Il Parlaggio
3
Collana «Il Parlaggio»
Direttore: Maria Pia Pagani (Università di Pavia)
Comitato Scientiico: Matteo Brera (Universiteit Utrecht), Roberto Calabretto
(Università di Udine), Paul Fryer (he Stanislavski Centre, Rose Bruford College,
UK), Luca Malavasi (Università di Genova), Paolo Quazzolo (Università di
Trieste), Elena Randi (Università di Padova), Magda Romanska (Emerson
College, Boston)
Responsabile di redazione: Francesca Cattina
Proprietà letteraria riservata
2016 © Associazione Culturale Internazionale
Edizioni Sinestesie
Via Tagliamento, 154 – 83100 Avellino
www.edizionisinestesie.it –
[email protected]
ISBN 978-88-99541-36-1 cartaceo
ISBN 978-88-99541-37-8 ebook
Finito di stampare nel mese di novembre 2016
da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (MI)
Associazione culturale Retroscena
Altamura
LA LUNA E LO SPECCHIO
La drammaturgia italiana del primo Novecento
a cura di
Francesco Vulpio
Edizioni Sinestesie
Indice
Premessa
5
Introduzione, di Francesco Vulpio
9
Dinamismo Simultaneità Sorpresa.
Marinetti e il teatro futurista, di Giuseppe Bonifacino
13
Un centenario da ricordare: la maschera e il volto
di Luigi Chiarelli (1916), di Grazia Distaso
31
Il teatro di Rosso di San Secondo.
La stagione espressionista, di Laura Cannavacciuolo
45
Pirandello e la scrittura drammaturgica,
di Francesco S. Minervini
81
Massimo Bontempelli e il teatro dell’epoca nuova,
di Apollonia Striano
99
Postfazione, di Francesco S. Minervini
121
Indice dei nomi
125
Pirandello e la scrittura drammaturgica
di Francesco S. Minervini
Nella dimensione divulgativa di un progetto di educazione alla
drammaturgia quale è quello che ospita questi incontri seminariali,
si vuole proporre una revisione della consuetudine difusa in certi
contesti didattici di riferirsi alla drammaturgia e alla scrittura narrativa pirandelliane come a settori distinti e lontani della produzione letteraria, invitando a rilettere sull’idea stessa che il teatro è
narrazione.
Nelle aule scolastiche, fra i banchi della formazione superiore e
dell’Università, Pirandello è un classico; e il termine ‘classico’, è bene
ricordarlo, deriva dal latino classis, ovvero il testo che di norma i
ragazzi dell’epoca latina portavano nelle aule: una grammatica, un
testo normativo, un volume o un autore paradigmatico, un Cicerone per la prosa, un Virgilio per la poesia, un Prisciano nella tarda
latinità. Classico è un testo, come direbbe Calvino, che «ha sempre
qualcosa da dire»1: e in questo senso il teatro di Pirandello è senza
tema di smentita un classico. Ma la scrittura drammaturgica e la
messa in scena di quelle istanze hanno rappresentato per l’intellettuale agrigentino insieme uno strumento e un metodo2; il teatro
è il dispositivo culturale con cui egli intende rompere le regole,
1
1995.
Cfr. F. Zangrilli, Pirandello e i classici: da Euripide a Verga, Cadmo, Firenze
2
M.L. Altieri Biagi, Pirandello: dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica,
in La lingua in scena, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 162-221.
82
francesco s. minervini
squarciare il velo di carta e spezzare il vincolo delle norme nell’orizzonte letterario primo-novecentesco, procedendo ad uno smantellamento dell’ordine costituito, ad una programmatica alterazione
dei concetti di bello e di ben fatto3, invocando immediatamente il
supporto anche di alcuni tra i principali fondamenti ideali e ideologici che caratterizzavano le discussioni ilosoiche contemporanee (in particolare quelle di argomento estetico). Che cosa è, dunque, il teatro per Pirandello? Una domanda assai complessa pur
nella sua semplicità sintattica e sulla quale si è afannata un’ampia
fetta della critica letteraria del secolo breve per rilevare i motivi che
in essa si potevano di volta in volta evidenziare (politico, sociale,
storico, critico-letterario, ideologico, ilosoico)4. Quella domanda
trova una plausibile risposta in una lettera indirizzata alla sorella
Lina (un nome altamente siciliano e profondamente signiicativo
nelle dinamiche psicologiche del drammaturgo), scritta a Roma il
4 Dicembre 1887, dopo avere assistito ad una rappresentazione di
Tommaso Salvini:
Oh il teatro drammatico! Io lo conquisterò, io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione
strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene, quell’aria pesante che vi si respira gravemente odorata di gas e di vernice mi
ubriaca, e sempre a metà della rappresentazione mi sento preso
dalla febbre e brucio, e la vecchia passione che mi trascina e non
vi entro mai solo ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia
mente, persone che si agitano in un centro d’azione non ancora
fermato, uomini e donne da dramma o da commedia ma viventi
nel mio cervello che vorrebbero subito saltare sul palco scenico,
spesso mi accade di non vedere di non ascoltare, quello che vera3
Rinvio, anche per l’ampia e aggiornata cura bibliograica, ai due volumi
delle Opere di Luigi Pirandello curati da S. Costa (vol. I) e P. Frassica (vol. II),
Ricciardi, Milano-Napoli 2015; R. Alonge, Luigi Pirandello. Il teatro del XX secolo,
Laterza, Roma-Bari 1997.
