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UOMINI E CANI: IL BESTIARIO DELL’ AGAMENNONE

Cap. 4. Cassandra pag. 54 4.1. La profezia di Cassandra: cagna che fiuta la strage pag. 54 4.2. La profetessa Cassandra e le capacità cognitive del cane pag. 57 Conclusioni pag. 62 Bibliografia pag. 64

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Studi Umanistici Corso di Laurea triennale in Lettere UOMINI E CANI: IL BESTIARIO DELL’AGAMENNONE Relatore: Chiar.mo Prof. Giuseppe ZANETTO Tesi di Laurea di: Ester Beatrice FUMAGALLI Matr. n. 775996 Anno Accademico 2012/2013 Indice Introduzione      pag. 2 Dissolvere e drammatizzare i miti Spazio e messa in scena Il coro e l’azione scenica Rhesis e sticomitia La compressione temporale degli eventi scenici Anticipazioni sull’immagine del cane pag. 13 Presentazione dei passi presi in considerazione pag. 18 Cap. 1. Il cane nell’immaginario della antica Grecia: un fedele compagno? pag. 24 1.1. La guardia - kÚwn nella reggia degli Atridi e il cane Argo pag. 26 1.2 Il cane da guardia nel contesto religioso pag. 29 Cap. 2. La donna - kÚwn: misoginia nel mondo antico pag. 31 2.1 Clitemnestra come Elena: cagne traditrici pag. 33 2.2 La donna - kÚwn nel Catalogo delle donne di Semonide di Amorgo pag. 38 Cap. 3.Egisto e Agamennone pag. 40 3.1 Egisto “o„kourÒj” 3.2 Agamennone cane dell’ovile: l’ambigua accoglienza di Clitemnestra Cap. 4. Cassandra pag. 40 pag. 50 pag. 54 4.1. La profezia di Cassandra: cagna che fiuta la strage pag. 54 4.2. La profetessa Cassandra e le capacità cognitive del cane pag. 57 Conclusioni pag. 62 Bibliografia pag. 64 1 Introduzione Esiste una sorta di giustizia letteraria nel fatto che la storia della tragedia si apra nel nome di Eschilo1. Con queste parole di D. Del Corno ritengo necessario ricordare l’importanza delle svolte, sia sul piano tematico che su quello della tecnica drammaturgica, che Eschilo impresse al genere tragico: Eschilo fu il primo a portare a due il numero degli attori, a ridurre le parti del coro e a conferire un ruolo rilevante alla parola2. Il tragediografo eleusino sostituì infatti alla prima forma dello spettacolo (una dialogo tra l’attore, che annunciava un determinato avvenimento, e il coro, che gli rispondeva prendendone atto e commentandolo) il dialogo tra due attori, portatori di motivazioni diverse, accompagnato dalla voce del coro che commentava la situazione messa in atto dal dialogo stesso. In quel momento egli “inventò” la tragedia, che in seguito fu tecnicamente arricchita dal terzo attore, invenzione di Sofocle che fu recepita immediatamente anche nelle ultime tragedie di Eschilo come il Prometeo incatenato e l’Orestea. Ma sopra ogni cosa appare degna di nota la suggestione di immagini possenti e quasi palpabili, pregne di significato e di valore simbolico che rendono Eschilo da una parte continuatore di una illustre tradizione, dall’altra straordinario innovatore; il teatro tragico divenne, nelle mani di questo autore, un elemento da plasmare ed adeguare alle nuove esigenze espressive e tematiche, luogo di riflessione su grandi temi del pensiero offerta alla collettività dei concittadini. 1 Eschilo, Agamennone, Coefore, Eumenidi, a cura di D. Del Corno, trad. it. Di R. Cantarella, 1990, pag. XIX. 2 Aristotele, Poetica, 1449b, 9 ss. 2 Prima di analizzare nei particolari l'immaginario animale e, in particolare il modo con cui Eschilo sapientemente accosta l'immagine del cane ad alcuni personaggi dell' Agamennone, è necessario soffermarsi su alcuni aspetti salienti del teatro eschileo. Come si è già detto in precedenza, il tragediografo è in grado di attribuire particolare importanza e cura agli aspetti "registici" dello spettacolo teatrale così da portare in scena in modo totalmente innovativo personaggi che erano già noti al pubblico ateniese (Agamennone, Clitemnestra, Egisto, Cassandra...). Ma per comprendere meglio forma, struttura e ritenuto opportuno dinamiche interne al dramma eschileo, si è focalizzare l'attenzione su alcuni punti che contribuiscono ad una più completa intelligenza dell'opera del drammaturgo di Eleusi. Dissolvere e drammatizzare i miti Nei drammi antichi si è soliti parlare di "eroe tragico"; l'uso del termine "eroe" è giustificato dal fatto che i personaggi che troviamo sulla scena tragica sono gli stessi eroi che lo spettatore ateniese aveva imparato a conoscere da Omero, da Esiodo, dai poeti del ciclo e da alcuni lirici. Di conseguenza il mondo del mito rimane la cornice obbligata in cui si inserisce la tragedia; tuttavia non si può ignorare una differenza sostanziale: iniziano ad affiorare nei protagonisti dei drammi debolezze, fragilità, angosce, dubbi ignoti all'epos mitico e grandioso, che rappresentava un mondo più lontano, quello della "civiltà della vergogna", dove l'ideale della tim», soprattutto nell’Iliade, sovrastava qualsiasi altro valore. Quindi il 3 mito dell'epos risulta rivisitato, analizzato e modificato da ogni singolo autore con metodi diversi, l'attenzione del tragediografo tende a focalizzarsi su aspetti più problematici; egli scava in profondità nelle motivazioni dell'agire e del sentire dei personaggi. In altre parole, dall'età arcaica all'età classica, da un luogo all'altro della Grecia, i miti si modificano e si riplasmano in rapporto alle occasioni e ai fruitori così che, nel passaggio dalla di»ghsij alla rappresentazione scenica, le dinamiche di selezione e di adattamento del materiale mitico, le strategie drammaturgiche che organizzano la sorte di un personaggio risultano assai diverse e non sempre facilmente definibili. In particolare le tragedie di Eschilo sono interamente calate all’interno della realtà ateniese e offrono un punto di vista sulle sue dinamiche in cui la personalità del poeta e la sua visione politica emergono in maniera particolarmente evidente, per il lettore moderno e ancor di più per il pubblico. L’uso che Eschilo fa del mito sembra conformarsi di volta in volta alle contingenze politiche e alla temperie culturale e sociale in cui la rappresentazione ha luogo. Il caso dell’Orestea appare in tal senso illuminante già a partire dall’ambientazione. Infatti, a differenza di tutte le altre versioni di questo mito, ambientate a Micene (Omero) o a Sparta (Stesicoro e Simonide), Eschilo colloca la vicenda degli Atridi nella città di Argo, ossia nella polis che aveva da poco (nel 461 a. C. e la trilogia è del 458) stipulato un trattato di alleanza con Atene in chiave antispartana. L’aggiustamento rende argivo Oreste, l’eroe che, assolto dal tribunale dell’Areopago, pone fine a una catena di delitti e viene legittimato dagli dei Apollo e Atena. 4 È una profonda rivisitazione culturale quella cui Eschilo sottopone, nel primo momento della trilogia, l’impresa più celebre del passato eroico e mitico dei Greci: in essa la figura del suo leggendario comandante, Agamennone, l’omerico pastore d’eserciti, esce fortemente ridimensionata o, comunque, problematizzata rispetto ad una tradizione epica che ne aveva fatto uno dei massimi eroi guerrieri. Nell’Agamennone la dismisura è la causa prima del disastro dell’eroe, che, suo malgrado, è costretto a conoscere la sofferenza, una sofferenza che gli è maestra, seppur tardiva, di insegnamenti, secondo la norma del p£qei m£qoj. Infatti l’età di Eschilo, l’età della polis, non è più quella di Omero: quel tipo di eroismo tirannico, maestoso, “epico”, aveva ormai fatto il suo tempo. La tragedia deve avvalersi di messaggi “forti”, emessi da personaggi particolarmente emblematici ed esemplari, affinché la vicenda da essi vissuta possa avere un impatto emotivo tale da valere come modello per la comunità: in una città come Atene, nella quale la lotta politica stava alterando gli equilibri e si faceva sempre più concreta la possibilità che gli eccessi e le radicalizzazioni inquinassero irreversibilmente la vita pubblica, non poteva esserci ammonimento più solenne a non infrangere la regola per cui bene supremo è la misura. L'Agamennone, può essere usato come paradigma di quanto si è detto sopra: nell' Odissea3 l'iniziativa e l'esecuzione dell'omicidio di Agamennone vengono attribuite in prima istanza ad Egisto, mentre l'infedele Clitemnestra gli sta accanto come necessaria complice e come assassina di Cassandra, la concubina di Agamennone; diversamente, nell'Agamennone, il ruolo di primo piano nel bagno di sangue è affidato a Clitemnestra, regina dal cuore 3 I, vv. 30 sgg.; II, vv. 405 sgg.; XXIV; vv. 190 sgg. 5 virile4, spietata esecutrice dell'assassinio del coniuge. La scelta di Eschilo potenzia, in tal modo, l'inquietante connessione del femminile con la violenza e con l'inganno, esibendo il massimo perturbamento dell'ordine maschile.5 In Eschilo il motivo, tipico della cultura greca tardo-arcaica, dell' ereditarietà della colpa, entra ormai in conflitto con una mentalità più evoluta che sostiene il principio della responsabilità del singolo e pone l'esigenza di una giustizia divina in cui il compiersi del disegno degli dei travalica le singole generazioni e, al termine di un ciclo spesso assai complesso (come nel caso dell' Orestea), l'ordine viene ricostituito. In sostanza l'uomo non può dubitare della giustizia degli dei e le sofferenze che patisce devono servirgli come ammaestramento: Ag. vv. 174-178 ZÁna de tij profrÒnwj ™pin…kia kl£zwn teÚxetai frenîn tÕ p©n, tÕn frone‹n brotoÝj Ðdèsanta, tÕn p£qei m£qoj.6 4 Ag., v. 11. D. Susanetti, Roma, 2003, pp. 90-91. 6 Ma chi devotamente il canto di vittoria a Zeus intona, otterrà somma saggezza: per lui che a saggezza avvia i mortali,avendo fissato valida legge: conoscenza attraverso dolore. 5 6 Spazio e messa in scena Quando sul fondo dell’orchestra era collocata la skhn» per rappresentare un edificio, al di là della facciata visibile veniva presupposta l’esistenza di uno spazio che gli spettatori dovevano immaginare facendo riferimento all’aspetto consueto della parte interna dell’edificio (una casa, un tempio etc.); lo spazio retroscenico comunicava con l’orchestra attraverso la porta della skhn». Ma la zona interna, che gli spettatori dovevano immaginare al di là della skhn», restava solitamente preclusa alla loro vista; il modo per coinvolgere l’uditorio nello spazio retroscenico era ottenuto, nella maggior parte dei casi, attraverso le parole usate dai personaggi per descrivere ciò che accadeva nello spazio interno: in casi simili diventava rilevante il punto di vista del personaggio e il rapporto che esso intratteneva con l’ interno. Questo modulo non è frequente nel teatro di Eschilo che noi conosciamo; si registra però, alla fine del quarto episodio dell' Agamennone, l'anticipazione (in questo caso attraverso i vividi squarci del delirio profetico di Cassandra) di ciò che accadrà nello spazio retroscenico7: il tragico destino del sovrano che, dopo essere scampato ad uno "spazio esterno", Troia, denso di pericoli, cade per mano di sua moglie in patria, proprio dove credeva di essere ormai al sicuro. Ed improvvisamente, da dietro la skhn», Agamennone lancia alto il grido di morte8 e si assiste ad un vero e proprio coup de théâtre che rivela l'interno della casa: appare Clitemnestra in tutta la sua furia, con in mano la scure omicida; accanto alla donna giacciono i corpi delle due vittime9. 7 vv. 1246 sgg. vv. 1343-1345. 9 vv. 1372 sgg. 8 7 Inoltre il tragediografo eleusino, in particolare nell’Agamennone, cambia spesso la prospettiva degli avvenimenti, alternando tra esterno ed interno e creando così una sorta di dialettica degli spazi; tutta la prima parte della tragedia è caratterizzata dalla tensione tra la scena e un luogo distante, in questo caso Troia, dove si è svolta la guerra: prima la sentinella, poi il coro e Clitemnestra, tutti attendono notizie da Troia. Ma l'annuncio dato dal segnale di fuoco dà origine ad un processo di annullamento delle distanze iniziali e l'arrivo dell'araldo prima, e più tardi del re, creano il primo legame concreto tra scena e spazio esterno. La messa in scena di un’ opera teatrale richiedeva talvolta anche che gli spettatori dovessero accettare convenzionalmente l’idea che fosse buio, anche se ciò risultava in palese contrasto con la realtà poiché lo spazio scenico era completamente illuminato dalla luce del giorno: è ciò che accade nel prologo dell’Agamennone, quando la guardia, dopo aver fatto riferimento alle stelle visibili nel cielo, avvista nel buio il fuoco che annuncia la presa di Troia e corre ad avvisare Clitemnestra. Infine, per concludere questo breve excursus sullo spazio scenico e retroscenico, è necessario ricordare ciò che è stato evidenziato da V. Di Benedetto e E. Medda10: il fatto che tra i tre tragici, Eschilo è colui che ha maggiormente esplorato le possibilità di articolare lo spazio scenico in una zona “alta” e “bassa”. Un esempio emblematico si trova all’inizio del terzo episodio, quando appare Agamennone seduto su un carro trainato da animali (probabilmente cavalli) che rimane in scena fino al momento in cui Cassandra entra nella casa11. Egli resta dunque a lungo sul carro, un livello 10 V. Di Benedetto- E. Medda, Torino, 1997, pp. 70-75. v. 1330. 