Parrasio e i limiti dell’arte.
Una lettura di Seneca Contr. 10,5
Alfredo Casamento
Abstract: The paper focuses on Seneca the Elder’s Controversia 10,5. The text
concerns the charge to the painter Parrhasius of torturing to death an Olyntian slave
that had served as a model of a Prometheus. The interests of declaimers highlight
the concept of realism in art, introducing a theme, that of the relationship between
real and believable, which crosses several issues on which the rhetoric has produced deep and accurate reflections.
Keywords: Seneca the Elder; Parrhasius; realism; art; rhetoric
Il motivo della tortura è notoriamente tra i più ricorrenti nell’ambito della letteratura declamatoria. Vi si scorge infatti più che un riflesso della pratica, codificata dalla retorica e abbondantemente contemplata dalla manualistica, volta a considerare i tormenta elemento di primo piano che concorre
all’accertamento della verità costituendo in tal senso una delle πίστεις
1
ἄτεχνοι . Né manca nella riflessione antica un dibattito sull’uso di un tale
2
impiego se, ad esempio, Quintiliano, mentre ne conferma l’appartenenza al
1
Così è in Rhet. Alex. 14,8-17,2; Arist. Rhet. 1376b31ss.; Cic. De orat. 2,116;
Quint. Inst. 5,4 per limitarci ai manuali più importanti della tradizione greca e latina. Sull’articolata presenza del tema della tortura nella letteratura declamatoria
molto informati Bernstein 2009; Id. 2012; Id. 2013: 44-57; Zinsmaier 2015.
2
Ha ragione Bernstein 2012 nell’osservare che “Roman rhetorical and juristic
sources present a common topic… questioning the credibility of testimony extracted through subjection to torture”. Cf. ad es. Rhet. Her. 2,10 (su cui Calboli 19932:
234); ma soprattutto Cic. Part. 50 (saepe etiam quaestionibus resistendum est,
quod et dolorem fugientes multi in tormentis ementiti persaepe sint morique maluerint falsum fatendo quam infitiando dolere; multi etiam suam vitam neglexerint
ut eos qui eis cariores quam ipsi sibi essent liberarent, alii autem aut natura cor-
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Alfredo Casamento
genere delle probabationes inartificiales, testimonia l’opinione di quanti
ritengono i tormenta una fonte per dire il falso (Inst. 5,4,1 cum pars altera
quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam causam
falsa dicendi), precisando che se ciò avviene è perché in alcuni casi la patientia, la capacità, cioè, di resistere al dolore, spinge facilmente a mentire,
3
mentre in altri è il suo contrario, l’infirmitas, a sollecitare a mentire . Va
detto ad ogni modo che quello che sul piano dell’accertamento della verità
processuale doveva costituire un elemento di incertezza reale, tale da metterne in discussione l’effettiva utilità, certamente trovava nella prassi una
realtà feconda se ancora Quintilano osserva che, in relazione al locus de
tormentis, plenae sunt orationes veterum ac novorum (ibid.).
Per quanto riguarda poi l’ambito delle declamazioni tale locus appare
frequentemente rappresentato spesso anche in forme estreme, riconducibili
4
alle modalità creative proprie di tale cultura : basterà in questa sede ricordare il caso della Declamatio maior 7 dello pseudo-Quintiliano, su cui è
5
tornato di recente Neil Bernstein , in cui il protagonista, un povero che ha
poris aut consuetudine dolendi aut metu supplicii ac mortis vim tormentorum pertulerint, alii ementiti sint in eos quos oderant); pro Sulla 78 (in quibus quamquam
nihil periculi suspicamur, tamen illa tormenta gubernat dolor, moderatur natura
cuiusque cum animi tum corporis, regit quaesitor, flectit libido, corrumpit spes,
infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati loci relinquatur, su cui molto
preciso Berry 2004: 289-291). Ma vd. già Rhet. Alex. 16; Arist. Rhet. 1377a3-5.
3
Tali considerazioni saranno ampiamente confermate nella sezione de quaestionibus di Dig. 48,18.
4
Sulla frequenza di riferimenti alla tortura nei testi declamatori rileva opportunamente Bernstein 2012: 165 “rhetorical education in the Roman imperial period
guided elite male students to think critically about both the ethical and the pragmatic considerations involved in the employment of torture”. Per Zinsmaier 2015:
208 “given their antilogistic structure, it is not surprising that the evidentiary validity of torture in declamations has the same ambivalence as in the rhetorical handbooks”.
5
Bernstein 2013: 114ss.
Parrasio e i limiti dell’arte
59
perso un figlio, chiede egli stesso di sottoporsi ai tormenta per confermare
l’accusa ad un dives, suo rivale, di essere l’uccisore del ragazzo.
Nondimeno, l’abituale ricchezza di immagini che accompagna tale motivo pervade innumerevoli pièces declamatorie, anche dove non sia in di6
scussione il ricorso preciso al locus de tormentis . Due casi da questo punto
di vista esemplari sono le controversie 10,4 e 10,5 del corpus di Seneca il
7
Vecchio . Sulla seconda di esse intendiamo in questa sede concentrare l’attenzione. Questo il thema:
Contr. 10,5 Parrhasius, pictor Atheniensis, cum Philippus captivos Olynthios venderet, emit unum ex iis senem; perduxit Athenas; torsit et ad exemplar eius pinxit
Promethea. Olynthius in tormentis perit. Ille tabulam in templo Minervae posuit.
Accusatur rei publicae laesae.
Parrasio, pittore rinomato, compra un prigioniero di Olinto appena venduto da Filippo di Macedonia per farne il modello di un Prometeo che intendeva realizzare. Il vecchio, però, muore tra i tormenti; Parrasio termina
l’opera e la offre al tempio di Minerva; ma viene accusato di lesa repubblica.
Ciò che distingue con immediatezza lo spunto è intanto il fatto che il
protagonista della vicenda è un personaggio realmente esistito, in seconda
battuta, che la vicenda è incorniciata da un una precisa contestualizzazione
8
storica: il riferimento concreto è al trattato di alleanza , concordato tra Ate6
“Declamation typically employs the torture narrative to generate both pathos and
pleasure”, così Bernstein 2013: 117.
7
Se ne è occupata in un contributo recente Danesi Marioni 2011-12, in un’indagine
volta ad analizzare la capacità dei declamatori di esaltare scene particolarmente
macabre, dominate da torture e sevizie, attraverso il ricorso al meccanismo retorico
dell’ἐνάργεια / evidentia. Sulla 10,4 vd. Huelsenbeck 2015, che vi conduce un’interessante analisi delle modalità di “speech-exchange system”, ricostruendo i vari
interventi, ripartiti per loci, alla luce dello scambio comunicativo tra i declamatori.
8
Nella controversia è espressamente richiamato nell’intervento di Argentario in
10,5,3 (ibi ponit tabulam, ubi fortasse nos tabulam foederis posuimus).
60
Alfredo Casamento
niesi ed Olintiaci, secondo il quale i primi s’impegnavano a soccorrere i secondi minacciati da Filippo di Macedonia, che tuttavia, poco dopo, prende9
rà la città distruggendola e annettendone il territorio allo Stato macedone .