4
E. Gioanola, Pirandello’s story: la vita o si vive o si scrive, Jaca Book, Milano
2007.
pirandello e la scrittura drammaturgica
83
mente si rappresenta, ma vedere e ascoltare le scene che sono nella
mia mente, e una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio
di ischi5.
La passione sfrenata per l’istituzione drammaturgica si riverbera sulla dichiarazione della coincidenza tra il teatro di Pirandello e
lo spirito più recondito dell’intellettuale, e trasforma il soio vitale
dell’uomo e del letterato in un unico inscindibile alato. Questo
straordinario concorso è il luogo metaforico in cui Italo Svevo riteneva si concertasse la teatralizzazione della casualità e della originalità insondabile ed irripetibile della vita. Da qui si originano in
Pirandello, a parere dell’autore de La Coscienza di Zeno, i dialoghi
serrati e le azioni sempre contrassegnate da un evento imprevisto,
da un inale fortuito, da una trovata inaspettata che raigura e riproduce sulla scena la imperscrutabilità del caso (e del Caos) e della stessa vita umana. Assunta questa prospettiva straniante, il teatro
di Pirandello può declinarsi come il teatro della vita. I personaggi
che vi agiscono appaiono continuamente angosciati da problemi
interiori, da instabilità non solo psichiche; questa inesplorabile e
sotterranea alizione, che compare anche al di sotto di apparenti
raigurazioni felici, ha bisogno di una soluzione, e tale soluzione si
dà nel ritrovamento del sé attraverso il superamento dei limiti della
ragione. Nella dimensione ideativa di Pirandello, nell’atto stesso
della prima intuizione e immaginazione drammaturgica si crea e si
annida quell’angoscia cui solo alla ragione è dato trovare il passaggio, il varco delle occasioni per dirla con Montale.
Un primo passo per una corretta interpretazione della drammaturgia pirandelliana va posto nella deinizione di una cronologia delle fasi del teatro, che seppur non innovativo come metodo
critico-esegetico, garantisce, tuttavia, a quella successione di eventi
5
L. Pirandello, Lettere giovanili da Palermo e da Roma, 1886-1889, a cura di
E. Providenti, Bulzoni, Roma 1993.
84
francesco s. minervini
un tono più realistico e veritiero in riferimento sia alla produzione
sia alla poetica teatrale di Pirandello.
Si possono issare le date dell’esordio nel 1892 con l’atto unico L’epilogo e nel 1897 con la novella La paura, sebbene le prime
messe in scena di opere teatrali di Pirandello si ebbero nel 1910
al Teatro Minimo di Roma in risposta alle esortazioni dell’amico Nino Martoglio. In quell’anno furono portate sulle scene La
Morsa6 (epilogo in un atto, risalente al novembre del 1892 e di cui
nel 1918 venne allestita anche una versione in dialetto siciliano,
’A morsa), un triangolo abusato tra lui, lei, l’atro con il suicidio
dell’antagonista e Lumie di Sicilia, opera ancora legata a certi schemi drammaturgici ottocenteschi e di cui nel 1915 fu allestita una
versione dialettale per la compagnia teatrale di Angelo Musco7.
Le due opere sono composte in italiano, ma nella loro scrittura e
poi nella rappresentazione, Pirandello percepisce i limiti del teatro
nella lingua nazionale, rimanendo forse attonito, basito come Andrea nel movimento inale de La Morsa («resta perplesso, smarrito,
dietro l’uscio, con le mani sulla faccia»). La parentesi del dialetto8 si
attesta tra il 1915 e il 1920 e si conigura come un plurilinguismo
culturale prima che un fattore meramente linguistico; il ritorno
all’italiano sarà di necessità richiesto anche dalla statura europea
che egli nel frattempo era riuscito ad assumere, sin già a partire
dalla ine della prima guerra mondiale, e grazie anche agli stimoli
A. Bruni, Modelli e interferenze nell’esordio di Pirandello drammaturgo: «La
morsa», «Cuadernos de Filología Italiana», 5 (1998), pp. 175-187.