11 8 più alto del Coro e di Clitemnestra; questa posizione “dominante” corrisponde alla condizione attuale dell’eroe: il discorso d’ingresso è quello di un re, tornato vincitore dalla guerra, che riprende il controllo sul suo regno, proponendosi di punire chi si è comportato in modo infedele e premiare invece chi si è comportato rettamente. Il coro e l'azione scenica Nel teatro tragico i coreuti svolgono un' importante funzione legata inscindibilmente al ruolo che viene loro attribuito dal poeta, ciò che varia da tragedia a tragedia è l'incidenza sugli eventi. Vi sono sporadici casi in cui il coro cerca di opporsi all'azione di un personaggio: ciò accade nel momento in cui i coreuti attaccano con veemenza Egisto, che ha osato presentare l'assassinio di Agamennone come un atto di giustizia;12 il coro insorge tanto da metter mano alle spade, intimorendo Egisto che chiama a sé le guardie affinché arrestino i coreuti. Solo l'arrivo di Clitemnestra evita il conflitto tra i due, ma non il protrarsi della lite; la tragedia si conclude con i coro che reitera le sue accuse ed Egisto che minaccia punizioni severe. Nell' Agamennone, come si è testé potuto notare, il coro diventa un personaggio a tutti gli effetti, prendendo posizioni e dando valutazioni etico- religiose che forse sono lo specchio delle idee del poeta stesso. Diventa un'impresa assai ardua non interpretare come espressione diretta della severa teologia del poeta e della sua concezione dei limiti della natura umana, l'Inno a Zeus e le gnîmai con cui i vecchi coreuti lamentano la 12 vv. 1612 sgg. 9 decisione del re di sacrificare sua figlia Ifigenia13. In questi versi inoltre il canto del coreuta diventa anche un momento di approfondimento di alcuni argomenti salienti come la presa di Troia e l'abbandono di Menelao da parte di Elena, i vecchi coreuti si trasformano in depositari della memoria collettiva tentando di dare una versione degli eventi realistica ed obiettiva. Rhesis e Sticomitia A seconda delle strutture adottate dai tragediografi, si possono distinguere gli interventi degli attori in due forme principali: ∙»seij e battute di sticomitia; discorsi di una certa ampiezza che possono presentarsi sotto forma di monologo nel primo caso, più spesso inseriti all'interno di una scena di dialogo, mentre nel secondo caso diventano sequenze alterne di singoli versi recitati da due interlocutori che si confrontano in un serrato dialogo. La funzione di entrambe è essenziale per uno sviluppo dinamico del dramma; possono avere scopi informativi, iussivi o riflessivi e ciò dipende dalla situazione scenica in cui vengono collocate, dalla finalità e dal loro destinatario. Eschilo nell' Agamennone si mostra abile nell'utilizzare le ∙»seij informative messe in bocca all'araldo e a Clitemnestra: non le pone nella parte centrale del dramma come accade solitamente (nei Persiani, nei Sette contro Tebe, nelle Supplici e nel Prometeo), ma nella parte che prepara e introduce la katastrof». Inoltre le sticomitie eschilee si presentano solitamente come monotematiche: la discussione risulta breve e verte su un solo problema senza digressioni o 13 vv. 160 e sgg. 10 l'introduzione di nuovi argomenti, come invece spesso avviene nelle sticomitie di Sofocle ed Euripide. Le posizioni dei due interlocutori non subiscono modifiche durante il dibattito, nessuno dei due partecipanti al dialogo muta il suo parere: nell'Agamennone14 la sticomitia tra il Corifeo e Cassandra, durante la quale il primo tenta di dissuadere la donna dalla decisione di entrare nella casa in cui la aspetta la morte, non serve a mutare né la convinzione della donna né il corso degli eventi. Sembra dunque, come ha notato M. Di Marco15, che la sticomitia abbia l'effetto di ritardare la tragedia finale, la sua funzione appare quella di accompagnare le azioni, prolungarle e, con ciò, amplificare la tensione drammatica. La compressione temporale degli eventi scenici Nella Poetica Aristotele dedica alcune righe all'azione drammatica; lo fa nel contesto di un paragone fra tragedia ed epos: l'una cerca il più possibile di tenersi sotto un unico giro di sole o di discostarsene di poco, mentre l'altra non ha limiti di tempo, e in questo è diversa, anche se in principio nelle tragedie si faceva lo stesso che nei poemi epici. 16 Nel Seicento si discusse a lungo e vivacemente sull'esatta interpretazione dell'espressione cerca il più possibile di mantenersi sotto un unico giro di sole o di discostarsene di poco: vi era chi affermava che Aristotele avesse inteso significare l'arco delle ventiquattro ore del giorno e chi, come Corneille, fissava l'estensione del tempo rappresentato a non più di trenta 14 vv. 1299-1314. M. Di Marco, Roma 2009, pp. 238-241 16 1449b, 12 ss., trad. C. Gallavotti. 15 11 ore. Tuttavia questo limite è ampiamente superato proprio nell' Agamennone, dove l'azione si estende dal giorno della presa della città di Troia a quello del ritorno di Agamennone ad Argo, e anche nelle Eumenidi (per limitarci ad Eschilo). A questo punto va fatta una constatazione. A determinare una così ampia dilatazione temporale delle tragedie sopra citate sono eventi extrascenici che, inseriti nel mito, Eschilo non avrebbe potuto condensare in un giorno solo: di qui la necessità oggettiva di segmentare l'azione drammatica in due fasi intervallate da un notevole lasso di tempo. Tuttavia il tragediografo ha concentrato gli avvenimenti in due blocchi che, sebbene distanti, sono compresi nell'arco di due giornate: quello della vittoria e quello della morte; ma si tratta dei due “tempi” di una sola azione. Come chiarisce Di Marco17: In queste tragedie (con qualche dubbio solo per le Eumenidi) l'azione direttamente agita dai personaggi sulla scena, dunque, si limita di fatto a rappresentare gli eventi di due sole giornate. Se si tiene conto di questo dato, la brachilogica affermazione di Aristotele ci apparirà più chiara: i limiti temporali che il filosofo enuncia andranno riferiti esclusivamente all'azione scenica in quanto tale. Essa di norma dovrà abbracciare non più una giornata; in casi particolari, tuttavia, potranno essere rappresentati anche eventi relativi ad una seconda giornata. Ma Aristotele non dice assolutamente che debba trattarsi di due giornate consecutive; al contrario, le due giornate potranno collocarsi anche a notevole distanza l'una dall'altra, esattamente come nei casi delle tragedie da noi qui esaminate. 17 Op cit., pp. 164-165. 12 Anticipazioni sull’immagine del cane Un soggetto metonimico Plutarco ci informa che in Grecia il cane subiva esclusioni rituali e ricorda la norma che proibiva l’accesso ai cani sull’acropoli di Atene e sull’isola sacra di Delo. Lo scrittore aggiunge che l’opinione corrente a questo proposito sosteneva che tale norma era stata formulata perché i cani si accoppiavano pubblicamente, senza alcun pudore, cosa che non poteva essere tollerata nei luoghi sacri. E’ interessante leggere come Plutarco riferisce la notizia e il parere che esprime a questo proposito: Alcuni sostengono che il cane non ha accesso all’acropoli di Atene né all’isola sacra di Delo per il fatto che si accoppia apertamente: come se buoi, maiali e cavalli copulassero in camera da letto e non apertamente senza pudore!18 L’acuta osservazione dello scrittore di Cheronea non ha ricevuto l’attenzione che si meritava. In realtà Plutarco già mostrava la pretestuosità di questa affermazione, che imputa solo al cane una sessualità comune a tutte le specie animali e sottolineava la faziosità dei suoi compatrioti, scandalizzati dalla sessualità del cane, ma per nulla turbati da quella di altri animali, individuando in tal modo un nodo cruciale per l’interpretazione culturale del cane, e non solo del cane nella Grecia antica. Se ci si sofferma attentamente sulla posizione che occupa il cane nello spazio culturale organizzato dall’uomo, ci verranno in aiuto alcune 18 Plutarco, Questioni romane, 111 (290 a-c) . 13 considerazioni di Lévi-Strauss19. Egli constatava che fino ai suoi tempi (negli anni Sessanta) in Francia i nomi di cani avevano prevalentemente un carattere astratto ed erano onomatopeici o tratti dal repertorio teatrale e mitico, e che esisteva una sorta di tacito divieto di denominare i cani con nomi propri di persona. In effetti, anche in Italia, nomi come Mario o Giorgio non sarebbero mai stati assegnati ai cani di casa (il fatto che una recente moda abbia introdotto questo uso fra i padroni è una questione che è stata studiata dagli antropologi, ma che, in questa sede, non è rilevante). In questa sorta di tabù onomastico Lévi Strauss individuava la risposta, probabilmente inconsapevole, della cultura a un profondo disagio, connesso con l’intima partecipazione del cane alla vita dell’uomo. In altre parole: il cane sarebbe in una posizione di così intima partecipazione alla vita sociale, che conferirgli un nome umano provocherebbe un eccesso di identificazione. Questa preoccupazione peserebbe sul cane - e sul cane soltanto - proprio per la sua specifica posizione rispetto alla comunità. Una posizione che si distingue per una spiccata metonimicità, ossia per una partecipazione a pieno titolo dell’animale alla vita sociale. Anche altri animali domestici, dal bue al maiale, hanno un rapporto partecipativo con la comunità umana: ma la loro metonimicità è inferiore, perché per quanto vicini all’uomo (negli esempi citati al contadino), essi sono sempre percepiti come disumani, strumenti di lavoro, presenze di cui disporre a nostro uso e consumo. Il cane, invece, non solo è sempre presente nei luoghi della cultura, ma vi svolge anche un’attività collaborativa e comunicativa che ne fa un soggetto sociale all’interno della comunità umana. Per animali come uccelli, cavalli, ecc., il rapporto con l’uomo è così 19 L’individuo come specie, in Lévi- Strauss 1962 14 poco partecipativo da configurarsi al massimo come metaforico: tali bestie sono concepite come “altre”, come diverse e alternative all’uomo, del quale possono costituire solo una rappresentazione traslata. Sintetizzando: alcuni animali sono sentiti come distanti e sono pensati solo come metafore dell’umanità; altri sono metonimici, cioè hanno una loro parte nella vita sociale, ma in qualità di oggetti dell’azione umana; infine c’è il cane, che vi partecipa come soggetto metonimico. Ecco perché, secondo Lévi Strauss, solo il cane deve essere tenuto distinto dall’uomo nel sistema onomastico: una sua partecipazione, anche a livello di nome, provocherebbe infatti un’esasperazione intollerabile della sua “umanità”, una sottolineatura del suo essere percepito come soggetto metonimico. Le riflessioni di Levi S., per quanto lontane dalla civiltà greca, possono offrire un ottimo strumento di analisi: le distinzioni che essa introduce permettono di ragionare sulla prossimità che caratterizza il rapporto dell’uomo col cane utilizzando categorie più circoscritte di quelle generalmente usate a questo proposito. Concetti come quelli di “prossimità” o come quello di “domesticità” risultano infatti etichette generiche e prive di valore esplicativo nel lavoro che si sta per intraprendere, mentre con la definizione di soggetto metonimico si avrà la possibilità, pur nell’ambito ristretto di questo lavoro, di riflettere sulla posizione dell’animale e sulle costanti strutturali del rapporto uomo - cane per quello che di esclusivo e specifico esse comportano e per come si configurano nella cultura antica. 