Il fenomeno religioso è stato di gran lunga il più influente e caratterizzante, lungo i 3.000 anni della storia egiziana, ed anche se, in quel lunghissimo periodo di tempo, ci sono stati importanti cambiamenti di enfasi su alcuni aspetti della religione e del culto, possiamo dire che in tutto questo tempo la religione ha mantenuto una significativa coerenza nel suo carattere di fondo, e nel modo in cui ha rappresentato il rapporto tra il divino e l’umano.
Gli egiziani concepivano il cosmo come una precaria isola di luce e di ordine, circondata da un oceano di tenebra e disordine, dal quale il mondo così come lo vediamo era faticosamente emerso, all’inizio dei tempi, grazie all’opera degli dei. Centro del mondo era - naturalmente - l’Egitto stesso, il luogo dove si manifestavano le forze divine, grazie alla preziosa opera di mediazione tra il divino e l’umano che era svolta dal faraone
Il faraone era il sovrano politico e militare, ed insieme il leader religioso, dell’antico Egitto. Il termine faraone letteralmente significa “grande casa”, ed era usato, all’inizio della storia egiziana, per indicare il palazzo del re. A partire dal 1.400 a.C. ca., comunque, è stato usato per designare il sovrano. - egli stesso figlio di un Dio, e destinato, dopo la sua morte terrena, a ritornare fra i suoi simili. Destino del mondo, peraltro, era quello di tornare al disordine originario, e l’ordine presente era visto quindi come un bene fragile e transitorio: l’opera del faraone e degli dei era indispensabile, dunque, per tenere a bada, per quanto possibile, le tremende forze del caos che minacciano di continuo l’esistenza degli uomini.
Il faraone eretico
Durante la diciottesima dinastia, Amenhotep III ribattezzò il dio solare Ra col nome di Aton, un termine antico, che evocava la forza e la potenza del sole. Il figlio di Amenhotep andò molto oltre l’iniziativa del padre, ed instaurò una vera rivoluzione nella religione egiziana, proclamando che Aton era l’unico vero Dio, e introducendo così un radicale monoteismo, per la prima volta nella millenaria storia dell’Egitto. Il nuovo faraone cambiò il suo nome, da Amenhotep IV in Akhenaton (che significa “Aton è soddisfatto”), si proclamò figlio di Aton, e fu così drastico nella sua riforma da perseguitare attivamente i sacerdoti dei vecchi culti, in particolare i sacerdoti tebani di Amon. Ma la riforma monoteista di Akhenaton non ebbe successo - troppo radicato era il politeismo in Egitto, e troppo potente il clero tebano - e così, dopo la sua morte, il “faraone eretico” venne maledetto e gradualmente dimenticato, e il potere tornò a faraoni meno ostili al potente clero di Tebe (nella foto Akhenaton e sua moglie Nefertiti in adorazione del dio Aton, da cui emanano raggi di luce che terminano in forma di mani benedicenti).
I due punti focali di questa concezione religiosa del mondo, dunque, erano gli dei e il faraone. Gli dei erano molto diversi tra loro, per importanza e potere. Non erano onniscienti ed onnipotenti (l’idea stessa di onnipotenza non si concilia facilmente con quella di una pluralità di dei), ma il loro potere e il loro sapere erano abissalmente più grandi di quelli degli uomini. A loro si doveva il regolare ritorno delle stagioni, la fertilità della terra, la nascita dei bambini, ma anche la pace e la prosperità del popolo. Erano in effetti divinità per lo più benevolenti, ma su questo non si poteva fare un totale affidamento, ed era necessario propiziarsene il favore con sacrifici (il cui flusso era regolato dai sacerdoti dei grandi templi delle varie divinità, che si trovavano lungo tutto l’Antico Egitto), oltre che col culto, e col rispetto della morale insegnata dai sacerdoti stessi, al cui centro era - come per la morale mesopotamica - l’obbedienza dovuta ai superiori, il cui status era voluto dagli stessi dei.
Tra le divinità, il dio più importante era Ra, il dio del sole, re di tutti gli dei, e padre dei faraoni. A partire dal Medio Regno (XXII secolo a.C.), il culto del dio Ra divenne religione di stato, superiore alla miriade dei culti locali, e l’immagine di Ra si fuse, poco a poco, con altre importanti divinità, soprattutto col dio tebano Amon, e venne adorato, da allora in poi, col nome di Amon-Ra. Questa evoluzione è tipica della concezione egiziana della divinità, che è caratterizzata dal sincretismo: due o più nomi di divinità sono stati spesso fusi a formare un’unica identità, ma si continuava ad adorare le singole divinità anche separatamente. Amon, ad esempio, era considerato l’aspetto nascosto del disco solare, la sua natura tenebrosa, presente soprattutto di notte, quando il sole non è visibile. Tutto ciò aveva un significato intellettuale ed un significato politico: come i fenomeni della natura, gli dei erano spesso ambivalenti, ed il sincretismo permetteva di coglierne meglio i vari aspetti. Il sole poteva essere infatti benevolo o troppo ardente, fino a provocare siccità. D’inverno d’altra parte esso poteva svolgere con minore efficacia la sua funzione, lasciando gli uomini in preda al freddo ed alle lunghe notti. Il suo ritorno all’aspetto protettivo e primaverile (che coincideva con le grandi piene del Nilo, dal cui flusso regolare dipendeva l’intera vita dell’antico Egitto) andava propiziato col culto e con le grandi cerimonie religiose.
Osiride ed Iside.
Osiride era una delle principali divinità della mitologia egiziana. All’inizio era una delle tante divinità locali, e rappresentava la forza riproduttiva maschile presente nella natura, ma venne poi identificato col sole al tramonto, entrando così nel ambito del culto solare: a partire da allora fu considerato il sovrano del misterioso regno delle ombre, oltre l’orizzonte occidentale. Osiride era fratello e marito di Iside, la grande e antica dea che rappresentava la forza riproduttiva femminile della natura. Secondo un mito molto popolare, Osiride fu ucciso dal suo fratello malvagio, Set, che ne fece a pezzi il corpo e ne sparpagliò i frammenti. Iside però riuscì a ritrovare i frammenti dispersi del corpo di Osiride, e riuscì a rigenerare magicamente il corpo del marito. Dalla loro nuova unione nacque Horus, che vendicò l’uccisione del padre uccidendo a sua volta il malvagio Set. Attraverso Horus, Osiride è considerato come la fonte di ogni nuova vita. Nella foto, la cosiddetta “triade osirica”, con Horus, Osiride ed Iside, raffigurati in statue d’oro e lapislazzuli. Le statue risalgono alla XXII dinastia, e sono custodite nel museo del Louvre.
Il significato politico del sincretismo è poi facilmente intuibile: esso sanciva i nuovi equilibri di potere tra i vari grandi templi e il governo centrale incarnato nel faraone. Il caso di Amon-Ra, ad esempio, è indicativo del potere dei sacerdoti del tempio di Amon, a Tebe, che per secoli condizionarono pesantemente l’elezione dei faraoni (si parla infatti di dinastie “tebane”, per indicare questo legame). Certo, neanche questo potere era tanto grande da soppiantare del tutto la millenaria figura del dio solare come divinità principale, ma era almeno tanto grande da poter essere espressa dall’associazione del nome del dio tebano con quello del re di tutti gli dei.
Accanto a Ra, comunque, esistevano centinaia di divinità di ogni tipo: tra le più importanti c’erano Osiride (altra divinità solare), Iside (dea della fertilità e della maternità) e Set, il dio-sciacallo, re delle forze del disordine, che andava propiziato con scongiuri ed amuleti, per contenerne l’influsso malevolo ( casello di testo a fianco).
La dea Maat, l’Ordine del Mondo.
Secondo le antiche cosmogonie egizie, all’inizio dei tempi il grande dio Atum giaceva inerte nelle acque dell’Abisso. Il dio era angosciato, perché le acque erano dappertutto, ed egli non aveva nessun luogo dove posarsi. Egli chiese allora all’Abisso come avrebbe mai potuto creare una terra ferma su cui riposare. E l’Abisso gli rispose di baciare sua figlia Maat, mentre un altro suo figlio, Shu, dio della vita, avrebbe sostenuto entrambi. L’origine del mondo è in questa figurazione, che vede la combinazione della vita, dello spirito originario rappresentato da Atum, e del principio dell’ordine.
Nell’immagine vediamo la dea Maat, con la piuma sul capo che è un suo simbolo, in quanto essa presiede con esattezza e rigore alla pesatura del cuore degli uomini, al momento del loro arrivo nell’oltretomba, in modo da separare i buoni dai malvagi: anche questo era un modo, per gli antichi egizi, di preservare l’ordine del mondo.
Con questo mondo divino, il faraone aveva una complessa relazione. Non solo era considerato come una manifestazione terrena del divino, figlio del dio Ra. Egli era l’oggetto principale e più diretto della grazia degli dei, cosa che si traduceva - sul piano terreno - nel suo essere un grande uomo, un guerriero eroico, un abilissimo cacciatore, ed un campione del diritto, di straordinaria forza e impareggiabile efficacia (o per lo meno, così era raffigurato nel culto e nei documenti ufficiali). Ma soprattutto l’influenza benefica del divino scorreva nel mondo grazie a lui, ed attraverso di lui, ed egli era pertanto l’anello di congiunzione tra il mondo divino e quello umano, l’unico intermediario legittimo, e dunque l’unico vero sacerdote: tutti i riti e le cerimonie dell’Antico Egitto si svolgevano in suo nome, e in teoria i sacerdoti erano solo suoi vicari e rappresentanti di fronte agli dei.
Grazie all’opera insostituibile del faraone il mondo era emerso dal caos originario e conservava il suo ordine, sempre minacciato dalle forze del caos, eppure sempre daccapo rinnovato, all’inizio di ogni anno, ad ogni regolare ritorno delle piene del Nilo. Tutto ciò era espresso in forma mitica, con le storie e i riti legati alla dea Maat, la dea dell’ordine del mondo, colei che aveva permesso l’emergere della terra ferma dal caos delle Acque primordiali ( casella di testo). Una piccola statua rappresentante Maat veniva offerta dal faraone alle maggiori divinità, in molte importanti festività del calendario religioso egizio. È possibile vedere in questi miti e in questi riti una traduzione in termini simbolici dell’operato politico del faraone, decisivo per mantenere l’ordine politico (i complessi rapporti di dominio e relazione fra i vari gruppi sociali e le numerose etnie di quella società), e soprattutto l’ordine ecologico dell’Antico Egitto, che non avrebbe potuto esistere senza il complesso sistema di chiuse e canali che trasformava le annuali inondazioni del Nilo, da alluvione potenzialmente disastrosa, in una benedizione per la fertilità della terra. In effetti, senza questo gigantesco lavoro collettivo, diretto dalle élite sacerdotali per conto del faraone, l’intero Egitto avrebbe assomigliato molto da vicino al caos primigenio descritto dal mito.
In questa antica cosmogonia, dunque, come in molti altri miti e riti dell’antico Egitto, quella società descriveva se stessa, la sua storia e la sua struttura, dando al suo assetto una sanzione divina, che non solo la descriveva ma anche la giustificava, facendola apparire come il risultato dell’opera e della benevolente volontà degli dei.
Il popolo della promessa: le origini del giudaismo
L’inizio dell’Alleanza
Il Signore disse ad Abramo… “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te si diranno benedette tutte le nazioni della terra”.
(Genesi, 12:1-3).
La valle del Giordano
Il Giordano è un importante fiume della Galilea, e scorre dal lago di Tiberiade al Mar Morto. La fertile valle attraverso cui scende è “la terra promessa” ai discendenti di Abramo, quella “dove scorre latte miele” di cui parla il libro dell’Esodo. Nell’iperbole di questa definizione si può leggere l’importanza dell’acqua in una terra desertica, particolarmente agli occhi di una popolazione che ha praticato a lungo una vita seminomade. E non a caso ancora oggi il controllo sulle acque del Giordano è oggetto di contesa politica tra lo stato d’Israele e l’autorità palestinese, le due entità politiche che convivono nell’area.
La dichiarazione di fede (Shêma)
“Ascolta Israele: il Signore è nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto a casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come pendaglio tra gli occhi, e li scriverai sugli stipiti della tua casa e delle tue porte”. La parte in corsivo del testo è la più importante preghiera della religione ebraica, ed è tradizionalmente, la prima insegnata ad ogni bambino ebreo: si tratta, evidentemente, una intransigente dichiarazione di monoteismo. Nell’immagine vediamo la prima parte del testo ebraico della Shêma.
La storia del popolo ebreo fu, nell’antichità in cui ebbe le sue origini, la storia di un piccolo popolo dell’età del bronzo, vissuto ai margini dei grandi imperi che allora dominavano il mediterraneo orientale. I dati storici parlano di un intero popolo costretto a un lungo periodo di lavoro in Egitto, in condizioni semi-servili, dell’oppressione che quel popolo, come molti altri, patì in quella terra, di una fuga avventurosa e della fondazione di un piccolo regno nell’attuale Palestina, che prosperò e divenne ricco, ma ben presto si divise in due, e fu riassorbito dai grandi imperi dell’età del ferro ( manuale).
I dieci comandamenti.
Dio pronunziò allora tutte queste parole: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei all’infuori di me. Non ti fai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù in cielo né di quanto è quaggiù in terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.
Non pronunzierai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronunzia il suo nome invano. Ricordati del giorno del sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non fai alcun lavoro, né tu, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
…
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.
Non uccidere.
Non commettere adulterio.
Non rubare.
Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desiderare la casa del tuo prossimo.
Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Esodo 20, 1-17).
I dieci comandamenti, consegnati da Dio a Mosè (secondo il racconto biblico) sul monte Sinai, sono la parte più importante di una serie dettagliata di istruzioni di comportamento (613 in tutto) che si trovano nella Torah (i primi cinque libri della Bibbia). I rotoli in ebraico della Torah, simili a quello della foto, sono ancora oggi custoditi in tutte le sinagoghe, e contengono le regole di vita cui si richiamano gli Ebrei religiosi.
L’importanza di questo piccolo popolo, trascurabile sul piano della storia politica ed economica, è fondamentale nell’ambito della storia delle religioni, di cui qui ci stiamo occupando. Gli Ebrei, infatti, sono stati coloro che hanno introdotto nel mondo il monoteismo
Monoteismo: è la fede nell’esistenza di un solo Dio, o perlomeno nell’unità della divinità. Si oppone al politeismo (fede nell’esistenza di molti dei) ed al panteismo (dottrina che identifica l’intero universo con Dio). etico, coloro che hanno presentato e vissuto profondamente una nuova idea della divinità, e del suo rapporto con l’uomo.
Ma cominciamo dall’inizio. La religione degli Ebrei delle origini non era, a quanto sappiamo, molto diversa dai tanti culti politeistici dei popoli del mediterraneo. Essi veneravano molti dei, tra cui uno - Yahu - era supremo. Le sue caratteristiche erano spiccatamente antropomorfiche, e in alcune antiche tavolette gli viene anche attribuita una consorte, come avveniva nelle tante religioni dell’area mesopotamica e mediterranea.
Non sappiamo come da questa credenza si sia passati ad una religione profondamente diversa, quella che oggi consideriamo la fede ebraica. Secondo alcuni studiosi il passaggio fu graduale, e determinato da influenze presenti in altre culture vicine (lo psicanalista Sigmund Freud, tra gli altri, ha attribuito una grande importanza all’influenza del monoteismo del faraone eretico, Akhenaton). Secondo altri studiosi, più vicini all’ortodossia ebraica, il passaggio fu brusco, e coincise - come racconta la Bibbia - con la stipulazione di patto, o più precisamente un’alleanza, tra Dio (in ebraico YHWH) e il popolo ebraico.
