Letteratura e arti visive
Michele Cometa
1. Questioni di metodo
Nelle pagine che seguono si proporrà un catalogo delle
possibili interazioni tra letteratura e arti visive articolato
con qualche pretesa sistematica ma certamente consapevole che qualunque trattazione non corrisponderà alla
ricchezza e metamoricità degli oggetti di studio che qui
ci interessano. Si tratta infatti, per forza di cose, di una
tassonomia aperta ed incompleta e per un duplice ordine di ragioni. Da un lato infatti dovremmo saper deinire
con esattezza cosa è “letteratura” e, nel caso speciico di
questo secolare rapporto tra “arti sorelle”, non si tratta
evidentemente solo dei generi che tradizionalmente riconduciamo alla “inzione”. Nuovi generi e nuove forme
si sono affacciate via via in questo ambito. Si pensi solo
alla scrittura saggistica del Novecento o alla critica d’arte,
luogo di elezione del rapporto tra testo e immagine, cui
nessuno oggi vorrebbe togliere la dignità di letteratura (p.
es., Roberto Longhi). Nel tardo Novecento è poi cresciuta
la consapevolezza che anche generi apparentemente molto lontani dalla inzione, come la scrittura scientiica e ilosoica, hanno o possono avere qualità letterarie proprio
quando si confrontano sul terreno della descrizione delle
immagini e dell’esperienza visiva.
Sul primo termine si è, dunque, già suficientemente incerti, tanto più che ci si ostina ad usarlo al singolare tradendo la vera complessità di uno scenario, quello delle
letterature, che tiene insieme fenomeni molto diversi e
con forti asincronie sul piano storico e culturale. Anche
il secondo termine, “arti visive”, pone problemi di deinizione non indifferenti, perché già il contesto epocale in cui
ci muoviamo ci costringe costantemente a rivedere la nostra concezione di “arte”. Tradizionalmente quando parliamo di arti visive pensiamo alla pittura – ed oggi magari
alla fotograia – ma in realtà dimentichiamo espressioni
artistiche non meno importanti come la scultura, l’architettura o il fumetto. Il nuovo mondo delle immagini virtuali, i sincretismi dei new media, e le forme di artisticità
“diffusa” (dal video al videofonino) complicano ulteriormente lo scenario.
Il problema più grande dal punto di vista teorico lo pone
però proprio la congiunzione “e” del nostro titolo. Si tratta
di una particella che lascia immaginare una conciliazione,
un coordinamento tra i due termini: “arti sorelle” recita la
tradizione. Tuttavia sappiamo che questa “e” ha indicato
ed indica piuttosto un campo di battaglia, un confronto
fra i più cruenti della storia, soprattutto in Occidente, un
luogo dove si consuma, tra l’altro, una “tragedia familiare”, atteso che, appunto, nella storia della cultura occidentale letteratura e arte sembrano essere, semmai, delle
“sorellastre”.
Gli studi di visual culture contemporanei preferiscono infatti parlare ormai di uno scontro in campo aperto. Peter Wagner considera il confronto tra i due termini una
«guerra all’interno di un medium e tra i media»1, mentre
Tom Mitchell, il padre della Visual Culture americana, ha
decisamente parlato di «battaglia per un territorio»2. James Heffernan, uno dei massimi studiosi contemporeanei
dell’ékphrasis, ha interpretato questo conlitto come una
«battaglia tra i sessi», opponendo alla voce maschile («the
voice of male») di chi descrive la “femminilità” (passività?) dell’immagine che si lascia descrivere3. Già Susanne
Langer aveva profeticamente sentenziato: «non ci sono
matrimoni felici nell’arte – solo violenze sessuali ben riuscite»4.
Fatta questa premessa, va comunque sottolineato che in
questa sede si preferisce parlare di letteratura e arti visive
per sfuggire ad un rischio ancora più grande: su questi
termini, infatti, possiamo, almeno convenzionalmente,
trovare un accordo che tenga conto delle altezze cronologiche in cui ci muoviamo e della normazione dei generi
letterari e artistici così come essa si è data storicamente. Ben più complicata sarebbe la questione se, invece di
parlare di letteratura e arti visive parlassimo di “testo”
ed “immagine”. La comparatistica internazionale esibisce queste due parole – tipicamente “word and image” o
“Text und Bild” – con una certa disinvoltura, occultando
la profonda problematicità teoretica di questi termini e
anche la storia tutta “moderna” di questa opposizione.
Varrà dunque la pena anteporre al catalogo alcune considerazioni di principio che se non possono aspirare ad
esaurire tutte le questioni poste dall’immagine sul piano ilosoico, cognitivo e percettivo, possono per lo meno
sgombrare il campo da alcune fatali sempliicazioni che
ricorrono negli studi letterari sull’argomento:
1) si tratta innanzitutto di considerare preventivamente,
e non perdere mai di vista, la storicità di fenomeni che
chiamiamo “parola” e “immagine”, “letteratura” ed “arti
visive”, la loro relatività culturale all’interno di una determinata koiné. Come ha scritto Mitchell: «Una lezione
della semiotica generale è che, dal punto di vista semantico… [...] non c’è alcuna differenza essenziale tra testi e
immagini; l’altra lezione è che ci sono differenze importanti tra media visuali e verbali a livello dei segni, delle
forme, dei materiali per la rappresentazione e delle tradizioni istituzionali. Il mistero sta nel fatto che noi abbiamo
un’urgenza metaisica che ci spinge a trattare il medium
come se fosse il messaggio, che crediamo ovvio fare della
differenza tra questi due media un’opposizione metaisica che sembra controllare i nostri atti comunicativi e
che cerchiamo di superare con le nostre fantasie utopiche,
come l’ékphrasis»5;
2) si tratta dunque di rivedere l’idea che immagine e testo siano elementi “puri”, mentre – come ha ben spiegato
Mitchell – in realtà ci troviamo di fronte sempre a “mixed
media”: «Il problema di immagine/testo non è qualcosa costruito “tra” le arti, i media o le differenti forme di
rappresentazione, ma una questione inevitabile all’interno delle singole arti e dei singoli media. Detto in una
battuta: tutte le arti sono arti “composite” (sia testo che
immagine), tutti i media sono media misti (mixed media)
che combinano codici differenti, convenzioni discorsive,
canali, modi sensoriali e cognitivi»6. Persino la scrittura
più sublime si serve di un’“interfaccia” graica che attiene all’ambito del visuale. Lo stesso si potrebbe dire della
letteratura e delle arti igurative che mai ci si presentano
come pure entità. Ogni scrittura si serve di supporti, layout graici ecc., mentre le immagini sono spesso innestate in una trama testuale (basti pensare ai “titoli” delle
opere);
3) si tratta in in dei conti di decostruire alcune convinzioni di base della cultura occidentale. P. es. l’idea che il testo rappresenti e signiichi qualcosa di radicalmente altro
da sé, operi attraverso un’“illusione”, mentre l’immagine
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presentiichi un referente, aderisca alla cosa;
4) si tratta inine di tenere conto del fatto che testo e
immagine sono due forme del “discorso del potere” così
come esso si dispiega storicamente e che non a caso la
nostra cultura è attraversata dai fremiti di un rapporto
non risolto: quello tra iconoclasti e iconoili che ha enormi implicazioni, certamente per il campo delle arti visive,
ma che inisce per determinare anche la nostra idea di
letteratura.
Approssimiamoci dunque al catalogo, chiedendo venia a
priori per le necessarie sempliicazioni cui si dovrà ricorrere per i limiti di questa trattazione. Si tratta di un catalogo che vuole dare indicazioni su ciò che un comparatista cerca o dovrebbe cercare quando intende occuparsi di
letteratura/e e arte/i visiva/e, o più esattamente, si offra
come un “archivio” che raccoglie e contrassegna alcuni “oggetti” possibili della comparatistica e della teoria
letteraria. Esso si conigura come una strategia parziale,
un “colligere” che si dispiega secondo un ordine sempre
revocabile e che ha la sola funzione – come ha spiegato
Victor Stoichita7 a proposito delle collezioni e dei cataloghi di dipinti – di collocare nello spazio i vari oggetti di
cui si occupa.
Partire dal catalogo signiica comunque partire da possibili oggetti e non da principî. Del resto il Novecento è
costellato di dichiarazioni di principio sul rapporto tra
letteratura e arti visive che hanno mostrato via via i loro
limiti e talvolta la loro totale inadeguatezza. Restano certo
alcune pietre miliari che mette conto richiamare, se non
altro per cogliere le peculiarità storiche di una tradizione
di studi che ha attraversato tutto il secolo scorso. Si pensi
alla “wechselseitige Erhellung der Künste” (reciproca illuminazione tra le arti) di Oskar Walzel che già nel 1917
offriva una possibile ermeneutica di questo rapporto
usando un termine, Erhellung (illuminazione), che era
una delle tante metafore visive di cui è costellata la critica
letteraria. O alla Literary iconology (iconologia letteraria)
di Theodor Ziolkowski e di George P. Landow, termine
con cui si intendono spesso questioni assai differenti e
metodi di analisi non del tutto sovrapponibili8. Si tratta di
proposte ben diverse da quella di Tom Mitchell che preferisce una certo più classica “iconology” accentuando però
l’aspetto composto della parola “icono-logy”. Ancora più
complesso appare il lessico sviluppato a partire dal preisso “inter” presente nella parola “intermedialità” e, nelle
anglosassoni “interart relations”, “interartistic relations”
e “interart poetics”.