15 L’uso di metafore caratterizza la maggior parte dei personaggi dell’unica trilogia che ci è giunta completa, l’Orestea; in particolare l’universo animale (il cane, l’aquila, il lupo, il leone) viene spesso adoperato dal tragediografo per delineare con maggior precisione il carattere, il comportamento e soprattutto il “ruolo sociale” di alcuni personaggi nell’Agamennone. Jean Pierre Vernant afferma che l’immagine della caccia sia fondamentale in tutta la prima parte della trilogia e che, in particolare, nell’Orestea esista un legame fra caccia e sacrificio: i due temi sarebbero non solo intrecciati, ma direttamente sovrapposti; gli stessi personaggi, Agamennone e Oreste, appaiono allo studioso essere successivamente cacciatori e cacciati, sacrificatori e sacrificati (o minacciati di esserlo). 20 Sia J. P. Vernant che C. Franco21 fanno riferimento alla cosiddetta “critica antropologica”22. Sarebbe lungo e complesso spiegare in questa sede che cosa ci sia dietro questo interesse per l’antropologia, che ha caratterizzato lo studio della tragedia greca (e non solo) in quest’ultimo mezzo secolo: senz’altro l’esigenza di mettere in discussione la centralità della cultura europea; la volontà di interpretare i miti delle tragedie greche alla luce della comparazione con altre culture; l’intenzione di cercare le tracce di modelli primitivi paragonabili a quelli individuati nelle ricerche antropologiche – etniche; ma soprattutto il desiderio di rintracciare nelle tragedie greche le categorie dell’antropologia strutturale, con particolare riferimento all’opposizione tra natura e civiltà. Da tutto ciò è nato un dibattito ancora in 20 Jean Pierre Vernant e Vidal-Naquet, Torino1976, pp. 121-125. Franco C., Bologna, 2003. 22 Solitamente l’anno di nascita della critica antropologica si fa coincidere con la pubblicazione di Aeschylus and Athens di Thomson, 1941. 21 16 corso, di cui si possono rintracciare segni nell’introduzione di V. Di Benedetto alle Trachinie e al Filottete23. Lo studioso afferma che nell’atteggiamento di alcuni antropologi gioca anche l’insofferenza per un approccio filologico privo di idee e refrattario a rapportare il testo alla cultura e alla società entro cui esso si colloca. È […] questa una battaglia di retroguardia (che però si può associare con la sensazione ingannevolmente liberatoria di poter fare a meno di una informazione completa e di potersi accontentare di letture parziali o parzialissime).24 Una piccata risposta alle critiche di Di Benedetto si può leggere in Mito e tragedia due25 di J. P. Vernant – P. Vidal-Naquet che, nella prefazione26, contestano l’atteggiamento e le posizioni dello studioso definendole manicheiste. Ma questo scontro dialettico tra critici di posizioni diverse che ricorda, per alcuni aspetti, la polemica sorta nell’Ottocento tra gli esponenti della filologia formale e monumentale, non può essere approfondito in questo contesto; tuttavia si è ritenuto opportuno fare ricorso all’antropologia per introdurre l’immagine del cane – e solo per questo argomento. 23 Sofocle, Trachinie e Filottete, introduzione V. Di Benedetto, premessa al testo e note di M. S. Mirto, prefazione di M. P. Piattoni, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1990. 24 La tesi di Di Benedetto è sviluppata in modo ampio in Filologia e marxismo. Contro le mistificazioni, a cura di V. Di Benedetto – A. Lami, Liguori, Napoli, 1981. 25 Mythe et tragédie deux, éditions La Decouverte, Paris, 1986; trad. it. C. Pavanello e A. Fo, con uno scritto di M. Bettini, Einaudi, 1991. 26 Cfr. pag 24 sgg. 17 Presentazione dei passi presi in considerazione. Dopo questa parte introduttiva, ci si concentrerà sull'immagine del cane nell'Agamennone di Eschilo. Vengono riportati, tradotti e contestualizzati, i versi che verranno presi in considerazione. - vv. 2-3 koimèmenoj stšgaij 'Atreidîn ¥gkaqen, kunÕj d…khn essendo accucciato dall’alto sopra il tetto degli Atridi, come un cane La tragedia inizia nel cuore della notte con un monologo: una guardia sul tetto della reggia attende la comparsa del segnale di fuoco che comunica la caduta di Troia. Il buio e la notte della prima scena sono le tinte di fondo del dramma. Il buio nasconde i segreti della casa, dove da tempo la regina sta tessendo la sua vendetta e dove si svolgono i suoi convegni con Egisto; il buio è il simbolo della morte e della colpa che si annida nella famiglia degli Atridi e all’interno del palazzo (dove sono accadute cose spaventose, dall’infanticidio all’atto di cannibalismo) tanto che chi ne parla lo fa a voce bassa e con difficoltà ( un grosso bove sta sulla lingua27). 27 Ag. v. 36. 18 - vv. 606- 607 guna‹ka pist¾j d' ™n dÒmoij eÛroi molën o†anper oân œleipe, dwm£ton kÚna E, tornando, possa trovare nelle stanze la moglie fedele al proprio uomo come dunque l’aveva lasciata, come una cagna domestica. Mentre il coro esulta per il ritorno di Agamennone, non senza però tradire oscuri timori, torna in scena Clitemnestra, vera protagonista del dramma, che con perfetta dissimulazione invia un messaggio al marito invitandolo a tornare da lei, sposa fedele che non conobbe altro uomo: la complicità del pubblico è richiesta ed entra in gioco come componente dell’attesa angosciosa dell’evento che lentamente matura, destinato a dissipare l’ambiguità del messaggio e a definire la natura del personaggio forse più complesso del teatro eschileo superstite. - vv.807- 809 gnèshi de crÒnwi diapeuqÒmenoj tÒn te dika…wj kaˆ tÕn ¢ka…rwj pÒlin o„kouroànta politîn. E con il tempo saprai, dopo esserti informato quale dei cittadini secondo giustizia e quale inopportunamente ha custodito la città. 19 In questo passo il coro si rivolge ad Agamennone e allude velatamente ai germi di malgoverno (tÕn ¢ka…rwj / pÒlin o„kouroànta) sviluppatisi in sua assenza nella città. Probabilmente si riferisce ad Egisto, dato che il termine o„koure‹n viene spesso usato per connotare questo personaggio: letteralmente il verbo significa sorvegliare la casa, custodire e nella tragedia viene usato in senso dispregiativo, indicando colui che rimane in casa in contrasto con chi svolge il proprio dovere di soldato. In questo modo Eschilo presenta Egisto come una sorta di terzo cane infedele, dopo la guardia e Clitemnestra. - vv. 895 – 896 nàn, taàta p£nta tl©s’, ¢penq»twi fren… lšgoim’ ¨n ¥ndra tÒnde tîn staqmîn kÚna Ma, ora, dopo avere sofferto tutto questo, col cuore senza più affanni io proclamerò quest’uomo cane dell’ovile In questo passo Clitemnestra, che da tempo ha tessuto la trama con la quale pensa di farsi giustizia, sembra voler riconsegnare il governo della reggia allo sposo e attribuire a lui la supremazia che si addice al re; però in realtà queste parole contengono l’ambiguità che è propria di tutti i discorsi della regina. Creatura demoniaca, virile nell’ostinata determinazione a realizzare la propria volontà omicida, Clitemnestra svela la sua intima natura proprio in antitesi con quel ritratto di sposa fedele, secondo il tipo convenzionale 20 della donna ateniese, da lei disegnato con sapiente e ipocrita simulazione. Le ripetute metafore adulatorie, la rievocazione delle veglie consumate nel pianto, degli sguardi rivolti al cielo nell’attesa dei segnali di fuoco, tutti gli espedienti verbali dell’astuzia tesa all’inganno, sono finalizzati alla distrazione del re da ogni sospetto e al suo irretimento nella trappola mortale. - vv. 1093-1094 œoiken eÜrij ¹ xšnh kunÒj d…khn eŒnai, mateÚei d' ïn ¢neur»sei fÒnon. Sembra aver buon fiuto la straniera, a guisa di cagna, e va sulle tracce di coloro di cui troverà la strage. In questo passo Cassandra viene presentata dal coro in relazione alle sue capacità profetiche, come un cane da caccia in grado di ritrovare le tracce delle stragi passate e future, in contrasto con i vv. 1063 - 1064, dove la donna veniva presentata come una straniera che non è in grado di comprendere nulla. Nel flusso rapido delle sue folgorazioni, Cassandra, come in trance, presenta le immagini dei figlioletti di Tieste sgozzati, dei brandelli delle loro carni arrostite e divorate dal padre ignaro, lugubri ricordi di quella catena di colpe ed espiazioni che pesa sulla casa degli Atridi. Posa poi lo sguardo allucinato su ciò che sta per avvenire, l’atto omicida della donna furente di odio, il bagno di sangue, il mantello che cinge in una rete mortale il re, il colpo vibrato dall’ascia, lo scannatoio che 21 attende anche lei, lo squarcio della bipenne sul suo corpo e, quindi, tornando a ritroso nel tempo, evoca le nozze di Paride, rovina per i suoi, le care acque dello Scamandro su cui crebbe, i vani sacrifici delle mandrie di Priamo per salvare Troia. - vv. 1224-1225 ™k tînde poin£j femi bouleÚein tin£ lšont' ¥nalkin ™n lšcei strwfèmenon o„kourÒn, o‡moi, tîi molÒnti despÒthi ™mîi: fšrein g¦r cr¾ tÕ doÚlion zugÒn. Perciò io dico che medita vendetta una specie di leone imbelle che si muove nel letto custode, ahimè, della casa, contro il mio signore che è tornato: bisogna sopportare il giogo servile. In questo caso, Cassandra, nel dialogo con il coro, mostra i suoi torbidi presentimenti e la sensazione di angoscia che la attanaglia. Con il termine o„kourÒn la donna allude ad Egisto, che viene paragonato ad un leone codardo e imbelle, poiché non ha combattuto eroicamente in difesa della patria, come Agamennone, ma è rimasto, con atteggiamento vile, come un custode della casa, in patria. 22 - vv. 1227- 1229 neîn d' ¨parcoj 'Il…ou t' ¢nast£thj oÙk oŒden o‡a glîssa mishtÁj kunÒj, lšxasa k¢kte…nasa faidrÒnouj d…khn ¨thj laqra…ou teÚxetai kakÁi tÚcei. E il comandante della flotta, distruttore di Ilio non sa quali cose la lingua della cagna odiosa ha detto con volto ilare, come un’occulta rovina; e l’otterrà, per mala sorte. Di nuovo le parole di Cassandra sono cariche d’ira, ma in questo caso nei confronti di Clitemnestra. Viene paragonata ad una cagna odiosa che porta rovina, in contrasto evidente con i versi 606 - 607, dove lei stessa si definiva “cagna domestica”. 23 Capitolo 1. Il cane nell’immaginario dell’antica Grecia. Un fedele compagno? Come sostiene C. Mainoldi Le chien apparassait comme un être contradictoire: d’un côté proche de l’homme et de l’autre encore à demi sauvage28: in realtà il cane appare spesso come compagno fedele (si pensi al cane Argo nell’Odissea), ma tali valori di fedeltà e “amicizia” sono solo temporanei, proprio perché basati sul fatto che il cane instaura questo rapporto con chi è in grado di soddisfare le sue necessità, la richiesta di cibo in primis. Infatti, nonostante venga “civilizzato” e addomesticato dall’uomo, il cane viene rappresentato spesso nella letteratura greca con una connotazione negativa, a cominciare da Omero: la principale funzione del cane, soprattutto nell’Iliade, sembrerebbe essere quella di divorare i cadaveri (fatto che ne impedisce la sepoltura e, di conseguenza, l’ingresso dell’anima nell’Ade)29, e forse l’immagine più terrificante dei cani si trova all’interno del discorso di Priamo che cerca di dissuadere Ettore dall’intenzione di scontrarsi in duello con Achille30: il vecchio re immagina che davanti alla porta della reggia lo dilanieranno cani inferociti assetati del suo sangue, gli stessi cani che erano stati da lui nutriti e che avevano la funzione di guardiani delle porte della città. Infatti per un uomo, per un guerriero omerico, esser divorato dai cani rappresenta la peggiore delle 28 C. Mainoldi, Paris, 1984, p. 143. Il. I, vv. 3-5; II, v. 394; XIII, v. 831; XVII vv. 125-127 e 241; XVIII, v.179; XXII, 338-339 e 348. 30 Il. XXII, vv. 66-71. 