A dire il vero, anche stando al racconto biblico, troviamo che il patto tra Dio e gli Ebrei non fu stabilito tutto in una volta. All’inizio Dio parlò ad Abramo, uno dei patriarchi di Israele, ovvero uno dei dodici capitribù che governavano gli Ebrei delle origini, quando essi vivevano in condizioni seminomadi, nella parte settentrionale della Mesopotamia. Dio promise ad Abramo (che era vecchio, e ormai credeva di non poter avere più figli) di renderlo l’antenato di una grande nazione, e di dare ai suoi discendenti la fertile terra d’Israele - da allora in poi, la terra promessa per il popolo ebraico. In cambio Abramo e la sua famiglia avrebbero dovuto vivere con giustizia ed onestà, e avrebbero dovuto avere una fede incrollabile in Dio.
Oltre 600 anni più tardi, comunque, l’Alleanza venne confermata, ed estesa a tutti i discendenti di Abramo, che costituivano ormai il popolo ebreo, in uno dei momenti decisivi della sua storia: la fuga dalla schiavitù in Egitto, e la ricerca della terra promessa ( manuale). Sul monte Sinai, Dio promise ancora una volta agli Ebrei la sua protezione, e dettò loro i suoi comandamenti. Fu a partire da quel momento che il popolo eletto divenne consapevole della sua missione: Dio ne fece una nazione di sacerdoti, un popolo intero che deve vivere con lo scopo di rivelare al mondo la vera fede, con la parola e con l’esempio.
La fede di Abramo.
La fede diverrà una caratteristica proverbiale di Abramo, soprattutto dopo che Dio lo mise alla prova, anni dopo, chiedendogli di sacrificargli il suo unico figlio, Isacco. Abramo, pur soffrendo per una richiesta che gli appariva incomprensibile, ebbe fiducia in Dio, e accettò di compiere il sacrificio. Egli fece dunque tutti i preparativi, ma quando fu sul punto di ultimare il rito - uccidendo suo figlio - Dio lo fermò, e gli disse di aver solo voluto mettere alla prova la sua fede e la sua obbedienza.
Questo racconto è stato analizzato e interpretato da importanti studiosi e pensatori, e Abramo è stato visto spesso come un esempio estremo di uomo religioso, che antepone la sua fiducia in Dio a qualunque considerazione razionale o anche etica. Ma la storia di Abramo può essere anche interpretata diversamente: in effetti Dio induce Abramo a vivere fino in fondo l’assurdità di una religione sacrificale, e poi lo libera da quell’obbligo, lasciandolo alla sua vita di uomo giusto e fedele. Si può dunque leggere questa storia anche come un simbolo di liberazione da un culto esteriore, nel quale il sacrificio può sostituire l’adesione del fedele ad una vita giusta, e come un simbolo del passaggio ad un culto più interiore, in cui il sacrificio consista in un superamento degli istinti egoistici propri a tutti gli uomini, nel quale il culto e la fedeltà stanno anzitutto nel rispetto dei comandamenti divini, che giunge a permeare tutti i momenti della vita del fedele.
Il giudizio sul carattere storico di questi racconti è un problema delicato, sul quale non c’è accordo. Epoche posteriori a quelle in cui i fatti avvennero, ed anche a quelle in cui i fatti furono raccontati, hanno visto il fiorire di interpretazioni allegoriche dei racconti biblici. La fuga dalla schiavitù egiziana è stata interpretata, ad esempio, come la liberazione dalle catene del peccato. Ma certamente gli scrittori della Bibbia, che ritenevano di essere ispirati da Dio, credevano nella verità storica e letterale di quello che avevano raccontato, e non avrebbero compreso la distinzione moderna tra significato letterale e significato allegorico dei loro scritti. In ogni caso, il Dio biblico vive nella storia, si rivela in essa, e la indirizza verso uno scopo preciso: questa è una sua particolarità, che lo distingue dalle divinità degli altri popoli mediterranei.
Ma la storia rivelò anche, molto presto, che nemmeno il popolo eletto riusciva a vivere secondo le sue promesse di fedeltà: non tutti avevano la stessa tempra di Abramo. A giudicare dal racconto biblico, sembrerebbe che nei momenti di difficoltà una larga parte del popolo ricadesse nei culti politeistici, quei culti dai quali i loro leader - da Abramo a Mosè - avevano tentato di allontanarli. La Bibbia racconta del vitello d’oro, una statua che il popolo aveva adorato approfittando dell’assenza di Mosè, costruita a somiglianza degli idoli egiziani e mesopotamici (che avevano spesso forma animale). È difficile giudicare della veridicità dei dettagli di questa storia: ma abbiamo numerose prove archeologiche del fatto che molti ebrei conservavano in casa statuette ed altri oggetti votivi, tipici dei culti politeistici, quando ormai da secoli la religione del loro popolo era l’intransigente monoteismo di cui abbiamo detto.
L’evoluzione della storia ebraica rese più facile l’affermazione più o meno definitiva della religione monoteistica, a partire dal momento in cui Davide riuscì a formare il regno di Israele, e a dargli come capitale Gerusalemme ( manuale). A quel punto Salomone, il figlio di Davide, poté costruire nella capitale un grande tempio, a somiglianza di quelli delle altre capitali dell’area, nel quale però la religione ebraica perse una parte della sua originalità: sempre intransigente nel suo monoteismo, essa assunse un aspetto sacrificale, che metteva in primo piano il rito e l’offerta, e non la fedeltà del cuore. Si formò intorno al tempio una casta sacerdotale, che - come avveniva anche in Egitto o in Mesopotamia - monopolizzò il rapporto tra il popolo e Dio, e se ne fece garante e indispensabile intermediaria. Non a caso, nel periodo culminante di questa fase storica, i sacerdoti sostenevano che i sacrifici potessero essere effettuati solo nel Tempio di Gerusalemme, se volevano essere graditi a Dio.
La distruzione del tempio
Il grande tempio di Gerusalemme, costruito durante il lungo e prospero regno di Salomone, fu distrutto una prima volta nel 586 a.C., dalle truppe vittoriose di Nabucodonosor II, il potente sovrano dell’impero neobabilonese che aveva sconfitto e sottomesso gli Ebrei. Questo fu un evento traumatico per la comunità ebraica, che aveva nel tempio il suo principale luogo sacro, dove si celebrava la sua alleanza con Dio. In seguito il tempio fu ricostruito, ma il trauma della sua distruzione si ripeté ancora nel 70 d.C., quando un esercito romano - sotto il comando di Tito - mise fine alla rivolta ebraica contro l’impero, saccheggiò Gerusalemme e trasportò a Roma il tesoro del tempio. Nell’immagine si vedono i soldati romani vittoriosi che portano via preziosi arredi sacri.
“Il Signore intenta una causa contro il suo popolo” (dal libro del profeta Michea).
“Quale cosa offrirò al Signore, degna di lui? Mi getterò in ginocchio davanti all’altissimo Dio, gli offrirò olocausti, vitelli appena nati? Il Signore si potrà placare con migliaia di montoni, o con miriadi di grossi capri? O gli darò io, in espiazione della mia colpa, il mio primogenito; uno dei frutti delle mie viscere, per il peccato dell’anima mia?”.
Te lo mostrerò io, o uomo, in che consiste il bene, e che cosa il Signore cerca da te; null’altro che praticare la giustizia, amare la misericordia, ed essere sollecito a camminare col tuo Dio.
(Michea 6:1-6)
Contro questo sviluppo sorse una serie di profeti, che richiamarono la nazione ebraica alla fedeltà all’alleanza con Dio, fedeltà che essi vedevano compromessa dalla religione che veniva praticata nel loro ricco regno. Dai testi risulta che i profeti erano una minoranza, che si batteva contro pratiche ed opinioni che erano ormai dominanti. Essi richiamavano i loro concittadini alla necessità di vivere secondo giustizia, senza dare un’importanza eccessiva ai sacrifici, che andavano visti come un segno di purificazione, non come un atto sufficiente da solo a guadagnarsi il favore della divinità ( casella a fianco).
Le vicende storiche successive, comunque, con la conquista del piccolo regno di Israele da parte prima degli Assiri, poi dei Babilonesi, e infine dei Romani, segnò la fine della fase sacrificale della religione ebraica. Il tempio venne distrutto e ricostruito più volte, e molti Ebrei furono deportati in regioni lontane, secondo la spietata politica del tempo ( manuale). Tagliati fuori dal loro tempio, col suo sistema di sacrifici, gli ebrei della diaspora fecero tesoro degli insegnamenti dei profeti, costruirono sinagoghe
Sinagoga: l’edificio nel quale una congregazione ebraica si riiunisce per l’osservanza e per l’istruzione religiose. in tutte le città nelle quali si trovavano sparsi per il mediterraneo, e pervennero a un culto senza sacrifici, in cui i riti del tempio erano quasi del tutto sostituiti dal “servizio della parola di Dio”. Le sinagoghe, infatti, avevano una funzione totalmente diversa dal Tempio, erano luoghi pensati “per la lettura della Legge e per l’insegnamento dei comandamenti” - secondo la definizione dell’antica iscrizione greca che le nomina per la prima volta. L’accento veniva dunque rivolto - in accordo con l’insegnamento dei profeti - all’osservanza ed alla fedeltà, non al rito sacrificale.
Si era affermata, così, una religione del tutto nuova, centrata sul rapporto etico con un Dio unico (il monoteismo etico di cui parlavamo all’inizio), che aveva sì scelto un popolo come suo, con un preciso compito, ma si proponeva di essere un Dio universale, il cui messaggio era rivolto a tutti gli uomini, e che pertanto era scritto in un Libro sacro, continuamente letto e meditato dai fedeli. La religione ebraica divenne così non solo la prima grande religione monoteista, ma anche la prima religione del Libro.
La Grecia
L’antropomorfismo
La Venere di Milo
È questa una delle più belle e famose raffigurazioni provenienti dall’antica Grecia. La dea Afrodite (cui corrisponde il nome latino Venere) è rappresentata come una donna di straordinaria bellezza, ma non ha speciali caratteristiche sovrumane.
Inno ad Apollo
Il brano che segue è tratto da uno dei cosiddetti “inni omerici”, composizioni di carattere religioso, che venivano eseguite pubblicamente in occasioni di particolari festività.
Mi ricordo bene di Apollo,
colui che da lontano colpisce di freccia.
Tutti lo temono gli dei,
tutti si levano in piedi,
quand’egli entra nella reggia d’Olimpo,
quando verso loro muove il suo passo.
Tutti si levano in piedi,
quand’egli scuote il suo arco.
Lei sola rimane presso Zeus, re delle folgori,
solo Latona, che la faretra prende di Apollo
e con le mani gli allenta le corde dell’arco,
e lo toglie dalle spalle robuste,
e ad un chiodo d’oro lo appende,
presso la colonna di Zeus, suo padre,
e sul suo trono lo guida a sedere.
E lo saluta suo padre, che l’ama,
ed a lui nettare versa, in un calice d’oro.
E allora seggono gli dei, tutti gli altri,
e gode nel suo cuore Latona, la dea venerabile,
colei che generò un figlio valente,
maestro dell’arco.
Gli antichi Greci adoravano molti dei e molte dee, esseri che avevano forma umana, e che in effetti si comportavano in tutto come gli uomini e le donne: avevano le loro passioni, i loro amori - a volte felici, a volte no - le loro occupazioni ed i loro oggetti preferiti. Ciò che li distingueva dagli uomini era - anzitutto - l’immortalità (per quasi tutti gli dei), e poi, naturalmente, il potere, che era di molto superiore a quello degli uomini. Si trattava però di una differenza di grado, più che di una differenza assoluta: può anche capitare, come racconta Omero
Omero, leggendario poeta greco, cui vennero attribuite l’Iliade e l’Odissea ( manuale)., che Marte, dio della guerra, venga ferito in battaglia da un uomo, e corra a rifugiarsi sull’Olimpo, non senza aver prima emesso un urlo agghiacciante. E poi, molto spesso, gli dei e le dee si innamoravano di esseri umani, e quasi sempre, in questi casi, avevano da loro dei figli, come molte storie raccontano. È proprio questa prossimità del mondo divino col mondo umano che fa sì che parliamo, in particolare per gli dei greci, di antropomorfismo
Antropomorfismo, religione nella quale gli dei sono simili agli uomini. Il termine antropomorfo viene dal greco antropómorphos, composto di ánthropos (uomo) e morphé (forma)..
Ma non si può dire che gli dei somigliassero a tutti gli uomini, o che tutti gli uomini somigliassero agli dei nello stesso modo. Erano gli aristocratici a somigliare agli dei, e gran parte del linguaggio che descriveva le relazioni tra gli uomini e gli dei (o anche quello per descrivere il rapporto tra gli dei minori e
Teseo uccide il Minotauro
Questa leggenda è una delle più fosche del repertorio greco. Il Minotauro era una creatura mostruosa, un uomo con la testa di toro, che viveva in un intricatissimo labirinto. Gli venivano offerti, ogni anno, sacrifici umani, fino a quando l’eroe ateniese Teseo non penetrò nel labirinto e lo uccise. Le storie di vittorie, da parte di uomini ingegnosi e coraggiosi, contro creature mostruose sono frequenti nel repertorio mitologico greco, e si possono interpretare come un modo di rappresentare il dominio della ragione contro le forze primitive dell’istinto e della natura. D’altra parte, il fatto che queste storie andassero raccontate sempre di nuovo, e con nuovi protagonisti, sembra significare che questa vittoria non era mai sentita come definitiva…
quelli più importanti) era lo stesso che veniva usato per descrivere le relazioni tra gli uomini comuni e quelli di alto rango. Non per nulla il peccato più grave che si potesse commettere era quello della hybris, che consisteva nella superbia con la quale un uomo, al culmine del potere o del successo, si riteneva ormai pari agli dei. Ciò poteva causare l’ira degli dei, che si abbatteva sul malfattore, e con punizioni terribili lo “rimetteva al suo posto”. Qualcosa di simile (anche se ovviamente su scala più grande) a ciò che accade a chi manca di rispetto a chi gli è superiore socialmente, soprattutto in società dove questa differenza è rigidamente codificata.
Senofane e la critica filosofica all’antropomorfismo
Stando alle nostre fonti, Senofane fu uno dei primi a criticare l’antropomorfismo dei miti greci, in nome di una concezione più spirituale della religione, che prevedeva la fede in un’unica divinità trascendente.
Il brano che segue, tratto da un poema in gran parte perduto, è un frammento satirico sulle credenze religiose del suo tempo. Va detto che, a dire il vero, i versi di Senofane non sono belli come quelli di Omero. E infatti c’era una leggenda sul suo conto, secondo cui quelle stesse Muse di cui lui negava l’esistenza, per vendetta, gli avevano sottratto il dono della grazia poetica.
(testo)
Gli dei dell’Olimpo venivano insomma descritti come una super-aristocrazia, e le loro abitudini, i loro valori, erano in tutto e per tutto simili a quelli delle classi egemoni che governavano le poleis. È eloquente, in proposito, il brano qui riportato dell’inno ad Apollo ( box). Bouquet, storico delle religioni, lo commenta così: “Zeus siede come un re nordico attorniato dai suoi guerrieri e servito dalla moglie; all’ingresso del suo figliolo favorito, un tipo piuttosto pericoloso, ma valente cacciatore, il suo seguito si alza rispettosamente, mentre la madre gli si fa incontro e lo accompagna al suo posto. Ci sembra di vedere Zeus che lo accoglie con un brindisi”.