7
Per gli interventi di Peppino de Filippo sul testo pirandelliano si veda P.
Sabbatino, Luigi Pirandello e Peppino De Filippo, «Quaderni d’italianistica», 36, 1
(2015), pp. 109-125.
8
La sensibilità verso le questioni della lingua e del dialetto provenivano dagli studi universitari di Pirandello ed ebbero una prima chiara manifestazione
nell’articolo del 1890, Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro don Gesualdo del
Verga) pubblicato in Vita Nuova, 5 ottobre 1890, e ora in L. Pirandello, Saggi e
Interventi, a cura di F. Taviani, Mondadori, Milano 2006, pp. 78-81; cfr. anche A.
Camilleri, Pirandello: la lingua, il dialetto, «Annali della Scuola Normale Superiore
di Pisa. Classe di Lettere e Filosoia», 4 (1999), 2, pp. 439-450.
6
pirandello e la scrittura drammaturgica
85
intellettuali che gli garantivano la drammaturgia di Ibsen, di Checov, di Strindberg, di Maeterlinck. Pirandello, dunque, si volge al
dialetto, al vernacolo puro per ricreare nello strumento linguistico
quel tentativo di recupero di una dimensione umana quasi mitica
(non esente da certe suggestioni apparentemente veristiche come
in Liolà, ricordando l’ammirazione per il narratore catanese che
riteneva «il più antiletterario degli scrittori»9) e sospesa nel tempo. Quel dialetto, però, non è la lingua usata dalla borghesia, non
di rado incline a certe uscite linguisticamente distoniche (‘umoristiche’) rispetto alla propria considerazione sociale, e per questo
divertenti nel loro efetto di straniamento. È la parlata che poteva
assicurare una rinnovata freschezza espressiva, una giusta esuberanza nel tessuto linguistico-lessicale; ma il dialetto rappresentava
soprattutto un tramite di eloquenza che si poneva quale alternativa
alle forme abusate della tradizione teatrale (e in ciò allontanandosi dalle posizioni del Verismo), simboleggiate ancora dal modello
attoriale del veneziano Gustavo Modena (1803-1861) interprete
al suo debutto sulle scene addirittura del Saul di Vittorio Alieri.
L’opzione dialettale permetteva, quindi, di operare surrettiziamente
una precisa scelta di carattere intellettuale, spostando l’attenzione,
la focalizzazione drammaturgica su uno strato sociale diferente e
più basso, e ricevendo una compiuta statura istituzionale di lingua,
in tutto alternativa all’italiano. Come detto, si tratta del vernacolo puro, una lingua parlata appunto dalle classi non ‘contaminate’
dalla cultura e ignoranti nel senso originario di “persone che non
sanno, che non conoscono”.
La parlata di Girgenti fa il suo esordio nella scrittura drammaturgica già nel 1916 all’altezza della composizione di Liolà (che
verrà pubblicato l’anno seguente), un’opera nodale nella elaborazione del pensiero teatrale di Pirandello, esaltata anche da Antonio
Gramsci come una felice rappresentazione di sentimenti genuini
e primigeni:
9
Cfr. G. Giudice, Pirandello e Verga, «Galleria», 15 (1965), 1-2, pp. 19-32.
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francesco s. minervini
c’è implicito in Liolà tutto il teatro di Pirandello, ma come sentimento più che come proposito, come teatralità episodica e comicità tenue più che come integra personalità ideale. […] Liolà
è opera d’arte perché la purezza creativa deve essere serena, come
un mondo che scaturisce tutto organicamente da un suo centro, e
ha in sé la sua misura e il suo limite, non in un sterno criterio di
verisimiglianza10.