L’ambientazione della controversia è dunque in qualche misura databile,
perché gli eventi narrati quale antefatto dell’azione riguardano gli anni,
cruciali per la città, 349-348 a.C., nel momento in cui, minacciata dalla po10
tenza di Filippo cui era prima alleata , Olinto si rivolge ad Atene, antica
11
rivale, per ottenerne protezione ; peraltro, notizie certe del trattato di alleanza tra le due città sono a noi note anche delle Olintiache di Demoste12
ne , con cui l’oratore perorò la causa della città calcidica a fronte di una
generale indifferenza degli Ateniesi, che infatti intervennero tardivamente.
L’anno seguente, probabilmente a causa del tradimento di alcuni suoi
13
generali, i comandanti della cavalleria Euticrate e Lastene , la città cadde e
venne rasa al suolo dal re, che deportò gli abitanti distribuendoli tra la Tra14
cia e la Macedonia . Da quel che si apprende da altre fonti, agli Ateniesi
9
Per una ricostruzione della politica di Filippo nei confronti di Olinto e della Calcidica oltre a Gude 1933 vd. almeno Consolo Langher 1994; 1996.
10
Sull’alleanza conclusa da Filippo con Olinto vd. Diod. 16,8,3.
11
Sulla pace tra Atene ed Olinto e sulla possibilità di concludere un trattato di alleanza cf. Dem. 3,7; 23,109.
12
Su cui Tuplin 1998.
13
Dem. 19,343; Diod. 16,53,3. I due generali sono peraltro nominati nella controversia a testimonianza di una responsabilità acclarata nella fine tragica di Olinto:
così, nell’intervento di Cestio Pio (10,5,4: istud tibi nullo Olyntio permitto, nisi si
Lasthenen emeris) si afferma che una tortura del genere non sarebbe concepibile
nemmeno contro Lastene, mentre, provocatoriamente, richiama entrambi Albucio
Silo (10,5,10: expecta, dum Euthycrates aut Lasthenes capiantur). Tra i colores,
infine, Gallione tentando la difesa di Parrasio fa dire al pittore di aver comprato un
vecchio che apparteneva ad un gruppo di criminali; ma Seneca ritiene insostenibile
tale color, aggiungendo che su questa strada avrebbe potuto allora dire che il vecchio era un sostenitore di Lastene e che l’aveva torturato al fine di punirlo (conscium proditionis Lastheni fuisse et se poenae causa torsisse).
14
Vd. Gude 1933: 36; Consolo Langher 1996.
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61
non restò che offrire ospitalità a quanti tra gli Olintiaci vi cercarono rifu15
gio . Su quest’ultimo particolare s’innesta la vicenda che ispira il lavoro
dei declamatori.
Se dunque questo è il quadro storico prefigurato dal testo, va tuttavia
precisato che Parrasio non poté essere certamente protagonista degli eventi;
la sua morte si data infatti intorno al 385 a.C. mentre Plinio il Vecchio pone
l’apice della sua carriera intorno al 420 a.C. (Nat. 35, 60). Dunque, se volessimo condurre il nostro discorso sul tema della verisimiglianza storica, la
presenza di Parrasio agli eventi della caduta di Olinto e della conseguente
deportazione dei suoi abitanti sarebbe un falso.
Tuttavia, prima di entrare nel dettaglio delle argomentazioni sviluppate
lungo il corso della controversia sarà il caso di ricordare che le fonti antiche
segnalano una particolare perizia del pittore nel definire i contorni e nell’imitare il vero, come testimoniano, tra gli altri, Plinio il Vecchio in nat.
35,67-68 e Quintiliano, che definisce Parrasio “legislatore” della sua disci16
plina . Peraltro, questa particolare attitudine a riprodurre con precisione le
fattezze di un corpo è confermata dall’aneddoto riguardante una contesa di
pittura dal vero che lo vide scontrarsi con Zeusi. Quest’ultimo aveva dipinto dell’uva con tanto realismo che ben presto degli uccelli erano giunti per
15
Vd. Harpocrat. ι 24 Dindorf che cita Teofrasto per la notizia della concessione
della ἱσοτέλεια (οὖτος δέ φησιν ὡς ἐνιαχοῦ καὶ πόλεσιν ὅλαις ἐψηφίζοντο τὴν
ἱσοτέλειαν Ἀθηναῖοι, ὥσπερ Ὀλυνθίοις τε καὶ Θηβαίοις), Suda κ 356,26-27 Adler
per la cittadinanza (προδόντων δὲ τὴν Ὄλυνθον Εὐθυκράτους καὶ Λασθένους, τὴν
µὲν ἀνάστατον ἐποίησε, τὰς δὲ ἄλλας πόλεις εἶλεν· Ἀθηναῖοι δὲ τοὺς περισωθέντας
πολίτας ἐποιήσαντο). Sulla questione vd. Osborne 1983: 125-126.
16
Sul passo pliniano vd. Corso-Mugellesi-Rosati 1988: 365. Per Quint. Inst.
12,10,5 mentre Zeusi era l’inventore della tecnica di rappresentazione di luci ed
ombre, Parrasio examinasse subtilius lineas traditur, aggiungendo poco dopo: ille
uero ita circumscripsit omnia ut eum legum latorem uocent, quia deorum atque
heroum effigies, quales ab eo sunt traditae, ceteri tamquam ita necesse sit secuntur. Sul passo, molto noto agli storici dell’arte, vd. Rouveret 1989: 424-436.
62
Alfredo Casamento
assaggiarla, mentre Parrasio aveva aggiunto un velo, riprodotto con tale naturalezza e precisione da ingannare lo stesso Zeusi, il quale, compreso
l’errore, era stato costretto ad ammettere che la palma della vittoria doveva
andare al rivale: egli aveva ingannato solo degli uccelli, mentre quello addirittura un artista:
Plin. Nat. 35,65 Descendisse hic in certamen cum Zeuxide traditur et, cum ille detulisset uvas pictas tanto successu, ut in scaenam aves advolarent, ipse detulisse
linteum pictum ita veritate repraesentata, ut Zeuxis alitum iudicio tumens flagitaret
tandem remoto linteo ostendi picturam atque intellecto errore concederet palmam
ingenuo pudore, quoniam ipse volucres fefellisset, Parrhasius autem se artificem.
Le notizie relative all’abilità compositiva del pittore, lo stesso aneddoto
17
della gara con Zeusi, cui allude anche Seneca in 10,5,27 in un altro aned18
doto anch’esso riferito da Plinio (Nat. 35,66) , confermano alcuni tratti
delle sue qualità pittoriche che i declamatori sviluppano nella controversia.
L’argomento in questione riguarda la pretesa realistica dell’artista che
avverte la necessità di riprodurre con fedeltà e precisione le sofferenze di
Prometeo incatenato alla nota rupe del Caucaso. Di qui il bisogno di servirsi di un modello che potesse riprodurre al meglio lo sforzo e il dolore del
Titano.