Per questo un catalogo appare un ottimo investimento, al
ine di stabilizzare parzialmente il lessico comparatistico.
Si proporranno quindi alcuni ambiti di ricerca che si possano distinguere in maniera suficientemente chiara, sia
sul fronte delle tradizioni critiche che li hanno sustanziati,
sia sul fronte, certo più decisivo, della loro genesi, circolazione e ricezione:
1) l’ambito del “doppio talento”, quella che in tedesco
opportunamente si deinisce Doppelbegabung, il territorio cioè deinito dalla presenza di autori “doppi”, pittori
e poeti insieme e, spesso, di opere altrettanto “doppie”, a
metà tra arti visive e letteratura. Nell’area anglossasone
si preferisce parlare di “double works” ponendo l’accento
sulla produzione inale piuttosto che sull’ispirazione iniziale, per quanto oggi non sia raro trovare anche “double
gifted”;
2) l’ambito tradizionale dell’“ékphrasis”, della descrizio-
ne delle opere d’arte, che ha sustanziato tutta la letteratura occidentale e non smette di affascinare i teorici di
discipline come la semiotica o la storia dell’arte, costretti
ad interrogarsi sui limiti tra il verbale e il visuale, ma soprattutto, perché l’ékphrasis è uno dei luoghi speciici in
cui, letteralmente, s’incarna lo sguardo dello scrittore (e
del lettore/ascoltatore);
3) l’ambito, davvero sterminato, delle “forme miste”, nella loro duplice declinazione: gli “iconotesti” e gli “iconismi”;
4) l’ambito inine delle “omologie strutturali” tra le forme
artistiche, le quali consentono – senza le sempliicazioni
del comparatismo dello Zeitgeist – un confronto geneaologico tra forme letterarie e altre produzioni mediali.
2. Doppi talenti
La prima forma di interazione è la grande famiglia di
produzioni ed esperienze artistiche che hanno a che fare
con il “doppio talento”9. Un panorama molto differenziato che va dal doppio talento esplicito di autori come William Blake, Dante Gabriele Rossetti, Günter Grass o Carlo
Levi, al doppio talento criptico, ma non per questo privo
di implicazioni poetologiche, di autori come Stendhal,
Zola, Dostoevskij o Antonine Artaud che non riescono a
concepire la loro scrittura se non accompagnandola con
disegni, schizzi e immagini. Se già l’esclusione dell’elemento visuale rendeva di fatto incomprensibile l’opera di
un Blake o di un Rossetti, l’eliminazione nell’edizione a
stampa di questi “margini” del testo sottrae all’interprete
spesso linfa vitale e, in alcuni casi, rende inintelligibile
la peculiare semantica dell’autore. Per non parlare del
caso, ancora più imbarazzante per una teoria letteraria
testolatrica affetta da una forma peculiare di strabismo,
di autori che, per quanto tendano a tenere distinti i due
talenti, risultano dificilmente comprensibili a partire da
uno solo dei due media. La critica e la teoria letteraria
sono infatti spesso il luogo di evidenti rimozioni. Solo a
fatica ci si abitua oggi ad ammettere che le opere di autori
come Peter Weiss, Friedrich Dürrenmatt, Dino Buzzati o
Günter Grass risultano solo parzialmente “comprensibili”
senza una “lettura” parallela delle loro opere pittoriche e
igurative.
Alcuni di questi autori, per altro, si sono sempre e costantemente immaginati come artisti igurativi, anche quando
il successo delle loro opere letterarie ha travalicato in termini di popolarità – e talvolta anche di qualità – le loro
performance igurative. Si pensi a Peter Weiss il cui esordio come artista, anche per via dell’esilio, è sostanzialmente pittorico e le sue visioni apocalittiche – stimolate
da Dante come da Otto Dix – precedono temporalmente
quelle letterarie. Un altro esempio di carriera pittorica
senza soluzione di continuità e specchio insostituibile per
l’interpretazione delle opere letterarie è quello di Friedrich Dürrenmatt. Consapevole sin dall’inizio di non poter divenire uno Zwitter si decide per la carriera letteraria. Tuttavia la sua produzione pittorica rimane il «campo
di battaglia» in cui maturano le sue idee letterarie, il setting mentale e materico, la messa in scena del “momento
pregnante” – per dirla con Lessing – che in un’immagine
sintetizza la storia o la psicologia di un personaggio.
Se è dunque necessario, e in alcuni casi obbligatorio, riscoprire la doppia vocazione di autori decisivi per la lette-
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ratura, si può tentare di distinguere almeno tre modalità
di questa relazione:
1) la “concrescenza genetica” propriamente detta, laddove cioè le due arti, i due media, collaborano, anche se in
diversa misura, alla deinizione di un unico mondo immaginale;
2) il dialogo che le due arti intrecciano, in cui l’una assume una sorta di dimensione metatestuale o metapittorica rispetto all’altra, esercita cioè una sorta di straniamento critico che consente al fruitore di cogliere aspetti
altrimenti non perspicui, una relazione che si insedia in
quel “punto cieco” in cui verbale e visuale appunto non
possono coesistere. In alcuni casi questo dialogo consente
all’autore di acquisire certezze poetologiche da spendere
sui diversi media.
3) inine il “patto autobiograico” che l’autore fa con se
stesso, cercando di autorappresentarsi nell’uno o nell’altro mezzo. La storia della letteratura ci insegna che questa è un’ossessione molto diffusa, come, per converso, la
storia della pittura è piena di “autobiograie” in forma di
parola, per non parlare delle “autobiograie visuali” di
autori con Hannah Höch o, più di recente Sophie Calle
che per altro si servono ormai soprattutto della fotograia
e del collage.
In sintesi si potrebbe immaginare uno schema di questo
tipo:
(Schema 1: Doppio talento)
Esistono dunque “doppi talenti” e “produzioni doppie”
anche se raramente si riesce a distinguere nei singoli autori tra le due vocazioni. Anche quando l’“altra” arte viene
rimossa, dimenticata o semplicemente considerata come
un divertissement (p. es. Schiller, Kafka, Dostoevskij) non
si può e non si deve escludere la profonda interazione che
comunque avviene tra le due visioni. Certo in autori come
Johann Wolfgang Goethe, William Makepeace Thackeray
o Henry Miller le due forme di espressione sembrano percorrere strade parallele, solo raramente intersecantesi, ma
è evidente che la “doppia vita” di questi artisti è poco più
di una convinzione psicologica, più o meno inconscia, e
che compito del critico è semmai vedere, al di là delle apparenze e spesso di gesti apertamente iconoclasti o iconofobi, la concrescenza delle due produzioni. Non bisogna
dimenticare che la separazione tra le due sfere è il lievito
da cui nasce la logica dell’“illustrazione” (delle proprie
opere come di opere altrui), com’è nei casi esemplari di
Wilhelm Busch e Dino Buzzati, non a caso impegnati nello
sviluppo del genere “fumetto” e anche di tutte le caparbie
riproposizioni di spazialità letterarie che si lasciano tradurre in spazialità igurali com’è tipico delle avanguardie
dadaiste e surrealiste. Si pensi alle “transizioni” consapevoli tra verbale e visuale in Hans Arp o Max Ernst.
Nell’Ottocento soprattutto si moltiplicano i casi di scrittori che decidono di “illustrare” le proprie opere, anche
grazie alla diffusione e sempliicazione delle tecniche
dell’incisione e della stampa. Nascono dei piccoli capolavori come le illustrazioni di Lewis Carroll al suo romanzo,
di Thomas Hardy, di Alfred Jarry, di Mark Twain o Paul
Valéry.
Ma ancor più che l’armonia tra le due “funzioni”, tra i
due media, è interessante studiare le signiicative dissimetrie tra le due vocazioni. Si pensi al caso straordinario
di Victor Hugo, certo un avanguardista pure nella sua
produzione letteraria – nonostante il clichè che lo vuole
scrittore del suo tempo – ma indubbiamente un visionario
sul fronte della produzione pittorica. Le sue “macchie”
e le sue “astrazioni” sono da studiare, molto più che Le
Chef d’oeuvre inconnu (Il capolavoro sconosciuto, 1833),
nel contesto dei sommovimenti della pittura europea alla
ine dell’Ottocento e nel pieno Novecento.
Altri casi sintomatici in cui prevale l’impulso allo sperimentalismo visivo sono quelli di August Strindberg e Wilhelm Busch nella cui pittura prevale un uso del colore
che ormai preigura gli esperimenti materici di Van Gogh.
