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I canti di Salomone Rossi e l'"invenzione" della musica ebraica

2017, Lombardia Judaica, a cura di Giulio Busi ed Ermanno Finzi, Firenze, Giuntina

Muoviamo da una considerazione presente nel review-article di Edwin Seroussi sulla monografia di Don Harrán dedicata a Salomone Rossi 1 : nel textbook storico-musicale di riferimento in uso nelle università occidentali, autori Grout e Palisca, Salomone Rossi non è affatto presente 2 . Questo dato di fatto lascia intravedere come la rilevanza della produzione di Rossi nel suo insieme, all'interno dello scacchiere della musica europea, non sia considerata paragonabile ad esempio a quella di Claudio Monteverdi, per non citare che un contemporaneo attivo nella stessa città, Mantova, grosso modo nei medesimi anni.

Stefano Patuzzi I CANTI DI SALOMONE ROSSI E L’“INVENZIONE” DELLA MUSICA EBRAICA Muoviamo da una considerazione presente nel review-article di Edwin Seroussi sulla monografia di Don Harrán dedicata a Salomone Rossi1: nel textbook storico-musicale di riferimento in uso nelle università occidentali, autori Grout e Palisca, Salomone Rossi non è affatto presente2. Questo dato di fatto lascia intravedere come la rilevanza della produzione di Rossi nel suo insieme, all’interno dello scacchiere della musica europea, non sia considerata paragonabile ad esempio a quella di Claudio Monteverdi, per non citare che un contemporaneo attivo nella stessa città, Mantova, grosso modo nei medesimi anni. E tuttavia, nei suoi Canti di Salomone (in ebraico Ha-shirim ’asher li-Shelomoh, editi a Venezia nel 1622/1623), compare per la prima volta l’espressione musiqah ‘ivrit, ossia “musica ebraica”. Ci si chiederà dunque quale sia il senso di questo nuovo conio, di questa straordinaria primizia terminologica, e dell’operazione che riassume. Si proporrà una lettura: che si tratti dell’esito di un raffronto e di un dialogo su un piano culturale e sociale, più che identitario. Nella fattispecie Salomone Rossi apparirebbe pertanto maggiormente significativo come testimonial – attraverso gli Shirim – dell’importazione e dunque dell’ebraicizzazione di un tratto significativo della cultura italiana non-ebraica che non per il valore compositivo in sé e per sé delle sue composizioni “ebraiche”; valore pur assai alto e nondimeno, quanto alla tecnica e ai modi compositivi, non particolarmente à la page o innovativo, anche quando paragonato ad altri segmenti, anteriori, della produzione rossiana. Cioè a dire D. HARRÁN, Salamone Rossi. Jewish Musician in Late Renaissance Mantua, Oxford UP, Oxford-New York 1999. 2 Si veda E. SEROUSSI, In the Footsteps of the “Great Jewish Composer”, «MinAd: Israel Studies in Musicology Online» 4 (2004): http://www.biu.ac.il/hu/mu/minad04/Rossirev.pdf (visitato il 19 novembre 2016). Il riferimento è a D.J. GROUT - C.V. PALISCA, A History of Western Music, 4a ed., Norton, New York & London 1988. 1 39 Stefano Patuzzi Salomone Rossi (Mantova, ca. 1570? - ca. 1630?) si formò e visse in una delle città ebraicamente più rilevanti della Penisola italiana, in un momento storico in cui quest’ultima ospitava la popolazione israelitica più numerosa d’Europa3. In effetti la Mantova ebraica stava vivendo, all’epoca degli Shirim, il suo momento di massima espansione demografica, dato che il nucleo originario, “all’inizio del Cinquecento, contava circa 200 persone, nel 1587 era quasi quintuplicato arrivando a 960 unità, per poi salire ancora rapidamente a 2325 nel 1610: siamo vicini, o forse addirittura oltre il livello veneziano, e di fronte a una delle quattro o cinque maggiori comunità dell’Europa occidentale”4. Com’è noto, gli Shirim di Salomone Rossi sono senza dubbio il primo caso a stampa di musica su testi in ebraico, sebbene nel paesaggio sonoro