Descrizioni del genere sono molto comuni nella letteratura mitologica greca, e non per nulla anche gli esseri umani che meglio incarnavano i valori delle poleis - gli eroi - venivano assunti in cielo, tra gli dei, al momento della loro morte, e molti di loro avevano i propri santuari, a cui si portavano offerte come a quelli degli dei, per invocarne la protezione, o anche l’intermediazione presso divinità più potenti - in modo molto simile a come, nel mondo cristiano, ci si rivolge a volte alle anime dei propri morti per le stesse ragioni.
Una caratteristica della religione olimpica si può considerare tipicamente aristocratica: in essa non c’è remunerazione in un’altra vita per il bene o per il male compiuto in questa. I Greci credevano che ciò che ci è dovuto per il nostro comportamento gli dei ce lo danno nel corso di questa vita terrena: il giusto non sarà premiato con un’eternità beata dopo la morte, ciò che ci attende dopo questa vita è solo l’Ade, un luogo tetro, dove le anime di tutti i morti vagano senza forza e senza speranza, come spettri, e non sono nemmeno in grado di parlare con chi le interroga, se questi non le nutre con sangue, carne, vino ed acqua. L’unica speranza di una vera vita immortale era quella che gli dei potevano riservare ai loro prediletti, uomini straordinari per valore o bellezza, che - come Eracle o Giacinto - erano assunti in cielo tra gli immortali. L’immortalità vera e propria, insomma, era un privilegio riservato a pochissimi: un privilegio aristocratico, per l’appunto.
Gli dei dell’Olimpo
I figli di Zeus
Nella tabella che segue sono riportati, nella colonna di destra, i nomi di alcuni dei figli di Zeus, ed a sinistra quelli delle rispettive madri (la tabella si limita a elencare i figli nati dall’unione di Zeus con altre divinità, ma i nati dall’unione con donne mortali sono molti di più). Se si considera che Era, dea del matrimonio, era l’unica moglie legittima di Zeus, si comprende come il comportamento sessuale che gli antichi Greci attribuivano al re degli dei fosse piuttosto disinvolto. Le leggende più antiche su Zeus si dilungano spesso nel raccontare gli abili trucchi e gli astuti travestimenti grazie ai quali egli riusciva a sedurre divinità, ninfe e donne mortali. Col tempo tutto questo divenne imbarazzante per gli stessi Greci, che a partire dal VI - V secolo a.C. svilupparono una crescente critica degli aspetti più grotteschi e ridicoli degli antichi miti.
Demetra
Persefone
(dea dell’oltretomba e della fertilità)
Dione
Afrodite
Eurinome
le Grazie (divinità della gioia, del fascino e della bellezza)
Era
Ares (dio della guerra), Efesto (dio dei fabbri e degli artigiani)
Latona
Apollo, Artemide
Maia
Ermes
Metis
Atena
Mnemosyne
le Muse (divinità delle arti)
Temis
le Moire (divinità del destino)
Gli dei di Atene
Gli antichi greci tendevano a ordinare le loro divinità più importanti in gruppi di dodici, ed è rivelativo delle differenze e delle tensioni fra le varie poleis il fatto che il raggruppamento dei primi dodici dei variasse notevolmente tra l’una e l’altra città. Sull’ingresso orientale del Partenone, ad Atene, figurano dodici divinità, che esprimono la gerarchia divina come la viveva in particolare quella città. Dal centro della figura verso sinistra si vedono: Zeus (re degli dei), Era (moglie di Zeus, e dea del matrimonio), Ares (dio della guerra), Demetra (dea del grano e del raccolto), Dioniso (dio dell’ebbrezza), Ermete (dio -messaggero). Dal centro verso destra si vede Atena (dea della sapienza), Efesto (il dio-fabbro), Poseidone (dio del mare), Apollo (il dio - profeta), Artemide (dea della caccia e protettrice delle partorienti) ed Afrodite (dea dell’amore, qui accompagnata da suo figlio Eros).
La posizione centrale di Atena è determinata dal suo ruolo di nume tutelare della città, mentre la presenza di Efesto è dovuta all’importanza del culto di questo dio presso gli artigiani della città. Altrove Atena non era così importante, ed Efesto era del tutto assente.
Data la molteplicità degli dei, ciascuno di essi aveva le sue caratteristiche, i suoi poteri tipici. E quindi quando gli uomini avevano bisogno di aiuto, si rivolgevano alla divinità che era ritenuta meglio in grado di aiutarli in quell’occasione. Se erano innamorati, si rivolgevano ad Afrodite, la dea dell’amore. Se poi una donna aspettava un figlio, rivolgeva le sue preghiere ed offerte ad Artemide, la dea delle partorienti. E se si doveva partire per un lungo viaggio via mare, era costume rivolgersi al potente dio degli abissi, Poseidone, per averne protezione. Ma le caratteristiche ed i campi di azione delle divinità erano molteplici e fittamente intrecciati, e ad esempio Artemide, oltre che la benefica dea delle partorienti era anche l’aggressiva dea della caccia; inoltre, chi partiva per mare poteva invocare non solo l’aiuto di Poseidone, ma anche quello di Apollo e di Artemide, numi tutelari dell’inizio della navigazione.
Gran parte degli dei vivevano, secondo le credenze greche, sul monte Olimpo: erano cioè divinità uranie, ovvero divinità celesti, legate all’antico culto del sole e del cielo. Ma non mancavano divinità ctonie, ovvero sotterranee, legate di solito a culti più antichi, che erano legate alla terra ed ai riti di fertilità di una società prevalentemente agraria. Tra queste c’era Ade, dio degli Inferi, e lo stesso Efesto, il dio-fabbro, figlio di Zeus e di Era. In effetti la storia greca ha origini agricole e relativamente povere, per poi proiettarsi sempre più verso il mare e i commerci che hanno trasformato la Grecia in un paese ricco e potente. Ma non si può dire che gli dei ctonici siano i soli legati alla storia primitiva e agraria della Grecia, mentre quelli uranii sarebbero l’espressione diretta della fase successiva: la realtà era più complessa, tanto che le maggiori divinità avevano sia caratteristiche uranie che ctoniche.
Il dio più importante era Zeus, re dell’Olimpo, padre di gran parte degli altri dei. Zeus era il dio del fulmine, il suo animale favorito era l’aquila, e il suo albero favorito era quercia. Questa divinità è un esempio interessante della molteplicità di caratteristiche che potevano essere attribuite allo stesso dio. A partire da Omero, infatti, egli viene definito infatti in due modi molto diversi: da un lato egli è rappresentato come il dio della giustizia, protettore dei deboli e degli ospiti (quest’ultimo aspetto era molto importante in una società nella quale era molto pericoloso allontanarsi dalla protezione della propria tribù e della propria polis, ma nella quale peraltro era indispensabile viaggiare spesso, per rendere possibile l’intensa vita commerciale che era alla base della prosperità delle città greche). D’altra parte Zeus è descritto anche come un instancabile seduttore, pronto a ricorrere ad ogni trucco e ad ogni metamorfosi per sedurre donne di ogni età e condizione, e per nascondere alla moglie le sue imprese amorose (quest’ultima cosa, peraltro, gli riesce di solito malissimo, tanto che Era si vendica spesso orribilmente delle amanti di Zeus, e perseguita anche i loro figli).
Testa di statua di bronzo, raffigurante Zeus.
Zeus, “padre degli dei e degli uomini” secondo il suo epiteto tradizionale, era diventato il re dell’Olimpo in un tempo antichissimo, dopo aver detronizzato ed ucciso suo padre Crono, e dopo una vittoriosa battaglia contro i Titani (leggenda quest’ultima che ha molto in comune con le storie mesopotamiche su Ti’amat e Marduk). La parte del mondo che Zeus governava direttamente era il cielo, mentre aveva assegnato il mare a suo fratello Poseidone, e l’oltretomba ad un altro fratello, Ade.
La duplicità di Zeus si spiega col fatto che nella sua figura, come in quella delle altre divinità, si mescolano culti e credenze che hanno origini diversissime, nello spazio e nel tempo. Alle origini indoeuropee del suo culto, infatti, questo dio era il protettore della famiglia patriarcale, cosa di cui rimane traccia in uno dei molti epiteti che i Greci più tardi associarono al suo nome: Zeus Patroios, ovvero “Zeus antenato”. Ma c’è anche, ad esempio, un antico Zeus chiamato Ktesios, guardiano delle provvigioni domestiche, accanto ad un più tardo Zeus Kataibates, dio del fulmine che scende fino in terra. E ci sono poi decine di altri Zeus, in origine divinità separate, poi riunite in un'unica figura divina, certo grandiosa, ma non priva di contraddizioni. Possiamo dire, insomma, che ogni fase della storia greca ha avuto il suo Zeus, e che è una caratteristiche del pensiero religioso greco procedere per aggiunte successive, senza buttare via quasi nulla delle storie più antiche. Ecco perché le divinità più importanti avevano sia aspetti uranii che aspetti ctonici, ed avevano sia comportamenti “morali” che “immorali”. “Zeus, difficile a intendersi”, diceva non a caso Euripide, uno dei più importanti poeti greci.
Il culto degli dei
Il Partenone
Il Partenone era il grande tempio costruito ad Atene in onore della dea Atena, protettrice della città. Voluto fortemente da Pericle, il tempio richiese, per la sua costruzione e decoro, i migliori artisti della Grecia, e fu in effetti un capolavoro artistico. Ciò nonostante, il Partenone non entrò mai profondamente nel cuore degli Ateniesi, che per il loro culto della dea Atena continuarono a preferirgli strutture più antiche e più piccole, artisticamente non paragonabili. Da questo punto di vista, il Partenone è molto più una dimostrazione del buon gusto degli Ateniesi, e della loro ricchezza, di quanto non sia una testimonianza della loro devozione religiosa.
Il culto degli dei olimpici era per lo più organizzato dalle poleis, ed aveva in effetti una grande importanza politica, dato che serviva a fondare l’identità di ciascuna città greca: ognuna infatti aveva le sue divinità, ed era credenza diffusa che i successi e gli insuccessi delle varie poleis dipendessero dal favore o dall’ira dei loro dei protettori. Questo favore non era determinato da motivi morali, ma da una serie di fattori imprevedibili, che vanno riportati in ultima analisi alla situazione di purità o impurità dei membri e dei capi della polis. La corruzione, nella religione greca arcaica, poteva essere dovuta ad alcuni tipi di esperienze, come l’aver partecipato alla nascita di un bambino, aver assistito ad una morte (o averla causata, a qualsiasi titolo), o anche l’aver avuto un brutto sogno. Se si era stati in una di queste situazioni, occorreva purificarsi prima di presentarsi agli altari degli dei, se non si voleva offenderli. Solo molto più tardi, durante l’età classica, i concetti di puro ed impuro presero un carattere morale.
Il luogo privilegiato in cui le divinità incontravano gli uomini era il
Copia romana della statua di Atena Parthenos, scolpita da Fidia per il Partenone
La copia romana della statua, in marmo, ci dà solo un’idea dell’originale, che era una grande statua in legno, alta undici metri, completamente ricoperta di avorio ed oro. Sull’elmo si levano alcuni grifoni, mentre nello scudo è arrotolato un altro animale sacro, il serpente caro alla dea.
tempio, che i Greci consideravano la casa del dio che lì veniva venerato. I santuari si trovavano di solito lontano dal centro pulsante della vita cittadina, proprio per sottolineare la differenza che opponeva la sfera divina con la vita quotidiana che si svolgeva nell’agorà e nelle strade delle poleis: sul declivio di una collina, come l’Acropoli di Atene, o sulla costa marina, come i tanti santuari dedicati al Dio Poseidone. Fanno eccezione i santuari della divinità strettamente “politiche”, come il santuario di Estia, ad Efeso, il cui fuoco perennemente acceso assicurava la continuità della polis.
Esistevano anche importanti culti e templi “panellenici”, rispettati e venerati da tutti i Greci, come il tempio di Apollo a Delfi, dove da tutta la Grecia si andava per ascoltare profezie sul proprio destino, o in cerca di guarigione dai propri mali, o il tempio di Zeus ad Olimpia, dove ogni quattro anni si svolgevano le Olimpiadi - cerimonie e gare sportive importantissime per tutte le poleis greche, tanto che per permetterne lo svolgimento veniva stabilita una “tregua sacra”, che interrompeva qualunque guerra fosse in corso.
Rappresentazione classica dell’oracolo di Delfi
A sinistra, issata su un alto tripode, siede la Pizia, pronta ad interpretare il futuro per l’interrogante, che le è di fronte. Le domande poste all’oracolo vertevano soprattutto su questioni relative al culto o al sacrificio, ma non mancavano molti privati che chiedevano del proprio destino e della propria salute.
Addetti alla custodia del tempio erano anche in Grecia i sacerdoti, ma a differenza dei grandi imperi mediorientali, non ci fu mai, nelle poleis greche, una casta sacerdotale chiusa, detentrice del monopolio del sapere e del rapporto con gli dei. Vero è che alcuni incarichi sacerdotali si tramandavano di generazione in generazione in alcune famiglie, ma il ruolo di questi “sacerdoti” si limitava a tenere in ordine il tempio, ed a compiere i sacrifici nei giorni di festività (nei giorni normali, questo compito spettava al capofamiglia). Tra mondo divino e mondo umano, in Grecia, le mediazioni erano dunque pochissime, e ciò dava a quella religione un carattere senz’altro meno oppressivo di quello dei culti dei grandi templi degli imperi mediorientali.
I culti misterici
La religione delle poleis era molto sentita dagli uomini comuni, e in effetti si può dire che “l’elemento religioso, il culto con le sue singole cerimonie, non costituiscono un ambito particolare, a sé stante, a cui si destinano soltanto le domeniche e i giorni di festa, ma sono incorporati in tutte le manifestazioni della vita quotidiana … l’esistenza di ciascuno è accompagnata, articolata e contrassegnata dalla presenza dei riti: non passa giorno che non abbia un suo rapporto, determinato o occasionale, con un preciso rituale” (Graf). Ciò nonostante, qualcosa mancava in questa religione, che non soddisfaceva le aspirazioni di gran parte degli uomini: una soddisfacente dottrina dell’immortalità ( capitolo sull’antropomorfismo). Una soluzione a questo naturale desiderio era data dall’affiliazione ai riti misterici
Il termine “mistero” viene dal greco tà mystéria, collegato a sua volta al verbo myo, che significa “chiudo gli occhi”, ed allude al carattere segreto dei riti., che assicuravano ai loro adepti la vita eterna.
Questi riti erano di vario tipo, e si svolgevano accanto (non in opposizione) alla religione olimpica di cui abbiamo già parlato. I più importanti si svolgevano vicino Atene, ad Eleusi, un luogo di pellegrinaggio per tutta la Grecia, dove si andava per visitare il tempio di Demetra ed essere iniziati ai misteri. Secondo la leggenda, Demetra aveva ottenuto da Zeus che sua figlia Kore, rapitale da Ade, dio degli Inferi, le fosse restituita, almeno per i due terzi dell’anno. Scopo dei riti misterici era quello di dare agli iniziati lo stesso privilegio che Demetra aveva ottenuto per sua figlia: poter vivere la vita vera, quella immortale in compagnia degli dei, rispetto alla quale la vita terrena era considerata solo un fragile sogno. In molti di questi culti si affermava un rapporto stretto tra il comportamento in vita e il destino ultraterreno: l’iniziazione non era sufficiente, e solo il giusto e il puro potevano sperare di unirsi agli dei.