In entrambi i casi non si sa se guardare in avanti, verso
le avanguardie novecentesche, o all’indietro, negli abissi
igurativi di Caspar David Friedrich e di Joseph Mallord
William Turner. Resta evidente però la dimensione visionaria di queste prove.
Si tratta dunque di fenomeno che va dal mero livello
“biograico” e attiene alla vita di artisti che si sono espressi nelle due forme e che le hanno lasciate interagire a più
livelli, alla questione, parecchio complessa, della (co)genesi delle loro opere. Lo studio del “doppio talento” ha
infatti un signiicato particolare proprio nella fase della
genesi dell’opera. Da questo punto di vista la genetica testuale – così come si è sviluppata soprattutto in Francia –
potrebbe far fare passi da gigante alla comparatistica letteraria, recuperando tutto quel patrimonio di immagini di
cui sono costellati i manoscritti degli scrittori e che quasi
mai sono delle semplici digressioni ludiche. Anche se poi,
nella fase successiva della pubblicazione delle opere, tutto
questo materiale “genetico” viene rimosso quasi fosse il
precipitato muto di esperienze che appunto non giungono
alla parola, spesso contro la volontà degli autori stessi.
Si pensi al ruolo decisivo dei disegni nei manoscritti di
Gottfried Keller, perennemente indeciso sulla sua vocazione di pittore o di scrittore, agli straordinari schemi ai
margini dei manoscritti dei romantici10, agli schizzi di
Dostoevskij o di Paul Scheerbart, degni di igurare tra le
massime espressioni rispettivamente del nichilismo e del
surrealismo igurativo del Novecento.
Lo studio del doppio talento consiste nel veriicare la concrescenza delle due forme espressive, la loro reciproca
collaborazione e cogenesi. Ciò ci permette di portare a
compimento una “poetica del testo” tenendo conto di una
“poetica della scrittura” e di un “poetica del disegno”, un
campo di studi che può riservare straordinarie sorprese.
Un caso particolare di concrescenza è quello rappresentato dalla calligraia o dalla pseudoscrittura, molto diffuse
tra le avanguardie pittoriche ovviamente, ma rigorosamente pensata da autori decisivi come Henri Michaux o,
con implicazioni che sconvolgono la semiotica del testo,
lo stesso Roland Barthes. È questo un campo che non solo
ripropone l’irriducibile simbiosi di verbale e visuale, ma
costringe a tutta una serie di considerazioni sulla genesi
della scrittura ma anche sulla genesi del disegno, quasi i
due media fossero, com’è del resto plausibile sulla base
dell’indagine etnograica, un mezzo solo.
Un ulteriore ambito di applicazione degli studi sul “doppio talento” è quello che cerca di cogliere le implicite o
esplicite intenzioni interpretative che un mezzo esercita
sull’altro. È il caso di un autore come Günther Grass – un
doppio talento assoluto, perfettamente in grado di esprimersi nei due media allo stesso livello di complessità – che
ha fatto delle sue opere graiche, non solo l’elemento genetico dei testi, ma le ha spesso usate per commentare ed
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ampliicare i propri testi, svolgendone alcune implicazioni visuali che, tipicamente, non potevano essere rappresentate sul piano verbale. Qui l’immagine è ad un tempo
integrazione e interpretazione del testo, esprime una serie
di rimandi e di risonanze che costituiscono in un certo
senso la continuazione virtuale del racconto (o viceversa).
Ma è l’Ottocento il luogo in cui si combatte la vera e
propria sida poetologica tra le due arti. In particolare
nell’ambito dell’arte del paesaggio e della scrittura paesaggistica (cioè del rapporto con la natura) ciò che la
storia letteraria ha spesso sempliicato in una visione del
“realismo” e del “naturalismo” ingenua e fuorviante. Si
pensi ad autori come Gottfried Keller, Wilhelm Busch e
soprattutto Adalbert Stifter, i cui “paesaggi”, pittorici e
letterari, sono il campo di battaglia di una visione che va
dal realismo più pacato ad un soggettivismo in cui ben visibili sono i sommovimenti della psicologia del profondo.
Vi è inine un terzo ambito di immagini che mette conto
sottolineare qui: ci riferiamo all’autoritratto dello scrittore che spesso si esprime igurativamente. Tipico è il caso
del Kreisler di E.T.A. Hoffmann in cui l’autore non soltanto ritrae se stesso ma proietta gran parte delle tensioni
del proprio personaggio in una triangolazione tra autorepersonaggio-autoritratto che è costitutiva della sua poetica. Altrettanto si potrebbe dire per gli “autoritratti” in
margine alle scritture di Keller, Baudelaire, Busch, Grass
ecc.
Una variante più complessa dell’autoritratto è certamente
la rappresentazione della casa o dello studio dello scrittore, un luogo per deinizione “fantastico”, anzi abitato
dai fantasmi, vera e propria camera oscura dell’immaginazione come dimostrano testi che non a caso hanno
immediatamente prodotto rappresentazioni autografe in
pianta e in alzato. Si pensi a Des Vetters Eckfenster (La
inestra d’angolo del cugino, 1822) di E.T.A. Hoffmann la
cui genesi è segnata da una vera e propria “image dans la
fabrique” del Gendarmenmarkt di Berlino11 o alle “piantine guida” di Eduard Mörike. Nessuno poi potrà sottovalutare le valenze “autobiograiche” di studi-atelier come
quelli di Goethe, Hesse, Weiss, ino alla mansarda in cui il
giovanissimo Dürrenmatt proietta, come con una lanterna magica, le sue ossessioni dixiane.
Fin qui ci si è ovviamente soffermati sulle transizioni tra
disegno/pittura e letteratura. Ma non bisogna dimenticare il caso del tutto particolare di doppi talenti che si
dedicano alle arti igurative anche oltre la mera bidimensionalità. Se infatti la popolarizzazione delle tecniche pittoriche e la facilità di accesso ad accademie e scuole di
disegno e pittura ha certamente contribuito al maturare
tra gli scrittori di talenti igurativi, oggi la conquista di
una terza dimensione (la scultura, il collage, l’architettura) si arricchisce, grazie ai nuovi media digitali, di ulteriori sperimentazioni. È un percorso che si può far risalire
almeno alle Klecksographien (1857) di Justinus Kerner
che nascevano dalla casuale manipolazione dei pigmenti
di colore con una tecnica che sta a metà strada tra il test
di Roscharch e Jackson Pollock, passa per gli Scheerenschnitte di Bettina von Arnim e Adele Schopenhauer e i
vertiginosi collage di Hans Christian Andersen, e giunge sino ai montage delle avanguardie novecentesche. Si
pensi ancora al caso, quasi unico, di Georg Sand con le
sue “dendriti” realizzate pressando tra due fogli di carta di Bristol colori ad acquerello che gli permettevano di
“vedere” inusitati paesaggi. E naturalmente al già citato
Hugo con le sue macchie di caffè, cenere, terra. L’universo pittorico surrealista sembra alle porte già a metà
del sec. XIX. Anzi sembra proprio che la pittura, soprattutto quella casuale delle macchie di colore, offra uno
spazio alla fantasia che la scrittura, comunque implicata
nelle regole grammaticali, non poteva trovare. In queste
esperienze la dimensione materica è senz’altro più pronunciata e interessante sarebbe studiarne le relazioni con
l’arte a loro contemporanea. Si tratta di esperienze non
prive di una criptoperformatività che solo nel Novecento
giunge a completa maturazione (soprattutto nel campo
delle performance legate alla poesia concreta e visiva). Si
pensi alla dimensione davvero performativa del celebre
disegno di Clemens Brentano allegato a Der Philister vor,
in und nach der Geschichte (Il ilisteo prima, nella e dopo
la storia, 1811) che offre alcuni personaggi ed oggetti da
ritagliare per costruire una possibile messinscena della
narrazione.
Né mancano scrittori-scultori come Gerhardt Hauptmann
che frequenta alcune accademie nella convinzione di essere uno scultore destinato a rinverdire uno stile monumentale e per tutta la vita non riesce a rinunciare all’espressione plastica nonostante una precaria condizione di salute glielo avesse di fatto proibito.
Più rari sono gli esempi di scrittori-architetti, per quanto
non si debba trascurare l’enorme impulso dato da autori
come il già citato Paul Scheerbart alla grande avventura
della Glasarchitektur (architettura di vetro) espressionista, o quello di Ludwig Wittgenstein con la casa per la sorella che diviene un paradigma assoluto dell’architettura
razionalista.