29 24 sorti, poiché viene in tal modo privato di quella che J. P. Vernant31 definisce la bella morte, ossia la possibilità di ottenere il posto che gli spetta nell’aldilà: come ha ben dimostrato lo studioso francese, colui che è finito nel ventre di un animale perde ogni statuto, sia quello di uomo, sia quello di morto. L’immagine del cane divoratore di cadaveri, che era tipicamente omerica, si trasferisce non di rado nella tragedia: in Eschilo (nelle Supplici32 e nei Sette a Tebe33); in Sofocle (nell’Aiace34, ma soprattutto nell’Antigone35); in Euripide (nelle Fenicie 36 e nell’Ecuba37). Il cane è anche uno dei protagonisti che appare più frequentemente nelle favole di Esopo; in particolare il suo statuto ambiguo si evidenzia ne Il cane e la lepre (Aes. 136 P.)38: non a caso nella “morale” si afferma che la favola è destinata ad un ¥ndra ¢mf…bolon. In poche righe l’autore narra che un cane da caccia, dopo aver catturato una lepre, alternava nei suoi confronti momenti di aggressività e momenti di affetto, finché la lepre, sfinita, gli disse: Ehi, tu, o cessa di mordermi o cessa di baciarmi, affinché io possa comprendere se sei per me un amico o un nemico!; questa doppia valenza del comportamento canino è ben esemplificata nella tragedia Agamennone. J. P. Vernant, Cambridge – Paris 1982, pp. 45-76. Aesch, Su., vv. 800-801 . 33 Aesch, Sept., vv. 1013-1014 . 34 Soph, Ai., v. 830. 35 Soph, Ant.,vv. 29-30; 205-206; 257-258; 697-698; 1016-1018; 1081-1083; 1197-1198. 36 Eur, Phoen., v. 1650. 37 Eur, Hec., v. 1077. 38 B. E. Perry, Aesopica, vol. I Greek and Latin Texts, Urbana, 1953. 31 32 25 1.1. La guardia della reggia degli Atridi e il cane Argo - vv. 2-3 koimèmenoj stšgaij 'Atreidîn ¥gkaqen, kunÕj d…khn essendo accucciato dall’alto sopra il tetto degli Atridi, come un cane Il primo personaggio che richiama, mediante una similitudine, il cane, compare nei primi versi della tragedia presa in considerazione: la guardia che ha il compito di sorvegliare la città dall’alto del tetto del palazzo degli Atridi è accucciato kunÕj d…khn39. Come sottolinea Mainoldi40, la presenza del cane in questi versi è motivata dall’identità tra le due funzioni: la guardia che attende con ansia il sovrano trova nel cane da guardia il modello più evidente; inoltre la studiosa adduce anche un motivo di ordine scenico: la posizione stessa del fÚlax, accucciato sui gomiti, ricorda quella di un cane che, sulle zampe, sorveglia attentamente la casa.41 Ma, nei versi sucessivi, si svela l’atteggiamento ambiguo e misterioso della guardia: dopo aver scorto da lontano un bagliore di luci che segnalano l’arrivo dell’eroe argivo, mostra di essere a conoscenza di notizie che, però, 39 Ag. v. 3. 40 Ibidem, p. 165, Nel passo sul perfetto guardiano (Repubblica, 375 a – e), Platone sottolinea la caratteristica attitudine del cane alla reazione repentina e violenta, soprattutto nei confronti chi non conosce, esattamente come un guardiano che ha il compito di sorvegliare la dimora dai pericoli esterni. 41 26 ha l’obbligo o la convenienza di tacere; viene in tal modo messa in dubbio l’effettiva fedeltà della guardia nei confronti di Agamennone. Eschilo sembra così riprendere le fila dei poemi omerici, modificando però alcuni aspetti del personaggio: nell’Odissea, Omero presenta la guardia come un traditore che è a conoscenza delle intenzioni omicide di Egisto, il quale gli ha promesso, in cambio di silenzio e complicità, due pesi d’oro 42. La connotazione negativa conferita dal tragediografo al cane nei primi versi dell’Agamennone evidenzia un forte contrasto con la figura del cane Argo (si tratta probabilmente di un nome parlante: ¢rgÒj significa veloce o candido), emblema della fedeltà nei confronti del padrone. La scena del riconoscimento tra il cane e Odisseo crea una sorta di piccola e struggente aristìa che ha per protagonista un eroe non umano: costretto ad assistere allo scempio del suo mondo e dei suoi ricordi, a Odisseo il tempo passato si ripresenta attraverso il vecchio Argo, unico essere vivente capace di riconoscerlo, che subito dopo muore, felice di averlo rivisto.43 A differenza di altri “riconoscimenti”, che avverranno in seguito nel poema (Euriclea, Penelope), quello di Argo non è mediato da nessun segno o prova della vera identità dello xe‹noj: esso avviene immediatamente, non appena l’animale morente scorge il padrone, pur reso irriconoscibile da Atena, e segna per l’eroe una progressiva riappropriazione del proprio ruolo, che culminerà nella strage dei pretendenti. La soglia del palazzo su cui giace Argo e presso la quale anche Odisseo prenderà temporanea dimora (fino al momento tanto atteso) diventa in tal modo simbolo di una duplice condizione, che J. 42 43 Od. IV, vv. 524-531. Od. XVII, 290-327. 27 Russo44 ha definito liminale: quella di un Odisseo che non è ancora Odisseo, di un re che non è stato riconosciuto ancora come tale dai suoi sudditi e vive dunque ai margini della comunità, reietto e trascurato come l’animale che fu suo compagno in giorni lontani. Se ci si sofferma sui primi versi dedicati al cane Argo45, si nota che un tratto messo in forte evidenza è l’appartenenza del cane all’eroe. Il nome del padrone, al genitivo46, determina l’identità dell’animale mediante un altisonante patronimico; ma le parole successive sono ancora più interessanti, poiché rivelano che Odisseo aveva nutrito personalmente il cane,47 senza però poter godere delle soddisfazioni abitualmente riservate ad un allevatore (vedere un cane obbedire agli ordini, seguire le tracce etc.) a causa della repentina partenza per la spedizione troiana. Il fatto che si sottolinei la partecipazione diretta del re di Itaca all’allevamento del cucciolo non è quindi casuale: è attraverso il cibo che tra cane e uomo si crea un rapporto esclusivo di reciproca appartenenza, una sorta di alleanza, definita da C. Franco patto del cibo48; anche per questo Argo riconosce, seppur dopo un lungo lasso di tempo, Odisseo come suo padrone. 44 Omero, Odissea, vol.5, trad. di G. A. Privitera, Fondazione L. Valla- A. Mondadori , Milano 1985. Od. XVII, 291-294. 46 'OdusÁoj v. 291. 47 ”Argoj, 'OdussÁoj talas…fronoj, Ón ∙£ pot' aÙtÕj / qršye . 48 C. Franco, Senza ritegno, il cane e la donna nell’immaginario della Grecia antica, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 74. 45 28 1.2. Il cane da guardia nel contesto religioso In altri casi, si evidenzia la connotazione positiva che assume il cane da guardia nella sfera religiosa: spesso si rileva la sua presenza nei templi e nei santuari per motivi di sicurezza; il cane infatti, in tali contesti, aveva la funzione di proteggere il luogo sacro da eventuali ruberie o profanazioni; inoltre era diffusa la credenza nel valore apotropaico di questo animale e nella sua capacità di allontanare le potenze del male. Come si apprende dalla Natura degli animali di Eliano, vi erano cani sacri nel tempio di Efesto a Etna (antico nome di Catania), che si comportavano come veri e propri guardiani: Intorno al tempio e al bosco ci sono cani sacri, se entrano nel tempio e nel bosco persone perbene con un aspetto dignitoso e come si deve, i cani lo accolgono in modo festoso dimenando la coda, proprio come se le conoscessero e fossero ben disposti nei loro confronti, se invece entra qualcuno che ha le mani macchiate da un’azione esecrabile, lo mordono e lo aggrediscono violentemente; si accontentano invece di cacciare via quelli che hanno l’impudenza di venire, reduci da intemperanze sessuali49. Lo stesso autore, in altri passi, mette in evidenza la funzione di guida e di scorta (anche nei confronti di stranieri e ubriachi) che assumono i cani consacrati al tempio di Adrano (divinità indigena) in Sicilia; ma questi stessi animali, che si comportano in modo docile con alcuni cittadini e addirittura con stranieri, puniscono, come meritano, quelli che compiono sconcezze sotto l’effetto del vino […] contro coloro che fanno rapine infieriscono selvaggiamente.50 49 Claudio Eliano, La natura degli animali, XI, 3. Claudio Eliano, Ibidem, XI, 20. 50 29 Infine nell’immaginario mitico i cani da guardia sono talvolta accostati ad alcuni personaggi divini in qualità di protettori: nelle Metamorfosi 51 Antonino Liberale attesta la presenza di un cane d’oro che aveva la funzione di controllare e difendere la capra che Rea, per paura di Crono, aveva nascosto in un antro di Creta, perché nutrisse Zeus neonato; anche il piccolo Asclepio, come Zeus, aveva un cane come guardiano52 e proprio questo diventerà, insieme al serpente, uno degli animali che meglio rappresenteranno questa divinità guaritrice. In questo capitolo si è analizzata la figura del cane sotto diversi aspetti: come divoratore di cadaveri nei poemi omerici (soprattutto nell’Iliade) e in alcune tragedie, come animale domestico che spesso risulta vicino al carattere dell’uomo e generalmente a lui fedele; invece il cane da guardia viene spesso presentato, nel panorama letterario greco, come un animale ambiguo, caratterizzato talvolta da una connotazione negativa; mentre in ambito religioso, pur mantenendo apparentemente tratti positivi, esso assume un ruolo di rigido custode e difensore del “sacro”, diventando un vero e proprio pericolo per tutti coloro che si comportano in modo empio all’interno dei templi. 51 52 Antonino Liberale, Metamorfosi, 36, 1. Pausania, II, 26, 4. 30 Capitolo 2 La donna – kÚwn: misoginia nel mondo antico. oÙk a„nÒteron kaˆ kÚnteron ¥llo gunaikÒj.53 (Orph., fr 234 Kern)54 Ciò che accomuna cani e donne nell’immaginario maschile greco è il sospetto che entrambi non siano come ci si aspetta che siano, come il modello culturale vuole che siano. L’uomo teme sempre che da un momento all’altro essi possano rivelare il loro “vero” volto: su entrambi grava il dubbio che la loro “vera” natura possa rompere i limiti posti faticosamente dalle strategie culturali e dilagare in tutta la sua travolgente alterità. Da creature indispensabili, fedeli, inseriti pienamente nell’ordine della società, cani e donne possono trasformarsi in molesti intrusi, in esseri odiosi che, nonostante la loro inferiorità, osano ribellarsi, aspirare a un’autonomia che non gli è propria, addirittura al potere, mutare spontaneamente alleanza e arrivare al tradimento. Proprio da queste inquietudini e timori diffusi nascono le varie “maschere di cagneria” femminile: dubbi profondi e moniti di diffidenza sulle capacità di tenuta dei modelli culturali ideali del cane e della donna.55 53 Nulla è più terribile e più cane di una donna. Orphicorum fragmenta, Otto Kern, Weidmann, Dublin/ Zűrich, 1922. 55 C. Franco, op. cit, pag. 261. 54 31 Ma perché tra tutte le testimonianze di connessione simbolica tra donna e cane prevalgono quelle di carattere negativo? Per rispondere a tale quesito è necessario introdurre un principio sociologico che vale anche per l’antichità: solitamente si tende a parlare dei subordinati e dei sottomessi solo nel momento in cui questi deludano le aspettative. Nella Grecia antica le donne erano destinate al silenzio, non solo perché non potevano parlare (era imposto loro di rimanere relegate in casa e potevano varcare l’uscio della propria abitazione soltanto in occasioni particolari, quali funerali o feste religiose; si occupavano quasi esclusivamente della gestione domestica e della crescita dei figli), ma anche perché non era bene che si parlasse di loro; per parafrasare le celebri parole di Pericle,la massima fama per una donna virtuosa consisteva nel non avere alcuna fama . 56 La virtù dei subordinati consiste nel compiere i propri doveri senza clamore: non azioni eclatanti o vittorie prestigiose (evidentemente riservate all’¢ret» maschile), ma moderazione e autocontrollo nell’eseguire ciò che viene affidato. Sia sull’immagine del cane che su quella della donna gravava però un grande sistema di attese: si richiedeva loro di rispondere, con i propri comportamenti, all’ideale normativo che li vedeva obbedienti, docili, disposti a riconoscere sempre e di buon grado l’ autorità e la superiorità del loro tutore o padrone e legati a lui da una solidarietà esclusiva e incrollabile. A questo proposito, sembra opportuno ricordare che Aristotele nella classificazione delle virtù57, opera una distinzione tra quella “padronale”, la virtù caratterizzante dell’uomo maschio, e quella “servile”, tipica della 56 Tucidide, 2. 45. 2; Il non essere più deboli di quanto comporta la vostra natura sarà un grande vanto per voi, e sarà una gloria se di voi si parlerà pochissimo tra gli uomini, in lode o in biasimo. Trad. di Franco Ferrari, Milano, Rizzoli, 1985. 