L’apertura verso la lingua dialettale fu anche favorita dallo
stretto legame che Pirandello ebbe con due igure centrali nella
strutturazione della sua poetica teatrale, l’attore Angelo Musco
(1871-1937) al quale aiderà la rappresentazione di una serie molto ampia di opere, e il poeta dialettale e giornalista Nino Martoglio
(1870-1921). Il dialetto siciliano, quindi, è una piacevole evasione da
una situazione di per sé tragica che è quella della malattia mentale
della moglie e della prigionia del iglio Stefano durante il primo
conlitto mondiale; questa parlata, e la tragedia che porta contestualmente, si riversa nelle forme teatrali ascrivibili esteriormente
al genere istituzionale della commedia. Pensate direttamente in
dialetto, Pensaci Giacuminu e Liolà vengono rappresentate dalla
compagnia di Angelo Musco a Roma al Teatro Argentina a partire
dal 4 Novembre del 1916. Leonardo Sciascia riteneva che Pensaci
Giacomino fosse un’evasione e Liolà una commedia-vacanza, una
villeggiatura che Pirandello ‘trascorse’ (è un eufemismo richiesto
dalle metafore sciasciane) a Roma nel 1916. Il drammaturgo si
chiude in un mondo perfetto (idealizzato ma non trasognato) in
mezzo alla sciagura della moglie, del iglio, della guerra11, in cui un
ruolo non marginale andrà riconosciuto a quello sguardo non disincantato che Pirandello gettò verso l’estetica teatrale che in queP. Gobetti, Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti, C. Gobetti, III,
Einaudi, Torino 1974, pp. 459-460 la cui citazione si legge anche nel citato volume delle Opere di Pirandello, a cura di P. Frassica, p. 64.
11
Cfr. L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, con lettere inedite di Pirandello a
Tilgher, S. Sciascia, Caltanissetta 1953.
10
pirandello e la scrittura drammaturgica
87
gli anni coincideva con il dettato futuristico. Adriano Tilgher riteneva che «le esigenze del teatro sintetico futurista, hanno trovato la
loro realizzazione più attraverso la scenograia ed i movimenti che
dal 1916 in poi (grotteschi, Rosso, Bontempelli, Pirandello, ecc.) si
sono succeduti sulle scene italiane che attraverso l’opera drammatica del fondatore del Futurismo»12. E nel Futurismo (così presente
nelle pagine di questo volume ora manifestamente ora implicitamente), pur nella sua rapida fenomenologia letteraria, artistica e,
soprattutto, teatrale, si dovrà riconoscere «la chiave indispensabile
per intendere nella sua logica progressione storica il periodo della
letteratura drammatica italiana comprendente il secondo e il terzo
decennio del Novecento»13.
Quindi si capisce come non esista realmente né il mondo di
Liolà, né quello di Pensaci Giacomino; né esiste per Pirandello impegnato e assorto nella scrittura di quelle opere il mondo della
realtà, della moglie, del iglio, della guerra: ecco allora inalmente
l’incontro con l’alterità della realtà, l’alterità delle commedie.
Pirandello non ha mai sottomesso la propria intuizione intellettuale e la vena drammaturgica ai bisogni o alle richieste della
politica, per quanto non di rado sia stato tirato per la giacchetta da
alcune fazioni; in Liolà si coglie l’esigenza dello scrittore di creare
un teatro nazional-popolare, deinito da lui stesso in questa forma,
che non fosse solo ad uso esclusivo della borghesia, ma che potesse
12
A. Tilgher, Non arte efettuale, ma esigenza di arte nuova, «Sipario», 260
(1967), p. 21.
13
G. Calendoli, Dai Futuristi a Pirandello attraverso il «grottesco», «Sipario»,
260 (1967), pp. 14-16, qui p. 15; cfr. inoltre F. Perrelli, Le origini del teatro moderno. Da Jarry a Brecht, Laterza, Bari 2016, in cui si aferma che «la breve stagione
del teatro Grottesco fu inaugurata da Lugi Chiarelli con la rappresentazione nel
1916, della Maschera e il volto e trovò un consistente sviluppo nella drammaturgia
di Rosso di San Secondo (Marionette che passione!, 1917). Alcune opere di Pirandello, peraltro tra i potenziali ispiratori della tendenza, come Così è (se vi pare)
e Il giuoco delle parti (1918-19), potrebbero rientrare nel genere, che appare già
esaurito attorno alla metà degli anni Venti».
88
francesco s. minervini
estendere la propria fruibilità anche al proletariato. Un’ispirazione
nella quale iniziano a germinare e a mescolarsi gli elementi della
scrittura narrativa, del romanzo più noto, Il fu Mattia Pascal («si
vede che – capitato in mezzo a così tanta brava gente – tutto il
male lo avevo fatto io») e de La Mosca, epopea di una famiglia
numerosa e dei suoi molti igli in cui bisognava «cantare e lavorare.
Tutto a regola d’arte».