3. L’ékphrasis
La questione dell’ékphrasis è stata assai dibattuta dalla
critica letteraria degli ultimi decenni sino ad assurgere ad
una ben determinata e consolidata linea di ricerca della critica letteraria, soprattutto in Germania e negli Stati Uniti12. Oggi siamo perciò già in grado di trarre una
tassonomia, per quanto provvisoria, che tenga conto di
alcuni aspetti dell’ékphrasis letteraria, non solo di quelli
strettamente “linguistici” (Segre, Mengaldo13) ma anche
delle “funzioni” tematiche e strutturali che esse svolge
all’interno dei testi letterari e, soprattutto, delle questioni
che essa implica dal punto di vista della visualità per lo
scrittore ma anche per il lettore. L’ékphrasis è infatti il
luogo speciico dell’incarnazione dello sguardo in letteratura (sguardi dello scrittore, del lettore, dei personaggi) e,
attraverso la deissi e la messa in scena del setting ecfrastico, anche un luogo importante per indagare gli aspetti
performativi della narrazione. Ogni ékphrasis presuppone infatti uno sguardo (ancorché interiore) e un setting,
una scena, in cui è possibile performare il patto ecfrastico, o – come nell’esemplare esempio di Diderot – dove è
possibile “promener le regard”, annullando i conini tra
realtà inzionale e realtà isica dell’immagine. Dal punto
di vista narratologico è invece essenziale la posizione che
l’ékphrasis conquista all’interno di un testo.
Si tratta dunque di includere nelle modalità dell’ékphrasis l’orizzonte della ricezione, di quella sorta di “patto”
che colui che descrive deve instaurare con lo spettatore,
quella “partecipazione” interpretativa che anche Eco
mette al centro della sua tipologia di descrizione14. La
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“presenza” dello spettatore e del quadro sono, infatti,
aspetti essenziali dell’ékphrasis moderna, così come, ovviamente la sua assenza stessa. Nella inzione letteraria
non si tratta soltanto delle forme retoriche di cui si serve
l’ékphrasis – come nel caso della critica d’arte studiata da
Mengaldo – ma soprattutto dei “livelli di realtà” in cui si
muovono gli autori, i protagonisti delle storie e gli oggetti
della descrizione.
Nel caso dell’ékphrasis letteraria decisiva è innanzitutto
la distinzione tra ékphrasis mimetica, cioè quella che parte da un manufatto artistico realmente esistente o esistito
ed ékphrasis nozionale, quella cioè che “crea” il proprio
oggetto per la prima volta. Va da sé che sono possibili
molte forme intermedie che la tradizione in qualche modo
ha coltivato: si pensi al caso delle “icone” di Filostrato che
probabilmente derivano da un’osservazione reale di capolavori della pittura (non necessariamente quelli ipotetici
della collezione napoletana) ma che sono state percepite
dai posteri come frutto di pura invenzione ed hanno, a
loro volta, prodotto un’attività mimetica, stimolando gli
artisti alla produzione di immagini sulla base delle descrizioni.
La distinzione tra le due forme di ékphrasis risale ad un
celeberrimo articolo di John Hollander apparso nel 1988
nella prestigiosa rivista Word & Image15. Hollander distinge tra “ékphrasis nozionale” – quella che caratterizzerebbe gli antichi dallo Scudo di Achille alle Immagini di
Filostrato appunto – ed “èkphrasis mimetica” (actual),
destinata alla verbalizzazione di opere d’arte realmente esistenti e veriicabili. È però evidente – e Hollander
se ne rende presto conto – che i conini tra le due forme
sono costantemente messi in crisi proprio dalla creatività
linguistica degli autori, interessati, sin dai tempi di Filostrato, ad esibire le potenzialità retoriche delle proprie
descrizioni che programmaticamente travalicano l’opera
d’arte. Del resto proprio l’èkphrasis mimetica moderna
sembra essere il luogo in cui si recuperano i modelli retorici sperimentati dagli antichi.
All’interno di quello che si è deinito – con Eco – il “patto ecfrastico” è possibile distinguere dunque almeno tre
grandi modalità.
Il grado zero è costituito dalle forme semplici della denotazione, come la citazione esplicita di un’immagine in
un testo, gli apparati che servono a descriverla (p. es. le
didascalie, le glosse, le note esplicative ecc.), a cui vanno
aggiunte le forme retoriche dell’elencazione e dell’accumulo che spesso trasformano l’ékphrasis nelle forme tradizionali dell’ipotiposi, della descrizione pura e semplice.
(Schema 2: Ékphrasis. Forme della denotazione)
Seguono le forme di dinamizzazione delle immagini di
cui l’ékphrasis si serve per trasformare – nelle parole di
Lessing – il “coesistente” in “successivo”, descrivendo le
azioni che si svolgono nell’immagine come se accadessero
sotto i nostri occhi, come se si trattasse di immagini in
movimento o come se il fruitore e il suo sguardo potessero
penetrare l’immagine e muoversi in essa:
(Schema 3: Ékphrasis. Forme di dinamizzazione)
Si pensi a Diderot che letteralmente “passeggia” nei paesaggi di Vernet. Sono forme ampiamente studiate dalla
critica e consapevolmente tematizzate già nel tardo Illu-
minismo16. Ad esse vanno ricondotte, per altro, tutte le
forme di “risemantizzazione” (Nacherzählung) delle storie che le immagini raccontano, p. es., tipicamente, il mito
che illustrano, la storia che rappresentano. Nella Nacherzählung, che può essere estremamente creativa come dimostra la tematologia letteraria, le immagini si viviicano
e si risemantizzano dinnanzi allo spettatore che, letteralmente, segue con gli occhi un’altra storia, sempre nuova,
spesso appunto radicalmente modiicata rispetto al topos
originale17.
Le forme di dinamizzazione dello sguardo – tema che sta
al centro degli studi di cultura visuale soprattutto per le
sue implicazioni sociali, gender e culturali – danno vita
ad una tipologia molto complessa di interazione tra i tre
attori (scrittore, lettore, osservatore) che non possiamo
affrontare in questa sede. Qui ci limiteremo a ricordare
il fatto che anche in questo caso si tratta di uno studio
delle peculiari performance, reali o immaginarie, dei tre
attori citati, vere e proprie messinscene che già Filostrato
o Luciano sanno utilizzare con somma perizia.
Ovviamente il caso più celebre di dinamizzazione dell’immagine è quello che storicamente ha riguardato un’icona
della cultura visuale dell’Occidente, Il Laocoonte, il gruppo marmoreo del sec. II che ben si prestava, essendo un
“attimo raggelato”, ad una dinamizzazione quasi teatrale, come succede nelle epocali ékphrasis di Wilhelm Heinse e di Goethe. Che quello del Laocoonte fosse da considerare un corpo vivo è del resto dimostrato da uno degli
incunaboli della Kunstbeschreibung tedesca, la Teutsche
Akademie di Joachim von Sandrart, in cui la carne del
vecchio sacerdote è letteralmente strappata dal serpente
assassino. Nell’incisione del Sandrart si esprime già compiutamente il desiderio di vedere le immagini animarsi, le
statue piegarsi sinuose o contratte, tutto quel repertorio
di sogni letterari che solo il cinema saprà portare a compimento.
Altrettanto centrale per l’ékphrasis classica – soprattutto
quella settecentesca – è la dinamizzazione del processo
compositivo dell’immagine, il cui esempio più alto è senza dubbio la descrizione per mano di Heinse dei quadri
di Rubens un tempo collocati alla Düsseldorfer Galerie.
In questo ambito rientra senz’altro l’archetipo di tutte le
ékphrasis, lo Scudo di Achille, che Omero fa nascere dinnanzi ai nostri occhi per mano di Efesto.
Vi è inine il livello forse più complesso dell’ékphrasis,
quello che Eco ha voluto deinire «descrizione con richiamo alle esperienze personali e culturali del destinatario»
e «descrizione con richiamo ad esperienze percettive del
destinatario» e che qui potremo deinire, includendo altri
processi ermeneutici, forme di integrazione, perché in gioco vi è appunto la capacità del fruitore di colmare le lacune della descrizione (e spesso della stessa visione), con
l’immaginazione e con i sensi, o, molto più spesso, con le
proprie preconoscenze artistiche e culturali:
(Schema 4: Ékphrasis. Forme di integrazione)
La forma di integrazione più nota è certamente quella
sinestetica quando le immagini letteralmente “parlano”
(prosopopea) o emanano odori e sensazioni riconoscibili
al tatto. Si pensi al “visibile parlare” di Dante. In questo
caso si fa appello alle preconoscenze cognitive dello spettatore/lettore in cui gli altri sensi letteralmente integrano
quello della vista.
5_01_Cometa - 5
L’integrazione ermeneutica dell’immagine dipinta risponde invece ad una sorta di “logica del riconoscimento”, sulla quale si fonda il fascino di ogni narrazione. Filostrato
né è consapevole se tralascia i particolari quando si tratta
di miti ben noti o afferma: «Ma ogni uomo è in grado di
riconoscere l’argomento della pittura».
Esattamente il contrario avviene nelle forme di integrazione che fanno leva sul sistema della “trasposizione” della
narrazione in un setting già preordinato da un’immagine.
È il caso celeberrimo del setting di Der zerbrochene Krug
(La brocca rotta, 1808) di Kleist che notoriamente è una
trascrizione verbale di un’incisione di Jean Jacques André
Le Veau o della scena inale degli Elixiere des Teufels (Elisir del diavolo, 1815) di E.T.A. Hoffmann il cui setting è
il raro quadro tedesco del pittore barocco Johann Heinrich Schönfeld rafigurante la Morte di Santa Rosalia18.