di Ferrara fossero già apparsi, attorno al 1605, alcuni brani polifonici su testi in tale lingua5. Nell’anno 5383 (ossia nel 1622/1623 secondo il computo corrente) videro dunque la luce a Venezia appunto I canti di Salomone. La stampa di queste trentatré composizioni vocali su testi in lingua ebraica presuppone la plausibile prospettiva commerciale di un certo gradimento e dunque di una verosimile diffusione nel circuito delle comunità; un aspetto che va inserito all’interno del più vasto contesto definito da David Ruderman come “esplosione della conoscenza”, ossia l’enorme impatto che il libro a stampa ebbe anche sulla geografia del sapere6. È infatti fuori dubbio che Cfr. R. BONFIL, A cultural profile (of the Jews in early modern Venice), in Cultural Change Among the Jews of Early Modern Italy, Ashgate, Farnham 2010, capitolo XII: p. 169. Stanno sullo sfondo di questo saggio, in modo imprescindibile, gli scritti musicologici di Israel Adler, Don Harrán, Edwin Seroussi, Massimo Torrefranca, Francesco Spagnolo e i lavori pertinenti di Roberto Bonfil, Vittore Colorni (molti dei quali ora raccolti in Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Giuffrè, Milano 1983) e Stephanie Siegmund. 4 R. SEGRE, La Controriforma: espulsioni, conversioni, isolamento, in C. VIVANTI (cur.) Storia d’Italia, Annali 11, I. Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Einaudi, Torino 1996, pp. 707-778:746. 5 Cfr. HARRÁN, Salamone Rossi cit., p. 203. 6 «The third and perhaps most significant element in defining an early modern Jewish culture I would call simply the ‘knowledge explosion’, and by this I primarily mean the impact of the printed book»: lo si legge in J. COHEN - M. ROSMAN (cur.), Jewish Cultural History in Early Modern Europe. An agenda 3 40 I canti di Salomone Rossi e l’“invenzione” della musica ebraica il costo dei manufatti librari e la migrazione dei testi a stampa, oltre ad altro, mise in crisi consolidate tradizioni locali, sviluppatesi nel corso dei secoli sulla base della committenza e della produzione di manoscritti7. Un dato singolare, per quanto attiene agli Shirim, è che la loro pubblicazione avvenne all’inizio del terzo decennio del Seicento, pochi anni prima del momento in cui l’editoria musicale italiana – e quella veneziana in modo particolare – avrebbe subito una forte battuta d’arresto8. Per quanto riguarda il terreno di coltura da cui sorsero I canti di Salomone, andrà rammentato come questi siano tra i frutti più eminenti prodotti in seguito all’istituzione del ghetto di Mantova, conclusasi nel 1612 per volere del duca Vincenzo I Gonzaga (1587-1612) dopo un processo di pianificazione e attuazione durato all’incirca un decennio9. Affiorano con forza, dai documenti d’archivio, alcuni elementi-chiave, riassumibili nella volontà di emulazione nei confronti del potere pontificio e nel desiderio di gestione ordinata dello spazio urbano. Da un punto di vista di gestione della presenza ebraica sul territorio di competenza è opportuno rammentare che, come in altri Stati italiani, anche nel mantovano non furono istituiti ghetti per gli ebrei che abitavano nelle zone rurali, né gli ebrei che risiedevano nel contado furono costretti a trasferirsi in città10. for Future Study, in Rethinking European Jewish History, Littman, Portland 2009, pp. 95-111:105. 7 E in effetti Adam Shear fa notare che «Moscato [...] stand[s], in the second half of the sixteenth century, at a transitional moment in the passage from a culture dominated by manuscripts to a culture dominated by print»: Judah Moscato’s Sources and Hebrew Printing in the Sixteenth Century: A Preliminary Survey, in G. VELTRI - G. MILETTO (cur.), Rabbi Judah Moscato and the Jewish Intellectual World of Mantua in the 16th-17th Centuries, Brill, Leiden-Boston 2012, pp. 121-142:138. 