Prima di addentrarci nella lettura del testo, sarà appena il caso di rilevare come un motivo topico della cultura declamatoria quale dello della tortura, che certo s’innerva nel filone espressionistico che fa da contrappunto
alla letteratura del primo secolo d.C., trovi in questa circostanza una singo17
Traditur enim Zeuxin, ut puto, pinxisse puerum uvam tenentem, et, cum tanta esset similitudo uvae ut etiam faceret <aves advolare> operi, quendam ex spectatoribus dixisse aves male existimare de tabula; non fuisse enim advolaturas <si>
puer similis esset. Zeuxin aiunt oblevisse uvam et servasse id quod melius erat in
tabula, non quod similius.
18
Sui passi pliniani relative ai due aneddoti cf. l’esaustiva nota di commento di
Corso-Mugellesi-Rosati 1988: 363.
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63
larissima espressione. Basterà a tal proposito ricordare come la storia qui
raccontata a proposito di Parrasio, anche al netto di una necessità di rielaborazione che potremo riconoscere al suo autore (o a quella congerie di autori
di cui Seneca si fa in qualche modo portavoce), sia tra le più antiche testimonianze sull’attività del pittore, anticipando le fonti per noi principali su
19
di lui .
I declamatori sono dunque particolarmente abili a lavorare su un tema
20
difficile, moralmente ed eticamente discutibile, se non riprovevole . Peraltro, la scabrosità dell’argomento è tale che lo stesso Seneca ad un certo
punto commenterà che i Greci ritenevano un nefas sostenere la parte della
difesa (10,5,19 Graeci nefas putaverunt pro Parrhasio dicere). Il desiderio
creativo di Parrasio tende ad una sorta di estetizzazione del dolore e del
tormento fisico quale elemento fondamentale e irrinunciabile della sua arte.
Qualcosa di molto complesso, che si presta a molteplici piani di lettura, in
cui è forse possibile scorgere un riflesso, sia pur fuori di contesto, di quell’estetica della tirannia che caratterizzerà molti protagonisti del teatro senecano, Atreo in testa, affascinati dal male delle loro creazioni, tutti protesi in
21
essa . E d’altra parte, se, come vedremo, nella controversia la figura di Filippo assume il tratto, abituale all’universo fittizio delle declamazioni, del
tyrannus spietato ed insaziabile, i declamatori avranno facile gioco ad esasperare la caratterizzazione già così netta di Parrasio, presentando l’uomo
con quelle “qualità” che la tradizione stereotipa del genere destina ai tiranni
veri.
19
Nota opportunamente Morales 1996: 184: “Seneca’s controversia was written
before our main surviving sources on Parrhasius - Pliny and Atheneus. However,
as is clear from the controversia, Seneca has access to similar stories about the artist to those reported by the later writers”.
20
Per Gunderson 2003: 93 “declamation itself, though, also forms a sort of torturous artistic display”.
21
Vd. Danesi Marioni 2011-12. In relazione alle qualità di Atreo Schiesaro 2003:
46 parla di “furor of poetic creation”.
64
Alfredo Casamento
Pare da questo punto di vista non casuale il fatto che gli interventi dei
declamatori insistano nel riprodurre il momento della sofferenza imposta
attraverso la tortura. In questi termini, ad esempio, Gavio Silone descrive la
scena: “Viene frustato e lui: “è poco”; viene ustionato: “è ancora poco”;
viene straziato: “questo basta all’ira di Filippo, ma non ancora a quella di
Giove” (10,5,1 Caeditur: ‘parum est’ inquit; uritur: ‘etiamnunc parum
est’; laniatur: ‘hoc’ inquit ‘<in> irato Philippo satis est, sed nondum in
irato Iove’), dopo aver precisato che in realtà la sofferenza dell’uomo costretto ad abbandonare la patria rasa al suolo, la moglie e i figli era qualità
sufficiente a farne un ottimo soggetto per il quadro (infelix senex vidit iacentis divulsae patriae ruinas; abstractus a coniuge, abstractus a liberis,
super exustae Olynthi cinerem stetit; iam ad figurandum Promethea satis
22
tristis est) .
Si tratta di un modo di rappresentare il momento della tortura inflitta e
della sofferenza subita che – lo ha ben messo in evidenza Giulia Danesi –
sembra anticipare le celebri pagine di Seneca figlio in cui viene descritta la
crudeltà degli spettacoli gladiatori (Ep. ad Luc. 7,5), così come, sul versante della tragedia, il progettato omicidio dei nipoti da parte di Atreo nel mo23
mento del dialogo con il satelles (Thy. 254ss.) : una modalità di ‘pianificare’ il dolore e realizzarlo che approssima peraltro gli sforzi dei declamatori
al milieu culturale e sociale di una città abituata a spettacoli sanguinari,
come conferma ulteriormente la citazione, molto simile alla precedente, di
Arellio Fusco, che, dopo aver immaginato una singolare scena in cui sono
22
Sul tema della città personificata vd. Degl’Innocenti Pierini 2013: 230ss. che cita
il caso di Olinto come esemplarmente presente anche nella riflessione romana.
23
In particolare Danesi Marioni 2011-12 ipotizza che dietro il v. 257 (SAT. Ferrum? AT. Parum est. SAT. Quid ignis? AT. Etiamnunc parum est), in cui su sollecitazione del satelles, divenuto frattanto aiutante del tyrannus, Atreo discute della
modalità di esecuzione del delitto, si possa identificare una ripresa della citazione
di Gavio Silone nella quale Parrasio incita i seviziatori a continuare nelle torture.
Parrasio e i limiti dell’arte
65
protagonisti da una parte Parrasio con i colori, dall’altra il carnefice con i
suoi ferri del mestiere, sovrappone le due immagini attribuendo l’appellativo di carnefice al pittore stesso, che si rivolge all’uomo addetto alle torture intimandogli di infierire sempre più:
10,5,9-10 Statuitur ex altera parte Parrhasius cum coloribus, ex altera tortor cum
ignibus, flagellis, eculeis. Ista aut videntem aut expectantem, Parrhasi, parum tristem putas? Dicebat miser: ‘Non prodidi patriam. Athenienses, si nihil merui, succurrite, si merui, reddite Philippo’. Inter ista Parrhasius dubium est studiosius
pingat an saeviat. ‘Torque, verbera, ure’: sic iste carnifex colores temperat. Quid
ais? parum tristis videtur quem Philippus vendidit, emit Parrhasius? ‘Etiamnunc
torque, etiamnunc; bene habet, sic tene, hic vultus esse debuit lacerati, hic morientis’.
Imitare quel che si vede
Nondimeno, la controversia, pur nella sgradevolezza del tema proposto,
mostra molto bene la capacità, purtroppo lungamente misconosciuta, che i
testi declamatori hanno di riflettere su questioni problematiche e nodi irri24
solti nell’ambito di uno sperimentalismo che rende straordinariamente in25
teressante il tipo di letteratura fictionale praticato . Proprio l’intervento di
Arellio Fusco, ad esempio, dà prova di una certa attenzione per la questione
26
del realismo nell’arte e dei suoi limiti , un tema che in questa circostanza
24
La bibliografia sul fenomeno declamatorio, soprattutto su quello in lingua latina,
è oggi enormemente cresciuta. Uno sguardo attuale sulle recenti prospettive di ricerca è nel recente volume curato da Mario Lentano (Lentano 2015). A proposito
delle Maiores pseudoquintilianee – ma il discorso si può facilmente allargare a tutti
i corpora declamatori – Connolly 2016: 193 parla adesso della necessità di “new
metric” per comprendere l’insieme di relazioni tra arte, letteratura, norme sociali
che contraddistingue tali testi.
