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Pirandello agli attori

2020, Pirandello tra presenza e assenza. Per la mappatura internazionale di un fenomeno culturale

conferenza tenuta a Zurigo nel 2019 e raccolta come capitolo del libro pubblicato nel 2020 da Paola Casella e Thomas Klinkert presso Peter Lang, Zurich

nly III Fo rA uth or Us eO Multimedialità di Pirandello: tra creazione e ricezione Fo rA uth or Us eO nly Alessandra Vannucci nly Pirandello agli attori eO Non recitare. Agisci. Non ricreare. Crea. Non imitare la vita. Vivi. Non scolpire immagini. Sii. Se non ti piace, cambialo. (Living Theatre, Paradise Now, 1968) Fo rA uth or Us Abstract Il saggio verifica la disponibilità di Pirandello ad assorbire l’arte degli attori nei testi, specialmente quelli che prevedono la controscena e ne potenziano al massimo gli effetti, come Sei personaggi e Questa sera si recita a soggetto. Quando ordisce l’improvvisazione, Pirandello affronta il paradosso dell’attore che, mentre recita la parte, la vive. Nel periodo in cui assume funzioni di capocomico (1925–28), l’autore accetta la sfida di far sprigionare l’opera, sul campo pratico della messinscena, da polarità tipiche della routine teatrale, come l’ambiguo rapporto attore/personaggio. Più tardi, residente a Berlino e alimentato dal fatto d’esser spettatore di allestimenti di testi propri ad opera di registi stranieri, suggerisce soluzioni sceniche (in due lettere del 1930) a Guido Salvini, che dirige la versione romana di Questa sera si recita a soggetto. In quel contesto avanguardista, Pirandello intuisce la felice realizzazione di proposte testuali eredi del teatro all’italiana (toni da melodramma e recitazione ‘a soggetto’) in scene ‘immersive’ che tendono ad abolire qualsiasi separazione tra palco e platea. Così, anche se ignote all’autore, risultano coerenti due letture radicali di quei testi: quella di Antonin Artaud, attore nel riallestimento dei Sei personaggi diretto da Pitoëff nel 1934, che esaltò l’opportunità, unica per l’attore, di esercitare la verità del personaggio fino alle estreme conseguenze (un esercizio di crudeltà che oggi diremmo performativo); e quella del Living Theatre nell’allestimento di Tonight We Improvise a New York, nel 1955, ove nessuno dei presenti poteva considerarsi escluso da accadimenti che attestavano incessantemente che quanto stava avvenendo non era altro che l’effettiva realtà di quella serata (un happening). 200 Alessandra Vannucci 1. L’invenzione del regista 1 2 Fo rA uth or Us eO nly La recensione di Silvio d’Amico a Questa sera si recita a soggetto, al Quirino, nel giugno del 1930, subito prima del consueto resoconto delle chiamate («venti e più»), chiude l’elenco degli interpreti con un commento di rilievo: «Tutti viventi, come vuol Pirandello, la propria parte; ma nessuno fin al punto di una delle due bimbe che all’ultimo atto, davanti alle straverie della mamma in delirio, si mise a piangere disperatamente e bisognò portarla via».1 La commedia aveva debuttato al Neues Schauspielhaus di Königsberg, con titolo Heute Abend wird aus dem Stegreif gespielt, il 25 gennaio di quell’anno ed era stata poi riallestita al Lessing Theater di Berlino – ove Pirandello risiedeva da due anni, vivendo la vertigine della città tedesca che si profilava come epicentro del mercato cinematografico europeo. Da lontano, forse rifletteva anche sulla fine dell’impresa romana in cui s’era cacciato qualche anno prima: la fondazione del Teatro d’Arte e la gestione, in qualità di direttore, della sua residenza alla sala Odescalchi (1925–27). Proprio nel corso di questo auto-esilio a Berlino, ove le avanguardie s’erano consacrate anche grazie al lavoro sperimentale di registi come Piscator e Max Reinhardt, un Pirandello già capocomico immaginò uno spettacolo (Questa sera, appunto) in cui si discute, senza un istante di tregua, su come fare lo spettacolo mentre lo si fa. Opportunamente, nella