I nuovi media della riproducibilità tecnica dell’immagine
hanno poi decisamente contribuito allo sviluppo di questa tecnica ecfrastica. La possibilità tecnica di disporre
in una sequenza un numero consistente di immagini così
da stimolare una storia, una narrazione, risale almeno al
romanzo galante sei-settecentesco che si serve delle giustapposizione di semplici vignette poste in sequenza e si
perpetua sino alle vertiginose combinatorie – metafora di
tutte le storie possibili – di Italo Calvino ne Il castello dei
destini incrociati (1973) o negli “atlanti” creati da molti autori moderni, da Julio Cortázar a Winfried Sebald.
L’esempio di Calvino è del resto in troppo eloquente. Per
lui “giustapporre” le carte dei tarocchi signiica prima
di tutto associare micronarrazioni che danno poi vita a
plot via via più complessi che iniscono per coincidere con
alcuni archetipi d’inusitato signiicato per la letteratura
universale (Faust ecc.)
Vi è inine un’ulteriore aspetto di cui bisogna tenere conto
nello studio dell’ékphrasis soprattutto in opere di ampio
respiro in cui è possibile incastonare una o più descrizioni
di opere d’arte. Si tratta in particolare di interrogarsi sulle
speciiche “funzioni” che il romanzo afida al posizionamento delle ékphrasis all’interno della sua architettura.
Le ékphrasis sono – come ha ben documentato tutta la ricerca sulla Kunstbeschreibung tedesca – innanzitutto una
caratteristica del romanzo moderno (dal Romanticismo
in poi) estremamente rilevante sul piano storico-culturale, ma incidono nel contempo sulla struttura stessa del
romanzo che, com’è noto, è il genere che costruisce durante il suo farsi una propria peculiare teoria. Esse sono
degli indicatori privilegiati per comprendere la struttura
profonda di un testo, dei dispositivi in cui si evidenziano
alcuni elementi metanarrativi attraverso cui il romanzo
(ogni romanzo) costruisce la propria teoria. Del tutto inadeguato si rivela perciò l’approccio secondo cui tali ékphrasis (e più in generale le “descrizioni”) abbiano solo
la funzione, davvero paradossale, di “rallentare” l’azione.
Per questo è necessario concentrarsi sulle funzioni strutturali e su quelle metanarrative dell’ékphrasis nel romanzo, alle quali va senz’altro aggiunta un’altra funzione, per
fortuna oggetto di molti studi, ovvero la funzione “intermediale” e nel contempo “intertestuale” che l’ékphrasis
nel romanzo inevitabilmente svolge.
Sarà opportuno, proprio perché si tratta di narrazioni
complesse con forti virtualità intertestuali e intermediali,
non perdere mai di vista, oltre che la “posizione” all’interno della narrazione, il nesso inscindibile che si crea tra
topos e topica, tra luogo speciico all’interno della narra-
zione e topoi che la attraversano:
(Schema 5: Ékphrasis. Funzioni e topologia)
Anche a volersi attestare sul piano più astratto del posizionamento appare subito chiaro che le èkphrasis nel
romanzo svolgono una tipica funzione di “cornice”, p. es.
quando si collocano nell’incipit e nella ine del testo e in
tal modo collaborano alla “genesi” della trama e qualche volta “classicamente” la chiudono. Si alle ékphrasis
all’inizio e alla ine di romanzi come L’adultera (1882)
di Theodor Fontane (un’incisione di Tintoretto-Rothammer) o di Underworld (1997) di Don De Lillo (Il trionfo della morte)19. Altrettanto importante, e certamente
per la tradizione della teoria del romanzo assolutamente
centrale, è quella che abbiamo deinito la funzione metanarrativa che le ékphrasis svolgono all’interno dei testi.
È noto, almeno sin dalla poetologia schlegeliana, che il
romanzo è strutturato in elementi metatestuali attraverso procedimenti che vanno dall’autoironia romantica alla
mise en abyme novecentesca. In questa complessa tradizione secondo cui ogni romanzo è anche teoria di se stesso
le ékphrasis svolgono un ruolo centrale perché permettono di “preigurare” e “anticipare” il senso del romanzo,
ma soprattutto perché si presentano come un dispositivo
in cui il romanzo stesso si “rispecchia”, una lente in cui,
in forma spesso concentrata, si inquadra un’“immagine”
unitaria della narrazione. L’esempio forse più alto nel
Novecento è il “romanzo a quadri” di Georg Perec, Un
cabinet d’amateur. Histoire d’un tableau (Storia di un
quadro, 1979). Appare evidente che il modello del cabinet, dei quadri che ritraggono Kunstkammer o Wunderkammer, sono solo il modello dell’arte tout court: «Ogni
opera è lo specchio di un’altra», scrive Perec, in un capitolo interamente dedicato alla “dinamica rilessiva” che
caratterizza l’arte di tutti i tempi.
L’ékphrasis è in questo senso un dispositivo semantico
che, lungi dall’essere mero orpello decorativo o pura esercitazione retorica, è profondamente coinvolto nella genesi
e nella struttura stessa del romanzo antico e moderno e
mostra una “resistenza” persino oltre le cesure del cosiddetto romanzo postmoderno. L’ékphrasis, soprattutto
nella sua variante “nozionale”, esprime una grande nostalgia per ciò che un tempo si chiamava arte – sia essa
realistica o astratta – perché sistematicamente mette in
scena una mancanza, qualcosa che non esiste, che non è
mai giunto ad esistenza, non esiste più o appunto non è
più visibile. Non è un caso che dopo la “morte dell’arte”
le ékphrasis nozionali siano aumentate vertiginosamente
e che interi capolavori si conigurino come l’invenzione
consapevole – anche se ricca di ininiti rimandi intermediali e intertestuali – di una “galleria” o di un “catalogo di
una mostra” che non sono mai esistiti. Esemplare è il caso
di Stevem Millhauser con il suo Catalogue of the Exibition: The Art of Edmund Moorash (1810-1846) (Catalogo
della mostra. L’arte di Edmund Morash, 1993), una sorta
di enciclopedia del fantastico (con venature gotiche), o la
straordinaria fantasmagoria di Georg Perec.
4. Le forme miste: iconotesti e iconismi
Giungiamo dunque ad uno dei fenomeni che storicamente
ha creato più dificoltà ad una tassonomia delle relazioni
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tra letteratura e arti igurative, perché comporta una competenza storico-artistica di amplissima portata. Si tratta
di tutte quelle forme che consapevolmente nella cultura
letteraria e igurativa hanno integrato immagine e parola.
Una distinzione in linea di principio – oggi condivisa da
molti – è quella tra “iconotesti” e “iconismi”.
“Iconotesto” è un termine spesso usata dai comparatisti
ma in accezioni parecchio divergenti (Peter Wagner, Alain
Montandon, Hans-Jürgen Lüsebrink, Nerlich)20. Con esso
preferiamo indicare la semplice combinazione/giustapposizione dei due media, la parola e l’immagine, su un unico supporto mediale. Si potrà ovviamente insistere sulla
necessità che l’effetto di lettura (Montandon) debba essere complessivo e contestuale, ma questo non comporta,
come è invece nel caso degli iconismi, che la sottrazione
della parte igurale o della parte verbale distrugga ogni il
signiicato dell’opera. Diverso è il caso dell’iconismo dove
i due media sono consustanziali e l’eliminazione dalla
pagina di uno dei due non inicia solo la lettura ma dissolve ipso facto il signiicato. Lo studio degli iconotesti è
tutt’ora un campo di ricerca fecondissimo e in via di deinizione. Ovviamente si tratta, prima di tutto, di deinirne
i contorni. È chiaro che anche in questo caso ci troviamo
in un campo di differenze più che di conini netti e indiscutibili. Per coloro i quali pongono l’accento sugli effetti
di lettura e sulla contestualità della creazione/ricezione è
chiaro, p. es., che bisognerà distinguere tra pratiche iconotestuali e pratiche dell’illustrazione. Ma è altrettanto
evidente che si tratta di distinzioni da veriicare caso per
caso e che per altro vengono spesso messe in crisi proprio
dagli effetti di ricezione, dalla trasformazione a stampa
dei manufatti iconotestuali, dalla semplice ricezione ecc.
Più prudente ci pare attestarci in una distinzione radicale,
quella tra iconotesti e iconismi, laddove nel primo caso un
“divorzio” tra i due media è sempre praticabile (anche se
comporta profonde trasformazioni dei signiicati), mentre
nel secondo caso evidentemente no. Questo ovviamente
non ci esime dallo studiare caso per caso le forme di “parentela” e le “interrelazioni” che si creano tra testo e immagine nelle singole espressioni artitiche.