25
Per questa prospettiva cf. van Mal-Maeder 2007; Lentano 2010 e 2015; Pasetti
2011: 45ss.
26
Rileva opportunamente Morales 1996: 184 che il testo della controversia “provides a crucial insight into Roman ideas on art and its role in society… the contro-
66
Alfredo Casamento
può esser percepito come di notevole interesse in quanto riguarda non soltanto l’opera d’arte come prodotto finito e la sua capacità di muovere l’animo di chi la osserva, ma, soprattutto, il modo di realizzarla. Un tipo di riflessione che la tradizione vuole in qualche modo legato a Parrasio, campione della linea e del realismo pittorico, se, ad esempio, nel terzo libro dei
Memorabili (3,10) Senofonte ricorda l’incontro di Socrate con il pittore, oltre che con un non altrimenti noto scultore Clitone ed un fabbricante di corazze. In quella circostanza, al centro dell’interesse del filosofo, che esordisce domandando provocatoriamente a Parrasio se scopo della pittura sia
“l’imitazione delle cose che si vedono” (3,10,1 ἡ γραφική ἐστιν εἰκασία
τῶν ὁρωµένων), è la capacità delle arti figurative di esprimere non solo ciò
che l’artista vede ma anche i sentimenti che animano gli uomini (3,10,8 δεῖ
ἄρα…τὸν ἀνδριαντοποιὸν τὰ τῆς ψυχῆς πάθη τῷ εἴδει προσεικάζειν), perché riprodurre le emozioni provoca godimento nell’osservatore (ibid. τὸ δὲ
καὶ τὰ πάθη τῶν ποιούντων τι σωµάτων ἀποµιµεῖσθαι οὐ ποιεῖ τινα τέρψιν
27
τοῖς θεωµένοις) .
Tali riflessioni non dovevano peraltro essere estranee all’orizzonte retorico, se, ad esempio, a questo argomentare, legato al nome di Parrasio,
esplicitamente fa riferimento Cicerone nei paragrafi iniziali dell’Orator:
Orat. 8-10 Atque ego in summo oratore fingendo talem informabo qualis fortasse
nemo fuit. non enim quaero quis fuerit, sed quid sit illud quo nihil possit esse praestantius, quod in perpetuitate dicendi non saepe atque haud scio an nunquam, in
aliqua autem parte eluceat aliquando, idem apud alios densius apud alios fortasse
rarius. sed ego sic statuo, nihil esse in ullo genere tam pulchrum, quo non
pulchrius id sit unde illud ut ex ore aliquo quasi imago exprimatur. quod neque
oculis neque auribus neque ullo sensu percipi potest, cogitatione tamen et mente
complectimur. itaque et Phidiae simulacris quibus nihil in illo genere perfectius
versia is an important document which negotiates the social and moral responsibilities of the artist and the spectator”.
27
Sul testo senofonteo Preisshofen 1974; Rouveret 1989: 14-15; Squire 2015: 313.
Parrasio e i limiti dell’arte
67
videmus et iis picturis quas nominavi cogitare tamen possumus pulchriora. nec vero ille artifex cum faceret Iovis formam aut Minervae, contemplabatur aliquem e
quo similitudinem duceret, sed ipsius in mente insidebat species pulchritudinis
eximia quaedam, quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et
manum dirigebat. ut igitur in formis et figuris est aliquid perfectum et excellens,
cuius ad cogitatam speciem imitando referuntur ea quae sub oculos ipsa non cadunt, sic perfectae elo quentiae speciem animo videmus, effigiem auribus quaerimus. has rerum formas appellat ἰδέας ille non intellegendi solum sed etiam dicendi
gravissimus auctor et magister Plato easque gigni negat et ait semper esse ac ratione et intellegentia contineri; cetera nasci occidere, fluere labi nec diutius esse
uno et eodem statu. quicquid est igitur de quo ratione et via disputetur, id est ad
ultimam sui generis formam speciemque redigendum.
Alla luce di un pensiero dichiaratamente debitore nei confronti dell’insegnamento di Platone e della sua teoria delle idee – ma non è da escludere
28
un riferimento alla pagina di Senofonte, certamente nota a Quintiliano –
Cicerone dichiara che il proprio intendimento non è quello di voler cercare
l’oratore perfetto da offrire all’emulazione di quanti siano desiderosi di intraprendere la carriera forense, ma, piuttosto, di evidenziare quegli elementi
che “brillano” in un’orazione e rispetto ai quali nulla possa esser considerato più importante (quo nihil possit esse praestantius). Subito dopo precisa
che non è questione di modelli, perché in ogni genere – ed appare immediatamente evidente che Cicerone pensa alle arti figurative – “non vi è nulla
tanto bello di cui non sia più bello quello da cui ciò derivi, così come da un
volto un ritratto” (nihil esse in ullo genere tam pulchrum, quo non pulchrius id sit unde illud ut ex ore aliquo quasi imago exprimatur). D’altra
parte, aggiunge subito dopo, spesso accade che questo modello di bellezza
può esser solo pensato o supposto non essendo percepibile con i sensi ma
28
Il quale, in Inst. 12,10,3ss. citerà Zeusi e Parrasio quali pittori che contribuirono
notevolmente allo sviluppo della disciplina, ricordando l’opera di Senofonte
(12,10,4 cum Parrhasio sermo Socratis apud Xenophontem invenitur).
68
Alfredo Casamento
soltanto con la forza del pensiero: quod neque oculis neque auribus neque
ullo sensu percipi potest, cogitatione tamen et mente complectimur. L’esempio segue immediatamente: un artista come Fidia, quando lavorava alla
statue di Giove e di Minerva, non aveva un modello di cui riprodurre le fattezze, dal momento che nella sua mente aveva una species pulchritudinis,
29
una sorta di “visione” della bellezza ideale cui tendere i propri sforzi crea30
tivi .
Cicerone concluderà questa pagina intensa sui valori e i metodi della riproducibilità del bello, affermando che analogamente neppure dell’oratore
si può dare un modello ideale di perfezione perché l’immagine della perfetta eloquenza (e ancora una volta il termine è species) non cade sotto gli occhi ma la si vede con l’animo e se ne percepisce la manifestazione con le
orecchie (sic perfectae eloquentiae speciem animo videmus, effigiem auribus quaerimus), allusione trasparente all’importanza degli effetti uditivi
della performance dell’oratore. Il che è in qualche misura quanto Socrate fa
dire all’ignoto scultore dell’aneddoto riportato da Senofonte a proposito
della capacità dell’artista di riprodurre qualcosa al di là del fatto che essa
sia ben visibile.
La soluzione di cui altrove la retorica si doterà per riprodurre ciò che
non si vede ma si può – e talvolta si deve – presumere accada è nella phantasia, la capacità attraverso cui “le immagini di oggetti assenti sono ripro-
29
Species traduce dunque in questa circostanza la forma ideale di bellezza che ispira lo scultore così come l’oratore; forma è invece il modello concreto, “materiale”.
Sul punto, oltre a Kroll-Jahn 19715: 24-25, adesso Fletcher 2016: 248-249 alla luce
di un’ampia ricognizione sull’ispirazione platonica del passo.