Risalgono al 1904 queste due opere con le quali si concretizza
il superamento di ogni residuo contatto con il verismo verghiano. «Trafelati, ansanti, per far più presto, quando furono sotto il
borgo, – sú, di qua, coraggio! – s’arrampicarono per la scabra ripa
cretosa, ajutandosi anche con le mani – forza! forza! – poiché gli
scarponi imbullettati – Dio sacrato! – scivolavano». L’incipit della novella non tradisce alcun indugio veristico. L’attraversamento
della stagione verghiana si esplica in una prospettiva (un punto di
vista) solo apparentemente prossima al verismo14 – e non c’è neanche tanto naturalismo in altre opere che pure sono completamente
siciliane, come La Giara del 1917 – ma senza le complicazioni ilosoiche del naturalismo, del positivismo di Verga, e soprattutto
senza quel distacco borghese e narrativo della focalizzazione al
grado zero.
Nella commedia Liolà domina un mito solare, fatto di sentimenti genuini e di un’esuberante umanità felice; Simone vuole
un erede per lasciare la sua roba (un tema senz’altro comune alla
scrittura verghiana), ma, non consentendoglielo la sua sterilità, intende adottare il iglio di un’altra donna, prima di scoprire che sua
moglie gli stia per dare l’agognato erede. L’identiicazione fra terra
e uomo, fra roba e uomo ricalca la prospettiva verghiana ma senza
verismo, poiché cadono le implicazioni antropologiche e ilosoiche del ciclo dei Vinti, della iumana che investiva ogni umanità.
14
Per i rapporti tra Pirandello e Verga cfr. A. Morace, «Un’altra via, in arte»:
Pirandello e Verga (con un inedito epistolare), «La modernità letteraria», 9 (2016),
pp. 121-130.
pirandello e la scrittura drammaturgica
89
Gramsci riteneva che questa fosse una farsa scritta nei toni dei
drammi satireschi della Grecia antica, collegata e generata cioè da
una vita nei campi dominata dal furore. L’opera piacque anche
a Pietro Gobetti che vedeva in quella drammaturgia la coincidenza di popolo e poesia, riconoscendo nel teatro il luogo in cui
la freschezza popolare si opponeva vittoriosa al convenzionalismo
borghese. Ne sia testimonianza il discorso tra Liolà e zio Simone
la cui profondità supera il conine della scrittura e della stessa
rappresentazione per concentrarsi nelle pieghe delle similitudini
terra-grembo e proprietà-vita:
Liolà: […] Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spossessano.
Zio Simone: Mi dovrebbero anche spossessare?
Liolà: E come no? Anche questa legge possono mettere domani.
Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci
nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le fa
igli. – Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo; la
concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A chi
l’ha dato quest’albero la terra? – A me! – Viene lei, e dice di no,
che è suo. – Perché suo? perché è sua la terra? – Ma la terra, caro
zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora.
Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la legge le
dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei sarà buttato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il seme, e là:
sfronza l’albero! (Liolà, atto primo).
Fra il febbraio del ’16 e il dicembre del ’17 Pirandello scrive
tredici commedie; fra il dicembre del ’17 e il gennaio del ’18 traduce in italiano ’A patinti (La patente) pubblicata nel 1918 sulla
«Rivista d’Italia»: una novella sceneggiata, un atto unico e insieme
una novella che celebra il passaggio dai drammi siciliani ai drammi
italiani. Discutendo con l’attore Angelo Musco sulla messinscena
Pirandello adopera proprio il termine di novella sceneggiata, collocandosi a metà strada tra un testo narrativo ed uno teatrale.
90
francesco s. minervini
La messinscena de La patente a Roma nel 1918 non riscosse un
grande successo, e lasciò segni profondi nell’animo e nella rilessione
intellettuale di Pirandello che si afacciava per la prima volta sulla
scena della capitale, in una dimensione ormai europea e comunque
nuova. Il passaggio dalla terra siciliana alla nazione italiana serve a
Pirandello per un cambio, uno scarto di carattere sociologico passando dal proletariato, come sottolineava Gobetti, della prima fase
delle opere in dialetto al collocamento della rilessione della piccola
borghesia romana, rompendo col verismo, col naturalismo, ma anche
con D’Annunzio. La patente istituzionalizza la problematica dell’opinione pubblica, del pensiero della collettività, dell’esteriorità. Dice
Chiàrchiaro davanti al giudice invocando le proprie ragioni:
Chiàrchiaro: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deiciente lei?
Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco?
La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. Mi hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada,
perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica,
da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le
vede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno:
belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché iglie
mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt’e quattro? Del
pane che si leva di bocca il mio igliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero
iglio mio, questo sacriicio per me? Signor giudice, non mi resta
altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!
[…]
D’Andrea: Io? Ma vi pare?
Chiàrchiaro: Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia
potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono!
Questa è la mia fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro
paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente.
[…]
e chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioja, o
a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in
pirandello e la scrittura drammaturgica
91
mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella
davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di
tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!
D’Andrea: La tassa dell’ignoranza!