8 Cfr. L. BIANCONI, Il Seicento, EDT, Torino 1991, p. 85. 9 Sulle vicende relative al ghetto di Mantova si leggano le pagine pertinenti in S. SIMONSOHN, History of the Jews in the Duchy of Mantua, Kiryath Sefer, Gerusalemme 1977, così come il volumetto di L. CARNEVALI, Il ghetto di Mantova, Sartori, Mantova 1973. Numerose rappresentazioni grafico-catastali pertinenti sono raccolte in E. COLORNI - M. PATUZZI, C’era una volta il ghetto. Storia, immagini e guida di Mantova ebraica, Di Pellegrini, Mantova 2011. 10 In merito alle comunità ebraiche nel contado mantovano si vedano i documentatissimi volumi, di una serie in fieri, di E. FINZI: nello specifico La culla dei Finzi. Storia degli ebrei di Rivarolo Mantovano tratta dagli Archivi Notarili, Di 41 Stefano Patuzzi Si leggano dunque alcuni passi pertinenti dall’editto del duca Vincenzo I Gonzaga del 25 maggio 1610: Avendo noi con pio zelo e con l’esempio dei Sommi Pontefici et altri principi Cristiani, risoluto, per cause giustissime, di ridurre gli Hebrei abitanti in questa nostra città e sparsi in diverse contrade, ad un certo luogo, ossia ghetto determinato, et volendo con quella stessa pietà colla quale, ad immitazione della Santa Chiesa, li tolleriamo, che abbiano anche sito capace per i loro Negotii et competente abitazione, non tanto per il beneficio loro, quanto per la salute pubblica, il che si è veduto per esperienza, che non si può facilmente eseguire con le case del Recinto già assegnato, quando restasse nella forma che al presente si trova […]. Pertanto affine che questa santa opera non s’impedisca né si ritardi per l’incapacità dell’alloggiamento […] non volendo Noi uscire di quel recinto per non deformare la Città e rendere più angusta l’abitazione dei Cristiani […], abbiamo con maturo consiglio deliberato di procedere al bisogno, et alla convenienza del ben pubblico, di pigliare su Noi dai padroni delle case che sono nel detto recinto di proprietà di essi a livello perpetuo […]11. Si constata agevolmente come i punti fondamentali, siano (a) il precedente dei papi e di altri regnanti cristiani, dunque un criterio di ossequio ed emulazione, in primo luogo nei confronti della Santa Sede; (b) la “salute pubblica”, dunque un concetto riconducibile alla sfera della ragion di Stato, quantomai cruciale in quella fase della storia degli Stati italiani desiderosi di attestarsi a livelli alti di buon governo e (c) considerazioni relative alla gestione e alla struttura dello spazio urbano. Tutto ciò, dall’esterno guardando al ghetto. Da una prospettiva interna, invece – dunque quella della popolazione ebraica – il ghetto concretava uno spazio in cui vi era sì piena libertà d’azione, ma solamente nel tempo preciso e delimitato che andava dalla chiusura dei portoni fino alla riapertura mattutina. Non sorprendentemente, a ben vedere, era questo il tempo in cui attività specificamente ebraiche – anche in senso lato – avevano luogo: dunque rappresentazioni teatrali ed esecuzioni musicali, gesti di convenienza e vicinanza sociale, eccetera. Cruciale, in questa prospettiva, la consapevolezza che la chiusura dei portoni esterni portava dun- Pellegrini, Mantova 2013; Il giusto, come palma, fiorirà. Demografia ebraica sabbionetana (con saggi di M. BRIGNANI, S. PATUZZI, A. SARZI MADIDINI), Di Pellegrini, Mantova 2014; Così uguali, così diversi. Le comunità ebraiche di Viadana e Pomponesco, Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, Mantova 2015. 11 CARNEVALI, Il ghetto cit., pp. 35-36. 