Rientrano nella categoria degli icotesti, dunque, forme
miste come gli emblemi e, all’altro capo temporale, il fumetto, laddove è evidente che si tratta, nel primo caso,
tendenzialmente di immagini singole (ma vi sono pure
immagini in sequenza come negli emblemi-enigmi di Georg Philipp Harsdörfer, p. es.) e, nel secondo caso, di immagini sequenziali che narrano una storia attraverso la
giustapposizione delle immagini (il fumetto ma anche i
Totentänze, i rebus, i Bilderbogen o i fotoromanzi).
A queste due famiglie di iconotesti vanno aggiunti gli
“schemata” della tradizione medievale e moderna (dagli
alberi del sapere ai moderni graici). Si tratta di fenomeni
assolutamente centrali come dimostra lo sviluppo vertiginoso in questi anni della diagrammatica che coinvolge
oggi le punte più sensibili della comparatistica, anche perché si ricollega spesso alla questione del “doppio talento”
letterario/ilosoico e graico di autori pure importanti (da
Cusano a Deleuze)21:
(Schema 6: Iconotesti)
che l’eliminazione dell’uno produrrebbe l’eliminazione
dell’altro. È la grande tradizione della poesia visiva22 nelle sue molteplici incarnazioni, da un lato la tradizione che
discende dal technopaegnion, dall’altra quella, parallela,
della poesia concreta, entrambe comunque prodotto di
una simbiosi totale tra due (o più) media:
(Schema 7: Iconismi)
Un discorso a parte merita ovviamente la “letteratura digitale”, ovvero la letteratura che si è sviluppata a partire
dall’uso dei media digitali, il computer prima e internet
poi, un fenomeno globale ancora dificile da decifrare e
soprattutto da ricondurre a sistema. A tutt’oggi, a fronte
di una trasformazione mediale così vertiginosa, sembrano resistere le categorie tradizionali della teoria letteraria
e le tassonomie esistenti, nonostante la grande creatività
linguistica che le contraddistingue, non vanno molto al di
là di una catalogazione in in dei conti “aristotelica” che
distingue tra prosa, dramma e lirica. Esistono ovviamente
interpretazioni complessive del fenomeno della letteratura digitale che cercano di cogliere gli aspetti mediali e
performativi del fenomeno, prescindendo da troppo rigide tassonomie, per altro subito iniciate dalla sperimentazione letteraria, come nel caso di Christiane Heibach e
Roberto Simanowski23, ma l’unico dato che ovviamente
non viene messo in discussione è la dimensione multimediale del fenomeno che, non a caso, un grande studioso
di poesia visiva come Dick Higgins ha deinito complessivamente con il termine di “intermedia”. La letteratura
digitale attinge ovviamente ad entrambi gli ambiti delle
forme miste, trattandosi innanzitutto di iconotesti – per
via della naturale combinazione di testo e immagine (e
suoni) che il mezzo digitale e in particolare il web favorisce – ma anche di iconismi, di “immagini” cioè dove dimensione verbale e dimensione verbale vivono in perfetta
simbiosi. Si può del resto affermare che la poesia digitale,
pur nella sua novità tecnologica e mediale, è di fatto la
realizzazione di un lungo ed ininterrotto sogno della scrittura: la combinazione di visuale e verbale, che risale alle
scaturigini del far poesia, ma soprattutto la realizzazione di un’istanza cinetica, implicita al conine tra alfabeto
e segno graico, che l’invenzione della stampa aveva di
fatto mortiicato. Oltre, ovviamente, all’implementazione
deinitiva di tutte le speranze permutazionali e combinatorie che si sono ripresentate puntualmente ai margini
della produzione letteraria soprattutto occidentale – da
Juan Caramuel de Lobkowitz a Raymond Queneau – e
che nel digitale possono dispiegarsi oltre ogni immaginazione umana. I “cento miliardi di poemi” possono infatti
essere prodotti con un semplice script, così come la combinatoria ininita di poemi come Maria Stella (1663) è
alla portata di tutti e con una leggibilità che la stampa
seicentesca non poteva neppure ipotizzare. Allo stesso
modo si realizza il secondo grande sogno della letteratura
universale: quello di una letteratura compiutamente interattiva e performativa. Si pensi all’istanza di interattività
proposta dai Bildgedichte a forma di clessidra di Theodor
Kornfeld che già nel Cinquecento era necessario capovolgere letteralmente per continuarne la lettura e che adesso
nel web sono a portata di un click.
Altrettanto ricca è stata l’evoluzione storica degli iconismi, le forme miste in cui i due signiicanti – quello visivo e quello verbale – vivono in indissolubile simbiosi così
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5. Le omologie
Le omologie tra esperienze visuali e verbali rappresentano il campo di studi, vastissimo, su cui si impegnano attualmente le migliori menti della comparatistica internazionale. Non si tratta del tradizionale approccio tematologico – pur essendo la tematologia una parte consistente di
questi studi – ma di un’interrogazione del testo letterario
a partire da questioni che attengono alle trasformazioni
antropologiche prodotte dai media. Possiamo distinguere
in quest’ambito almeno due grandi sezioni:
1) le omologie tematiche, ovvero l’interscambio a livello
lessicale e semantico tra produzioni verbali e produzioni
visuali e tra le rispettive teorie (non si dimentichi che “teoria” in Occidente è metafora visiva). È questo un ambito vastissimo in cui la letteratura può essere interpretata
come il precipitato concettuale (cioè verbale) di tutte le
esperienze della visualità e si rivela come un’enciclopedia metaforica che dà voce ai regimi scopici, una sorta
di testimonianza delle trasformazioni antropologiche prodotte nell’esperienza del vedere. È così che la letteratura
conserva e trasmette il peculiare interscambio, “ontologico” si potrebbe dire, tra letteratura ed arti della visione, custodendo metafore di lunga o lunghissima durata,
mitologie e semplici plot narrativi in cui i due media si
confrontano.
2) vi sono poi le omologie strutturali che implicano
un’analogia genetica o appunto “strutturale” tra testo e
regimi scopici (cioè il complesso interplay fra immagini,
sguardi e dispositivi mediali).
L’enfasi sulla visualità ha portato ad interrogarsi sul lessico e sui temi che dalle arti visive transitano nella letteratura. Ciò ha comportato un lavoro di scavo sui nessi
lessicali e tematici tra i due media che ha consentito però
di comprendere quanto essenziale sia stato il loro rapporto, almeno nella tradizione occidentale. Si è costruita così
davvero una mappa della “reciproca illuminazione tra le
arti” e una tipologia delle interrelazioni tematiche tra letteratura e visualità:
(Schema 8: Omologie tematiche)
Si pensi innanzitutto al grande e approfondito campo di
studi dissodato dalla Kunstbeschreibung tedesca24, interessata innanzitutto a comprendere i nessi tra Bildung
(formazione) e Bild, con il risultato di illuminare un ilone assai ricco della produzione letteraria che è la biograia degli artisti ma, soprattutto di recente, le bio-graie di
opere d’arte, di immagini e di esperienze mediali di varia
provenienza. Il nesso profondo tra “porre in immagine”
(bilden) e costituzione della soggettività moderna è stato
compreso proprio a partire da generi considerati prima
solo una tra le tante varianti del Bildungsroman (Malerromane). Ancora più ricco è stato il contributo dato dalla
comparatistica letteraria allo studio delle “transizioni”
tematiche tra i due media, anzi all’approfondimento sistematico di mitologie e metaforiche dello sguardo e della
presenza di topoi della visione e di dispositivi ottici nelle
letteratura. Ancora più rilevante è stata però la transizione tra il piano meramente tematico, cioè contenutistico, e
quello della metabolizzazione teorica di certi temi che ha
inito per informare di sé la rilessione teorico-letteraria.
Un grande patrimonio di metafore e miti, prima esclusivo
appannaggio della tematologia letteraria, si è così trasfor-
mato in una palestra di argomentazioni che incidono sulla
teoria letteraria e sulla ilosoia tout court. Alla teoria letteraria tocca oggi di interrogarsi sul substrato metaforico
che la sustanzia, un lavoro che è stato già anticipato sul
piano ilosoico grazie alle robuste tradizioni della metaforologia e della storia dei concetti25. Si pensi all’uso di
termini come “prospettiva”, “punto di vista”, “stanza”
nella poetica.
Un esempio per tutti: la metaforica architettonica nella
teoria letteraria. Per il Seicento e Settecento inglese rimandiamo allo studio di Bernfried Nugel26 che mette in
relazione il Denkmodell architettonico di Aristotele con la
teoria architettonica di Vitruvio, quello della poetica italiana di Trissino con Palladio, e inine quello della grande
teoria letteraria da Sidney a Dryden con le categorie della
teoria architettonica neoclassica (compositio, ordinatio,
dispositio, il concetto di “ordinazione”, il rapporto tra
parti ornamentali e parti strutturali nella costruzione del
verso, il nesso plan-design-structure).