30
In relazione alla questione del creare quel che non si vede, Fidia ha un ruolo di
primo piano: “c’est, en effet, avant tout à propos de la création des statues des
dieux que se pose le problème de l’ingenium de l’artiste capable de créer une
image de l’invisible. Un sculpteur se trouve privilégié par rapport à tout autre, c’est
Phidie”, così Rouveret 1989: 405.
Parrasio e i limiti dell’arte
69
dotte mentalmente in modo tale da sembrare di discernerle con gli occhi e
31
percepirle dal vivo” (Quint. Inst. 6,2,29, trad. Celentano) .
Proprio quello di cui il Parrasio protagonista della controversia non si
avvale. Ciò che tanto l’aneddoto socratico quanto l’ispirata pagina dell’Orator suggeriscono è infatti esattamente il contrario di quel che nella
controversia senecana muove il pittore. Alla riflessione dei declamatori è
suggerito lo sviluppo di un tema in cui Parrasio intenderebbe fare quel che
Cicerone considera un’impossibile, ancorché sterile, riproduzione del modello. Ex ore quasi imago rilevava Cicerone, valutando come limitante
un’eventuale, stringente aderenza, quasi una dipendenza, di un artista che
crea al suo modello: che è esattamente quanto prevede lo spunto declamatorio; un progetto, quello di Parrasio, interrotto solo dalla morte dello sfortunato modello.
Se dunque riconosciamo al passo dell’Orator non tanto un referente
preciso degli argomenti della nostra controversia, quanto la riprova di un
32
interesse della retorica ai temi del realismo nell’arte , si potrà tuttavia osservare come la questione sia ben rappresentata nell’intervento prima citato
di Arellio Fusco, con una selezione di immagini per nulla lontana da quanto
era servito a Cicerone per argomentare le proprie posizioni. L’Arpinate fa31
Ma vd. la definizione che di phantasia fornisce l’Anonimo del Sublime al § 15
differenziando la phantasia dei poeti, il cui fine è l’ἔκπληξις, da quella dell’oratore
che genera ἐνάργεια. Sul passo di Quintiliano Dross 2004-2005; più in generale i
contributi presenti in Cristante-Fernandelli 2004-2005. Quanto poi sulla nozione di
phantasia sia possibile leggere una stretta relazione tra arte e retorica discutono
Rouveret 1989: 383ss.; Elsner 2014: 23ss.
32
Argomento che trova spazio nella questione molto più ampia dei rapporti tra retorica e arte figurativa per i quali rinvio al recente volume, ricco di stimolanti riflessioni, di Elsner-Meyer 2014. Utili soprattutto in relazione ai temi qui sviluppati
le penetranti introduzioni di Meyer 2014 e di Elsner 2014 e il contributo di Platt
2014. Un saggio dei rapporti tra arte figurativa e retorica attraverso un’attenta lettura di un passo del De Isaeo di Dionisio di Alicarnasso è offerto inoltre da Castelli
2010.
70
Alfredo Casamento
ceva l’esempio di Fidia intento a realizzare le statue di Giove e di Minerva
(Orat. 9 nec vero ille artifex cum faceret Iovis formam aut Minervae, contemplabatur aliquem e quo similitudinem duceret, sed ipsius in mente insidebat species pulchritudinis eximia quaedam, quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et manum dirigebat) per affermare che
nella realizzazione di tali conclamati capolavori l’artifex non aveva avuto
davanti un modello “reale” cui ispirarsi, ma aveva operato per trasferire
nell’opera la species pulchritudinis che aveva nella mente. Analogamente,
nell’intervento di Arellio Fusco l’immagine di Fidia alle prese con le statue
33
di Giove e Minerva sarà ripresa per marcare le differenze tra l’atteggiamento dello scultore, che non ha avuto bisogno di avere davanti agli occhi
un modello reale (non vidit … nec stetit ante oculos) per immaginare le fattezze di un dio e realizzarle (et concepit deos et exhibuit), e le pretese realistiche di Parrasio.
Su questa immagine, quasi una sorta di grado zero di ogni discorso sul
realismo nelle arti figurative, s’innesta poi la tensione parossistica e volutamente sopra le righe, propria della cultura dei declamatori, con cui il retore arriva ad affermare che in nome del realismo pittorico si potrebbe perfino inscenare una guerra vera, con eserciti che si fronteggiano e ferite vere,
se soltanto il pittore esprimesse il desiderio di rappresentarne una:
33
Che tale soggetto fosse avvertito come particolarmente interessante in ambito
declamatorio può esser confermato da un riferimento presente in un’altra controversia, a noi giunta solo per excerptum, la 8,2, di cui mi sono recente occupato in
Casamento (in corso di stampa). È forse interessante rilevare che l’aneddoto di Fidia alle prese con la difficoltosa questione di come rappresentare il divino sarà poi
ulteriormente menzionata da Philostr. Vit. Apoll. 6,19 e Plot. Ennead. 5,8,1. Dione
Crisostomo in Or. 12 44-46 porrà poi Fidia davanti all’interrogativo se la sua rappresentazione di Zeus potesse considerarsi adeguata alla divinità (su questo testo,
noto peraltro per il confronto tra poesia e scultura, brillante l’indagine condotta da
Pernot 2011).
Parrasio e i limiti dell’arte
71
10,5,8 Non vidit Phidias Iovem, fecit tamen velut tonantem; nec stetit ante oculos
eius Minerva, dignus tamen illa arte animus et concepit deos et exhibuit. Quid facturi sumus si bellum volueris pingere? Diversas virorum statuemus acies et in mutua vulnera armabimus manus? Victos sequentur victores? Revertentur cruenti?
Ne Parrhasii manus temere ludat coloribus, internecione humana emendum.
Del resto, lo stesso Seneca conferma nella parte dei colores, che tutti i declamatori provarono questo luogo comune: 10,5,23 illum locum omnes
temptaverunt: quid, si volueris bellum pingere? Quid, si incendium? Quid,
si parricidium? Singolare a questo proposito un color del retore greco Dorione che, citando alcune tra le più truci storie tragiche commenta: ibid. τίς
Οἰδίπους ἔσται, τίς Ἀτρεύς; οὐ γράψεις γὰρ ἂν µὴ µύθους ἴδῃς ζῶντας.
Come a dire che, in nome delle esigenze del realismo, per rappresentare la
storia di Edipo o il banchetto cannibalico imbandito da Atreo sarebbe stato
necessario avere davanti i protagonisti del mito in carne ed ossa e, soprattutto, in azione (µύθους … ζῶντας).
L’ansiosa ricerca del pittore di un modello perfetto per la sua opera è
destinata a restare frustrata. E con una qualche ironia, se, come afferma
Cornelio Ispone probabilmente alludendo alla variante del mito che prevedeva la liberazione del Titano contemplata nel perduto Προµηθεὺς λυόµενος, piuttosto che far rivivere Prometeo, Parrasio sarebbe andato oltre,
34
causandone la morte :
10,5,6 Ultima membrorum tabe tormentis inmoritur. Parrhasi, quid agis? Non servas propositum; hoc supra Promethea est.