42 I canti di Salomone Rossi e l’“invenzione” della musica ebraica que con sé anche una trasformazione qualitativa dello spazio interno del ghetto, il quale veniva in un certo senso paradossalmente liberato: Gli ebrei potevano usare le strade del ghetto e gli spazi aperti per socializzare e festeggiare senza venire identificati, spiati, molestati o sorvegliati dalla folla dei cristiani e dalle autorità. [...] La notte era il momento opportuno per provare e mettere in scena rappresentazioni teatrali, oppure organizzare cori e concerti musicali12. Per questi e altri motivi, lungi dall’essere percepita esclusivamente come una misura punitiva nei confronti della popolazione ebraica cittadina, l’istituzione del ghetto normalizzò anche, da un certo punto di vista, tale presenza all’interno del tessuto sociale e urbano; in altri termini, per citare un passaggio icastico e cruciale di Roberto Bonfil, «l’ammissione degli ebrei nella società cristiana fu trasformata, per mezzo del ghetto, dall’essere eccezionale e innaturale all’essere usuale e naturale»13. Nell’epoca in cui visse Salomone Rossi, in altri termini, il “recinto degli ebrei” subì la trasformazione in ghetto ebraico: dunque il luogo in cui tradizionalmente risiedeva la maggioranza della popolazione ebraica cittadina si tramutò, dopo il 1612, in uno spazio ebraico. Lungi dall’essere un’espressione generica, questa è da intendersi come la designazione di un «contesto ambientale in cui avevano luogo eventi ebraici, dove venivano svolte attività ebraiche e che, da quelle stesse attività ebraiche, traeva forma e definizione […]»14. Si torni dunque a I canti di Salomone – tanto alle musiche quanto ai preziosi documenti, a corredo delle composizioni, che vennero inclusi nella stampa veneziana del 1622/23 – e si tenti di tratteggiare alcuni aspetti salienti dello scenario che, in essi e grazie ad essi, si delinea15. Una S. SIEGMUND, La vita nei ghetti, in VIVANTI cit., pp. 843-892:863. «The reception of Jews into Christian society was transformed by means of the ghetto from being exceptional and unnatural into being unexceptional and natural», R. BONFIL, Change in the cultural patterns of a Jewish society in crisis: Italian Jewry at the close of the sixteenth century, «Jewish History» 3 (2), September 1988, pp. 11-30. Riprodotto in ID., Cultural change among the Jews of early modern Italy, Ashgate, Farnham 2010, p. 18. 14 A. LIPPHARDT - J. BRAUCH - A. NOCKE, Exploring Jewish Space. An Approach, in EAED. (cur.), Jewish Topographies, Ashgate, Farnham 2008, pp. 2-23:4. 15 Faccio riferimento in questa sezione alla giustapposizione emic/etic: testo di riferimento originario è T.N. HEADLAND - K.L. PIKE - M. HARRIS (cur.), Emics and 12 13 43 Stefano Patuzzi lettura emic (ossia bottom up, dal basso verso l’alto: secondo la visione dei protagonisti di quella scena sociale e culturale) dei documenti acclusi agli Shirim mostra che il loro intento primario – dunque del rabbino Leon Modena, l’ideatore dell’operazione, di Salomone Rossi, il compositore, dei rabbini che firmarono il privilegio – era di stabilire, fors’anche dimostrare, la liceità della musica (in quanto “prodotto” originariamente ebraico) all’interno del mondo giudaico e anche del servizio sinagogale. In altri termini in tali documenti si sosteneva che la musica, originariamente una creazione ebraica, fosse stata poi sottratta a Israele dagli altri popoli e dunque – all’epoca di Salomone Rossi, dopo secoli – essa costituiva di fatto un brandello di cultura giudaica rimasto fra le genti16. Questa visione, per quanto storicamente infondata, era evidentemente necessaria all’operazione che rese possibili l’ideazione e la stampa degli Shirim: se si ammette un’origine ebraica della musica in genere, e dunque anche di quella cólta italiana ed europea del tempo, si pongono in effetti le basi per una riabilitazione della musica stessa all’interno dell’immaginario giudaico e rabbinico che la sentiva, acusticamente e non solo, come estranea. Sempre in una prospettiva emic la liceità della musica costituiva allo stesso tempo un mezzo di dignificazione sociale: un obiettivo già perseguito ad esempio attraverso gli abiti17. Un altro punto fondamentale è dato dal concetto stesso di “novità”, il quale affiora persino nel frontespizio stesso dell’opera, in cui si parla degli Shirim come di «hadashah ba-’aretz» («una novità sulla Terra», ci- Etics: The Insider/Outsider debate, Sage Publications, Newbury Park (CA) 1990. 