Ovviamente questo atteggiamento sul piano del lessico
conduce a quelli che potremmo deinire i “grandi paragoni” tra la letteratura e le arti visive, dispositivi semantici
appena al di sotto delle “metafore assolute” per dirla con
Hans Blumenberg27: Shakespeare, Proust e la cattedrale
gotica; la Bibbia e le Piramidi, il romanzo gotico e l’architettura gotica ecc. Quando, p. es., Richard Hurd nelle sue
Letters (1762), nel contesto di una rivalutazione del gotico, chiarisce una volta e per tutte che la “struttura” della
Faerie Queene (La regina delle fate, 1590) di Spenser è
incomprensibile a partire dalle categorie teorico letterarie
del neoclassicismo grecoilo, impone alla critica letteraria
del suo tempo uno dei grandi paragoni che hanno informato la letteratura dell’Ottocento. In un modo più ellittico, un secolo più tardi, Hugo paragonerà Notre-Dame alle
opere di letteratura, o, nell’epocale capitolo sul conlitto
tra architettura e libro, Questo ucciderà quello, insisterà
sull’analogia tra grandi opere dell’architettura e grandi
opere della letteratura. Nel Novecento l’aspetto teorico, o
anche apertamente ilosoico, di questi paragoni conosce
se possibile un ulteriore approfondimento. Si pensi alla
sequenza Cézanne-Rilke-Handke che ha determinato la
poetologia novecentesca, laddove il nesso tra la iguratività del pittore (in particolare le ripetute montagne della Sainte-Victoire28), la poetica del paesaggio in Rilke e
quella dell’approssimazione di Handke danno forma ad
una ilosoia della pazienza29 che assurge a cifra esistenziale ma ha anche importanti implicazioni poetologiche
sia per la scrittura che per le arti visive del Novecento.
Né la letteratura è stata esente da ansie metaisiche che
l’hanno indotta ad interrogarsi sull’esistenza e la narrabilità di metafore assolute che presiederebbero alla creazione letteraria e a quella artistica insieme e che dunque
ben si prestano ad una teorizzazione dei principi ultimi
dell’immaginazione così come sono esposti, p. es., nella
lezione sulla Visibilità di Italo Calvino30. Tipico è il caso
di autori come Kafka, Buzzati, Borges e appunto Calvino
che hanno fatto dell’architettura una metafora assoluta
della scrittura ed hanno colto nell’interrelazione tra le
due arti la possibilità di una spiegazione originaria delle
loro semiotiche. Si pensi al nodo metaforico, letterarioarchitettonico, che si articola intorno alla igura di Kublai
Kahn, l’imperatore dei tartari. Per converso molti architetti novecenteschi hanno riscoperto nelle loro opere le
sequenze della narratività contemporanea.
5_01_Cometa - 8
Così facendo singoli nodi tematici iniscono per determinare ciò che gli scrittori e gli artisti considerano essenziale
sul piano della teoria non solo letteraria giacché molte di
queste metafore assolute si presentano come veri e propri
Denkbilder – nel senso che dà a questo termine la tradizione benjaminiana – igure cioè che si insediano proprio
in un territorio intermedio tra il verbale e il visuale dando
espressione a ciò che è indicibile e ad un tempo invisibile,
un territorio che la letteratura contende alle arti visive,
ma che entrambe contendono alla speculazione ilosoica
e teologica.
Lo studio della “omologie strutturali” tra letteratura e
arti visive ha invece come presupposto l’individuazione
dei regimi scopici in cui si articolano nelle varie epoche
i discorsi sociali intorno alla visualità e alla testualità31:
(Schema 9: Omologie strutturali)
Proprio la nozione di “regime scopico”, sviluppata dagli
studi contemporanei di Visual Culture – da Svetlana Alpers a Martin Jay e Jonathan Crary, ha permesso, p. es.,
di cogliere nella costituzione dei regimi visivi l’intreccio
caratteristico tra antropologia dello sguardo, dispositivi
della visione (media) e istituzioni preposte alla visualità32.
Sulla scorta del discorso foucaultiano sui “dispositivi” la
nozione di “regime scopico” ha consentito di cogliere il
complesso interplay che si instaura tra istanze della corporeità, dinamiche culturali dello “sguardo” (gaze), immagini e media. Su questa base è stato possibile distinguere, p. es., tra il regime scopico della prospettiva che ha
segnato gran parte della produzione artistica occidentale
e i successivi (ma non sempre indipendenti) regimi scopici della camera oscura, nonché le “nuove percezioni”
imposte dall’immagine in movimento (dalla laterna magica al cinema).
L’approfondimento di queste problematiche legate alla
visualità, che ha comportato lo studio sistematico, p. es.,
dei dispositivi della visione (media) via via sviluppatisi
tra Seicento e Novecento, o dei regimi di controllo e disciplina secondo il celeberrimo modello del panopticon
di Bentham, ha indotto alcuni studiosi di letteratura ad
interrogarsi sulle modiicazioni che le trasformazioni dei
regimi scopici o delle tecnologie della visione in particolare comportano per la composizione letteraria. Esemplare
è il caso dello studio di Max Milner sulla “fantasmagoria” di Étienne-Gaspard Robertson che viene interpretata
come il dispositivo che presiede per deinizione alla forma
del fantastico ottocentesco, e in particolare di quello hoffmanniano33. O, ancora, gli studi sul “dispositivo naturalista” di Philippe Hamon34 interessato alle trasformazioni
che la fotograia ha comportato per la narrativa francese
dell’Ottocento e all’uso letterario dell’“esposizione” che
essa trae strutturalmente dalle esposizioni universali allestite nella capitale francese. O, inine, le implicazioni
narrative del doppio regime ottico messo in scena ne La
inestra d’angolo del cugino di Hoffmann, dove lo sguardo telescopico scatena il fantastico, mentre quello panoramico induce ad una vertigine in cui è possibile cogliere
una precoce diagnosi sul Nervenleben metropolitano35.
Per non parlare dell’enorme inluenza che i dispositivi ottici hanno nella narrativa dell’età di Goethe, un’età in cui
la tecnologia sviluppa per la prima volta le sue potenzialità di massa, producendo modiicazioni antropologiche
che hanno ovviamente una forte ricaduta nella scrittura
letteraria36. Tali omologie sono per altro rintracciabili non
solo nell’interazione tra tecnologie e scrittura, ma negli
aspetti performativi impliciti che scaturiscono dal setting
di interazione tra letteratura ed arti visive. Si pensi, per
fare solo un esempio, alle strategie retoriche che il discorso mette in atto per guidare letteralmente l’occhio dello
spettatore – un ambito ampiamente studiato da Lina Bolzoni37 a proposito delle predicazioni intorno ai trioni della morte – e che hanno un loro fecondo corrispettivo negli
studi speculari su come le strategie retoriche di un quadro
o di un’immagine determinino la sua ricezione verbale (p.
es. nell’ékphrasis)38. Guidare l’occhio del lettore è invece
l’obiettivo esplicito di molti sperimentalismi letterari che
pongono al centro, soprattutto nel Novecento, la questione di uno sguardo che inisce ovviamente per divenire una
sorta di partitura per l’opera. Si pensi alla lezione, davvero insuperata, del Palomar (1983) di Calvino che va
ben oltre le ispirazioni francesi (Michaux, Ponge) dove lo
sguardo è allo stesso tempo “tema” e fonte “strutturale”
del testo.
E con ciò abbiamo siorato appena uno dei possibili
aspetti in cui in letteratura si mettono in atto omologie
di carattere strutturale. Molto ci sarebbe da dire ancora
sulle omologie tra generi letterari e generi pittorici (tableaux, schizzo, panorama ecc.) – con un lessico comune che
attraversa tutte le arti (architettura, pittura e new media) –, sul rapporto tra immagine ilmica e testo letterario
in fenomeni come l’adattamento e la novellizzazione39, sul
rapporto tra scrittura letteraria e graphic novel o, ancora, tra narratività e spazi architettonici (nel contesto più
ampio di quello che è stato deinito lo spatial turn della
teoria letteraria costantemente implicato, ovviamente, in
questioni visualità sia in modo esplicito che implicito), o
sull’intreccio tra autoritratto e autobiograia.
È chiaro che le omologie strutturali si articolano sul complesso interplay che concorre a deinire un regime scopico: immagine, sguardo e dispositivo. Ancora tutto da
compiere è, p. es., il lavoro sulle analogie strutturali tra
immagini e testo, perché ciò comporta una consapevolezza profonda delle retoriche peculiari ai due media e delle
forme di traduzione possibili. Anche in questo caso, come
in quello dei dispositivi e degli sguardi, sarà sempre meglio tenere a mente che i caratteri di “contesa” tra i due
media, poiché le “differenze” sono altrettanto importanti
delle somiglianze. Una caratteristica delle omologie è infatti quella di non nascondere il carattere di “resistenza”
che un media esercita nei confronti dell’altro. Lo dimostra la grande proliferazione di “paragoni” che lasciano
il campo fattuale della scrittura primaria per assurgere a
veri paradigmi con valenze squisitamente teoriche e poetologiche.