Bassorilievo scolpito su un architrave del tempio di Demetra a Eleusi
Demetra era la dea del raccolto, e qui nel suo tempio la sua opera è rappresentata da un mazzo di spighe. Gli Ateniesi pensavano che Demetra avesse addirittura inventato l’agricoltura, ed avesse insegnato agli uomini il modo di coltivare il grano. I culti misterici del tempo hanno anch’essi a che fare con la morte e con la rinascita, e sono quindi connessi al grande ciclo di nascita e morte che costituisce le leggi della natura.
Il successo dei misteri di Eleusi fu enorme, e la loro fama si diffuse per tutta la Grecia, soprattutto durante l’età “classica”. In quel periodo la sala delle iniziazioni fu più volte ampliata, e la sua superficie fu portata a 2.600 m2, in modo da permettere il grande afflusso di fedeli. Il poeta Pindaro, nel V secolo a.C., ne parlava così: “Felice chi ha avuto la visione di questi misteri prima di scendere sotto terra. Egli sa cosa sia la fine della vita, e ne conosce il principio, donato da Zeus”.
Roma
Le religioni dei Romani
Per i Romani, ancor più che per i Greci, era valido l’antico detto secondo cui “tutto è pieno di dei”. Fin dall’epoca più remota della loro storia (per quanto ci è dato di capire dalle fonti scarne e un po’ ambigue in nostro possesso), i Romani hanno creduto in una vasta molteplicità di presenze divine (i numina), il cui potere avvertivano in ogni più piccolo segmento delle loro vite: essi conoscevano il nume Oberator, che copriva la semenza, il nume Insitor, che aiutava a seminare, il nume Vagitanus, che insegnava ai bambini i primi vagiti ed anche il nume Fabulinus, che insegnava le prime sillabe e le prime parole. C’erano poi le ninfe delle fonti e degli specchi d’acqua, i fauni che vivevano nei boschi, c’erano i genii familiari, che assicuravano la continuità delle famiglie, c’erano gli dèi dei fiumi - come il dio Tiberino, il dio del fiume Tevere, con cui parlò l’eroe troiano Enea, appena arrivato nel Lazio - e c’era persino la dea Cloachina, specializzata nella cura dei gabinetti. Gran parte di queste presenze divine erano tipiche di una società prevalentemente agricola, come era quella dei primi Romani, che trovavano compiutamente espressa la propria vita nel proprio sistema di credenze.
A dire il vero le credenze religiose dei primi Romani erano molto differenziate tra loro, come lo erano del resto i Romani stessi, che avevano diverse origini etniche e linguistiche ( manuale), e queste differenze continuarono ad aumentare lungo tutto il corso della loro storia, tanto che è stato detto che “non c’è mai stata una religione romana, anche se è vero che ci sono state molte religioni romane” (Marcel Le Glay). E infatti fin dall’inizio la parte latino-sabina del popolo romano era certo molto diversa da quella che aveva risentito più direttamente dell’influenza etrusca, ed anche in seguito, la religione di un personaggio come Muzio Scevola ( percorso sull’immaginario), aristocratico colto e grande pontefice, non doveva somigliare molto a quella dei contadini dell’Italia centrale.
Una svolta decisiva nelle concezioni religiose dei Romani, peraltro, si è avuta a partire dai primi incontri con la civiltà greca. Per molte e complesse ragioni, infatti, i Romani vollero fortemente assimilare e fare propria quella cultura (o anche, secondo un altro modo di vedere le cose, non poterono farne a meno: per il nostro argomento non importa molto sapere quale delle due ipotesi sia quella giusta). Gli dei romani, quindi, diventarono gli dei greci. Ad esempio, i Romani già avevano un dio del cielo, signore del fulmine e del tuono, simile alle divinità celesti di altre popolazioni indoeuropee, un dio che essi chiamavano Giove (in latino Iuppiter): fu quindi con apparente naturalezza che essi poterono applicare a Giove tutte le storie ed i culti che i Greci da secoli attribuivano a Zeus. E così nel rito, nelle credenze, e nella poesia religiosa, Giove e Zeus divennero lo stesso dio, così come il greco Ares divenne Marte, il dio romano della guerra, la greca Afrodite divenne Venere, dea dell’amore, etc.
In tutto questo i Romani furono aiutati dagli stessi Greci, che avevano sempre avuto la tendenza ad identificare gli dèi dei popoli che incontravano con i propri dei, o anche, in alcuni casi, a far posto ad essi nel proprio Pantheon, accanto alle divinità olimpiche. Prima di entrare nell’orbita dell’influenza greca, però, i Romani non ebbero una vera e propria mitologia. Essi credevano nell’esistenza di forze superiori la portata degli uomini, forze straordinariamente potenti, la cui azione vedevano all’opera in tutti gli aspetti della natura e della società, ad esempio quando una donna dava alla luce un bambino, quando si costruiva un ponte, quando si apriva una porta, etc. Non avevano però storie che parlassero di questi esseri superiori, né li imparentavano tra loro in un preciso sistema genealogico, paragonabile a quello dei Greci.
La religione dei primi Romani non era un sistema di credenze, ma era piuttosto un insieme di pratiche rituali, il cui scopo principale era quello di conseguire la pax deorum, la pace degli dei: si trattava di assicurarsi la benevolenza e l’aiuto degli dei per tutto ciò che gli uomini intraprendevano, e di scongiurarne l’ira e l’ostilità.
Gli strumenti principali per assicurare la pax deorum erano la preghiera e il sacrificio, intesi però in modo diverso da come li hanno intesi, ad esempio, i fedeli delle grandi religioni monoteistiche. Il sacrificio sanciva una sorta di cooperazione tra gli uomini e le divinità. Esse avevano bisogno dei sacrifici degli uomini, che erano il loro nutrimento, e senza di essi si sarebbero indebolite, e non sarebbero state in grado di aiutare gli uomini nei loro progetti. La preghiera poi era un insieme di lusinghe, adulazioni, giustificazioni, promesse. Entrambi questi atti erano privi di rilevanti connotazioni morali: molto più importante era la correttezza del rito e la precisione dei termini e delle formule scelti per rivolgersi alla divinità. La preghiera non era priva di elementi magici: con alcune formule si poteva quasi forzare l’aiuto della divinità, o si poteva scagliare terribili maledizioni sui propri nemici.
Il periodo monarchico
I principali dei di questa fase più antica della storia religiosa romana erano Giove e Marte, cui abbiamo già accennato, e Quirino, una divinità strettamente locale, non traducibile nel Pantheon olimpico dei Greci. Dopo secoli, quando l’ellenizzazione della città fu ormai un fatto acquisito, i Romani finirono con l’identificare Quirino con Romolo, il mitico fondatore e primo re della città, colui che secondo la leggenda era stato accolto in cielo dagli altri dei, ed era diventato una divinità benevola, dedita alla particolare protezione del suo popolo.
La prima influenza della cultura greca arrivò ai Romani per via indiretta, ovvero attraverso la maggiore potenza della zona, gli Etruschi, durante il lungo periodo della loro egemonia su Roma ( manuale). L’egemonia etrusca significò per Roma entrare nell’orbita di influenza di un popolo di raffinata e antica civiltà, che era entrato in contatto col mondo greco già prima dei Romani.
Gli Etruschi erano profondamente religiosi: a differenza dei Romani, avevano una loro mitologia, ed un’elaborata dottrina sul destino dell’anima dopo la morte. Anche la loro religione era caratterizzata da un’attenzione quasi ossessiva per il rispetto di complesse regole rituali. Per gli Etruschi cielo e terra non erano rigidamente separati, anzi costituivano un insieme organico, tanto che se si interrogavano gli dei nel modo appropriato si poteva indurli a compiere varie azioni benefiche, e, soprattutto, si poteva per loro tramite praticare la divinazione (in altre parole, predire il futuro). Essi introdussero a Roma nuove divinità e nuovi riti, durante la parte finale del periodo monarchico: tra questi riti, una particolare rilevanza ebbero proprio quelli che consentivano la divinazione, come gli oracoli sibillini. La divinazione divenne a Roma un affare di stato, e si consultavano i sacerdoti in essa specializzati - gli aruspici - prima di intraprendere qualsiasi importante iniziativa: guerre, trattati di pace, costruzione di strade, bonifiche, e così via.
Tra le divinità introdotte durante l’egemonia etrusca, particolare importanza ebbe Fors, la dea della fortuna. Originariamente si trattava di una divinità agricola, cui ci appellava per la protezione del raccolto, ma col tempo venne identificata con la greca Tyche, la dea protettrice delle città, cui assicurava la buona sorte. Il tempio di Fors, che sorgeva sulle sponde del Tevere, era uno dei pochi che anche gli schiavi potevano frequentare.
La religione della repubblica
Questo fu il periodo della storia romana nella quale, a partire dalla conquista di Taranto (272 a.C.) ( percorso sulla guerra), il processo di ellenizzazione si affermò in modo completo ed irreversibile. Ma molto prima, fin dal V secolo, era cominciata l’edificazione di una serie di nuovi templi, dedicati a divinità greche come Apollo, o a divinità italiche che vennero identificate con divinità greche - come Cerere, antica divinità agraria, che venne assimilata a Demetra, la dea greca del raccolto.
Uccisione rituale di un toro nel culto di Mitra
Il culto del dio Mitra fu una delle maggiori religioni dell’impero romano. Portato a Roma dai pirati della Cilicia, vinti e ridotti in schiavitù dal generale Pompeo nel I secolo a.C., il culto di Mitra era rivolto all’antico Dio persiano della luce e della sapienza, che fu poi identificato dai Greci col dio Elios, il dio del Sole. Secondo gli antichi testi religiosi persiani, Mitra aveva - all’origine dei tempi - ucciso il toro sacro, dal cui corpo morente nacquero tutte le piante e gli animali del mondo. Questo sacrificio originario veniva ripetuto nel corso di solenni cerimonie, da parte dei sacerdoti di Mitra. La religione di Mitra predicava anch’essa, come il cristianesimo, l’amore fraterno e l’umiltà, e prometteva l’immortalità dell’anima ai fedeli. Dalle sue cerimonie, però, erano escluse le donne.
L’apparente naturalezza con la quale i Romani importavano divinità straniere era facilitata dall’introduzione del rito della evocatio, una cerimonia con la quale i Romani invitavano gli dei protettori delle terre da loro sottomesse ad abbandonare le loro vecchie città, o almeno a trasferire su Roma la loro protezione. Un’alternativa a questa forma di imperialismo religioso era rappresentata dal lectisternium, una solenne cerimonia che la repubblica organizzava nei momenti di più grande difficoltà: durante questo rito si imbandiva una tavola con cibo e fiori davanti all’effigie di una coppia di divinità, per significare che quelle divinità erano gradite ospiti della città. Un lectisternium particolarmente imponente venne allestito nella fase culminante della seconda guerra punica, quando sembrava che Annibale stesse per assalire Roma, dopo averne a più riprese sbaragliato l’esercito ( percorso sulla guerra).
L’introduzione di questi riti, comunque, si accompagnò alla diffusione di un crescente scetticismo religioso nelle classi egemoni dell’ormai vasto impero dei romani, e nella fase finale della repubblica sempre maggiore divenne il numero di persone colte che pensavano che la religione tradizionale avesse un’utilità soprattutto politica, che fosse cioè un’abile menzogna, efficace per tenere sottomesso il popolo, indotto all’obbedienza dal timore degli dei. Nel popolo, peraltro, cominciavano a diffondersi culti misterici provenienti dall’oriente, che davano ai loro adepti la promessa di un’altra vita, dopo la morte terrena, ed erano in generale più emozionanti ed appaganti dei culti promossi dallo stato.
Il periodo imperiale
La fine della repubblica coincise con un lungo periodo di sanguinose guerre civili ( percorso sulla guerra), alla fine del quale la pace, sospirata da generazioni, apparve a molti davvero come un dono divino. Il nuovo padrone assoluto della città, Cesare Ottaviano Augusto, avviò una politica di restaurazione religiosa, dichiarando di voler riportare il proprio regno alla purezza ed alla semplicità delle origini. Si trattava naturalmente di un compito impossibile, e ciò che Augusto lasciò come principale eredità religiosa fu un’ulteriore novità, ovvero il culto dell’imperatore. Già durante la sua vita, lo stato tributò un culto ufficiale al genio della famiglia dell’imperatore. Alla morte di Augusto, poi, egli venne divinizzato, ed adorato come divus. La divinizzazione degli imperatori - che sempre più spesso, dopo Augusto, avvenne già durante la loro vita - era giustificata con la considerazione che essi davano allo stato benefici degni di un dio.
Il popolo partecipava con disciplina ai riti solenni del cerimoniale di stato, ma sempre più spesso aveva una sorta di doppia cittadinanza religiosa: come cittadini, si tributava lealmente il proprio tributo agli imperatori ed alle divinità dello stato, ma come privati si cercava sempre più spesso la salvezza della propria anima nelle religioni orientali, come il culto della dea egiziana Iside e del dio persiano Mitra, che commuovevano gli animi con le loro promesse di immortalità. Tra questi riti venuti dall’oriente, ce ne fu però uno che divenne sempre più importante, fino a soppiantare tutti gli altri: si trattava di una religione nata ai margini dall’impero, anzi di un’eresia rifiutata anche dal popolo ebraico al cui interno aveva mosso i primi passi, ma che - tra lo stupore all’inizio sprezzante, poi sempre più preoccupato e interessato delle classi colte dell’impero - si era affermata sempre di più, resistendo a tutti i tentativi fatti per arginarla. Il suo fondatore non veniva da una famiglia nobile e ricca, né aveva alle spalle studi e titoli. Era solo il figlio di un falegname. Si chiamava Gesù, e veniva da Nazareth, in Galilea.
Il cristianesimo
Un fatto nuovo: l’annuncio di Cristo
Il termine Cristo nella tradizione ebraica
Kristhòs (Cristo) è il termine con cui l’antica versione greca del Nuovo Testamento traduceva varie forme del verbo ebraico mashakh (ungere), tra cui māshiāh, “l’unto”, da cui deriva l’italiano “Messia”. L’uso religioso del termine deriva dall’antica credenza magica, secondo cui l’applicazione di olio dava a persone e oggetti poteri straordinari, ed anche soprannaturali. Nell’Antico Testamento, il termine māshiāh designò i sovrani eletti da Dio, ma anche i preti, e in generale gli intermediari fra Dio e gli uomini, come i profeti. Quando però crebbero in Israele le aspettative per un liberatore divino, che doveva venire a riscattare il popolo dalla sua situazione di sottomissione e ad instaurare il regno di Dio in terra, il termine restrinse il suo significato, a designare appunto questo liberatore. Intendendo la sua missione proprio come la liberazione annunciata dai profeti, anche se non nel senso politico che molti le davano, Gesù prese su di sé la denominazione di māshiāh, e si chiamò quindi Gesù Cristo. Non senza avvertire, peraltro, che il suo Regno “non è di questo mondo”.
Il cristianesimo nacque nell’ambito dell’attesa ebraica del Messia, del liberatore che secondo le antiche profezie sarebbe venuto ad instaurare il regno di Dio sulla Terra, ed a premiare il popolo eletto per la sua lunga e dolorosa fedeltà ( paragrafo sul giudaismo, percorso sulla religione). La nuova religione fu anzi considerata - ai suoi inizi - come una variante eretica della religione giudaica, ed a lungo i Romani non distinsero tra Ebrei e Cristiani. Eppure, a differenza del giudaismo, il cristianesimo non era rivolto solo al popolo ebraico, ma anche ai Gentili (gentile era il termine generico col quale nel mondo ebraico venivano designati tutti i non ebrei). Per il resto il suo fondatore - Gesù di Nazareth - ha affermato più volte di non essere venuto per abolire la legge mosaica (che era l’essenza della religione ebraica), ma solo per correggerla e completarla.