57 Politica, 1260a. 32 donna e del subordinato: quest’ultima consiste nella capacità di dominare gli impulsi e nella docile obbedienza, qualità- cardine della swfrosÚnh femminile. Una delle eroine che meglio incarnano il concetto di swfrosÚnh, ricordata da Eliano nel suo trattato sugli animali proprio all’inizio del paragrafo dedicato alla filostorg…a (lo straordinario amore che i cani sono in grado di provare per i loro padroni), è Evadne, la donna che si uccise gettandosi sul rogo funebre del suo sposo Capaneo, non essendo in grado di sopportare l’idea di sopravvivergli.58 Ma come tutte le costruzioni culturali, anche quella del cane e quella della donna non potevano essere statiche e nel caso essi si comportassero male producevano una reazione risentita, attirando sull’intera loro “razza” (sulla loro figura culturale) l’odio e la diffidenza dell’uomo.59 2.1. Clitemnestra come Elena: cagne traditrici. Il secondo passo che viene preso in considerazione nella presentazione iniziale si trova all’interno del secondo episodio della tragedia: - vv. 606- 607 guna‹ka pist¾j d' ™n dÒmoij eÛroi molën o†anper oân œleipe, dwm£ton kÚna. 58 59 Eliano, La natura degli animali, 6, 25. C. Franco, op. cit, p.260. 33 E, tornando, possa trovare nelle stanze la moglie fedele al proprio uomo come dunque l’aveva lasciata, come una cagna domestica. In questi versi Clitemnestra, le cui parole si interpongono nel dialogo tra l’araldo e il Coro, definisce se stessa fedele come una cagna domestica, proprio perché vuole dare un’immagine di sé come di una donna affezionata al marito e ai suoi amici, ostile ai suoi nemici: donne e cani devono essere prima di tutto f…loi del maschio-padrone: appartenendogli, devono condividere completamente le scelte dell’uomo da cui dipendono. Ma, comportandosi da cattiva moglie, Clitemnestra si è comportata da kÚwn infedele perché ha tradito “l’alleanza” ed è passata dalla parte di Egisto. Inoltre le parole della regina comportano la rappresentazione di una ambiguità linguistica e psicologica: il problema di Clitemnestra non è quello di mostrare contentezza senza provare vera felicità, come era stato necessario fare ai membri del Coro, bensì dare una giustificazione esterna dell’euforia che si è impossessata di lei non appena ha visto avvicinarsi la possibilità di vendicarsi di Agamennone. In tutto ciò che la regina afferma, vi è una continua riserva mentale; la figura retorica dell’antifrasi guida il suo discorso e quando si confessa lieta, innamorata, fedele, sottomessa, si dice in realtà pronta alla vendetta, adultera, depositaria di un carattere demoniaco e di energie virili. Nuovamente si può tracciare un parallelo con Omero: in un celebre passo dell’Odissea, Clitemnestra è definita dallo spettro del defunto sposo 34 kunîpij60 , “dagli occhi di cane”, perché nulla si può immaginare di “più cane” (“kÚnteron“) - aggiunge Agamennone - di una donna che uccide il proprio uomo 61. Benché il termine kÚwn, che Clitemnestra adotta per qualificare se stessa, possa ricordare il cane Argo (si trova infatti nel medesimo contesto: il ritorno del “padrone”), invece il richiamo più esplicito risulta quello al personaggio di Elena nei poemi omerici. Non stupisce che Elena, la figurasimbolo del fascino femminile, moglie che si allontana dal marito per seguire un altro uomo (rapimento o seduzione?), venga associata alle caratteristiche canine62; ma, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, non è Menelao, il marito abbandonato, a chiamare kÚwn la moglie adultera, ma è proprio Elena a definire così se stessa63. Il problema dell’autodefinirsi cagna dell’Elena omerica potrebbe trovare una spiegazione, come ipotizza C. Franco64, nei tratti specifici che riguardano la posizione della donna adultera in Grecia: la legislazione greca (per quanto ci è noto) recepiva il principio della colpevolezza del seduttore, ma non concedeva altrettanta attenzione alla sanzione che colpiva la traditrice; la donna veniva concepita come oggetto passivo, non come soggetto dell’adulterio. Si può dunque ipotizzare che l’autodefinirsi kÚwn di Elena possa trovare una giustificazione nel carattere esclusivamente privato della sua colpa: in altre parole, a livello pubblico e politico, Elena non verrebbe chiamata in causa 60 v. 424. Per quanto riguarda il secondo termine, C. Franco ritiene corretto annoverare questo comparativo tra i cosiddetti derivati delocutivi, derivati cioè non da un sostantivo (“kÚwn”), ma da una locuzione (l’insulto “kÚon!”). 62 La natura ambigua di Elena, allietante immagine di perfezione fisica e presenza rovinosa, appare anche nel corale dell’Agamennone che evoca il suo arrivo a Troia (vv. 738-749). 63 Il., III, v. 161; III, v. 180; VI, v. 344; Od., IV, vv. 145 sgg. 64 C. Franco, op. cit., p. 199 sgg. 61 35 come imputata ufficiale (e per questo non viene mai insultata dai protagonisti maschili della vicenda), sono Paride e i suoi compagni i responsabili da perseguire e da punire ufficialmente65. - vv. 1227- 1229 neîn d' ¨parcoj 'Il…ou t' ¢nast£thj oÙk oŒden o‡a glîssa mishtÁj kunÒj, lšxasa k¢kte…nasa faidrÒnouj d…khn ¨thj laqra…ou teÚxetai kakÁi tÚcei. E il comandante della flotta, distruttore di Ilio non sa quali cose la lingua della cagna odiosa ha detto con volto ilare, come un’occulta rovina; e l’otterrà, per mala sorte. Questi versi mettono in evidenza le caratteristiche negative che vengono associate al cane, così da diventare una forma di insulto o ingiuria; qui Cassandra definisce Clitemnestra cagna odiosa e nuovamente viene sottolineata l’ambiguità della regina che, pur mantenendo allegria e letizia nel volto, è abile nell’arte della simulazione e dell’inganno. Il termine kÚwn usato come insulto viene spesso associato, nella Grecia antica, al concetto di ¢na…deia66, ossia mancanza di ritegno, di freno morale preposto a inibire qualunque comportamento eticamente censurabile; questo legame 65 66 Definiti “cagne” da Menelao in Il., XIII, v. 623. Trad. it. impudenza, sfrontatezza, sfacciataggine, spudoratezza. 36 tra la figura dell’animale e l’ingiuria potrebbe trovare una risposta, oltre che nella mentalità misogina di cui si è già parlato, nel fatto che il cane non è un animale completamente classificabile (non identico all’uomo, quindi nè completamente benevolo, né selvaggio e ostile) e di conseguenza spesso viene percepito con inquietudine e angoscia67. Non sembra essere un caso che per definire la rovina -'/Ath- di cui sarà causa Clitemnestra, il poeta abbia scelto l’aggettivo laqra‹oj, probabilmente, secondo C. Franco, connesso con l’epiteto la…qargoj68, attributo tipico del cane sornione. Questa immagine trova un’eco precisa in un altro passo eschileo69, nel quale Ate in persona (inganno divino mandato in funzione di rovina per l’uomo) si comporta come una cagna che fa le feste 70 e si offre di accompagnare i cacciatori verso le reti, ma per farceli cadere dentro. Ha osservato C. Mainoldi che l’uso dell’aggettivo usato da Cassandra mishtÁj può risultare ambiguo: infatti il genitivo presente nel testo deriva dal nominativo mishtÒj, », Òn (odiato, odioso, detestabile, che è connesso con il verbo misšw71), il quale ha chiare somiglianze fonologiche con l’altro aggettivo m…shtoj, h, on (scostumato, intermperante, impiegato talvolta al femminile come sostantivato: ¹ mis»th con il significato di prostituta72). È evidente che la Mainoldi ritiene che il pubblico ateniese cogliesse immediatamente questa sorta di “doppio-senso”. 67 68 E. Leach, Cambridge, pagg. 23-63. “Che morde di nascosto”. 69 .Aesch., Pers, v. 96 sgg. 70 sa…nw: scodinzolo, accolgo festosamente, adulo, inganno. 71 misšw, [m‹soj]: odio, detesto, disprezzo. 72 Archil., fr. 206 West. 37 2.2. Misoginia nei lirici: il Catalogo delle donne di Semonide di Amorgo. Uno tra i testi più significativi relativi alla misoginia greca (a cui in precedenza Esiodo aveva dato espressione sia con il mito di Pandora73 sia con varie istruzioni e precetti di vita pratica) è costituito dal famoso frammento 774 di Semonide di Amorgo, il più celebre tra i componimenti dell’autore pervenutoci, in cui mediante la tecnica omerica ed esiodea del catalogo75, vengono elencate puntigliosamente le varie specie delle donne che Zeus inviò all’uomo per affliggerne l’esistenza: ogni tipo di donna viene paragonata ad una specie animale (solo due vengono accostati, rispettivamente, alla terra e al mare) e sempre con tratti assai negativi, fatta eccezione per l’ultimo, quello della donna-ape, riservata e laboriosa, l’unica che valga la pena di sposare e l’unica che l’autore sembra disposto a salvare in questa maligna carrellata zoomorfa di tipi femminili. Se ci si sofferma sulla donna-cane (fr. 7, vv.13-20), risultano particolarmente significativi i primi versi: Quella che deriva dalla cagna, malvagia, tutta sua madre (aÙtom»tora), / che tutto vuole sentire e sapere,/ dappertutto perlustra, e vagando/ latra, anche se non c’è anima in 73 Hes., Theog., vv. 521-616. M. L. West, Oxford, 1992. 75 La struttura del “catalogo” compariva già in Omero, nel cosiddetto Catalogo delle navi (Il. II, 484-759) in cui si ricorda provenienza, entità e guida dei contingenti navali che partirono per Troia, e poi nel Catalogo delle donne o Eòiai (dall’inizio del verso formulare ½ o†h... “o quale…”con cui si apre ogni singolo episodio del poema), attribuibile a Esiodo, in cui vengono celebrate stirpe, azioni e discendenza delle donne dell’età eroica. 74 38 vista….76. Ha notato C. Franco77 che qualunque sia il valore preciso da attribuire al misterioso epiteto aÙtom»tora (tutta sua madre, tutta madre, proprio una madre)… è indubbio che esso abbia un valore denigratorio e che la connessione fra cagna e maternità orientasse l’immaginario prevalentemente verso figure di donne non proprio esemplari. In realtà, il paragone o l’assimilazione con il cane è una forma di insulto usuale. Solitamente la cagna, come si è detto sopra, è accusata di ¢na…deia, ossia di sfrontata inverecondia; la donna-cagna nel frammento simonideo non sembrerebbe avere specifici tratti di impudicizia, a meno che questi non siano contenuti nell’aggettivo aÙtom»twr: simili formazioni del dimostrativo aÙtÒj individuano di solito una stretta correlazione, o identità, con il sostantivo che forma la seconda parte dell’aggettivo (per esempio, aÙt£delfoj, che è del proprio fratello; e, più avanti, nello stesso testo semonideo si trova un altro composto aÙtÒkwloj78 tutta gambe, tutta pelle e ossa) tuttavia, a somiglianza del più tardo aÙtop£twr che genera da sé, l’aggettivo potrebbe significare qualcosa come che è madre da sola, senza un marito, indicando con ciò un’attitudine impudica79. 76 Trad. di A. Aloni. C. Franco, op. cit., p. 210-211. 78 v.76. 79 A. Aloni, Milano 1993, pag. 124. 77 39 Capitolo 3. Egisto e Agamennone. 3.1 Egisto “o„kourÒj”. All’inizio del terzo episodio il coro saluta, con un passo in anapesti, Agamennone, senza tacere la propria disapprovazione di un tempo per l’impresa troiana, ma soprattutto alludendo velatamente ai germi di malgoverno sviluppatisi in sua assenza nella città: - vv. 795-798 Óstij d’ ¢gaqÕj probatognèmwn, oÙk œsti laqe‹n Ômmata fwtÕj t¦ dokoànt’ eÜfronoj ™k diano…aj Ødare‹ sa…nein filÒthti. “ Ma a chi conosce bene il suo gregge non possono sfuggire gli sguardi di un uomo che, pur sembrando venire da un uomo benevolo, blandiscono con affetto annacquato” Come ha sottolineato R. M. Harriott80, in questi versi il riferimento ad Egisto è velato e implicito; il coro diventa una sorta di profeta che conosce la sorte di Agamennone, ma non può fare nulla per impedire che si compia 80 R. M. Harriott, Cambridge 1982 pp. 9-17,. 