16 Si trattava di una vulgata diffusissima in ambito ebraico: si veda per tutti D. HARRÁN, An Early Modern Hebrew Poem on Music in Its Beginnings and at the End of Time, «Journal of the American Musicological Society» 64/1 (Spring 2011), pp. 3-50:30. La qual cosa costituisce un parallelo esatto ad esempio di quanto affermato da Leone de’ Sommi nei suoi Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, “per cui la tragedia come genere letterario sarebbe stata un’invenzione della civiltà ebraica classica e la prima tragedia in assoluto sarebbe il libro di Giobbe, del quale la tradizione talmudica assegnava la composizione a Mosè”: R. BONFIL, Lo spazio culturale degli ebrei d’Italia fra Rinascimento ed Età barocca, in VIVANTI cit., Storia d’Italia cit., pp. 411-473:468. Un buon numero di passi commentati dei Quattro dialoghi si legge in G. PAVESI, Leone de’ Sommi hebreo e il teatro della modernità, Gilgamesh, Asola 2015, pp. 71-98. 17 Si legga, per tutti, A. TOAFF, La vita materiale, in VIVANTI cit., pp. 237263:257-261. 44 I canti di Salomone Rossi e l’“invenzione” della musica ebraica tazione da Geremia 31,21); concetto che viene ribadito anche negli scritti acclusi del rabbino Leon Modena, laddove scrive dei Canti come di «qualcosa [...] che non esisteva come tale in Israele», rimarcando che «non ci fu mai un inizio simile a questo in passato»18. Del resto, nel privilegio rabbinico che accompagna gli Shirim, si legge che Salomone Rossi, grazie ai suoi sforzi, divenne «’adam ha-rishon lehadpis musiqah ‘ivrit» («il primo uomo a stampare musica ebraica»)19 e Don Harrán fa opportunamente notare come si tratti della prima occorrenza di tale espressione. Ai nostri fini, quanto ora citato costituisce la prima accezione dell’invenzione a cui fa riferimento il titolo del presente saggio: Salomone Rossi inventa (ossia crea) la musica ebraica. Invenzione, pertanto, come creazione. Passando invece alla prospettiva etic (ossia top down, dall’alto al basso: osservando, dalla nostra ottica storiografica attuale, quegli avvenimenti del primo Seicento) s’impone un altro ordine di considerazioni. In primo luogo in merito ai caratteri che questa importazione, in ambito anche sinagogale, assumeva. Va premesso che, da un punto di vista compositivo e stilistico, gli Shirim di Salomone Rossi ammiccano sia alla musica profana coeva (il madrigale per tutti, sebbene non nelle sue vesti più avanguardistiche) sia alla musica sacra (per tutti il mottetto). Casi piuttosto emblematici sono da un lato il Qaddish, dal sapore e dalle movenze riconducibili a certa musica profana di inizio Seicento, dall’altro ad esempio ’Elohim hashivenu, il cui incipit presenta alcuni tratti contrappuntistici che ricordano da vicino quelli del mottetto di Orlando di Lasso (1532-1594) Cum essem parvulus20. È dunque lecito supporre che, anche ai contemporanei, l’ascolto attento e informato di quelle composizioni rinviasse con immediatezza ora alla sfera sonora del sacro cattolico, ora D. HARRÁN (cur.), Salamone Rossi, Complete Works, Part III, Sacred Vocal Works in Hebrew, vol. 13a, Hashirim ’asher lishlomo / “The Songs of Solomon”, General Introduction, American Institute of Musicology, Middleton 2003, rispettivamente alle pp. 180 e 182. 19 Ivi, p. 220. 