Perché, come commenta argutamente Argentario, una cosa è dipingere un
Prometeo, tutt’altra realizzarne uno: 10,5,3 hoc Promethea facere est, non
34
Così Morales 1996: “The mimesis is not true mimesis because Parrhasius oversteps the limit of the myth which is he is trying to depict. It is a fundamental aspect
of Prometheus’ torture that he is not allowed to die, but is forced to endure perpetual torture as his liver itself by night to be gouged anew by day”.
72
Alfredo Casamento
pingere; un modo piuttosto diretto di porre in primo piano i limiti delle pre35
tese artistiche del pittore .
Un volto non ancora all’altezza del mito
Dell’intervento di Arellio Fusco, del quale ci siamo a più riprese serviti,
risulta poi particolarmente significativa l’ultima espressione, quella in cui,
dopo aver sollecitato l’immaginario carnefice a continuare con i tormenti,
etiamnunc torque, etiamnunc, il declamatore coglie con precisione l’attimo
nel quale, felice di rintracciare negli spasmi del vecchio un’immagine soddisfacente, il pittore sollecita a fissare quell’espressione, perfetta perché
possa esser riprodotta: 10,5,10 bene habet, sic tene, hic vultus esse debuit
lacerati, hic morientis (“adesso va bene, fermalo così, questo è il volto di
un uomo straziato, questo è il volto di uno che sta morendo”). Le esigenze
di realismo pittorico e la labilità di un modello, evanescente nel trascolorare
35
Che la questione stia a cuore alla retorica, che, per dirla con Quintiliano, pensa
per sottrazione ritenendo preferibile il poco al troppo, si può inferire dall’esempio
del pittore Timante citato da Cicerone in Orat. 74 e ripreso da Quint. Inst. 2,13,13
(su cui Rheinardt-Winterbottom 2006: 210-212) che probabilmente riprende anche
Val. Max. 5,1 ext. 3. Dovendo dipingere la scena del sacrificio di Ifigenia, rappresentò Calcante triste e Ulisse ancor più triste; dipinse poi Menelao segnato dalla
più cupa espressione che la sua arte potesse ricreare; ma quando si trattò di riprodurre il dolore di Agamennone, esaurita ogni possibile rappresentazione degli adfectus, preferì velarne il capo et suo cuique animo dedit aestimandum. Di là delle
parzialmente differenti finalità che nei due trattati l’aneddoto si incarica di rappresentare, emerge la singolare contrapposizione tra la brillante resa del dolore di
Agamennone ottenuta da Timante, che pone un freno alla rappresentazione affidando alla capacità degli spettatori di ‘leggere’ dietro il velo le emozioni di un padre piegato dalla imminente morte di una figlia e l’ostinata necessità di un modello
di dolore che il Parrasio protagonista della controversia va ricercando. Ottimo sul
punto Platt 2014: 227 “Although Timanthe’s Agamemnon stands a sign of the failure of painting’s expressive power, an embodiment of agony ‘beyond which art
could not go’, the ingenuity such limitations enforce upon the artist result in representational strategies that paradoxically heighten the painting’s emotional and aesthetical power”.
Parrasio e i limiti dell’arte
73
delle emozioni e degli spasmi di dolore che segnano il volto, trovano così
una compiuta corrispondenza nel meccanismo retorico dell’evidentia, che
rilegge fatti e azioni presentandoli proprio come fossero in corso di svolgimento.
Non è dunque senza ragione che nel corso della controversia tale motivo
torni in innumerevoli interventi, come, ed esempio, in Argentario, dove si
legge: 10,5,3 Aiebat tortoribus: ‘sic intendite, sic caedite, sic istum quem
fecit cum maxime vultum servate, ne sitis ipsi exemplar (“diceva ai carnefici: ora insistete; ora frustatelo, adesso mantenete quell’espressione che ha
fatto, perché non siate voi a far da modello”). In questo caso, le parole rivolte ai carnefici perché fermino il vecchio, fissandone le smorfie di dolore,
36
divengono minaccia di finire a loro volta vittime . Così, ancora, per Triario
il vecchio non avrebbe prodotto lamenti degni dell’ira di Giove, mentre per
Aterio il suo volto non sarebbe stato ancora sufficientemente all’altezza del
mito (10,5,24 Triarius dixit: nondum dignum irato Iove gemuisti. Haterius
dixit sanius: nondum vultus ad fabulam convenit). Celebre sarebbe rimasta
poi una battuta di Latrone che, dando voce ai lamenti del senex, prevedeva
una pronta risposta del pittore: 10,5,26 Parrhasi, morior; sic tene (“Parrasio, io muoio; mantieniti così!”). L’immagine riscuote successo anche tra i
declamatori greci, come conferma un color di Diocle Caristio: 10,5,26
hanc sententiam aiunt et Dioclen Carystium dixisse non eodem modo: ἄπιστος ἡ ὑπεροψία· πρὸς τὸ ἀρέσκον εἶδος ἐβόα· µένε. Davanti ad un ἀρέσκον εἶδος, un’immagine della sofferenza degna delle aspettative, Parrasio
non avrebbe detto null’altro che µένε, “fermati”. Quasi come un regista davanti alla posa di un attore finalmente rispondente ai suoi desideri. Nella
36
Altro esempio è in 10,5,5, in cui il retore Triario descrive un’ulteriore scena di
sofferenza, dove, mi pare di rilevare, l’elemento della sofferenza inflitta, misurata
nel grado di tristitia, sembra dosato come pennellate di colore sovrapposte al fine
di intensificare la resa: nondum satis tristis es, nondum satis, inquam, adiecisti ad
priorem vultum.
74
Alfredo Casamento
tensione estrema che contraddistingue il tema di fondo della controversia
Parrasio intenderebbe riprodurre in pittura ciò che l’oratore realizza con
l’enargeia: con l’evidente e fondamentale differenza che scopo del mezzo
retorico è di presentare all’ascoltatore i fatti in maniera tale che egli abbia
l’impressione di vederli come in presa diretta, come se fossero in corso di
37
svolgimento .
L’operazione tentata da Parrasio non prevede l’opzione del “come se”:
la sua è la ricerca ostinata di una riproducibilità di emozioni dal vero, che
non accetta nessuna forma mediata o sostitutiva. La riflessione sottesa a
questo esercizio declamatorio mostra peraltro una singolare consonanza
con quanto la retorica ha a più riprese teorizzato a proposito della capacità
dell’oratore di provare davvero o simulare efficacemente quelle emozioni
che deve stimolare nell’ascoltatore: un tema quanto mai complesso che
coinvolge e associa il mestiere dell’oratore a quello dell’attore e che dà adi38
to, da Cicerone a Quintiliano, a molteplici soluzioni , tutte comunque lontane dalle pretese riproduttive di Parrasio.
Cosa resta ai tiranni?
Per tornare poi ai riferimenti alla storia, facile e prevedibile è l’associazione, sul terreno comune degli eccessi della crudeltà, di Parrasio e Filippo. Così, ad esempio, a fronte delle innumerevoli torture, Clodio Turrino
afferma che talmente sanguinario non è mai stato nemmeno Filippo (10,5,2
torqueatur: hoc nec sub Philippo factum est), mentre Gavio Silone ipotizza
37
Sull’evidenza nella tradizione retorica antica moltissimo si è scritto negli ultimi
anni. Per una sintesi delle questioni principali vd. Calboli Montefusco 2005; Celentano 2007 con particolare riguardo al versante della retorica latina. Fondamentale
adesso Berardi 2012.