La conversione di Paolo
San Paolo fu chiamato, non senza ragione, “l’apostolo dei Gentili”: egli infatti a partire dalla sua conversione al cristianesimo, dedicò la sua vita a portare il messaggio di Cristo oltre i confini del popolo ebraico, a tutti gli altri popoli (i “Gentili”, secondo il linguaggio biblico). Questa conversione fu un passaggio brusco - e secondo i cristiani miracoloso - che lo trasformò da persecutore dei seguaci di Gesù a zelante apostolo della nuova religione. In questo famoso quadro di Caravaggio, la scena della conversione di Paolo, sulla via di Damasco, è rappresentata vividamente, secondo la dottrina ortodossa del suo tempo: Paolo è momentaneamente accecato da una luce insopportabile, cade da cavallo, e si copre gli occhi per non vedere. Dal momento in cui si rialzerà, la sua vita non sarà più la stessa.
Maria e il bambino
Quella riprodotta nell’immagine è una delle più antiche raffigurazioni di Maria col bambino, alle origini del culto mariano. Il culto si affermò prima durante l’impero, quando l’immagine di Maria, madre di Dio, era ancora molto simile, dal punto di vista della rappresentazione, alle numerose immagini della dea Iside con Horus bambino, centrali nel culto della grande dea egiziana. Ma il culto di Maria si affermò con particolare vigore nelle epoche successive alla caduta dell’impero, quando l’incertezza della vita e il timore della morte si fecero ancora più palpabili per grandi moltitudini di uomini. Maria venne vista allora come colei che intercedeva per gli uomini presso un Dio che veniva percepito come giusto, ma severo e terribile.
L’ultima cena
Questo mosaico bizantino rappresenta l’ultima cena di Gesù di Nazareth insieme ai suoi discepoli, poche ore prima che uno di loro - Giuda Iscariota - lo tradisse, consegnandolo alle autorità. Durante la cena Gesù - secondo le Scritture cristiane - avvertì i suoi discepoli della sua morte imminente, poi compì i due gesti che da allora sono il cuore delle cerimonie religiose cristiane: prese il pane, lo spezzò, lo benedisse e disse: “questo è il mio corpo”, poi versò il vino, lo bevve, e disse: “questo è il mio sangue”. Questi gesti, ripetuti dal sacerdote, costituiscono il rito della eucarestia. I cattolici pensano che al momento della benedizione avvenga la transustanziazione, ovvero che il pane usato per la cerimonia (l’ostia) divenga realmente il corpo di Cristo, e il vino divenga realmente il suo sangue. Questa particolare dottrina non è condivisa da parte delle chiese protestanti.
Giovanni Battista
In questo raffigurazione medievale, Giovanni Battista è ritratto in un’ambientazione naturale, un riferimento ai lunghi anni da lui passati in solitudine e meditazione, prima che cominciasse a predicare l’imminente arrivo del Messia.
La vita pubblica di Gesù cominciò nel momento in cui incontrò Giovanni Battista, l’ultimo della gloriosa tradizione dei profeti ebraici, che predicava e praticava una vita ascetica, e proclamava l’imminenza dell’arrivo del regno di Dio e del Messia. Gesù vide nella predicazione del Battista il preannunzio di quello stesso regno che lui stava per inaugurare, e cominciò a predicare il suo messaggio di amore reciproco tra tutti gli uomini, di pace e perdono per i peccati. Lo fece con un linguaggio vivido e immediato, facendo uso spesso di parabole ed esempi, per spiegare i concetti più nuovi con parole comprensibili a tutti i suoi ascoltatori, perché prese dalla loro esperienza quotidiana. Le sue prediche, secondo le fonti cristiane, erano accompagnate da guarigioni miracolose ed altri prodigi, e con esse Gesù si conquistò un ampio seguito nel popolo che lo ascoltava e lo seguiva. La sua interpretazione della legge mosaica lo portò però a scontrarsi con i sacerdoti ebraici, in particolare con i Farisei - un gruppo particolarmente zelante nell’applicazione della Legge. Dopo un solenne ingresso di Gesù a Gerusalemme, tra ali di folla osannante, i Farisei decisero che il loro nemico era ormai troppo pericoloso. Pochi giorni dopo Gesù, tradito da uno dei suoi discepoli, fu consegnato ai sacerdoti del Sinedrio - il supremo tribunale religioso di Israele - che lo condannarono a morte come eretico e bestemmiatore. Il tribunale romano, presieduto dal governatore Ponzio Pilato, rese esecutiva la sentenza, e lo fece crocifiggere. È fede universale di tutti i cristiani che Gesù resuscitò il terzo giorno successivo alla sua morte.
Questo racconto è basato, naturalmente, sui vangeli, che sono una parte del testo sacro dei cristiani, e come tali possono essere considerati una fonte sospetta dai non cristiani. Ma dell’esistenza storica di un personaggio di nome Gesù non si può dubitare, dato che ne parlarono anche storici non cristiani come Tacito e Svetonio. E c’è ampio accordo, oggi, tra gli studiosi, nel considerare attendibili le grandi linee del racconto evangelico, per quanto riguarda la storia della predicazione, del processo e della condanna di Gesù. Per quanto riguarda i miracoli, naturalmente, la decisione in proposito è affidata alle convinzioni di ognuno, e non è questo il luogo per esprimere un giudizio.
Ciò che è certo è che la nuova religione ebbe molte difficoltà a diffondersi all’interno del popolo ebraico - di cui disconosceva il rapporto privilegiato con Dio - ma si diffuse rapidamente in tutte le terre del mediterraneo, prima all’interno delle classi umili (i cristiani non facevano differenze tra ricchi e poveri, tra liberi e schiavi, tra nobili e plebei). Un grande impulso a questa diffusione venne dato un ex-fariseo, Paolo di Tarso, che da persecutore dei cristiani si convertì all’improvviso sia al cristianesimo, sia alla convinzione che la buona novella della nuova religione andasse portata a tutti gli uomini. Paolo non dava alcuna importanza, ai fini della salvezza, alle pratiche religiose ebraiche, disconosceva l’importanza della circoncisione e dell’obbedienza ai molteplici obblighi della Legge mosaica. La salvezza veniva dalla fede in Gesù, e questa stessa fede era un dono che veniva da Dio. La fede e la grazia assicuravano la salvezza, e dalla fede e dalla grazia scaturiva (come una conseguenza inevitabile) una vita giusta. La giustizia delle opere era dunque una conseguenza della salvezza, e non più - come per la religione ebraica - una causa.
Ci fu molto dibattito, nella chiesa primitiva, sull’estensione del messaggio cristiano anche ai Gentili: molti si opposero, e tra questi l’apostolo Pietro e lo stesso Giacomo, fratello di Gesù e capo della chiesa di Gerusalemme dopo la sua morte. La stessa asprezza della discussione tra gli apostoli ha fatto pensare a molti studiosi che le indicazioni di Gesù a proposito dei Gentili non siano state prive di qualche ambiguità. In ogni caso la linea di Paolo finì col prevalere, e questo successo fu quello che consentì al cristianesimo l’inizio della sua straordinaria diffusione in tutte le terre dell’impero romano.
La chiesa primitiva
“Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati i perseguitati a causa della giustizia, poiché di essi è il Regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno, e mentendo diranno contro di voi ogni sorta di male, a causa mia” (dal Vangelo secondo Matteo, cap. 5): la predicazione di Gesù aveva spesso un andamento paradossale, dal punto di vista dell’etica e della mentalità dominanti nelle terre dell’impero. Dove la religione pagana e l’etica più diffusa avevano come fine il raggiungimento di una felicità e prosperità terrene, della salute fisica, della ricchezza e del successo, Gesù aveva predicato, per la prima volta come valori, la povertà, l’umiltà, la mitezza. Anche la sofferenza terrena aveva un senso nelle sue parole, se serviva a preparare una felicità molto più grande, che era quella attesa in una vita dopo quella terrena, la vera vita, eterna, cui questa era solo una transitoria preparazione.
L’attesa della fine dei tempi
L’attesa dell’imminente fine dei tempi, e dell’inizio del Regno di Dio era ciò che dava senso - per i cristiani - all’apparente paradossalità di un messaggio che contrastava così nettamente con i valori dominanti nel loro tempo. Una chiave del successo del cristianesimo fu proprio, all’inizio, nel dare finalmente un senso alla vita di sofferenza e di stenti delle grandi moltitudini dell’impero, che non partecipavano ai privilegi ed ai fasti delle classi più elevate. Nell’immagine vediamo la fine dei tempi come è stata immaginata da uno dei più grandi artisti cristiani, Michelangelo, con Gesù che ritorna come giudice onnisciente, per premiare i giusti e punire i malvagi.
Ciò fece sì che, all’inizio, la chiesa fosse molto distaccata dalle cose mondane, dalla politica e dalla società. Non partecipava ai riti pubblici che dovevano assicurare il successo delle imprese dello stato e dell’imperatore, guardava con disprezzo ai riti pagani di fertilità, che per molti contadini erano una condizione indispensabile per guardare con serenità al proprio faticoso futuro.
Estranea e ostile rispetto al mondo esterno, la chiesa era però ben organizzata per dare soccorso e assistenza ai suoi membri più bisognosi, e queste attività divennero sempre più importanti mano a mano che il numero dei fedeli cresceva, tanto da richiedere un coordinamento efficace e capillare. Nel corso dei primi secoli della nostra era, la chiesa diffuse le proprie organizzazioni in tutto l’impero, e si organizzò in diverse unità territoriali, dette diocesi (come le divisioni amministrative dell’impero), ciascuna delle quali faceva capo a un vescovo. I vescovi delle città più importanti finirono con l’avere una prevalenza sugli altri, e con l’assumere un ruolo decisivo nella loro nomina e nel controllo del loro operato. Questi vescovi maggiori vennero dunque chiamati arcivescovi.
In questo modo, la chiesa si diffuse sì molto, soprattutto nelle città, ma a coloro cui il suo messaggio non arrivava appariva come una società aliena e ostile. I sentimenti che essa ispirava ai non cristiani erano disprezzo, avversione e paura.
Disprezzo e paura generano spesso sentimenti peggiori, e questo accadde anche allora: da essi nacque l’odio, e con esso una serie di persecuzioni (organizzate dallo stato) e pogrom (scoppi di violenza che nascevano più o meno spontaneamente) che ostacolarono la diffusione del cristianesimo, fino a renderla drammatica.
Lungo tutti quegli anni, l’essere cristiano costituì un reato capitale, punibile con la pena di morte, anche se era possibile evitare la pena tramite l’apostasia: ovvero era sufficiente sacrificare agli dei e onorare l’imperatore, perché l’accusa venisse lasciata cadere. Questo atto, che sembrava semplice e banale ai pagani politeisti, tanto che essi non capivano come si potesse essere tanto fanatici da rifiutarsi di compierlo, costituiva un’offesa insopportabile per i cristiani, per i quali l’apostasia negava il rigoroso monoteismo che era alla base della loro fede, come di quella degli Ebrei. Moltissimi cristiani affrontarono la morte, piuttosto che commettere apostasia, di fronte all’incredulo stupore dei funzionari pagani.
Il Colosseo e il martirio dei primi cristiani
In questo grande anfiteatro (figura 1), costruito dal 70 all’82 d.C., all’epoca della dinastia flavia, si svolsero alcuni grandi spettacoli pubblici, nelle quali una delle principali attrazioni era l’uccisione di cristiani che rifiutavano di compiere apostasia. Spesso essi venivano dati in pasto a bestie feroci, tra le grida di scherno e di incitamento del pubblico (figura 2). Questi cristiani, che sceglievano di morire pur di non rinnegare la propria religione, venivano chiamati “martiri”, cioè testimoni della fede.
La prima persecuzione era stata quella voluta dall’imperatore Nerone (nel 64 d.C.), al tempo del grande incendio di Roma (la cui responsabilità venne attribuita ai cristiani), ma rimase a lungo un fatto isolato. Il tempo delle grandi persecuzioni cominciò nel secondo secolo, e culminò nel 303 d.C., con lo sterminio di cristiani voluto dall’imperatore Diocleziano. Bastava un’annata di carestia, una crisi economica, o un insuccesso militare, perché la colpa venisse fatta ricadere sui cristiani, rei di allontanare dall’impero la protezione degli dei, offesi - secondo la convinzione comune - dalla diffusione di riti così estranei ed empi, e dall’esistenza stessa dei cristiani.
Il cristianesimo come religione di stato
Abbiamo ricordato, nel paragrafo precedente, che il sentire del comune cittadino dell’impero, di fronte ai primi cristiani, era improntato a disprezzo e ostilità, e le persecuzioni, anche le più feroci, avvennero senza un sostanziale dissenso da parte del popolo, che anzi accorreva in massa ad assistervi, durante gli spettacoli del circo. La condanna e i pregiudizi nei confronti dei cristiani erano così tenaci da penetrare anche nelle classi più colte, e ad esempio Plinio il giovane (che era il governatore della Bitinia ed uno dei maggiori scrittori della sua epoca), scrisse nel 111 d.C. all’imperatore Traiano, esprimendo il suo stupore per aver trovato che i cristiani sotto la sua giurisdizione non erano colpevoli di nessun vizio, eccezion fatta per il loro ostinato e superstizioso rifiuto di celebrare il culto del genio dell’imperatore. Considerazione, quest’ultima, che non impedì all’ambizioso e colto governatore di condannare tutti i cristiani che rifiutavano l’apostasia.
La chiesa cristiana, comunque, sopravvisse alle persecuzioni, e col tempo l’atteggiamento degli imperatori nei suoi confronti subì uno spettacolare cambiamento. L’impero, infatti, mutava col passare del tempo, e non sempre per il meglio: cresceva il peso delle tasse, necessarie per mantenere un esercito enorme, e si diffondeva la povertà. Eppure spesso l’esercito si mostrava insufficiente a far fronte alla pressione dei nemici ai confini, attratti dalle ricche terre dell’impero. Al tempo stesso diminuiva sempre più la coesione della società, e la religione tradizionale non era più sufficiente a tenerla unita. Occorreva un’alternativa radicale, e di fronte al progressivo collasso della macchina statale, gli imperatori trovarono che poteva essere un’ottima idea quella di ricorrere ad un’organizzazione che era invece efficientissima, animata da una forte idealità, e che aveva dimostrato di poter sopravvivere a prove durissime.
La chiesa di Santa Maria Antiqua, nel Foro romano
Quando il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero, molti templi pagani vennero abbattuti, mentre altri templi e costruzioni vennero trasformati in chiese cristiane (tra questi, anche il Partenone di Atene). Quello della chiesa di Santa Maria Antiqua è uno dei primi esempi.
Costantino il grande
Costantino I, detto Costantino il grande, fu il primo imperatore romano convertitosi al cristianesimo. Egli considerò la chiesa cristiana come un indispensabile strumento per consolidare il suo potere, ed intervenne pesantemente nei suoi dibattiti interni, per rendere questo strumento il più efficace possibile. Pochi anni dopo la sua conversione, ad esempio, convocò (e presiedette) il primo concilio ecumenico a Nicea (325 d.C.), per superare le divisioni all’interno della chiesa sulla natura di Cristo: il teologo Ario ed i suoi seguaci, infatti, negavano che Gesù avesse sia una natura umana che una natura divina, contro la posizione ufficiale della chiesa, sostenuta anche dall’imperatore, che sosteneva la compresenza in Gesù delle due nature. Ma è chiaro che a Costantino, molto più della sottile disputa teologica, interessava l’unità della chiesa, condizione indispensabile perché il suo appoggio all’impero potesse essere efficace. Il concilio di Nicea si chiuse, come era facile prevedere, con la condanna delle posizioni di Ario.