20 J. JACOBSON, nel suo Defending Salamone Rossi: the Transformation and Justification of Jewish Music in Renaissance Italy, http://ism.yale.edu/sites/default/files/files/Defending%20Salamone%20Rossi.pdf (sito visitato il 19 novembre 2016) afferma con chiarezza che “Rossi even borrowed from the styles of Christian sacred music” e ravvisa un parallelo preciso nell’incipit del mottetto citato di Orlando di Lasso. Ringrazio Daniele Torelli per lo scambio di vedute su alcuni aspetti stilistici delle composizioni di Rossi che qui importano. 18 45 Stefano Patuzzi alla sfera sonora della musica di corte, genericamente profana. I Canti di Rossi hanno dunque anche a che fare, seppur indirettamente, con quella ristrutturazione dei confini sacro/profano che, secondo la lettura di Roberto Bonfil, proprio in quell’epoca cominciava a farsi strada non solo in ambito cristiano, ma anche ebraico21. Una simile lettura etic conduce dunque a un esito interpretativo piuttosto discosto dal precedente. Negli Shirim, infatti, figurano quali contrassegni degli ambiti a cui erano destinati (a) i testi e (b) la destinazione d’uso, in quanto da cantarsi in contesti sociali ebraici (non tutti, infatti, sono brani liturgici). Si giunge quindi alla seconda accezione: l’invenzione di cui si scrive costituì una fabrication, ossia una montatura, una contraffazione, seppur con un fine alto. Ci si trova infatti al cospetto di una creazione dal significato assai forzato, forte di una legittimità molto parziale o persino nulla. Per la prima volta, come detto, si incontra l’espressione “musica ebraica”, quando nella realtà si stanno importando e mutuando dal mondo non-ebraico dei modi compositivi, fra l’altro in modo piuttosto scoperto (si veda per tutti l’incipit citato di ’Elohim hashivenu). Da questo angolo visuale risulta quantomeno curioso, infatti, che la musiqah ‘ivrit – come vengono dette le composizioni di Rossi nel privilegio rabbinico – sia “ebraica” solo in un’accezione molto limitata: si tratta infatti, compositivamente, di una musica a tutti gli effetti della tradizione italiana sacra o profana (a seconda dei casi) e definita, ciononostante, “ebraica”. Non certamente per quanto attiene alla composizione o alle sue caratteristiche melodiche, ritmiche, contrappuntistiche, e via via: in modo più plausibile con riferimento ai testi, come detto, o alle destinazioni d’uso. Alla luce di questa dinamica di importazione, d’acchito si potrebbe parlare di influenza, fors’anche di emulazione della cultura di corte, nello specifico di quella gonzaghesca. Ma lo scenario complessivo induce a ritenere plausibile che ci sia altro e di portata maggiore, dato che il vettore di cui si è detto conduce dalla corte – e in determinati casi dalla cappella di corte – verso il ghetto o persino la sinagoga, dunque al cuore della sfera e comunitaria e del sacro ebraica. Un meccanismo ben spiegato, in una prospettiva differente e simile, da Roberto Bonfil: 21 Cfr. BONFIL, Lo spazio culturale cit., p. 469. 46 I canti di Salomone Rossi e l’“invenzione” della musica ebraica Sempre e dappertutto nell’epoca premoderna la cultura degli ebrei porta infatti nettissimo il marchio ambivalente tanto del senso della necessità e quindi dell’aspirazione a partecipare allo spazio dell’«altro», quanto alle difficoltà di farlo e quindi della tendenza a costringere il discorso culturale all’interno dello spazio ebraico. Questo stato di cose è naturale conseguenza della forte carica di religiosità inerente la percezione della cultura e pertanto della rigidità della definizione (ampiamente religiosa) del piano sul quale ha da prodursi il connubio fra cultura e società22. Sempre in quest’ottica, ma stringendo l’inquadratura alla figura di Salomone Rossi, è dunque senz’altro possibile leggerlo alla stregua di un mediatore “marginale”: Così, i pochi «eletti», che per vocazione o per necessità contingenti si avventuravano nello spazio esteriore, si attribuivano per lo