38
Il tema è oggi assai dibattuto. Rinvio per l’essenziale a Narducci 1997: 85ss.;
Cavarzere 2002; Id. 2004; Id. 2011: 117-141; Petrone 20052: 13-25. La questione
dei rapporti tra retorica e teatro riceve adesso nuovi apporti, in particolar modo per
quel che riguarda il versante della commedia, da Nocchi 2013 e 2015.
Parrasio e i limiti dell’arte
75
che in un ultimo spasimo di vita il malcapitato vecchio esprimesse il velleitario desiderio d’esser ricondotto dal re: 10,5,1 ultima Olymphi deprecatio
est: ‘Atheniensis, redde me Philippo’. Peraltro, la menzione reiterata dei
mezzi di tortura e, per converso, il profilo storico di un re noto per i tratti
dispotici danno ai declamatori facile opportunità di giocare su chi tra Parrasio e Filippo possa maggiormente incarnare le fattezze del tyrannus; così,
ad esempio, immagina il retore greco Niceta: 10,5,22 εἰ πυρὶ <καὶ> σιδήρῳ
οῦνται, τίνι τυραννοῦνται.
Un particolare narrativo appare poi ricorrente, riflesso di un ricorso intenso all’evidentia come mezzo per arricchire una rievocazione orientata
degli eventi. Nella parte dei colores il retore Romanio Ispone tenta una disperata giustificazione dell’artista, considerando come nel chiuso della sua
bottega e interamente dedito alla sua arte costui potesse essere talmente
fuori della realtà che, rispettoso di una sorta di principio etico per cui tutto è
lecito in nome dell’Arte, si sarebbe disinteressato di ogni altra norma, certo
del fatto che non c’è nulla che un padrone non possa nei confronti di uno
schiavo, così come non vi è nulla che un pittore non possa dipingere:
10,5,19 Hispo Romanius ignorantia illum excusavit: pictor, inquit, intra
officinam suam clausus, qui haec tantum vulgaria iura noverat, in servum
nihil non domino licere, pictori nihil non pingere, mancipium suum operi
suo impendit. Proprio l’uso del termine officina, adoperato nell’accezione
di bottega, si presta ad un riuscito doppio senso. Difatti, lo stesso Romanio
Ispone vi ricorrerà nuovamente in una calzante sovrapposizione tra Parrasio
e Filippo: “fuoco, ferro, torture: ma questa è la bottega di un pittore o di Filippo?” (10,5,22 Hispo Romanius dixit: ignis, ferrum, tormenta: pictoris
ista an Philippi officina est?). Varrà forse la pena di segnalare come anche
del losco protagonista della controversia 10,4, che storpia i bambini esposti
per farli mendicare, il retore Cassio Severo, in uno dei più lunghi ed inte-
76
Alfredo Casamento
39
ressanti interventi che di lui siano giunti stante la scomparsa del terzo libro dell’opera senecana a lui dedicato, ad un certo punto commenta: 10,4,2
Volo mehercules nosse illum specum tuum, illam humanarum calamitatium
40
officinam, illud infantium spoliarium , con una sequenza di immagini di
particolare effetto che singolarmente ricorda l’antro del palazzo in cui nel
Thyestes senecano Atreo fa a pezzi i nipoti, cucinandone le carni. Del torturatore di bambini abbandonati Cassio Severo a conclusione dirà: sic sine
satellitibus tyrannus calamitates humanas dispensat (ibid.), rinnovando in
tal modo il legame tra sevizie e attitudine tirannica che torna frequentemen41
te nella letteratura declamatoria .
Una difesa impossibile
In relazione poi al profilo giuridico della vicenda il capo d’imputazione
rivolto al pittore è quello di laesa res publica, un atto che di norma rientra
nei casi di status definitivus, in cui, cioè, si discute sulla natura e definizio42
ne delle azioni commesse dal reus . L’aspetto non è di secondaria importanza ed infatti la divisio occupa notevole estensione. Peraltro, l’accusa di
aver inflitto delle torture ad un altro uomo è talmente riprovevole che Seneca conferma l’atteggiamento rinunciatario di molti declamatori, obiettando
39
Sulla sua oratoria vd. Heldman 1982; testimonianze e frammenti in Balbo 2004:
223-262. Sul suo ruolo di critico del fenomeno declamatorio Casamento 2002: 2227 e 2011; Citti 2055; Berti 2007: 222-229; Citti-Pasetti 2015. In relazione a questo pezzo Danesi Marioni 2011-2012.
40
Lo spoliarium è il luogo dove avvenivano le uccisioni dei gladiatori feriti; ma è
evidente la carica metaforica del termine come peraltro conferma Sen. prov. 3, 7,
dove esso è adoperato per indicare le proscrizioni sillane.
41
Su cui vd. Tabacco 1985, cui si aggiungano adesso Tomassi 2015; Schwartz
2016.
42
Anche se, lo rileva Quintiliano in Inst. 7,3,2 e 7,4,37, spesso la trattazione di tale
questione si apre ad essere discussa sotto il profilo della qualitas. Vd. Lanfranchi
1938: 423-425; Bonner 1949: 97-98; sulla questione adesso Berti 2007: 118; Stramaglia 2002: 92; Breij 2015.
Parrasio e i limiti dell’arte
77
tuttavia che non vi è nulla di più sconveniente di una controversia in cui
non si possa controbattere:
10,5,12 Nihil est autem turpius quam aut eam controversiam declamare in qua nihil ab altera parte responderi possit, aut non refellere si responderi potest.
La questione fondamentale è se gli atti commessi da Parrasio siano da
considerarsi un danno per lo Stato. Ad esempio, qualcuno tra i declamatori
avanza l’ipotesi, presente anche nella controversia 10,4, che, in fondo, in
discussione potrebbe essere un’accusa di omicidio piuttosto che di laesa res
publica: “Supponi che si tratti di un Ateniese: non mi accuserai di lesa repubblica se ucciderò persino un senatore ateniese, ma di omicidio” (10,5,13
Fac Atheniensem: non ages mecum rei publicae laesae si Atheniensem senatorem occidero, sed caedis). Che tale questione s’innervi su una materia
delicata, che ha strettamente a che fare con i presupposti storici su cui tale
spunto d’invenzione si fonda, lo si desume dalla considerazione ovvia, testimoniata da Gallione, che in fondo il cittadino era di Olinto (10,5,13 perdidit unum senem Olynthus); e che dunque se di un danno si debba parlare,
esso dovrebbe averlo subito Olinto e non Atene. A tale obiezione, tuttavia,
si potrebbe rispondere che in forza del patto stipulato tra Atene ed Olinto,
gli Olintiaci avevano gli stessi diritti degli Ateniesi: 10,5,14 Olynthiis hoc
tribuisti, ut eodem loco essent quo Athenienses. Dunque, in virtù del trattato
vigente, la morte di un cittadino di Olinto andrebbe a tutti gli effetti equiparata a quella di un Ateniese, perché in gioco è sempre in ogni caso la buona
fama della città, nota per la sua misericordia: “così si macchia la fama
d’Atene: noi siamo sempre tenuti in considerazione per la nostra pietà”,
(10,5,14 At verum opinio Athenarum corrumpitur; misericordia semper
censi sumus).