Costantino fu il primo imperatore a convertirsi al cristianesimo, ed emanò nel 313 d.C. l’editto di Milano, col quale assicurava la più ampia tolleranza per tutti i cristiani residenti nell’impero. Da quel momento l’alleanza tra chiesa e impero divenne sempre più stretta, e sempre più il paganesimo venne visto dagli imperatori come un fastidioso peso del passato. Teodosio I (imperatore d’occidente dal 379 al 395 d.C.) trasse le conseguenze di questo processo, rese il cristianesimo parte integrante della cittadinanza romana, e fece chiudere (e spesso distruggere) molti templi pagani.
Sempre più spesso ai vescovi venivano riconosciuti incarichi statali, e venivano assegnate loro le insegne che una volta caratterizzavano il potere dei magistrati romani incaricati di perseguire e processare i cristiani. L’eresia stessa non era più solo una questione di opinione, punibile con la scomunica (ovvero con l’esclusione dalla comunità dei fedeli), ma era un reato grave, contro l’autorità dello stato, punibile con la pena capitale.
Questo processo non avvenne senza resistenze, da una parte e dall’altra. Da un lato, infatti, una parte notevole della nobiltà senatoria, insieme agli abitanti delle campagne, era rimasta attaccata al paganesimo dei suoi avi, dall’altra molti cristiani non accettarono i compromessi che l’alleanza con l’impero inevitabilmente comportava. Queste resistenze durarono a lungo, ma alla fine furono messe a tacere: i senatori pagani furono gradualmente allontanati dal potere, mentre i cristiani dissidenti scelsero spesso la strada del ritiro e della meditazione, divenendo in alcuni casi eremiti.
Di solito, nel nuovo impero cristiano del IV e V secolo, i non cristiani non venivano perseguitati, ma questa regola non era sempre rispettata. Ad esempio nel 385 d.C. l’eretica Priscilla fu accusata di stregoneria, e condannata a morte dai tribunali dell’impero, anche se la chiesa di allora protestò veementemente. In seguito, però, le proteste della chiesa per questi “eccessi di zelo” da parte dell’autorità statale si fecero sempre più flebili, e la chiesa cristiana si abituò alla sua nuova posizione di potere. Il cristianesimo era ormai religione di stato.
L’Alto Medioevo
Il battesimo del re franco Clodoveo
Dopo la caduta dell’impero in Occidente, la chiesa impegnò tutte le sue forze nella conversione al cristianesimo delle popolazioni “barbare” che avevano acquisito il dominio dell’Europa. Spesso i nuovi popoli che arrivavano in occidente si erano già convertiti al cristianesimo, ma lo avevano fatto in seguito alla predicazione del monaco ariano Ufila, ed si erano quindi convertiti alla versione della religione cristiana, ormai considerata eretica in Occidente. Questa situazione aumentò le diffidenze tra i barbari invasori e i latini sudditi, rendendo più difficile la loro cooperazione, pur necessaria a entrambi. La conversione degli invasori al cristianesimo romano, quando infine si realizzò, fu dunque un importante fattore di pacificazione. E i più astuti tra i capi barbari, come Clodoveo, re dei Franchi, si convertirono direttamente al cristianesimo romano, guadagnandosi così l’amicizia e l’appoggio della chiesa. Fu anche per questo che proprio i Franchi diedero vita, nell’800, al Sacro Romano Impero - che si presentava come una rifondazione, su nuove basi cristiane, dell’antico impero romano.
La chiesa di Roma e la chiesa di Costantinopoli
Figura 1 - La diffusione del cristianesimo tra IV e V secolo
Da Costantino in poi, le sorti della chiesa cristiana erano state strettamente legate alla città di Roma. Lì esercitava la sua funzione uno dei suoi più importanti vescovi, la cui autorevolezza crebbe fino a farlo identificare - a partire dall’VIII secolo - col capo di tutta la chiesa, designato col titolo di papa. Ma anche prima di questa importantissima svolta, a Roma si era guardato da parte della grande maggioranza dei cristiani come al centro spirituale della propria fede.
Tanto stretto era il legame della chiesa con Roma, che quando la città era stata conquistata e saccheggiata dai Visigoti, nel 410 d.C., uno dei massimi studiosi cristiani, Girolamo, scrisse che “Tutto il mondo è stato distrutto dalla distruzione di una sola città”.
Ma la chiesa cristiana, pur legata tanto strettamente all’impero, era destinata a sopravvivergli. Mano a mano che le strutture dello stato cedevano e si dissolvevano, sotto la spinta di un’incontrollabile crisi interna, resa più drammatica dalla pressione delle popolazioni barbariche ( percorso sulla guerra), la chiesa si trovò ad esercitare sempre più un’azione di supplenza, e ad esercitare in prima persona un ruolo di governo. Quando l’impero in occidente si dissolse ( manuale), il vescovo di Roma diventò una sorta di monarca, che disponeva di un suo territorio - intorno alla sua città - ma che soprattutto esercitava una funzione direttiva su tutte le altre chiese cristiane.
Questo processo, con l’inevitabile politicizzazione che ne seguì, non avvenne senza resistenze: c’è una lunga storia di tensioni tra la chiesa occidentale, che faceva capo a Roma, e la chiesa orientale, che aveva il suo centro a Costantinopoli, prima capitale dell’impero d’oriente, e poi capitale di tutto ciò che rimaneva dell’antico impero dei Romani. I punti di dissenso fra le due chiese erano spesso teologici, come la controversia sulle immagini ( box a fianco), ma avevano enormi ricadute politiche.
Sant’Antonio, il primo monaco cristiano
Antonio (251-356 d.C.), passato alla storia come sant’Antonio Abate, è considerato il fondatore del monachesimo cristiano. Già ad Eracleopoli e ad Alessandria, in Egitto, dove aveva vissuto fino all’età di 55 anni, si era fatto fama di santità e di dottrina, e si era guadagnato molti discepoli, che lo seguivano ovunque, prendendolo a modello. Al tempo delle ultime persecuzioni contro i cristiani, Antonio si ritirò nel deserto, e molti dei suoi discepoli lo accompagnarono: conducevano vita ascetica in comune, meditavano e pregavano (e anche, secondo le leggende che presto cominciarono a fiorire su di loro, combattevano contro i demoni). Lì Antonio fondò due monasteri, sulle rive del mar Rosso. Uno dei discepoli di Antonio, Pacomio, fondò un grande monastero su un isola del Nilo, e diede ai suoi seguaci una regola monastica, basata sull’esempio del suo maestro. Molte migliaia di uomini vollero vivere secondo la regola scritta da Pacomio, e molti altri monasteri vennero fondati, ma tutte riconoscevano l’autorità del superiore del monastero centrale, il capo dell’ordine.
La polemica sull’iconoclastia
La controversia sulle immagini divampò improvvisa, a Bisanzio - capitale dell’Impero romano d’Oriente - a partire dal 726 d.C. L’imperatore Leone III aveva aderito alla dottrina secondo cui venerare l’immagine di santi e personaggi sacri è una forma di idolatria, e ne aveva proibito il culto, con l’appoggio di molti vescovi orientali. A questa decisione reagì duramente il papato di Roma, sostenendo che vietare la rappresentazione dei personaggi sacri negava uno dei più importanti dogmi della chiesa cristiana, quello dell’incarnazione di Dio. Sommosse popolari si verificarono nella capitale, da parte dei devoti del culto di particolari immagini. Tutto ciò, però, non fece che inasprire la politica imperiale, e così si arrivò ad ordinare la distruzione in massa di immagini sacre: era l’iconoclastia vera e propria (dal greco tardo eikon, immagine e klao, distruggo). Dopo decenni di lotte e polemiche, la controversia finì con la condanna ufficiale dell’iconoclastia (854 d.C.), lasciando però dietro di sé una scia di rancori e reciproca sfiducia tra il papato e la chiesa orientale, che durò molto oltre la pacifica composizione della controversia.
Le complesse controverse teologiche tra la chiesa di Roma e quella orientale, in ogni caso, avevano alla base una diversa concezione dell’autorità ecclesiastica: mentre nell’occidente europeo si stava affermando la supremazia del vescovo di Roma, in oriente si era affermata una concezione multicentrica dell’autorità, nella quale il patriarcato di Costantinopoli era sì il più importante, ma grande peso avevano anche altri patriarchi, come quello di Antiochia e di Damasco. E comunque, più in generale, le singole chiese nazionali dell’oriente avevano una grande autonomia, senz’altro maggiore di quanto avvenisse in occidente. Ciò continuò ad alimentare la tensione tra le due chiese per tutto l’Alto medioevo, fino ad arrivare al grande “scisma d’oriente” (1054 d.C.), quando papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario non seppero trovare un compromesso su un problema apparentemente minore (la giurisdizione sulle diocesi dell’Italia meridionale, che ciascuna delle due chiese rivendicava per sé). Si arrivò così alla reciproca scomunica tra il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli, e alla separazione tra le due chiese, evento che segnò una separazione tra cristiani che dura ancora oggi.
Il monachesimo
La politicizzazione crescente della chiesa aveva avuto resistenze al suo interno fin dal suo inizio ( paragrafo La chiesa come religione di stato). E fin dall’inizio alcuni di coloro che avevano ritenuto più giusto rimanere fedele all’ispirazione originaria della chiesa di Gesù e dei suoi apostoli, avevano scelto la via del ritiro dal mondo, della preghiera e della solitudine. Essi si aggiunsero ai tanti che prima di loro avevano presa la via del deserto, per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori romani, e che avevano dato origine alle prime forme di vita cristiana in comune.
Il fenomeno continuò ad aumentare, nei decenni successivi alla caduta dell’impero d’occidente, fino a che non apparve chiara agli uomini di chiesa la necessità di porre un ordine e un governo ad un’evoluzione che rischiava di diventare incontrollabile. Fiorirono così numerose le “regole” che servivano a disciplinare la vita delle comunità monastiche, e si susseguirono le fondazioni di monasteri e ordini religiosi, riconosciuti dalla chiesa centrale, e considerati luoghi di meditazione e perfezionamento per quei cristiani che volevano cercare una vita spirituale, più perfetta rispetto a quella di coloro che rimanevano esposti alle tentazioni del “mondo”. La vita monastica, per quanto spesso appartata in luoghi impervi e poco accessibili, fu il centro spirituale della vita religiosa dell’Alto medioevo, molto più di quello che avveniva nelle città sempre meno abitate, e nella stessa Roma, la città dei papi.
Monaco nel suo scriptorium
L’arricchimento dei monasteri benedettini produsse, inevitabilmente, un certo rilassamento dei costumi, e non sempre i voti dei monaci erano rigorosamente rispettati. Anche l’obbligo del lavoro manuale venne sempre meno avvertito come ineluttabile, e in alcuni casi venne trasformato nell’obbligo di copiare i preziosi manoscritti posseduti nelle varie biblioteche dei monasteri. I monaci ricopiavano i loro libri con cura, e ne istoriavano le pagine con disegni e decorazioni raffinatissime, in una grande stanza del monastero dedicata a questo scopo, lo sciptorium. I manoscritti copiati venivano venduti, e costituivano una lauta entrata per i monasteri, ma questa lucrosa attività economica ha soprattutto avuto un’importanza incalcolabile per la trasmissione della cultura antica. I testi dei filosofi antichi, dei letterati, dei poeti (compresi quelli erotici) ci sono giunti solo attraverso il lavoro paziente e minuzioso di centinaia di monaci oscuri. Dobbiamo essere loro grati, anche se non sempre, in verità, siamo sicuri che capissero cosa stavano copiando.
Il lavoro manuale nella regola benedettina
“L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli in certe ore devono essere occupati nel lavoro manuale, in altre ore nella lettura divina. Di conseguenza riteniamo che entrambe le occupazioni siano ripartite nel tempo con il seguente ordinamento: da Pasqua fino alle calende di ottobre, uscendo al mattino facciano i lavori necessari dalla prima fino all’ora quarta. Poi, dall’ora quarta fino a quando faranno la sesta, attendano alla lettura. Dopo la sesta, alzandosi da tavola si riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vorrà leggere per conto suo, legga in modo da non disturbare nessuno. Si faccia nona un poco in anticipo, verso la metà dell’ora ottava, e di nuovo lavorino a quel che c’è da fare sino al vespro. Se le esigenze del luogo o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano, giacché allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli apostoli […]”.
(dall’articolo 58 della regola di san Benedetto)
I monaci facevano voto di castità e di povertà, trascorrevano molto tempo in preghiera e in meditazione, ed erano tenuti ad obbedire al loro superiore, l’abate del monastero. Queste perlomeno erano le caratteristiche comuni a varie forme di monachesimo, prima del rilancio di questa forma di comunità religiosa che fu realizzato da Benedetto da Norcia nel corso del VI secolo, e che era destinata ad avere uno straordinario successo, diventando a partire dal VII secolo la più diffusa forma di vita monastica in occidente.
La regola di san Benedetto era molto semplice, basata come era su una serie di passi biblici, e si proponeva esplicitamente di rappresentare una strada non troppo difficile per praticare una vita spirituale in comune, lontana da quelli che a Benedetto apparivano gli eccessi ascetici di una parte del monachesimo orientale (egli scrisse nel Prologo della sua regola che sperava di “stabilire nulla di aspro, nulla di gravoso” per i suoi monaci). Una parte importante della vita del monaco benedettino, comunque, doveva essere dedicata al lavoro manuale - secondo l’esempio degli apostoli - ed anche questa era una differenza dal monachesimo orientale, che aveva invece una vocazione più contemplativa: “ora et labora”, prega e lavora, divenne il motto proverbiale dei monaci benedettini.
Col passare del tempo, e col progressivo collasso dell’economia altomedievale ( percorso sull’economia), i fiorenti monasteri benedettini si distinsero spesso come isole di ordine e buona amministrazione economica, e nonostante il voto di povertà dei singoli monaci, le loro abbazie erano spesso le terre più ricche dei loro paesi, per effetto del lavoro dei monaci, dei loro numerosi servitori e dei frequenti lasciti dei nobili.
Tutto ciò fece certo del bene alla povera economia di quel periodo, ed a quello che restava della società, ma allontanò i monaci dall’ideale di povertà e astinenza che era stato del loro fondatore. Ben presto finì con l’avvertirsi in molti luoghi la necessità di un nuovo movimento di riforma, capace di riportare il popolo cristiano alla purezza spirituale delle origini. Ma di questo dovremo parlare più avanti.
L’affermazione dell’Islam
L’Arabia
La penisola arabica
Maometto, il profeta che con la sua predicazione diede origine all’Islam, visse nella penisola arabica gran parte della sua vita. In questo grande territorio, in gran parte desertico, si trova oggi una delle più grandi e ricche nazioni arabe, l’Arabia Saudita.
Nuovi protagonisti si affacciavano intanto sulla scena del mondo mediterraneo, provenienti da uno dei suoi lati fino a quel momento più appartati, una zona desertica alla periferia dei grandi imperi del tempo, quello bizantino e quello persiano. Si trattava degli Arabi, una popolazione che nel VII secolo era composta per lo più di nomadi abbastanza poveri, divisa in varie tribù, che vivevano principalmente di allevamento. Erano chiamati beduini, ovvero “abitanti del deserto”. C’erano tra loro, comunque, anche popolazioni sedentarie, che vivevano nelle grandi oasi lungo le piste carovaniere, in particolare a Medina ed alla Mecca, città santuario, sacra per tutti gli abitanti della regione. Le città intorno alle oasi vivevano di agricoltura e commercio, e si arricchivano soprattutto con ciò che ricavavano dai pellegrini diretti alla Mecca, viaggio che già prima dell’Islam ogni beduino era tenuto a fare almeno una volta nella vita.