Gli ignoranti coincidono con i ricchi; il denaro stesso è ignorante, esso non sa, non conosce e né porta alla conoscenza. Pertanto non sarà vero ciò che è vero, ma è vero solo ciò che ci viene fatto
credere o è vero ciò che è i più credono, è vero ciò che dice la gente.
La patente segna una svolta nella fase del relativismo gnoseologico e
suggerirà a Bontempelli le seguenti considerazioni:
Il teatro di Pirandello è il tragico e altissimo documento e monumento della fatalità che parve, all’aprirsi del tempo nuovo, ruinare
l’umana civiltà e tutte le sue conquiste di venticinque secoli, facendo dell’uomo uno scoiattolo che passa la vita a far girare vorticosamente la sua piccola prigione. La vita delle persone pirandelliane è
grottesca e terribile: sono esse le vittime, non più come in Sofocle,
della crudeltà d’Olimpo che le saetta dalle nubi; non più, come in
Shakespeare, della indomabilità delle loro stesse passioni; non più,
come in Ibsen, d’una legge morale ch’essi non sanno considerare
se non come convenzione sociale: sono le vittime della torbida e
lucida persuasione d’un immane nulla tutt’intorno all’uomo, centro e insieme circolo estremo d’un universo di raggio ininito, vittime della sostituzione di un ‘così è se vi pare’ all’apprendimento
e all’accettazione vitale d’una costruzione di leggi. La sfasciata ed
errabonda miseria di quegli eroi costituisce la precisa assillante
moralità, attualità di questo che è uno dei pochi poeti del tempo
tragico universale15.
Nel tempo nuovo che si apriva al Novecento, un tempo pirandelliano, un tempo culturale e ilosoico, Bontempelli celebra il rito
15
M. Bontempelli, Pirandello o del candore, in Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1978, pp. 825-826.
92
francesco s. minervini
gnoseologico del così è (se vi pare) come una nuova forma intellettuale e umana prima ancora che letteraria. Il teatro vive nell’umanità, non nella scena rappresentata dell’umanità. Così è (se vi pare)
è la trasposizione della novella La signora Frola e il signor Ponza suo
genero e fu rappresentata per la prima volta nel 1917, successivamente sottoposta a signiicative modiicazioni nel 1925. Nel testo
si descrive la contrapposizione tra l’umanità borghese ordinata e
l’alterazione confusionaria del dolore e della pazzia, inquadrati nella dimensione della chiacchiera di paese, dell’opinione tutta esteriore
della gente. Il signor Ponza e la signora Frola si rimpallano l’accusa
di pazzia in riferimento alla iglia e moglie Lina nel contesto del
terremoto della Marsica del 1915. Il relativismo della parola ripete
lo schema gnoseologico de La patente, ma in questo caso Pirandello si riserva il diritto di intervenire in qualche modo nell’intreccio,
assumendo le vesti, la maschera del personaggio dell’intellettuale
Lamberto Laudisi
Laudisi E allora non credete a nessuno dei due!
Sirelli Tu vuoi scherzare. Mancano le prove, i dati di fatto; ma la
verità, perdio, sarà da una parte o dall’altra!
Laudisi I dati di fatto, già! Che vorresti desumerne?
Agazzi Ma scusa! L’atto di morte della igliuola, per esempio, se
la signora Frola è lei la pazza (purtroppo non si trova più, perché
non si trova più nulla), ma doveva esserci; si potrebbe trovare domani; e allora – trovato quest’atto – è chiaro che avrebbe ragione
lui, il genero.
Sirelli Potresti negar l’evidenza, se domani quest’atto ti venisse
presentato?
Laudisi Io? Ma non nego nulla io! Me ne guardo bene! Voi, non
io, avete bisogno dei dati di fatto, dei documenti, per afermare o
negare! Io non so che farmene, perché per me la realtà non consiste in essi, ma nell’animo di quei due, in cui non posso igurarmi
d’entrare, se non per quel tanto che essi me ne dicono.
Sirelli Benissimo! E non dicono appunto che uno dei due è pazzo? O pazza lei, o pazzo lui: di qui non si scappa! Quale dei due?
Agazzi È qui la questione!
pirandello e la scrittura drammaturgica
93
Laudisi Prima di tutto, non è vero che lo dicano entrambi. Lo
dice lui, il signor Ponza, di sua suocera. La signora Frola lo nega,
non soltanto per sé, ma anche per lui. Se mai, lui – dice – fu un po’
alterato di mente per soverchio amore. Ma ora, sano, sanissimo.
[…]
Sirelli E allora – pazzo – nessuno dei due? Ma uno dev’essere,
perdio!