40 il corso degli eventi. L’unico modo che ha il coro per evitare che i crudeli disegni dei due amanti si realizzino consiste nel provare a dare al sovrano qualche consiglio e avvertimento su ciò che sfugge ai suoi occhi: Egisto è in realtà un usurpatore che, attraverso adulazioni e inganni, è disposto a tutto pur di sottrarre all’eroe argivo il regno e la moglie. Al v. 798 è presente l’infinito sa…nein riferito ad Egisto: il verbo significa letteralmente scodinzolare, dimenare la coda, fare le feste, atteggiamenti tipici del cane; tuttavia il suo significato metaforico è adulare, blandire, lusingare, oppure addirittura ingannare (come spesso accade quando si attribuisce una connotazione negativa al comportamento del cane). Un interessante riferimento intertestuale viene offerto dalla II Pitica di Pindaro81, ove viene celebrata la vittoria equestre di Ierone di Siracusa: nell’epinicio il poeta sviluppa il tema della giustizia e della maldicenza, loda Ierone e parla per contrappasso del mito di Issione, il folle che tentò di violentare Era e perciò venne incatenato ad una ruota che eternamente vaga nell’aria; condanna inoltre, negli ultimi versi, l’inganno e l’adulazione che vengono utilizzati nei confronti di un uomo di potere e si dissocia dall’atteggiamento del cittadino infido82 che adula tutti83. Come ha notato Harriot84: Aeschylus has turned the epinician convention to clever use in Agamemnon’s scene, solving the problem of composing an address to the 81 vv. 82-85. dÒlion ¢stÒn: v. 83 83 sa…nwn potˆ p£ntaj: v. 83. 84 Op. cit., p. 12. 82 41 king whose hints will be theatrically effective from the audience’s point of view without alerting the victim to Clytemnestra’s intentions85. - vv.807- 809 gnèshi de crÒnwi diapeuqÒmenoj tÒn te dika…wj kaˆ tÕn ¢ka…rwj pÒlin o„kouroànta politîn. E con il tempo saprai, dopo esserti informato, quale dei cittadini secondo giustizia e quale inopportunamente ha custodito la città. Le caratteristiche “canine” del figlio di Tieste, in questo passo, sono presentate come strettamente legate all’azione espressa dal verbo o„koure‹n86. Come si può evincere dalla lettura di questi e dei seguenti versi, il verbo (o„koure‹n) e il sostantivo ad esso connesso (o„kourÒj) vengono usati in senso dispregiativo, con l’intenzione di rappresentare l’amante di Clitemnestra come un uomo pavido e vile, che non ha il coraggio di affrontare le vicende della guerra. Infatti Egisto è definito come colui che ¢ka…rwj o„koure‹ proprio per questo motivo: a differenza degli eroi Eschilo ha trasformato la convenzione dell’epinicio in un uso intelligente all’interno della scena dell’Agamennone, risolvendo il problema di creare una formula di saluto al re (Egisto) le cui allusioni risultino teatralmente efficaci per il pubblico, senza però avvisare la vittima sulle intenzioni di Clitemnestra. 86 Proteggere, custodire la casa, stare in casa. Metaf: Stare inoperoso, ozioso. 85 42 dell’epos, che si comportano eroicamente, affrontando il rischio della morte durante le battaglie e che, di conseguenza, agiscono dika…wj (in modo giusto, secondo l’etica eroica), egli rimane in patria, lontano da ogni pericolo, come una donna o una guardia di palazzo, del tutto privo della preoccupazione per il giudizio dei compagni e dei concittadini, che si attenderebbero da un guerriero un comportamento rispondente alle norme fissate da un severo codice d’onore non scritto, che non si può trasgredire senza incorrere nell’accusa di viltà. vv. 1224-5 ™k tînde poin£j fhmi bouleÚein tin£ lšont’ ¥nalkin ™n lšcei strwfèmenon o„kourÒn, o‡moi, tîi molÒnti despÒthi Perciò io dico che medita vendetta una specie di leone imbelle che si avvoltola nel letto, custode, ahimè, della casa, contro il signore che è tornato Qui Egisto è presentato come un leone senza forza, un leone privo della sua natura reale; un debole, che rimane in casa, proprio come una donna che custodisce il talamo del marito. La definizione leone imbelle si caratterizza, secondo l’opinione di C. Battistella87, almeno a una prima analisi, come paradossale ed è stata proprio questa sua presunta contraddittorietà, marcata dall’ossimoro, ad attirare l’attenzione degli studiosi. Il sostantivo leone applicato ad Egisto si configura come most unexpected per DennistonC. Battistella, Egisto “imbelle leone”: un caso di intertestualità in Aesch. Ag 1224 in Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 54 (2005), pp. 179-184. 87 43 Page88, per il fatto che a breve distanza essa è impiegata anche per Agamennone89; c’è anche chi è intervenuto sul testo pensando a qualche corruttela e proponendo, come P. Maas, lÚkon lšontoj al posto del tradito lšonta ¥nalkin. Nonostante le incertezze di alcuni studiosi, sembra ragionevole accettare la lezione del testo tradito e, di conseguenza, riferire i versi a Egisto 90; anche C. Mainoldi91 considera senza esitazione le parole del corifeo come rivolte al figlio di Tieste: egli non è qu’un semblant d’homme, Eschyle arrive a dire qu’il est una femme… Appare manifesto il contrasto fra questi versi e il v. 125992, in cui il personaggio di Agamennone è definito da Cassandra lšwn eÙgen»j (non un leone snaturato, ma fiero della sua natura ferina), mentre Egisto è rappresentato sotto le sembianze di un lupo. Ora però, al fine di comprendere meglio il ruolo che Eschilo ha voluto affidare al pavido e crudele figlio di Tieste, è necessario delineare brevemente il ruolo e soprattutto il valore simbolico del lupo all’interno della tradizione greca. Nell’Iliade 93, Dolone, spia troiana uccisa da Ulisse e Diomede, decide di coprire il suo corpo con la pelle di un lupo grigio. Come suggerisce il nome stesso del guerriero, ciò che egli vuole perseguire è il dÒloj, un inganno per poter penetrare in campo greco; in seguito la 88 J. D. Denniston- D. Page, Oxford, 1957 v. 1259. 90 Cfr. anche le traduzioni di: Paul Mazon,Paris, 1968, E. Medda, Milano 1995, Monica Centanni, Milano 2007 91 Op. cit., pag. 133. 92 Questa leonessa a due zampe, che dorme con il lupo in assenza del nobile leone, ucciderà me sventurata! 93 10, vv. 332-340. 89 44 volontà ingannevole di Dolone sarà confermata dalla tragedia spuria Reso94 (sulla cui attribuzione ad Euripide nutrivano dubbi anche gli antichi: gli studiosi moderni tendono ad attribuirla a un autore ignoto del IV secolo a.C.), dove l’eroe stesso afferma di volersi “vestire” da lupo così da poter imitare i movimenti dell’animale e confondere e ingannare il nemico 95. Infine non sembra inutile ricordare la favola di Esopo96, in cui i lupi, grazie alla loro grande capacità di cooperare, riescono a sconfiggere i cani. La connotazione del lupo come creatura violenta, ingannevole, traditrice e cooperatrice a scopo malvagio è la medesima presente nell’ Agamennone al v.1259, a cui si è accennato sopra, in cui Cassandra definisce Egisto un lupo, alludendo al modo utilizzato per uccidere Agamennone: con l’ inganno e grazie alla cooperazione con Clitemnestra l’uomo ha potuto portare a termine il delitto dell’eroe protagonista della tragedia. Lo statuto di Egisto, come si è potuto evincere da queste ultime constatazioni, è ambiguo come ambigua è anche la sua natura umana; anzi, come sostiene Heath97, he is triply unnatural. A human who is a beast. A man who is a woman. A «king» who knows nothing of war98 vv. 1625-6 gÚnai, sÝ toÝj ¼kontaj ™k m£chj mšnwn o„kourÕj eÙn¾n ¢ndrÕj a„scÚnwn ¤ma ¢ndrˆ strathgîi tÒnd’ ™boÚleusaj mÒron ; 94 vv.204-215 G.S. Kirk,Cambridge 1993. 96 343 Perry 97 J. Heath 1999 pp. 17-47. 98 Egli è tre volte innaturale. Un uomo che è una bestia. Un uomo che è una donna. Un “re” che non sa nulla della guerra. 95 45 O donna, tu che hai oltraggiato coloro che sono appena tornati dalla battaglia e insieme il talamo del marito, tu, custode della casa macchinasti tu questa morte per il capo dell’esercito? Questi versi sono di non facile interpretazione: infatti alcuni studiosi credono che siano rivolti a Clitemnestra, mentre altri ad Egisto. E. Fraenkel in Commentary99 riporta la lezione presente nei manoscritti (a„scÚnousa), e da ciò si potrebbe desumere che i versi siano riferiti a Clitemnestra. In seguito nel commentario vengono passate in rassegna e analizzate le diverse interpretazioni di alcuni studiosi relative ai versi sopra inidicati: Wellauer was the first to catch a glimpse of the truth, but he started from a wrong proposition («Clytemnestra non est in scena») 100 ; inoltre Fraenkel stesso spiega che i versi in questione non sono da riferire a Clitemnestra, non tanto per il fatto che la donna rimanga in silenzio davanti ad un’accusa tanto oltraggiosa da parte del coro, come ha ipotizzato Murray101 (Clitemnestram alloquitur, illa silet.102), ma piuttosto perché sarebbe erroneo pensare che ™boÚleusaj sia riferibile alla regina: R. Enger103 sostiene che il destinatario dei versi sia Egisto poiché Aegisthus, non Clytemnestra, ™boÚleuse mÒron, Clytemnestra caedem perfecit, machinatus est Aegisthus104. Infine l’insigne Wilamowitz105 adotta una lezione diversa del 99 E. Fraenkel Agamemnon, Oxford 1950. Fu il primo ad avere una vaga idea della verità, ma egli parte da un presupposto sbagliato (Clitemnestra non è in scena) . 101 S. Phil. 1066 sqq 102 (Il coro)Si rivolge a Clitemnestra, quella (riferito a gÚnai del verso 1625) sta in silenzio. 103 16, Jahresbericht des Gymnasiums zu Ostrowo, 1861. 104 Egisto, non Clitemnestra, ™boÚleuse mÒron, Clitemnestra porta a termine la strage, l’ideatore è Egisto. 105 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Berlin, 1914. 100 46 testo106 e, a differenza degli altri studiosi sopra citati, sostiene che l’idea di uccidere Agamennone sia di Clitemnestra, non dell’uomo; egli parafrasa i versi 1625 sgg. in tal modo: “hast du zur Schande fűr das Heer und zugleich deine Ehe schändend dem Feldherrn den Tod bouleÚsasa gegeben, d.h. nimmst du dem Buhlen die boÚleusij ab?”107. Nel suo commento critico, Fraenkel afferma che è impossibile che si tratti di un dialogo tra il coro e la regina per il fatto che, nei vv. 1614-15, rivolgendosi ad Egisto, il coro dice: sÝ d’¥ndra tÒnde f¾ij ˜kën kataktane‹n, mÒnoj d’ œpoikton tÒnde bouleàsai fÒnon. Tu affermi di avere deliberatamente ucciso costui e di avere deciso, tu solo, questa miserevole strage. Dalla lettura di questi due versi emerge un concetto giuridico importante, sottolineato sia da Frankel, sia da Paul Mazon108: viene fatta una, seppur sottile, netta distinzione tra colui che agisce deliberatamente (˜kèn) e chi invece medita (bouleàsai) il delitto; inoltre in questo caso Egisto viene accusato di aver sia pensato, sia compiuto il delitto di Agamennone: non vi è alcun accenno a Clitemnestra. In secondo luogo, nota Fraenkel, from the point of view of dramatic structure it would be intolerable if the coryphaeus 106 gÚnai, sÝ mÊj ¼kontoj ™k m£chj nšon/ o„kourÕj eÙn¾n ¢ndrÕj a„scÚnousa ¤ma/ ¢ndrˆ strathgîi tÒnde bouleàsa mÒron. 107 Tu disonorando l’esercito e insieme il tuo matrimonio, hai meditato e dato la morte al comandante dell’esercito , ossia sottrai la decisione all’amante?. 108 Paul Mazon, Paris 1968. 47 broke away thus from the consistent line of arraignment of Aegisthus which extends from 1613 to 1648 ll.109 Lo studioso è quindi convinto che i versi 1625-27, pronunciati dal corifeo, siano rivolti all’amante della regina e, se si accetta la sua interpretazione del testo, Egisto viene mostrato come un uomo privo del tutto di forza e virilità, addirittura apostrofato come donna (mediante il vocativo gÚnai), una donna che nel letto attende il ritorno del marito. Sembra chiaro che Eschilo voglia così porre l’accento sul fatto che Egisto sia completamente privo delle caratteristiche eroiche che venivano contemplate nella “civiltà della vergogna”; non a caso, dunque, viene spesso accostato dall’autore al sostantivo o„kourÒj: l’uomo, come una donna o un cane da guardia, rimane in casa, inoperoso, preoccupandosi solo di se stesso. Come Agamennone, anche Egisto è un personaggio poco connotato, dominato dalla personalità di Clitemnestra: i suoi tratti salienti sono quelli tipici del tiranno da tragedia, un modello immediatamente avvertito come abominevole agli occhi dell’Atene democratica. Nella raffigurazione tragica, il tiranno è infatti un Øbrist»j, un uomo che incarna il concetto stesso di dismisura, un uomo avido di potere e insieme pauroso, empio, profittatore, disfrenato attentatore all’onore femminile 110 . La legittimità della sua morte è fuori discussione: è stato un atto di giustizia. Per completare ciò che si è detto relativamente alla figura di Egisto, si è creduto opportuno ricordare anche quanto afferma il personaggio nel sesto episodio durante il duro scontro verbale con il coro: egli compare sulla 109 Dal punto di vista della struttura drammatica sarebbe incomprensibile che il corifeo spezzi il consistente la coerente lirica di accusa nei confronti di Egisto che si estende dal v. 1613 al 1648. 