Non c’era unità politica tra le varie tribù beduine, che anzi spesso combattevano tra loro. Gran parte degli Arabi, però, condividevano una stessa religione, di tipo politeistico. Molti di loro credevano anche agli spiriti presenti negli alberi e nelle pietre, mentre molti altri credevano nelle rivelazioni ebraica o cristiana. Tutti, in ogni caso, si consideravano discendenti del patriarca ebreo Abramo.
Maometto, il profeta di Allah
Maometto e l’arcangelo Gabriele.
Il nome dell’arcangelo è in arabo Gibril, che significa “l’uomo di Dio”.
Maometto, il profeta che diede origine all’Islam, nacque appunto alla Mecca, ed apparteneva ad una delle tribù più importanti. Sappiamo poco di lui, prima degli eventi che cambiarono radicalmente la sua vita e diedero indubitabilmente una svolta alla storia di una notevole parte dell’umanità, e ciò che sappiamo non sembra rivelarlo come un personaggio straordinario: sappiamo che era rimasto presto orfano, ma che aveva fatto fortuna come mercante, che aveva viaggiato, e che era di temperamento meditativo, tanto che verso i 40 anni aveva preso l’abitudine di passare dei periodi di solitudine e preghiera nel deserto.
Fu in uno di queste occasioni, secondo il racconto che Maometto stesso ci ha lasciato, che all’improvviso avvenne la svolta della sua vita, in modo inaspettato e - all’inizio - terrificante. Una notte dell’anno 610, Maometto stava dormendo, avvolto nel suo mantello per proteggersi dal freddo del deserto. All’improvviso, però, fu svegliato da un alone di luce. Stupefatto, fissò lo sguardo nella direzione della luce, e distinse al suo interno una figura alata: quella da cui la luce proveniva. Ancora più stupito fu Maometto quando la figura gli si rivolse, senza preamboli, con queste parole: “Tu sei l’inviato di Dio, l’emissario di Allah”.
Maometto si sente sconvolto da ciò che gli è accaduto. Fa fatica a credere di aver parlato con un angelo, teme di essere vittima di un ginn, uno di quegli spiriti malvagi che secondo le credenze arabe turbano la mente degli uomini, e li costringono a vagare senza meta nel deserto. Inoltre l’esperienza stessa della rivelazione è dolorosa, faticosa.
Ma le rivelazioni si succedono. Sono sempre esperienze fisicamente penose, ma mano a mano che esse si verificano, Maometto riesce a sopportarle meglio. Non si tratta di episodi sempre uguali: in quelli successivi, ad esempio, Maometto non ebbe alcuna visione. Ciò che è comune a tutte, in ogni caso, è che ogni volta Maometto si trova ad essere consapevole, all’improvviso, di un nuovo messaggio, di una nuova rivelazione di Dio. E mano a mano che le rivelazioni si accumulano, Maometto capisce di non poterle tenere per sé, che il suo compito a comunicarle a tutto il suo popolo. È per questo che Dio lo ha scelto. Maometto si rende conto di essere un profeta.
L’espansione dell’Islam
Negli anni successivi la religione annunciata da Maometto si precisò sempre meglio, e venne trascritta in un libro sacro, il Corano, che da allora è il punto di riferimento per i musulmani in tutto il mondo: la religione rivelata a Maometto è un monoteismo rigoroso, che riconduce tutto l’universo all’opera di un solo Dio, saggio e provvidente, di fronte a cui ogni uomo sarà chiamato a rendere conto. Si tratta di un Dio giusto, ma misericordioso, pronto a soccorrere chi chiede il suo aiuto: “è più vicino all’uomo della sua vena giugulare”, recita il Corano.
A questo Dio, e solo a lui, si devono devozione ed obbedienza. La parola Islam significa appunto “sottomissione (alla volontà di Dio)”, ed i musulmani sono quindi “coloro che (a quella volontà) si sottomettono. Maometto stesso non ha attributi divini, è solo un uomo, anche se per i musulmani è anche un modello di rettitudine. È l’ultimo di una serie di profeti, mandati da Dio agli uomini per ricondurli a lui. L’uomo infatti, secondo il Corano, è la creatura prediletta di Dio, più degli stessi angeli, ma è la sua stessa perfezione che lo porta a commettere il suo peccato tipico, che è quello della superbia. Di qui la necessità di inviare, di tempo in tempo, profeti in grado di chiamarlo a correggersi, fino a quando Dio non ha mandato l’ultimo di loro - Maometto - con in dono la rivelazione del Corano, a disposizione da allora in poi di tutti coloro che vogliano correggere la propria vita.
Fanno parte dell’obbedienza dovuta a Dio la protezione degli umili e dei poveri, la preghiera, l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca ( box a fianco). E ne fa parte anche la jihad, un concetto che spesso gli occidentali riducono - impropriamente - a quello di “guerra santa”, nel senso militare del termine. La jihad è per i musulmani qualcosa di più complesso, è la lotta sacra per restituire l’uomo a Dio, e Dio all’uomo: ne fanno parte l’educazione, l’assistenza ai poveri, la proibizione dell’usura. E ne ha fatto parte anche, soprattutto in alcune fasi iniziali della storia araba, la lotta contro gli infedeli.
Fu certo anche in base all’accezione politica della jihad che il successo della predicazione di Maometto, affermatasi in Arabia dopo aver travolto le iniziali resistenze, portò alla creazione di un impero saldamente strutturato, che fu in grado di espandersi rapidamente oltre i suoi confini iniziali. Maometto aveva dato al variopinto insieme delle tribù arabe un motivo per dirigere verso l’esterno la loro aggressività, un’ideologia religiosa profondamente sentita, nella quale non c’era differenza tra l’aspetto spirituale e quello politico. L’effetto fu travolgente ( percorso sulla guerra) ( manuale) e si può ben dire che dopo Maometto, il mediterraneo non è mai più stato lo stesso. Se mai fosse necessaria una prova che le idee possono cambiare il mondo, questa vicenda iniziata in un’oscura caverna del deserto arabo sarebbe certo una prova sufficiente.
Il Basso medioevo
La cristianità in guerra
“Le chiese che non rispettano la supremazia del papa sono assemblee di eretici, conventicole di scismatici, sinagoghe di Satana”. Questo passo, tratto da una lettera che papa Leone III inviò al patriarca di Costantinopoli nel 1053, e che portò allo scisma d’oriente ( paragrafo “La chiesa di Roma e quella di Costantinopoli”) esemplifica bene l’atteggiamento della chiesa di Roma all’inizio del Basso medioevo. Da tempo era in corso, in Occidente, un processo di centralizzazione dell’autorità spirituale sotto il controllo del vescovo di Roma. Dopo lo scisma, Roma si trovò ad essere il centro di riferimento spirituale, senza concorrenti, per tutta l’Europa occidentale. In questa situazione, il papato formulò un nuovo ed ambizioso progetto: quello di riunire l’Europa sotto un unico governo teocratico, ovvero dare origine ad una grande monarchia cristiana, governata dal clero, e con a capo il papa.
La situazione sembrava favorevole per un progetto così grandioso: l’Europa cristiana, dopo il Mille, era in una fase di rapida espansione, sia economica che politica ( manuale, capitoli sull’espansione interna ed esterna della cristianità). L’autorità dell’impero, d’altra parte, era relativamente debole: e l’impero era, in Occidente, l’unica altra grande istituzione che avesse ambizioni universalistiche. Si può dire che gran parte delle conquiste di autorità e potere che la chiesa acquisì in quegli anni, le acquisì appunto a spese dell’impero ( manuale, capitolo Il conflitto tra papato e impero).
Il papato, in quella situazione storica, decise che era il momento di andare oltre l’impostazione tradizionale dei rapporti tra chiesa e impero, quella che era stata esemplificata da papa Gelasio I con la teoria delle “due spade”, secondo la quale Dio aveva preordinato due poteri per la direzione delle vite degli uomini, il potere spirituale, affidato al papa, ed il potere temporale, affidato all’imperatore. Ora però i rapporti di forza erano mutati, e all’inizio del Basso Medioevo il papato si sentì pronto a reclamare entrambe le “spade” per sé, affermando che l’imperatore gestisce il potere temporale solo per volontà di Dio, e quindi come vicario del papa - rappresentante di Dio in terra.
L’affermazione di questo principio non fu semplice, e passò attraverso numerosi conflitti, come la lotta per le investiture, che riguardò il ruolo che il principe doveva giocare al momento della nomina di vescovi ed abati sul suo territorio (secondo la chiesa il principe non poteva aver alcun ruolo in merito) ( manuale, capitolo Il conflitto tra papato e impero).
Il coronamento della politica papale sembrò molto vicino all’epoca di Innocenzo III, che fece le più decise formulazioni del principio della supremazia papale, sostenendo che la preminenza del papa era basata sul fatto che la sua giurisdizione era quella delle anime di tutti gli uomini, mentre quella dell’imperatore era solo quella dei loro corpi. E di quanto l’anima è superiore al corpo, e lo governa, di tanto il papa era superiore all’imperatore.
Il papa approfittava della particolare debolezza del potere imperiale, in quella fase, e si videro allora imperatori che, per ottenere la sanzione del papa alla loro nomina (o per evitare la scomunica), furono pronti a fargli le più larghe concessioni, e a compiere atti di subordinazione come l’officium stratoris, un gesto col quale l’imperatore, a piedi, prendeva le briglie del cavallo del papa in atto di omaggio, come un umile servo. Ma non mancarono nemmeno i momenti di crisi, durante i quali gli eserciti imperiali minacciarono direttamente il potere del papa, come ai tempi dell’imperatore Federico II ( manuale, capitolo Il conflitto tra papato e impero).
Fu una lotta gigantesca e secolare, nella quale si affrontarono due opposte utopie di monarchia universale. Eppure il grande storico francese Jacques Le Goff ha potuto definirla, e con buone ragioni, “un teatro di illusioni, dietro il quale accadevano cose serie”. All’ombra della potenza del papa e di quella dell’imperatore nasceva e si affermava, infatti, il potere di nuovi protagonisti, che finirono poi col prendere per sé tutta la scena: queste forze nuove erano quelle dei comuni e soprattutto quella degli stati, che entrarono nella partita per il dominio politico a partire dal XII secolo.
E infatti il freno più deciso alle ambizioni di dominio temporale del papa non venne, alla fine, dall’imperatore, ma da un re nazionale, il sovrano di Francia Filippo il Bello. Filippo entrò in conflitto col papa Bonifacio VIII nel 1296, quando decise di imporre tasse al clero del suo paese, decisione fieramente contestata dal papa. La polemica andò avanti per alcuni anni, ed ebbe una conclusione drammatica: nel 1302 l’esercito del re di Francia entrò in Italia, arrivò a Roma, e poi ad Anagni - dove era la residenza estiva del papa. Bonifacio ricevé i francesi assiso sul trono papale, con un solenne abito da cerimonia. Il capo dei soldati francesi, però, ignorò il tentativo di intimidazione: secondo alcune fonti addirittura schiaffeggiò il papa, ma forse questa è una deformazione propagandistica dei fatti. Quello di cui siamo certi è che Bonifacio VIII in quell’occasione fu arrestato, e che morì pochi anni dopo. Con lui finiva il secolare sogno di un impero mondiale guidato dal papa.
I nuovi ordini religiosi
È necessario, a questo punto, fare un passo indietro. Abbiamo visto, nel capitolo precedente, come la chiesa abbia subito un drastico ridimensionamento delle sue ambizioni di governo universale. La nuova Europa delle città e degli stati era un mondo in larga parte diverso da quello, feudale ed aristocratico, nel quale erano nate le ambizioni universalistiche di papato e impero. E in effetti la formazione e l’allargamento delle città, in tutta Europa, aveva determinato un nuovo clima spirituale. In particolare era cambiata, in quel periodo, la concezione del lavoro, che per i nuovi abitanti delle città non era più liquidabile - come avveniva nell’Alto medioevo - come un meritato castigo per i propri peccati. La Chiesa, pur sconfitta nell’appariscente battaglia politica condotta dai papi, riuscì a vincere la battaglia ben più importante dell’egemonia sulla nuova società, e diede risposta alle sue nuove esigenze, tanto che da allora in poi la laboriosità divenne una delle caratteristiche del buon cristiano.
L’ambizione della Chiesa, in effetti, era quella di trovare un’espressione religiosa in cui ogni parte della società potesse riconoscersi. E se, come avveniva in quella fase, la società esprimeva tendenze contraddittorie, queste tendenze finivano col trovare posto anche all’interno della chiesa stessa: non mancarono infatti conflitti tra i sostenitori di una religiosità ascetica e contemplativa, che aborriva il lavoro in tutte le sue forme, ed i fondatori di nuovi ordini religiosi, che invece predicavano un ritorno alla semplicità evangelica, ed una mistica che univa la pratica quotidiana della preghiera con il lavoro manuale. Un nuovo ordine religioso, fondato nel 1098 e chiamato ordine dei cistercensi
Il termine cistercense deriva da Citaux, piccola città della Francia dove sorse la prima abbazia dell’Ordine fondato da Bernardo. fu la prima incarnazione di questo nuovo spirito, che avvicinava la vita dell’uomo di chiesa a quella del semplice popolo. Lo spirito più contemplativo era invece incarnato dall’ordine dei cluniacensi, che facevano capo alla grande chiesa di Cluny ed all’insegnamento di Pietro il Venerabile, abate e figura di grande pensatore, cui si contrappose nel XII secolo il pensiero e l’opera del cistercense Bernardo di Chiaravalle. La differenza tra queste due impostazioni trovò espressione anche in due diversi stili architettonici: lo sfarzoso stile romanico delle chiese e delle abbazie cluniacensi esprimeva una predilezione per una religione cerimoniale e solenne, mentre lo stile gotico delle costruzioni cistercensi - al tempo stesso severo e semplice - sottolineava l’austerità delle scelte di vita dei monaci di san Bernardo.
Gli ordini mendicanti
Eppure, anche questa riforma della chiesa si mostrò rapidamente impari ad esprimere tutto lo stato d’animo dei tempi nuovi. Le nuove opportunità di arricchimento, infatti, erano colte da molti, ma non da tutti, e non mancavano coloro che non riuscivano ad adeguarsi, ed erano travolti dai nuovi processi messi in atto. Accanto a chi si arricchiva, molti si impoverivano, o anche - semplicemente - trovavano ora insopportabile la loro condizione, che non mutava in meglio, a differenza di quella del vicino o del familiare. Nacquero nuove istanze religiose, in accordo con questo diffuso stato d’animo. Istanze che criticavano l’accumulazione della ricchezza, e predicavano il ritorno alla povertà evangelica, intesa come un valore positivo. Queste nuove spinte univano la critica alla società urbana e borghese, volta appunto alla accumulazione della ricchezza, con la critica alla chiesa, che nel processo si era arricchita e corrotta.
Ci fu chi spinse tanto avanti la critica alla chiesa da uscirne, come avvenne a Pietro Valdo, un mercante di Lione convertito alla dottrina della povertà, che insieme ai suoi seguaci diede origine a delle piccole comunità religiose che esistono ancora oggi, col nome di valdesi. Altri invece scelsero di condurre la loro battaglia riformatrice dall’interno, e diedero origine ai grandi ordini mendicanti, quello dei francescani e quello dei domenicani. L’originalità di questi nuovi ordini fu quella di rivolgersi specificamente alla società urbana: essi si diffusero in tutto l’Occidente, e la loro mappa coincide largamente con quella della diffusione delle città ( manuale, capitolo Le città del medioevo).