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Note:
1
P. Wagner, Reading Iconotexts. From Swift to the French Revolution, London 1995, p. 15.
2
W.J.T. Mitchell, Iconology. Image, Text, Ideology, Chicago-London 1986, p. 43. Di Mitchell, centrale oggi per lo studio dei rapporti tra testo e immagine, si veda in italiano, Pictorial turn. Saggi di
cultura visuale, in M. Cometa (a c. di), Palermo 2008.
3
J.A.W. Heffernan, Museum of Words. The Poetics of Ékphrasis
from Homer to Ashbery, Chicago-London 1993, passim.
4
S.K. Langer, Deceptive Analogies. Specious and Real Relationships among Arts, in Id., Problems of Art, New York 1957, p. 86.
5
W.J.T. Mitchell, Picture Theory, Chicago-London 1994, p. 161.
6
Ivi, p. 94 ss.
7
Cfr. V. Stoichita, L’instauration du tableau. Métapeinture à l’aube des Temps modernes, Paris 1993; tr. it. L’invenzione del quadro.
Arte, arteici e artiici nella pittura europea, Milano 1998.
8
Si vedano almeno: J.H. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to
Gray, Chicago 1958; R.W. Lee, Ut Pictura Poesis, The Humanistic
Theory of Painting, New York 1967; tr. it. Ut Pictura Poesis, Firenze 1974; W. Steiner, The Colors of Rethoric, Chicago and London
1982; U. Weisstein, Zur wechselseitigen Erhellung der Künste”, in
H. Rüdiger (a c. di), Komparatistik. Aufgaben und Methoden, Stuttgart 1973, pp. 152-65; I. Hoesterey, U. Weisstein (a c. di), Intertextuality. German Literature and Visual Art from the Renaissance
to the Twentieth Century, Columbia SC 1993. In Italia: M. Praz,
Mnemosine, parallelo tra la letteratura e le altre arti (1971), Milano 2008.
9
Cfr. almeno: K. Böttcher, J. Mittenzwei, Zwigespräch. Deutschsprachiger Schrifsteller als Maler und Zeichner, Leipzig 1980; N.
Baerlocher, M. Bircher (a c. di), Auf einem anderen Blatt. Dichter
als Maler, Zürich 2002; S. Linares (a c. di), De la plume au pinceau. Écrivains dessinateurs et peintre depuis le romantisme, Valenciennes 2007; D. Friedman, «Und ich mischte die Farben und
vergaß die Welt…». Malende Dichter, München 2008.
10
M. Cometa, La passione della duplicità. Geometrie della Goethezeit, in L. Zagari (a c. di), Simmetria e antisimmetria. Due
spinte in conlitto nella cultura dei paesi di lingua tedesca, Pisa
2001, pp. 53-92.
11
M. Cometa, A. Montandon, Vedere. Lo sguardo di E.T.A. Hoffmann, Palermo 2009.
12
Si veda il già citato studio di Heffernan, gli studi di Mitchell
in Picture Theory, e gli studi di M. Krieger, Ekphrasis. The Illusion of Natural Sign, Baltimore-London 1991. Per l’area tedesca
fondamentale è stata l’antologia: G. Boehm, H. Pfotenhauer (a c.
di), Beschreibungskunst - Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der
Antike bis zur Gegenwart, München 1995.
13
C. Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte
Torino 2003 e Id., Pittura, linguaggio e tempo, Parma 2006 e P.V.
Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti igurative e critica, Torino 2005.
14
U. Eco, Sulla letteratura, Milano 2002.
15
J. Hollander, The Poetic of Ekphrasis, in «Word & Image», n. 4,
1988, pp. 209-19.
16
Cfr. B. Dieterle, Erzählte Bilder. Zum narrativen Umgang mit
Gemälden, Marburg 1988.
17
M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale
tra Settecento e Novecento, Roma 2004, p. 56 ss.
18
M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A.
Hoffmann, Roma 2005, p. 115 ss.
19
Per una diffusa trattazione mi permetto di rimandare al mio
Topograie dell’ékphrasis: romanzo e descrizione, in L.A. Macor, F.
Vercellone (a c. di), Teoria del romanzo, Milano 2009, pp. 61-77.
20
Cfr. A. Montandon (a c. di), Iconotextes, Paris 1990; P. Wagner
(a c. di), Icons-Texts-Iconotexts. Essays on Ékphrasis and Intermediality, Berlin-New York 1996.
21
Cfr. J. Probst, J.Ph. Klenner, Ideengeschichte der Bildwissenschaft, Frankfurt a. M. 2009.
22
Cfr. almeno: U. Ernst, Carmen iguratum. Geschichte des Figurengedichts von den antiken Ursprüngen bis zum Ausgang des
Mittelalters, Köln-Weimar-Wien 1991; D. Higgins, Pattern Poet-
ry. Guide to an Unknown Literature, Albany 1987; G. Pozzi, La
parola dipinta, Milano 1996; G. Kranz, Das Bildgedicht, 2 voll.,
Köln-Wien 1981.
23
C. Heibach, Literatur im elektronischen Raum. Buch & CDROM, Frankfurt a. M. 2003 e R. Simanowski, Interictions. Vom
Schreiben im Netz, Frankfurt a. M. 2002 e in Id. (a c. di), Literatur.
digital. Formen und Wege einer neuen Literatur, München 2002.
24
Tra i testi fondamentali di questa tradizione di ricerca: H. Pfotenhauer, Um 1800. Konigurationen der Literatur, Kunstliteratur
und Ästhetik, Tübingen 1991; E. Osterkamp, Im Buchstabenbilde.
Studien zum Verfahren goethischer Bildbeschreibungen, Stuttgart
1991.
25
Forse sarebbe possibile anche per la teoria letteraria una storia
delle sue metafore visuali del tipo di quella tentata per la storia
della ilosoia in B.H.F. Taureck, Metaphern und Gleichnisse in der
Philosophie. Versuch einer kritischen Ikonologie der Philosophie,
Frankfurt a. M. 2004.
26
B. Nugel, The Just Design. Studien zur architektonischen Vorstellungsweisen in der neoklassischen Literaturtheorie am Beispiel
Englands, Berlin-New York 1980.
27
Sulla nozione di “metafora assoluta” si veda ora A. Haverkamp,
D. Mende (a c. di), Metaphorologie. Zur Praxis von Theorie, Frankfurt a. M. 2009.
28
G. Boehm, Paul Cézanne Montagne Sainte Victoire, Frankfurt
a. M. 1988.
29
Cfr. M. Cometa, Gli dèi della lentezza. Metaforiche della “pazienza” nella letteratura tedesca, Milano 1990, pp. 99-129.
30
I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi, a c. di M.Barenghi,
Milano 1995, 2 voll., pp. 631-753.
31
Per la letteratura non si può fare a meno di rimandare al classico studio di A. Langen, Anschauungsformen in der deutschen
Dichtung des 18. Jahrhunderts, Darmstadt 1965.
32
Per una discussione approfondita della nozione di “regime scopico” in letteratura mi permetto di rinviare al mio Letteratura e
dispositivi della visione nell’era prefotograica, in V. Cammarata (a
c. di), La inestra del testo. Letteratura e dispositivi della visione
tra Settecento e Novecento, Roma 2008, pp. 9-76 e all’ampia bibliograia ivi segnalata.
33
M. Milner, 1982, La fantasmagorie. Essai sur l’optique fantastique, Paris 1982; tr. it. La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, Bologna 1989.
34
Ph. Hamon, Expositions, littérature et architecture au XIXe
siècle, Paris 1989; tr. it. M. Giuffredi (a c. di), Esposizioni: Letteratura e architettura nel XIX secolo, prefazione di M. Di Puolo,
Bologna 1995; Id., Imageries. Littérature et image au XIXe siècle,
Paris 2007 e Id., La letteratura, la linea, il punto, il piano, in R.
Coglitore (a c. di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, Palermo 2008, pp. 63-79.
35
M. Cometa, A. Montandon, Vedere. Lo sguardo cit., passim.
36
Cfr. U. Stadler, Der technisierte Blick. Optische Instrumente und
der Status von Literatur. Ein kulturhistorisches Museum, Würzburg
2003; Id., Vedere meglio, vedere altro! La scienza e la poesia in
rapporto all’esperienza visiva, in R. Coglitore (a c. di), Cultura
visuale. Paradigmi a confronto, cit. pp. 101-17; V. Cammarata (a
c. di), La inestra del testo. Letteratura e dispositivi della visione
tra Settecento e Novecento, passim.
37
L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle
origini a Bernardino da Siena, Torino 2002.
38
M.A. Holly, Past Looking. Historical Imagination and the Rhetoric of the Image, Ithaca NY 1996 e L. Bolzoni, Poesia e ritratto
nel Rinascimento, Bari-Roma 2008.
39
Cfr. S. Volpe, Adattamento. Sette ilm per sette romanzi, Venezia
2008 e V. Magitti, Lo schermo fra le righe. Cinema e letteratura del
Novecento, Napoli 2007.
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