più il compito di mediatori per l’importazione di temi, contenuti e forme di cultura, non di rado sotto forma di pura e semplice traduzione in ebraico23. Oltretutto, Salomone Rossi avrebbe importato all’interno del mondo ebraico la musica non-ebraica – tanto della corte quanto della cappella – come risultato di un desiderio di accogliere un tratto distintivo di fondo della cultura “altra”. Il principio è il medesimo della sineddoche, nella quale si invoca la parte (la musica polifonica) per il tutto (i più ampi tratti culturali e sociali peculiari del segmento di società (non-ebraica) che utilizzava questa musica quale contrassegno). Va da sé che tale dinamica di importazione va letta all’interno di una cornice, che travalica e di molto gli angusti limiti tecnico-compositivi di questa vicenda, nella quale il dislivello fra minoranza ebraica e maggioranza cristiana, quanto a status sociale e culturale, era palmare. L’operazione di ideazione, composizione, esecuzione e stampa degli Shirim dichiara quindi in ultima istanza una tendenza, da parte ebraica, non tanto assimilazionistica quanto piuttosto mimetica, imitativa nei confronti della società cristiana, mediante l’adozione della polifonia cólta di tradizione italiana, inequivocabile contrassegno della cultura ‘alta’ di quel periodo24. Ivi, p. 420. Ivi, p. 422. 24 Qualche assonanza di visione e metodo può essere ravvisata con lo studio di A. CASTALDINI, L’ipotesi mimetica. Contributo a una antropologia dell’ebraismo, Olschki, Firenze 2001; studio che affonda le sue radici nella teoria del “desiderio 22 23 47 Stefano Patuzzi Concludo. I canti di Salomone, se considerati tout court alla stregua di “musica ebraica” (come recita il privilegio rabbinico ad essi accluso) furono dunque l’esito di una duplice invenzione. “Invenzione” – specularmente – sia in quanto primizia, a stampa, di testi in ebraico musicati, sia in quanto i tratti della fisionomia compositiva dei vari brani sono in realtà mutuati dai generi compositivi sacri e profani della maggioranza non-ebraica (ossia cristiana e, nello specifico, cattolica) circostante. Proseguendo il tracciato di questa seconda accezione di “invenzione” è dunque possibile affermare che ciò che Salomone Rossi, Leon Modena e gli altri rabbini che a diverso titolo collaborarono all’iniziativa resero oggettivamente pubblico con gli Shirim fu un forte desiderio della minoranza ebraica di mutuare dalla maggioranza cristiana alcuni qualificanti tratti musicali e coonestarli. Una sorta di volontà di “essere-come” e tuttavia non tanto in termini identitari: va ribadito chiaramente che non pare fondata l’ipotesi che interpreti tali brani quali tasselli di una dinamica di assimilazione, dunque di progressiva perdita di identità da parte della minoranza ebraica. L’importazione in uno spazio ebraico di segmenti della musica sacra e profana maggioritaria dichiara semmai il desiderio di essere simili – ma solo parzialmente – al modello imitato, pur all’interno di una cornice di forte affermazione della alterità data dalla propria identità ebraica. Per tutti questi motivi I canti di Salomone costituiscono un caso paradigmatico di mimesi espresso da un campione della comunità ebraica di Mantova – e più in generale, è verosimile supporre, da certa parte delle comunità ebraiche italiane di inizio Seicento – nei confronti della società maggioritaria circostante attraverso il mezzo, seducente e invidiabile, della musica cólta polifonica. mimetico” formulata e via via affinata da R. GIRARD a partire dal suo Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Bompiani, Milano 1965. Ringrazio qui Giulio Busi per avermi invitato, in sede di dibattito, a soppesare le possibili, eccessive semplificazioni nell’eventualità di un’adozione esclusiva dell’approccio girardiano. 48