Gli ordini mendicanti cercarono di dare una risposta ai nuovi problemi che la società si poneva attraverso la predicazione, la confessione e l’esempio. La loro stessa esistenza, in effetti, costituiva una critica alla chiesa così com’era. Ma il loro grandissimo successo, la loro diffusione in tutta l’Europa, finì col renderne inevitabile la trasformazione in istituzione, ed essi finirono col perdere una parte della loro spinta critica ed innovativa, quella che aveva ispirato i loro fondatori, Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman.
Non sempre, peraltro, i monaci erano molto popolari. Boccaccio, il grande scrittore che descrisse al suo nascere il nuovo mondo cittadino, con una adesione sostanziale ai suoi valori, raffigurò i monaci medicanti come ipocriti ed arrivisti, e del resto i nuovi valori dell’operosità e del lavoro mal si conciliavano con una scelta di vita che criticava la ricchezza al punto di scegliere l’elemosina come fonte di sostentamento.
Non giovò alla popolarità dei monaci mendicanti il ruolo che essi ebbero nella repressione delle eresie, che fiorivano dappertutto in quel periodo. La chiesa, visti fallire i mezzi pacifici, passò alla repressione violenta: intere regioni vennero devastate, come la Provenza, sulla quale si abbatté la furia della crociata contro gli Albigesi. E dove non bastava la spada, interveniva il nuovo e temutissimo tribunale dell’Inquisizione, che vagliava con severità l’ortodossia delle convinzioni e dei comportamenti. A capo di questo tribunale, che disponeva delle potenti armi dell’incarcerazione e della tortura, ci furono spesso dei monaci domenicani.
Sarebbe però riduttivo fermarsi a questo ruolo repressivo, in quanto il rinnovamento della cultura medievale, che aprì la strada ai tempi nuovi, venne anche dalle cattedre universitarie dove si erano largamente insediati i monaci mendicanti. Tommaso d’Aquino, il fondatore della filosofia scolastica, fu un domenicano, e Guglielmo di Occam, il grande logico, fu invece un francescano, così come francescano fu Bonaventura, teologo di ispirazione platonica, che sostenne l’esistenza di un percorso unitario che va dalle cose sensibili fino a Dio. In questo modo la filosofia di ispirazione francescana fece sua la valorizzazione del mondo sensibile, che era chiaramente presente nell’opera di Francesco, fin dal famoso Cantico di Frate Sole.
In questa direzione andò anche la filosofia scolastica (nonostante le differenze dottrinali col pensiero di Occam che non è il caso di approfondire qui), che diffuse lo studio del pensiero di Aristotele (trasmesso all’Europa dagli studiosi musulmani). Fu Tommaso colui che introdusse per la prima volta nel medioevo l’idea che la ragione umana avesse un proprio autonomo campo di applicazione, che coincideva con quello delle scienze naturali. L’allargamento di questo spiraglio, col ruolo crescente attribuito dai filosofi dei secoli successivi alla ragione, coincide in gran parte con la storia della filosofia moderna, che ha dunque un momento decisivo nell’insegnamento dei monaci mendicanti.
Il mondo attuale
Dialogo interreligioso ed ecumenismo
Gandhi
Gandhi credeva profondamente nella ahimsha, un importante principio della fede induista che impone il rispetto di ogni creatura vivente. Ciò comporta una vita rigorosamente non-violenta, poiché fare violenza a un’altra creatura, e particolarmente a un altro uomo, porterebbe ad una corruzione dell’anima di chi commette quell’azione, e visto che per l’induismo nulla di ciò che l’uomo fa va perduto, ciò si tradurrebbe in una sfavorevole reincarnazione, al momento della rinascita, che per tutti arriva. Fu con metodi rigorosamente non-violenti che Gandhi guidò il suo popolo nella vittoriosa lotta di liberazione contro il dominio coloniale inglese.
“Io sono musulmano. E sono cristiano. E sono indù”. Sono parole di uno dei più grandi leader spirituali del nostro tempo, l’indiano Mohandas Karamchand Gandhi, meglio conosciuto col nome di Mahatma (“grande anima”), attribuitogli dal poeta Tagore. La frase di Gandhi si può considerare esemplificativa di una delle grandi tendenze spirituali in atto nel nostro tempo, quella del dialogo interreligioso, ovvero la ricerca di punti di contatto tra fedi diverse, con in comune però l’esperienza della centralità del rapporto dell’uomo con il divino, per dare senso alla propria vita. Un passaggio importante di questa tendenza si possono considerare le giornate mondiali di preghiera per la pace, un grande appuntamento interreligioso che ha avuto la sua inaugurazione ad Assisi, il 27 ottobre del 1984, con l’abbraccio tra il papa cattolico (Giovanni Paolo II) e il Dalai Lama del Tibet, alla presenza di una lunga serie di capi religiosi di ogni credo ed etnia, che con le vesti e i copricapi rituali partecipavano al rito comune.
Un processo analogo, su scala più ridotta, è quello del dialogo ecumenico tra confessioni diverse di una stessa religione, alla ricerca di un terreno comune che permetta di superare secoli di divisioni. In questo caso la ricerca è teologicamente più semplice, ma non certo priva di gravi difficoltà. Nel campo cristiano, ad esempio, le divisioni teologiche si sono spesso sommate a grandi differenziazioni storiche, e tuttora c’è molta diffidenza tra cattolici, ortodossi e protestanti. Ma il dialogo prosegue, con lentezza, ma non senza significativi passi avanti. Uno di questi, particolarmente importante, può essere considerato il ritiro della reciproca scomunica del 1054 d.C. tra cattolici e ortodossi. Questo importante gesto è avvenuto nel 1964, ad opera di papa Paolo VI e del patriarca ecumenico Atenagora I, i remoti eredi istituzionali di coloro che - nove secoli prima - avevano sancito la maggiore rottura tra cristiani ( capitolo su La chiesa di Roma e quella di Costantinopoli). Le due confessioni religiose sono rimaste separate, anche dopo questo gesto di conciliazione, ma non sono più dichiaratamente nemiche. E da allora il dialogo ecumenico tra loro non si è più fermato.
L’ecumenismo moderno aveva avuto il suo atto di nascita molto prima, nel 1910, con la “Conferenza missionaria mondiale per la considerazione dei problemi missionari in riferimento al mondo non cristiano”, una riunione interconfessionale che vide riuniti ad Edimburgo i rappresentanti di numerose chiese protestanti. La chiesa cattolica è stata a lungo ostile a questo processo - il papa di allora, Pio XI, aveva proibito ai cattolici qualsiasi forma di partecipazione alla conferenza di Edimburgo. Ciò nonostante il dialogo ecumenico è andato avanti, ed ha visto il coinvolgimento degli ortodossi (oltre che di numerose chiese del cosiddetto “terzo mondo”) a partire dall’assemblea di Amsterdam del 1948, e degli stessi cattolici a partire dall’assemblea di Nuova Delhi del 1961. Il processo prosegue, ed attualmente ogni anno si tengono le settimane di preghiera per l’unità cristiana, nelle quali cristiani di molte tradizioni si riuniscono per pregare, per studiare la Bibbia, e per fare esperienza di vita in comune. Tutti loro ritengono, in tal modo, di anticipare l’unità tra cristiani voluta da Cristo.
Il fondamentalismo religioso
Il dialogo interreligioso ed ecumenico non è certo l’unica linea di sviluppo della storia religiosa nel nostro tempo. Molto spazio - e molta più attenzione da parte dei media - ha conquistato il fenomeno del fondamentalismo religioso, termine col quale ci si riferisce (un po’ impropriamente) a diverse forme di radicalismo che, nelle varie fedi, si sono sforzate di richiamare i principi fondamentali delle rispettive religioni, ed a tentare di diffonderne l’applicazione, spesso ricorrendo anche a mezzi politici - incluso, in casi estremi, il terrorismo.
Il modernismo islamico
Il fondamentalismo islamico nacque all’inizio non solo come reazione all’occidentalizzazione, ma anche come reazione al modernismo islamico, un movimento nato nel XIX secolo in India e in Egitto, che incoraggiava i musulmani a rispondere alle sfide che venivano dalla scienza e dalla nuova mentalità. Il tentativo di questo movimento era quello di reinterpretare l’Islam alla luce della cultura moderna, in modo analogo a quanto avveniva contemporaneamente nei paesi cristiani. Il modernismo islamico portò all’abolizione, in molti paesi, di alcune antiche leggi e tradizioni, come la poligamia e la schiavitù.
L’ayatollah Khomeyni parla ai fedeli
Il titolo di ayatollah, ovvero leader spirituale, esiste solo nella versione sciita dell’islamismo, nella quale esiste un clero separato dai fedeli comuni. La maggior parte del mondo islamico è però di fede sunnita, nella quale questa divisione è inesistente.
(Religions, p. 113)
Il termine fondamentalismo ha origine da una tendenza molto meno aggressiva, nata verso la fine del XIX secolo nell’occidente cristiano, come reazione alle interpretazioni moderne della Bibbia, che applicavano (ed applicano) ampiamente ai testi sacri dei cristiani gli strumenti della cultura scientifica contemporanea. I fondamentalisti invece insistevano sull’infallibilità e sulla verità letterale della Bibbia, sulla divinità di Gesù, sulla sua nascita e resurrezione miracolose, e sulla redenzione dei peccati attraverso la sua morte. Nel mondo cattolico, poi, il fondamentalismo si è tradotto in una difesa della tradizione contro le innovazioni moderne in campo religioso. I tradizionalisti più intransigenti guardano con estremo sospetto al dialogo ecumenico ed interreligioso, e - ad esempio - in occasione delle giornate di preghiera del 1984 ad Assisi, precedentemente ricordate, non mancò chi, nel campo cattolico, criticò il papa “per aver portato gli idoli pagani sugli altari delle chiese”.
Comune alle posizioni fondamentaliste di varie religioni è l’insistenza sul regolare la vita dell’intera società in base ad un’interpretazione letterale e rigorosa del testo sacro di riferimento. Nel mondo islamico, ciò ha portato - in Iran - alla rivoluzione promossa dal leader religioso Ruhallah Khomeyni. L’Iran prima della rivoluzione era uno delle nazioni islamiche più influenzate dallo stile di vita occidentale, e fu proprio la denuncia di questa influenza, insieme all’orgogliosa rivendicazione dell’identità islamica del suo paese, a guadagnare a Khomeyni i primi seguaci. Il movimento fondamentalista promosso da Khomeyni continuò a crescere negli anni successivi, approfittando anche del malcontento della popolazione per la ineguale distribuzione delle grandi risorse del paese. Nel 1979 Khomeyni riuscì a rovesciare il governo dell’Iran, e ad instaurare uno stato di tipo teocratico, controllato cioè in gran parte dal clero, e basato su un’interpretazione rigida e letterale del Corano. Il governo iraniano è da allora un esempio di fondamentalismo islamico realizzato: è cioè basato sull’idea che nel Corano ci siano tutte le indicazioni necessarie per regolare la vita degli uomini, sia per quanto riguarda le leggi dello stato, sia per quello che riguarda la vita privata. In base alle disposizioni di Khomeyni, ad esempio, le donne iraniane sono tenute a portare un velo sul capo, la musica occidentale e l’alcool sono proibiti, e sono state reintrodotte punizioni corporali per alcuni delitti, particolarmente per quelli che riguardano la sfera sessuale.
Le religioni nell’età della scienza
L’astronauta russo Gagarin
Gagarin è stato uno degli eroi dell’ex-Unione Sovietica, ed uno dei protagonisti della rivoluzione tecnologica che ha portato l’uomo nello spazio - una delle massime conquiste scientifiche del nostro tempo. Egli è entrato nella storia per essere stato il primo uomo a percorrere un’orbita intorno alla Terra. In occasione di quel viaggio, mentre guardava il cielo dalla sua navicella spaziale, dichiarò di aver cercato Dio, ma di non averlo visto. Questa frase - che aveva una chiara intenzione ironica, da parte di un uomo dichiaratamente ateo - può essere considerata esemplificativa di quella visione del mondo che sceglie di credere solo in ciò di cui si può fare esperienza in modo scientifico.
Una cosa accomuna, secondo alcuni, le manifestazioni religiose contemporanee di cui abbiamo parlato nei precedenti due capitoli: in forme e modi diversi, sono tutte interpretabili come reazioni alla modernità. I vari fondamentalismi di cui abbiamo parlato hanno reagito all’applicazione degli strumenti della scienza contemporanea alla critica dei testi sacri, o all’introduzione di nuovi stili di vita, ritenuti estranei e dannosi per le comunità nelle quali venivano impiantati. Ed anche le tendenze ecumeniche e interreligiose sono state interpretate come la ricerca di una linea di resistenza comune alle diverse fedi, quando si è cominciato a pensare che esse fossero minacciate da un nemico comune: il “disincanto del mondo”, ovvero l’affermazione sempre più larga di una concezione del mondo scettica nei confronti delle fedi tradizionali, determinata dall’importanza sempre maggiore che nella nostra società ha la cultura scientifica.
A dire il vero molti scienziati sono - personalmente - religiosi, ma ciò non cambia il fatto che, nell’età della scienza, quest’ultima abbia acquisito una crescente egemonia culturale, e per molti ciò che non è dimostrabile con le procedure della scienza - ciò che non è quantificabile, misurabile, sperimentabile - non può essere considerato vero nel senso più proprio del termine. Cadono sotto questa condanna all’irrilevanza molti campi del sapere tradizionale, dalla filosofia alla teologia, dalla letteratura all’arte in generale. A maggior ragione vi cadono le religioni, che non possono produrre nessuna prova scientifica dei loro principi fondamentali, e si rifanno per lo più a inverificabili testi tradizionali, pieni di eventi sovrannaturali (e pertanto - ad occhi scientifici - inverosimili).
Nel mondo “disincantato”, dominato dalla scienza e dalla tecnica, moltissimi vivono senza collegare la propria vita a valori religiosi, né si aspettano un proseguimento della vita dell’anima, dopo la morte del corpo. Molti pensatori religiosi, di varie fedi e confessioni, ritengono che una conseguenza inevitabile del disincanto sia la centralità della dimensione economica nella vita degli uomini contemporanei: in effetti, essi dicono, è inevitabile che, se tutto ciò che deve accadere all’uomo è ciò che gli accade in questa vita, la dimensione del benessere, dell’utile, e la ricerca della ricchezza e del godimento dei beni materiali diventano determinanti, e in effetti ciò dà forma a quella che oggi definiamo “società dei consumi”. Non è peraltro il caso di fare opposizioni troppo nette: in tutto il mondo, moltissimi uomini religiosi partecipano anch’essi ai “riti” del consumismo, ma non trovano in essi il senso ultimo della loro vita.
Disincanto del mondo e consumismo, in effetti, hanno posto in discredito le religioni storiche presso un numero molto alto di persone, e in tutto il mondo ci sono ormai milioni di persone che si dichiarano atee o non-religiose. Ciò nonostante, il bisogno e la pratica della religione continuano ad essere un’esperienza comune di una grande parte dell’umanità, che non trova nelle verità esatte della scienza una risposta alle domande più antiche che gli uomini si pongono fin dalle loro lontane origini: da dove vengo? dove vado? perché sono qui?
Un grande filosofo illuminista, il tedesco Immanuel Kant, uno di coloro che è stato alle origini di quel grande movimento che ha dato origine alla scienza moderna, sosteneva che in realtà l’uomo non può rispondere a queste domande. Ma che, per come è fatto, non può fare a meno di porsele.
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