110 D. Lanza, Torino 1977 48 scena dando rilievo alla sua appartenenza alla stirpe degli Atridi e appare come un punto di passaggio necessario nel compiersi di una vendetta che attraversa le generazioni. Ha notato U. Albini 111 : Egisto non è un usurpatore senza scuse, un criminale con le mani lorde di sangue: le sue argomentazioni pesano, anche se il coro non intende prestare attenzione alla sua voce […]. La rievocazione dei fatti condotta da Egisto è macabra, raccapricciante, si snoda lenta, ripercorre tutte le tappe: accoglienza di Tieste nella reggia di Atreo, allestimento delle turpi mense, banchetto, improvvise certezze, rovescio di stomaco, furia fisica, imprecante maledizione, esilio. È un racconto livido e gonfio di rancori di un’esperienza non vissuta in prima persona […]. L’omicida non è dunque l’amante della regina, ma il figlio di Tieste. La convinzione con cui Egisto rivendica il proprio diritto ad uccidere Agamennone è talmente forte da attirare su di lui tutta l’indignazione del coro. Ne nasce uno scontro durissimo, con la minaccia, da una parte e dall’altra, di impugnare le armi. Solo l’intervento di Clitemnestra riesce a placare la collera di Egisto, nuovamente intenzionato ad uccidere. E le meste parole della regina112 annunciano in lei una trasformazione di sentimenti, introducendo la figura che si troverà nelle Coefore. D’altra parte tutta l’ultima scena dell’Agamennone non è tanto una conclusione, quanto un ponte lanciato verso le Coefore: non solo per l’esplicita menzione di Oreste, il vendicatore auspicato dal coro113, ma perché già qui si preannuncia l’oppressione che graverà su Argo ad opera di Egisto e Clitemnestra, proiettando sulla loro uccisione anche la luce di un tirannicidio liberatore; e la stanchezza mortale 111 Interpretazioni teatrali, 3, Firenze, 1981, p.5. v. 1654:No, o carissimo tra gli uomini, non compiamo altri mali. 113 v. 1667: No, se il destino guidi Oreste a tornare qui. 112 49 di Clitemnestra, svuotata dal delitto al punto di appellarsi ora ad un discorso di donna114, prefigura gli incubi e i tormenti, in cui nella seconda tragedia prenderà corpo la sua consapevolezza di essere entrata nel ciclo di un destino immutabile e inflessibile. 3.2 Agamennone cane dell’ovile: l’ambigua accoglienza di Clitemnestra L’entrata di Clitemnestra sulla scena nel terzo episodio si automotiva con l’esigenza di accogliere il marito. Ma il suo discorso115, che formalmente dovrebbe essere di saluto, ha forti caratteri di ambiguità, e significativamente Clitemnestra per un lungo tratto del discorso si rivolge ai Vecchi del Coro, parlando del marito, che pure è presente, solo con l’uso della terza persona (con espressioni come costui e quest’uomo: oâtoj116 e ¢n¾r Óde117). La seconda persona nei confronti di Agamennone affiora “incidentalmente” solo nel prosieguo del discorso, quando Clitemnestra parla di Oreste (il pegno dei miei e dei tuoi giuramenti118). L’uso della seconda persona, poi, caratterizza tutta la sezione dei vv. 877-894. Un’espressione vocativa che si colloca nella dimensione dell’affettività (mio caro) si ha solo alla fine del discorso, e significativamente proprio quando la donna sollecita Agamennone a compiere l’atto sinistramente ominoso di calpestare i tessuti rossi. Sono qui presentati i versi adulatori 114 v. 1661: Questo è un discorso di donna, se qualcuno vuole riconoscerlo. vv.855-913. 116 v. 860. 117 v. 867. 118 v. 878. 115 50 con cui la regina si rivolge al marito, paragonandolo ad un cane che ha il compito di proteggere l’ovile. - vv. 895 – 901 nàn, taàta p£nta tl©s’, ¢penq»twi fren… lšgoim’ ¨n ¥ndra tÒnde tîn staqmîn kÚna swt»pa naÕj prÒtonon, ØyhlÁj stšghj stàlon pod»rh, monogenej tšknon patr…, ÐdoipÒrwi diyînti phga‹on ∙šoj, kaˆ gÁn fane‹san naut…loij par’ ™lp…da, k£lliston Ãmar e„side‹n ™k ce…matoj. Ma, ora, dopo avere sofferto tutto questo, col cuore senza più affanni io proclamerò quest’uomo cane dell’ovile, gomena salvatrice della nave, salda colonna di alto tetto, unico figlio nato dal padre, terra apparsa ai naviganti contro speranza giorno bellissimo a vedersi dopo tempesta. Come ha affermato Oliver Taplin119, una delle funzioni di Clitemnestra nell’Agamennone è di essere la padrona della soglia: ritta davanti alla porta della reggia, regola secondo la sua volontà l’entrata e l’uscita dei personaggi, segno dell’oscuro potere che esercita su di loro. E’ lei a dominare la scena con la sua energia, con le sue parole ambigue e cariche di 119 O. Taplin, Berkeley 1978. 51 violenta passione. Lo stesso Agamennone appare come un uomo stanco, sovrastato dalla moglie, che accetta, come ipnotizzato, di fare quanto essa gli chiede. La distanza psicologica fra i due personaggi si misura anche nel fatto che Eschilo scrisse la parte di Clitemnestra per l’attore protagonista, mentre quello di Agamennone per il secondo attore120. L’ambiguità, propria di tutti i discorsi di Clitemnestra, acquista nelle parole di saluto rivolte ad Agamennone un più sinistro significato: tutti, Clitemnestra e il pubblico, sanno quello che sta per avvenire; lo stesso Coro ha più volte espresso timori retrospettivi in uno stato di continua ansia. Solo il re nulla sa e nulla teme: rivela di essere del tutto inconsapevole di quel che si prepara a suo danno, risponde con misura e manifesta tratti di assoluta moderazione e saggezza. Nei versi presi in considerazione, la regina sembra voler riconsegnare a lui la supremazia che si addice ad un re (lo definisce, non senza ironia, cane della reggia, gomena salvatrice della nave, saldo pilastro di un alto tetto). L’immagine del cane da guardia, che conferisce sicurezza alla casa, si unisce in questo contesto alle immagini parallele della gomena che salva la nave, e della solidità della colonna che dall’alto tetto giunge fino a terra121. D. Raeburn e O. Thomas122 inquadrano i versi sopra indicati nell’ambito di una vera propria proskÚnhsij da parte della regina nei confronti di Agamennone; sostengono che queste parole di venerazione siano associate alle pratiche che si svolgevano in onore dei sovrani orientali: mettersi in ginocchio, prostrarsi ai piedi dell’uomo, rialzarsi erano simboli di una 120 Di Benedetto-Medda, Torino 1997, p. 218. vv.895-898. 122 D. Raeburn- O. Thomas, Oxford 2011, p. 161. 121 52 sottomissione completa nei confronti del detentore del potere. Inoltre i due studiosi hanno notato la forte ironia che è sottesa alle metafore usate da Clitemnestra: Agamennone è cane dell’ovile, un cane, quindi, che ha il compito di difendere il bestiame dagli attacchi di predatori e bestie feroci; ma in realtà è noto che il sovrano non è riuscito a difendere del tutto né il regno né il suo matrimonio dalle mire esterne del nemico usurpatore, Egisto. La donna apostrofando il marito gomena salvatrice della nave, utilizza una metafora nautica che nasconde una maliziosa ironia, dal momento che sia gli spettatori che la donna stessa sono a conoscenza del fatto che Agamennone, durante il suo ritorno in patria, ha perduto molte navi in mare. 53 Capitolo 4. Cassandra. 4.1. La profezia di Cassandra: cagna che fiuta la strage. - vv. 1093-1094 œoiken eÜrij ¹ xšnh kunÒj d…khn eŒnai, mateÚei d' ïn ¢neur»sei fÒnon. Sembra aver buon fiuto la straniera, a guisa di cagna, e va sulle tracce di coloro di cui troverà la strage. In questi versi la profetessa Cassandra è rappresentata dal Coro come cagna che fiuta la strage e che rivela, nella sua visione profetica, ciò che gli altri non riescono a vedere; si noti come, però, l’immagine è giocata sull’ambiguità: la donna è insieme profetessa di Apollo123 e “ folle” visionaria, vittima addolorata che contempla in anticipo la propria imminente morte e cagna furiosa che annuncia la vendetta per i colpevoli. Secondo V. Di Benedetto 124 , tutta la parte dell’”Agamennone” che segue al terzo stasimo125 è dominata in larga misura dai due personaggi di 123 Secondo la tradizione, che Cassandra rievoca con le sue stesse parole, la fanciulla, custode del tempio di Apollo a Troia, aveva suscitato l’amore del dio e aveva promesso di accondiscendere ai suoi desideri, chiedendo in compenso il dono della profezia. Apollo glielo aveva concesso; ma poiché in seguito si era rifiutata, il dio si vendicò di lei condannandola a vaticinare sempre il vero, ma senza essere creduta mai. 124 V. Di Benedetto, Torino 1978 pp. 280 ss.; poi in V. Di Benedetto, Milano 1995. 125 vv. 975-1033. 54 Cassandra e Clitemnestra. In questa parte la problematica del “ p£qei m£qoj” è nella sostanza assente, e ciò che si pone invece con prepotenza in evidenza, appunto attraverso, essenzialmente, Cassandra e Clitemnestra, è la realtà del “gšnoj”, il senso di una sventura che pesa sulla stirpe e che si trasmette di generazione in generazione. Mentre, fin’ora, sostanzialmente, della vicenda della famiglia degli Atridi si è visto solo un segmento, che si incentra in Agamennone, ora Eschilo risale all’indietro e rivela allo spettatore che Agamennone porta con sé il peso di una sciagura di cui egli non è stato partecipe e che è cominciata nella stirpe precedente alla sua. Dunque a cominciare dal terzo stasimo il poeta introduce un motivo del tutto nuovo rispetto al p£qei m£qoj: il motivo della storia di una stirpe. Facendo un’operazione “difficile” e audace Eschilo vuole inglobare quest’ultima, vista come una successione di sventure, in un contesto eticodidattico (e questa operazione, secondo Di Benedetto, si prolunga per tutta la trilogia), attraverso il quale trasmettere un messaggio ben preciso agli spettatori. In altre parole il drammaturgo eleusino era convinto di poter stabilire una connessione profonda tra un ordine di idee etico-didattiche (il p£qei m£qoj appunto) e il motivo della “storia” delle sventure degli Atridi; e perno di questa connessione è il senso di paura che si sprigiona dal gšnoj come nesso di consanguinei e che trova la sua espressione concreta nelle Erinni- Eumenidi126. E la funzione di rivelare la stirpe degli Atridi tocca in 126 Nel secondo stasimo delle Eumenidi (vv. 517-19) viene teorizzata la necessità della paura come fondamento dell’ordine della polis e della giustizia: è bene che talvolta vi sia la paura (tÕ deinÒn); è bene che sul cuore degli uomini abbia il suo posto di guardia [… ].Il principio della paura viene poi teorizzato esplicitamente da Atena nel momento in cui si istituisce la procedura del voto per giudicare la sorte di Oreste (Eum. ,vv. 690-2); Atena raccomanda infine agli ateniesi di non eliminare del tutto la paura (tÕ deinÒn) dalla città ( Eum., v.698), poiché essa costituisce garanzia di giustizia. 55 prima istanza a Cassandra. Proprio per il fatto che la realtà della stirpe appariva, rispetto alla parte precedente dell’Agamennone, come qualcosa di inaspettato, riusciva molto appropriato che questa realtà venisse rivelata da una profetessa: essa erompe in un grande kommòs con il Coro127, in un succedersi di allucinanti e folgoranti visioni che, superando ogni confine temporale, evocano il passato, colgono e focalizzano l’atto più tremendo verso cui converge tutta l’azione, si proiettano nel futuro imminente 128. Dotato di grandiosa fantasia, uomo di teatro di consumata esperienza, Eschilo rappresenta l’evento verso cui è tesa l’azione, l’uccisione di Agamennone, come riflesso in uno specchio che ne rimanda immagini colte di scorcio e sapientemente tagliate; la delirante veggente rappresenta, nel magico specchio, la sua stessa fine, di cui ben conosce l’ineluttabilità. Il canto di Cassandra si estende per sette coppie di strofe: alle prime quattro il Coro risponde con coppie di trimetri giambici, quindi viene coinvolto anch’esso nel pathos della situazione, esprimendosi a sua volta in metri lirici. Dal v.1178 riprendono i trimetri giambici: ora Cassandra rientra in sé e chiarisce lucidamente i suoi vaticini, che prima erano balenati come enigmatiche e sintetiche allusioni, risalendo alla radice degli eventi che hanno installato nel palazzo la presenza delle Erinni. Tieste ha violato il letto del fratello, e questi si è vendicato sui suoi figli, che la profetessa vede seduti sulla soglia, le mani piene delle proprie carni. A sua volta il loro fratello sopravvissuto, Egisto, si prenderà vendetta su Agamennone, e la 127 vv.1072-1177. Per i Greci la superiore sapienza del profeta ispirato dalla divinità abbraccia il passato, il presente e il futuro in una conoscenza immediata e istantanea dei nessi causali che sfuggono all’uomo comune. 