Attraverso il caso estremo di Parrasio, arricchito da un gusto della rappresentazione certo eccessivamente carico e dai contorni degni di un teatro
da Grand Guignol, mi pare di poter concludere come l’abilità dei declama-
78
Alfredo Casamento
tori si ponga in questa circostanza nell’esplorare un caso-limite, quale quello della morte di una vittima indifesa, su cui nulla si potrebbe obiettare.
Proprio la presenza di un dato storicamente comprovato come il trattato tra
le due città, se da un lato storicizza la vicenda, ancorandola ad un evidente
effetto di reale, dall’altro porta ad estremizzare la riflessione dei retori:
quello che vale per un concittadino, vale anche per uno straniero qualora
questi sia protetto da una norma che regola gli accordi tra due città? E ancora, il comportamento, pur deplorevole del singolo, è in grado di mettere
in discussione il buon nome di un popolo intero? Questioni aperte, quanto
mai attuali.
Un nuovo Prometeo
La riflessione condotta attraverso un caso assolutamente paradossale
come quello di Parrasio dà testimonianza di un pensiero molto avanzato sui
limiti dell’arte, pensiero che, lo abbiamo visto, incrocia in più punti il terreno su cui opera la retorica. Il caso di Parrasio e del suo sfortunato modello
attrae. Lo conferma forse un aneddoto di cui è testimone il pittore Francesco Bonsignori attivo soprattutto tra Verona e Venezia, ma ricordato da
Giorgio Vasari nel quarto volume delle Vite per un san Sebastiano realizzato a Mantova per volere di Francesco II Gonzaga.
Va precisato intanto che Giorgio Vasari dà ripetute prove di conoscere
l’aneddotica antica riguardante Parrasio, in special modo la celebre gara di
pittura dal vero ingaggiata con Zeusi, soggetto che egli stesso dipinge nella
43
Camera della Fama della Casa Vasari di Arezzo e di cui si serve riproponendolo in svariati contesti e con differenti protagonisti. Così, ad esempio,
a proposito di Giotto, ancora apprendista presso la bottega di Cimabue, Vasari (Vite II, p 122) racconta di una volta in cui il giovane dipinse una mosca su un volto che stava realizzando il maestro senza che costui se ne ac43
De Girolami Cheney 2007: 51ss.
Parrasio e i limiti dell’arte
79
corgesse; quando questi tornò davanti al dipinto, credendo vera la mosca
tentò più volte di farla volare via, fino a quando non comprese di essere ca44
duto in errore .
Vasari è certamente influenzato dalla lettura del trentacinquesimo libro
della Naturalis Historia pliniana. Tuttavia, è tutt’altro che improbabile una
sua conoscenza della controversia senecana, stante la diffusione notevole
45
che l’opera dovette avere nel ’500 dopo le due “editiones principes” , napoletana del 1475 solo degli excerpta e, soprattutto, veneziana del 1490 che
conteneva l’intero corpus, cui seguirono altre due edizioni in poco più di
dieci anni, fino a quella realizzata da Erasmo nel 1515.
Allusivo alla storia di Parrasio alla ricerca del modello ideale per il suo
Prometeo è appunto l’aneddoto raccontato dal Vasari a proposito del pittore
46
Francesco Bonsignori, da lui chiamato Monsignori (Vite IV, pp. 580-581) ,
alle prese con un San Sebastiano:
“Dicesi che andando il marchese a vedere lavorare Francesco mentre faceva quest'opera, come spesso era usato di fare, che gli disse: «Francesco, e' si vuole in fare
questo Santo pigliare l'essempio da un bel corpo». A che rispondendo Francesco:
«Io vo immitando un fac[c]hino di bella persona, il qual lego a mio modo per fare
l'opera naturale». Soggiunse il marchese: «Le membra di questo tuo Santo non somigliano il vero, perché non mostrano essere tirate per forza, né quel timore che si
deve imaginare in un uomo legato e saettato; ma dove tu voglia, mi dà il cuore di
mostrarti quello che tu déi fare per compimento di questa figura». «Anzi ve ne prego, signore», disse Francesco; et egli: «Come tu abbi qui il tuo fac[c]hino legato,
fammi chiamare, et io ti mostrerò quello che tu déi fare». Quando dunque ebbe il
seguente giorno legato Francesco il fac[c]hino in quella maniera che lo volle, fece
chiamare segretamente il marchese, non però sapendo quello che avesse in animo
44
Sul passo Land 2014: 86ss.
La definizione è di Håkanson 1989: XVI-XVII, cui rinvio per le prime edizioni
senecane.
46
Ipotizza un richiamo alla storia di Parrasio Spivey 2001: 95ss.
45
80
Alfredo Casamento
di fare. Il marchese dunque, uscito d'una stanza tutto infuriato con una balestra carica, corse alla volta del fac[c]hino, gridando ad alta voce: «Traditore, tu se' morto,
io t'ho pur còlto dove io voleva», et altre simili parole; le quali udendo il cattivello
fac[c]hino e tenendosi morto, nel volere rompere le funi con le quali era legato,
nell'aggravarsi sopra quelle e tutto essendo sbigottito, rappresentò veramente uno
che avesse ad essere saettato, mostrando nel viso il timore, e l'orrore della morte
nelle membra stiracchiate e storte per cercar di fuggire il pericolo. Ciò fatto, disse
il marchese a Francesco: «Eccolo acconcio come ha da stare: il rimanente farai per
te medesimo». Il che tutto avendo questo pittore considerato, fece la sua figura di
quella miglior perfezzione che si può imaginare”.
Anche nel caso della pittura di Bonsignori torna la questione nodale del
realismo nell’arte e di quale sia il modo più efficace di riprodurre il vero.
Solo che, a differenza della controversia senecana, in questa circostanza
non sarebbe stato l’artista ma Francesco Gonzaga, il committente, ad eccedere nelle pretese realistiche fino al punto di riprendere uno dei tanti paradossi declamatori: uno scontro vero, con armi vere e reali minacce di morte. Una condizione estrema, considerata l’unica in grado di far emergere in
modo naturalistico il meglio (o il peggio) delle emozioni. Si tratta ancora
una volta di una procedura che dichiara palesemente la sua contiguità agli
schemi della retorica.
È di nuovo un caso di evidentia, con la differenza fondamentale che le
pretese di Parrasio, così come quelle del marchese Francesco Gonzaga,
danno prova di un limite cui la retorica antica mostra di aver risolutivamente risposto. Quintiliano a questo proposito afferma: “otterremo inoltre l’effetto di rendere le cose evidenti se esse saranno verisimili e si potrà anche
inventare di sana pianta ciò che di solito suole avvenire” (8,3,70 consequemur autem ut manifesta sint si fuerint veri similia, et licebit etiam falso adfingere quidquid fieri solet). Il che è proprio quanto il Parrasio protagonista
della controversia senecana e Francesco Gonzaga mostrano di non aver
compreso.
Parrasio e i limiti dell’arte
81
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