Laudisi E chi dei due? Non potete dirlo voi, come non può dirlo
nessuno. E non già perché codesti dati di fatto, che andate cercando, siano stati annullati – dispersi o distrutti – da un accidente
qualsiasi – un incendio, un terremoto – no; ma perché li hanno
annullati essi in sé, nell’animo loro, volete capirlo? creando lei a
lui, o lui a lei, un fantasma che ha la stessa consistenza della realtà,
dov’essi vivono ormai in perfetto accordo, paciicati. E non potrà
essere distrutta, questa loro realtà, da nessun documento, poiché
essi ci respirano dentro, la vedono, la sentono, la toccano! – Al più,
per voi potrebbe servire il documento, per levarvi voi una sciocca
curiosità. Vi manca, ed eccovi dannati al meraviglioso supplizio
d’aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l’uno dall’altra! (Così è (se vi pare), atto II, scena I)
L’alterità gnoseologica si traduce dunque nella cecità, nella incapacità di vedere e leggere la realtà per quella che è, o meglio per
quella che appare; una visione della realtà che sta appunto nella
metaisica, che travalica cioè il limite della stringente isicità, e che
distingue la fase del relativismo gnoseologico che arriva ino al 1922.
Appartengono a questa fase Il piacere dell’onestà (1917), Il giuoco
delle parti (1918), Ma non è una cosa seria (1918), e vi si può ascrivere anche l’Enrico IV del 1922 per la denuncia dei ruoli esistenziali,
della tragedia che scaturisce dai panni che la vita assegna, e che per
divenire degna di essere vissuta impone di scontare sulla propria
pelle il dissidio tra pazzia e inzione. La comprensione del teatro
di Pirandello come lui stesso ebbe modo di confessare alla sorella
Lina, non andrà ricercata da nessun’altra parte se non all’interno
di Pirandello stesso, non assistendo passivamente alla rappresentazione in teatro, ma guardando alacremente all’interno dei perso-
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naggi agiti sulla scena. L’Enrico IV viene rappresentato nel febbraio
del 1922 a Milano, dopo una gestazione di sole due settimane ed
espressamente destinato all’attore Ruggero Ruggeri in una epistola
al quale il drammaturgo spiega la natura profonda di quest’opera.
L’Enrico IV, suddivisa in tre atti, è per Pirandello una tragedia fatta
di «cose veramente imprevedibili», di accidenti fortuiti in cui la
realtà coincide con la simulazione ilosoica della pazzia, «per ridersi dentro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace
in quella carnevalesca rappresentazione»; almeno ino a quando il
«into pazzo tra spaventosi brividi, crede per un momento di essere pazzo davvero e sta per scoprire la sua inzione, quando in un
momento riesce a riprendersi». La ferocia dell’alternanza da una
inta pazzia a quel ruolo esistenziale in cui Enrico IV ha paura di
essere divenuto realmente pazzo regola il dramma dell’esistenza: è
proprio grazie al tramite della pazzia che quella tragedia si trasforma in un’occasione per intervenire nel cielo di carta, per percepire
una verità più pura (che si cela proprio nella pazzia). Il relativismo
gnoseologico, il relativismo della parola si evolvono e trasformano
con l’Enrico IV, che appare l’anello di congiunzione con la successiva fase del metateatro.
Enrico IV Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto
sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete
creduto ino ad ora che sono pazzo! – È vero o no?
Li guarda un po’, li vede atterriti.
Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto
sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno
sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei!
Perché trovarsi davanti a un pazzo, sapete che signiica? Trovarsi
davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto, avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le
vostre costruzioni! – Eh! che volete? Costruiscono senza logica,
beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi
tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi
pirandello e la scrittura drammaturgica
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dite: «questo non può essere!» – e per loro può essere tutto. – Ma
voi dite che non è vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te,
a te, indica tre di loro, a centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri
che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi,
iori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel
pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle
che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi
tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero
domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai
se vi afondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa
veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate
gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete igurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai
entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro,
come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro
nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…
Con alacrità ilosoica, Pirandello smonta le costruzioni del bello e del ben fatto primo-novecentesche; all’altezza del 1922 (data
di non poche suggestioni storiche e politiche per gli Italiani, seppure ancora al mese di febbraio), decreta la rottura dell’ordine costituito e reagisce alla vana esteriorità formale della borghesia che
camminava imperialmente verso mete sciagurate, verso «quest’altra
mascherata» fatta da «pagliacci involontari». Enrico IV si scuote l’abito che ha indosso, ne denuncia la maschera («la caricatura,
evidente e volontaria») e accoglie, inine, come una liberazione la
propria pazzia («preferii restare pazzo e vivere con la più lucida
coscienza la mia pazzia»):
quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere – l’abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come
la loro stessa persona. Voltandosi di nuovo a Belcredi: Sai? Ci si assuefà facilmente. E si passeggia come niente, così, da tragico personaggio.