128 56 donna di costui sarà con lui, contro il marito. Anche per Cassandra è venuto il momento di morire, ludibrio di Apollo: ma un esule chiuderà la catena delle vendette. Essa si avvia verso la reggia per andare incontro alla morte129. La grande scena, la cui complessa struttura è pari all’intensità concettuale, rappresenta il centro del dramma: l’evento, la duplice morte di Agamennone e Cassandra, non è che un corollario, una conseguenza obbligata. In questo lungo brano dall’intersecarsi del piano fantastico, ricco di pathos, con quello logico-razionale deflagra la simultaneità di passato, presente e futuro, che appartiene al delirio profetico, ma in cui si esprime l’ineluttabilità del destino che ha preordinato questi avvenimenti. L’astrazione della norma etica si concretizza nelle orrende visioni di ciò che accade e accadrà: il motivo del sangue, anticipato nella scena del tappeto rosso, ora domina nella realtà della macchia indelebile. Adesso il coro sa a che cosa si riferivano le proprie angosce; il sacrificio di Ifigenia non era che un evento del ciclo di colpe, che gravavano sugli Atridi. La tragedia le comprende tutte, grazie alla concezione di un tempo scenico che assorbe il presente e il futuro nell’attimo decisivo. 4.1. La profetessa Cassandra e le capacità cognitive del cane. Ma in realtà non è la prima volta che Cassandra viene assimilata ad un animale: già ai vv. 1062-3 il Coro afferma: 129 vv.1178-1330. 57 ™rmhnšwj œoiken ¹ xšnh toroà de‹sqai: trÒpoj de qhrÕj æj neairštou. La straniera sembra aver bisogno di un acuto interprete i suoi modi sono di fiera testè catturata. In questi versi, precedenti rispetto a quelli sopra presentati, si nota un atteggiamento del Coro ben diverso: inizialmente la donna è dipinta come una visionaria folle che non è in grado di comprendere a fondo la realtà degli eventi, poi viene quasi ammirata per le sue capacità profetiche. Ma questo cambiamento di opinione avviene per un motivo: ai vv. 1090-3 (dopo che Cassandra ha “visto” un tetto che odia gli dèi, piuttosto, testimone di molti delitti/ fra consanguinei e decapitazioni,/macello d’uomini, luogo dal suolo insanguinato), il corifeo ammette: Deve avere buon fiuto la straniera, come un cane da caccia, e va sulle tracce di coloro dei quali troverà la strage; Cassandra subito dopo parla di bambini che piangono la loro uccisione,/ e le loro carni divorate dal padre130. È bastato il solo nome della stirpe di Agamennone per suscitare dinanzi agli occhi della profetessa orrende immagini di delitti e di sangue: ella rievoca infatti, in estrema sintesi, la nefanda colpa di Atreo che, uccisi i figli del fratello Tieste, fece in modo che il padre stesso si cibasse inconsapevolmente delle loro carni. A questo punto il corifeo non può nutrire dubbi sulla veridicità della profetessa; perciò, intimorito da ciò che ella potrebbe ancora vaticinare, cerca di interromperla: Abbiamo sentito 130 vv. 1096-7. 58 parlare della tua fama di indovina, ma qui non cerchiamo profeti131. Appare evidente quindi che l’atteggiamento del Coro muta in relazione al fatto che la donna inizia a mostrare di conoscere gli eventi passati; infatti quando la donna parla di molti delitti tra consanguinei […] macello d’uomini, luogo dal suolo insanguinato132 sembra voler ricordare la lunga serie di crimini orribili che insanguinarono la famiglia degli Atridi: Atreo, insieme al fratello Tieste, assassinò il fratellastro Crisippo; Tieste, spinto dalla gelosia, sedusse Erope, sposa di Atreo e fu cacciato da costui; in seguito tentò di servirsi di Plistene, uno dei figli di Atreo, per assassinare il fratello, ma non vi riuscì; Atreo, dopo aver ucciso Plistene, simulò una riconciliazione invitando il fratello ad un banchetto dove gli servì i figli come cibi; scoperta questa atrocità, Tieste maledisse il fratello e tutta la sua discendenza. In seguito, la donna stessa parla di sé come colei che sundrÒmowj ‡cnoj kakîn/ ∙inhlatoÚshi tîn p£lai pepragmšnwn133: nuovamente la donna è accostata ad una cagna in grado di percepire e fiutare ciò che sfugge agli uomini mortali. Come si è potuto notare, Cassandra è un altro personaggio a cui è associata una metafora canina, più precisamente viene accostata al cane da caccia. Un’analisi che è in grado di mostrare il motivo di questa metafora è quella di C Franco134, la quale sostiene che il cane possiede la capacità di discernere e distinguere gli individui: Questa facoltà si manifesta anche 131 sarà appena il caso di ricordare il senso esatto del termine greco prof»thj, colui che parla a nome del dio. 132 vv. 1090-3. 133 vv. 1184-5: che correndo inseguo al fiuto le orme dei delitti antichi. 134 Op. cit. pag. 60. 59 normalmente con una distribuzione un po’ diversa rispetto a quella tipica delle capacità di percezione e discernimento umane; il cane è in grado di percepire e riconoscere anche ciò che l’uomo non vede: fiutando tracce, scovando prede nascoste, avvertendo presenze nel buio della notte. Già in Omero il tema della capacità cognitiva, fatta di acutezza sensoriale e coscienza dell’identità dell’oggetto percepito, accompagna significativamente l’ingresso di talune figure canine nel racconto; ecco il cane che riconosce il padrone anche dopo molti anni e nonostante gli si presenti camuffato135, ed ecco i cani che individuano l’invisibile presenza di una divinità136. Inoltre quello dell’intelligenza del cane era un tema produttivo per le esercitazioni raffinate di alcuni filosofi: il cane da caccia, ad esempio, veniva invocato come paradigma di razionalità sillogistica dai dialettici, per la sua capacità di scegliere tra molte la giusta traccia della preda, come riferisce Plutarco137. Inoltre un’antica tradizione, recepita da Empedocle, sosteneva che gli occhi chiari vedono bene di notte perché sono composti di fuoco138; ciò era importante per i cani da guardia, mentre quelli da caccia dovevano vedere bene di giorno, per cui si preferivano esemplari con gli occhi scuri 139. Più in generale la teoria ottica prevedeva che la capacità visiva dipendesse dall’incontro del fuoco all’interno dell’occhio con quello esterno della luce Odissea, 17, v. 301 sgg., dove il cane Argo è l’unica creatura di Itaca che riconosce Odisseo dopo vent’anni di assenza e, appena lo vede avanzare, lo saluta muovendo le orecchie e la coda; ibid., 16, v.4 sgg., dove i cani di Eumeo fanno le feste a Telemaco che sopraggiunge riconoscendolo come amico del padrone. 136 Odissea, 16, vv. 162 -3 dove Atena appare e sono in grado di vederla soltanto Odisseo e i cani: Odisseo sì la vide e i cani: e non abbaiavano, / ma uggiolando fuggirono dall’altra parte del chiuso. 137 De sollertia animalium, 13, 969b. 138 Aristotele, La generazione degli animali, 779b. 139 Senofonte, Cinegetico, 3.3 e 4.1. 135 60 solare140. Sulla base di queste informazioni C. Franco141 ritiene che la natura ignea degli occhi del cane faccia parte delle doti precipue dell’animale: il fuoco dello sguardo canino è così splendente da riuscire a illuminare la notte: per questo i cani ci vedono anche al buio… se il cane è un animale adatto a fare la guardia è perché i suoi occhi lucenti hanno in sé abbastanza fuoco da vincere le tenebre: non per nulla, lo si è visto, i cani da guardia li forgiava il dio del fuoco in persona, Efesto. Il tratto igneo dello sguardo è evidente elaborazione della luminosità degli occhi del cane che, come quelli del gatto, sono dotati del cosiddetto tapetum lucidum, uno strato posto nella parte posteriore dell’occhio in grado di sfruttare per la visione quantità di luce anche molto basse: è per questo motivo che gli occhi del cane brillano al buio142. 140 Platone, Timeo, 45b sgg. Op. cit. pag. 215. 142 D. Morris, Dogwatching, Crown, trad. It. Il cane. Tutti I perchè, Milano, Mondadori, 1988, pag.81. 141 61 Conclusione Come ha notato R. M. Harriot143 , il teatro greco è solito comunicare non solo verbalmente, ma anche attraverso posizioni assunte dai personaggi, movimenti del corpo e danze, che vengono esibiti con sapiente e studiata arte sulla scena; questa complessità di linguaggio si può trovare in alcuni personaggi - animali dell’ Agamennone: un esempio significativo è costituito dal guardiano (rappresentato, come si vedrà, accucciato sui gomiti come un cane144), che, nei primi versi della tragedia145, mediante un’antichissima espressione proverbiale146, sottolinea la necessità o la convenienza di tacere le orrende sciagure della casata di Micene. Nell’ Orestea diventa centrale la connessione tra senso di umanità e mondo “bestiale”: la trilogia dipinge infatti la nascita di una comunità democratica, l’evoluzione della giustizia dal primordiale desiderio di una vendetta sanguinosa, verso un civile sistema governato dalla giustizia umana e razionale. L’immaginario animale, all’interno di questo processo di evoluzione, diventa qualcosa di più che un mero ornamento retorico o una semplice metafora. Eschilo rappresenta nell’ Orestea una situazione sociale e politica che è quella della polis nella sua età primitiva, non ancora sviluppata e evoluta; e, all’interno di quest’ultima, gli animali non sono altro che creature insidiose, rappresentanti di una civiltà incolta e basata sulla “legge del taglione”: essa, davanti ad una ingiustizia, è in grado di rispondere solamente con altrettanta violenza e bestialità. Ma è proprio 143 R. M. Harriott,1982 pp. 9-17 v. 3. 145 vv. 36-37. 146 Un grosso bove sta sulla lingua. 144 62 l’istituzione della pÒlij che rende possibile all’uomo di evolversi, vivendo secondo norme e regole su cui si basano i rapporti sociali, e di allontanarsi dal caos che domina nel mondo degli animali. Queste figure animalesche sono presenti in tutta la tradizione letteraria precedente ad Eschilo (da Omero ad alcuni poeti lirici), ma in quest’opera teatrale l’autore si mostra pienamente in grado di riprendere alcuni modelli letterari, rielaborando o addirittura capovolgendo alcuni aspetti delle singole immagini. Già al v. 3147 dell’ Agamennone viene presentata una figura animale: il cane. Quest’ultimo verrà nel corso dell’opera più volte ripresentato in scena, ma spesso con connotazioni diverse tra loro; talvolta appare come una vedetta che attende il padrone (alcuni studiosi, tra cui M. Centanni148, hanno letto nel paragone del v.3 un’allusione all’esemplare fedeltà dell’animale, come anche nel desiderio urgente di toccare la mano del re149 viene evocato un atto convenzionale di devozione del sottoposto al proprio padrone150), in questa, come in altre situazioni, il cane richiama l’ambiguità151 e il tradimento; in altre ancora è legato al mondo degli Inferi152; in altri passi, infine, diventa simbolo di negatività e connota la lascivia e l’infedeltà della donna153. 147 Sul tetto degli Atridi, accovacciato come un cane. Eschilo, Le Tragedie, Traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, Milano, 2007. 149 v. 35 Che io possa dunque con questa mia mano toccare la mano diletta del signore delle case che ritorna! 150 Tuttavia non si è ritenuto opportuno accettare questa affermazione. 151 Su questa interpretazione sono conocordi tutti gli studiosi che si sono dedicati alla “cagneria” nell’Agamennone: cfr. pag. 21 sgg. 152 Cfr. pag. 19-20. 153 Cfr. pag. 26 sgg. 148 63 Bibliografia Centanni M., Eschilo, le tragedie, , Mondadori, Milano, 2007. Denniston J.D., Page D., Aeschylus, Agamemnon, Oxford, 1957. Del Corno D., Eschilo, Agamennone, Coefore, Eumenidi, trad. it. Di R. Cantarella, Mondadori, Milano, 1990. Mazon P. Eschyle, Agamemnon, Les Choéphores, Les Euménides, texte établi par Paul Mazon, Sociéte d’édition Les Belles Lettres, Paris, 1968. Medda E., Eschilo, Orestea, introduzione di Di Benedetto V., traduzione e note di Medda E., Battezzato L., Piattoni M.P., Rizzoli, Milano 1995. Wilamowitz-Moellendorff, Aischylos Agamemnon, Kessinger Publishing, 1885. 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