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francesco s. minervini
Questa appare anche una soferta conquista in una vita che è
«una fuga di illusioni»16, per cui il personaggio si pone fuori dalla
propria inzione, e assegna il ruolo di falsità a chi sta di fronte al
sano: «sono guarito signori perché so perfettamente di fare il pazzo
qua, e lo faccio quieto, il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia». Questo periodo
drammaturgico si innerva nella trilogia dei Sei personaggi in cerca
di autore («si limita in realtà a mimare una rivoluzione scenica»17)
del ’21, Ciascuno a suo modo del ’24 e Questa sera si recita a soggetto
del ’30. E andrebbe forse aggiunta anche I giganti della montagna,
opera incompiuta che Pirandello portò avanti sostanzialmente ino
alla morte (1936).
Lo sfondo mimetico della trilogia metateatrale, i salotti della
borghesia, le campagne, i cimiteri portano alla luce l’intrico di falsità su cui poggia la vita collettiva; ma in questo momento neanche
la maschera è più in grado di celare tale nodoso e caotico viluppo.
Le maschere però non cadono, ma si strappano dai volti e questo
gesto violento si traduce nei inali tragici de Il giuoco delle parti, di
Enrico IV, di Vestire gli ignudi.
Non si lacera solo la maschera, ma perino la pelle reale del falso
personaggio che si rappresenta: in sifatta brutalità si concentra la
perfetta coincidenza tra vita e teatro. Ma tutto ciò non è ancora
suiciente: il superamento di questo stadio darà avvio alla stagione
dei miti. Non basta più un teatro che sia altro da sé (lo specchio del
teatro, la luna e lo specchio): il mito trasferisce la storia, gli argomenti e le ambientazioni in dimensioni e scenari favolosi, universali perché cade ogni contesto geograico, ogni limite temporale.
A un mito sospeso appartengono i pescatori de La nuova colonia
(1928) i quali, rifugiatisi su un isola che è stata lasciata dai vecchi abitanti perché c’è il pericolo che possa sprofondare nel mare,
16
G. Colombo, Letteratura e cristianesimo nel primo Novecento, a cura di I.
Bii, Jaca Book, Milano 2008, p. 90.
17
R. Alonge, Luigi Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 56.
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accettano il rischio sperando nella fortuna; ma il mito non è più
quello vagheggiato della buona sorte della impresa verghiana dei
lupini, è il mito dell’amore inteso come innocente solidarietà umana.
Il teatro si apre alla sua maggiore evoluzione: l’incompiutezza de I
Giganti della montagna quasi si staglia a testimoniare che sta per
arrivare la scintilla di eternità anche per la scrittura drammaturgica.
In Lazzaro (1929) compare, infatti, un Dio-medico che resuscita
Diego Spina, il quale a sua volta ha ucciso se stesso nel sacriicio
fatto per la famiglia, (il iglio investito viene resuscitato con una
iniezione miracolosa da parte di un medico); e ancora a un miracolo
di fede è attribuita anche la resurrezione della piccola Lia paralitica.
Le tre sezioni dell’opera I giganti della montagna rappresentano
tre diferenti umanità: scalognati, attori e giganti. Gli scalognati
vivono relegati in una villa dove la fantasia prende corpo; gli attori
in quella villa vogliono rappresentare un’opera, la favola del iglio
cambiato; e inine i giganti, rappresentanti teatrali della rozzezza,
della bestialità, si vedono negata l’arte da parte del mago degli scalognati. Inutile sottolineare l’esplicito ritorno al presente di questa
dimensione mitica: la brutalità e la cieca violenza dei giganti hanno
tratti troppo somiglianti alla muscolarità di una certa umanità degli
Trenta, la cui rozzezza li rendeva duri di mente.
La conclusione mitica della drammaturgia pirandelliana, l’evoluzione del grottesco, la scomposizione del personaggio-uomo scisso
tra realtà e apparenza, tra salute e follia («che sia da sciocchi invanire
per le proprie fattezze) si confermano nella impossibilità di trovare
una conclusione, di giungere ad una deinizione inale («io sono vivo
e non concludo. La vita non conclude»); e perciò per trovare il rinnovamento, per recuperare un varco non resta che vivere:
E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva
per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere,
ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si
metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle
vane costruzioni (Uno, nessuno e centomila).