dedica che scrisse sulla copia donata a Reinhardt dell’edizione tedesca della nuova commedia,2 Pirandello dichiarava «grande riconoscenza» al regista austriaco e sembrava suggerirgli una nuova messa in scena (di Questa sera, appunto, il cui protagonista è un regista e porta un nome tedesco). In una lettera a Guido Salvini da Berlino (4 aprile 1929), Pirandello dichiarò la Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, La tribuna (18.6.1930), ora in Id., Cronache del teatro 1929–1955 (Bari: Laterza, 1964), 90–6. Nella traduzione di Heinrich Kahn (Berlino: Reimar Hobbing, 1929), precedente a quella italiana (Milano, Mondadori, 1930). Lo fa notare Alessandro Tinterri, ‘Le prime messinscene di Questa sera si recita a soggetto’, in AA.VV., Testo e messa in scena (Urbino: La Nuova Italia Scientifica, 1986); <http://siciliateatro.org/sera/ int05.htm> (ultima consultazione 24.08.2020). 201 Pirandello agli attori 3 4 5 6 Fo rA uth or Us eO nly sfida: «Non so ancora se sarà messa in scena da Reinhardt o da Hartung. Per un Direttore di scena sarà una prova magnifica, anche di abnegazione, perché la commedia […] è contro gli eccessi della così detta régie».3 Pur essendo dunque rientrato nella funzione di autore, con la messinscena di questa e altre sue future opere affidata ad altri registi e, per l’Italia, a Guido Salvini che era stato suo assistente per gran parte del repertorio della ormai sciolta compagnia, Pirandello non resisteva all’idea di intromettersi nelle scelte di regia. Lo fece in altre due lettere a Salvini (30 marzo e 20 aprile del 1930),4 nelle quali descrive l’allestimento della prima versione tedesca dello spettacolo, diretta da Hans Carl Müller nella periferica Königsberg (e non da Reinhardt a Berlino, come sperava). Dallo scambio di opinioni tra autore e giovane regista risulterà quella «concertazione della sconcertante messinscena con una grazia ed uno stile cui purtroppo non siamo abituati» che d’Amico, spettatore romano, non mancherà di rilevare nella sua recensione.5 Nello spettacolo, che come annunciato in locandina, secondo precise indicazioni dell’autore, sarà recitato «a soggetto» sotto la direzione di tale Dottor Hinkfuss – personaggio cui d’Amico attribuisce funzioni di régisseur e metteur en scène ovvero di regista, distinguendolo dal direttore di scena6 – si assiste secondo il critico ad «un andirivieni che ha per teatro non solo il palcoscenico ma anche la platea e perfino […] il ridotto». Apud Alessandro Tinterri, ‘Le prime messinscene di Questa sera si recita a soggetto’. Il debutto avvenne al Teatro di Torino il 14.04.1930, con una compagnia costituita da Salvini appositamente, lo spettacolo passò per diverse città prima di giungere a Roma, il 16 giugno, quando lo vide anche Pirandello. Nella lettera del 20.04.1930, Pirandello assicura a Salvini l’esclusiva sui Giganti della montagna: «a quali mani potrei affidarli più sicuramente?» aggiunge. Le due lettere sono conservate nel Fondo Salvini, Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova. La lettera del 30 marzo 1930 è riprodotta da Alessandro d’Amico nella ‘Notizia’ al dramma in MNIV, 258– 63. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 96. Nel 1930, la parola «regista» non era stata ancora coniata; provvedette Migliorini nel 1932 dietro proposta della rivista Scenario. Salvini in questa occasione si attribuì il ruolo di ‘maestro di scena’, forse per distinguersi dal ‘direttore’ cui, nella tradizione italiana, si attribuiscono mansioni di arredamento, ordine e sorveglianza e non propriamente di ‘regia’. Usando termini francesi, nella recensione, d’Amico sottolinea l’inesistenza del ruolo sulle scene italiane dominate, fino a quel momento, da convenzioni ottocentesche di capocomicato che garantivano la manutenzione 202 Alessandra Vannucci Fo rA uth or Us eO nly Attraverso «istruzioni, battibecchi, bizze e ripicche d’artisti fra loro e con il loro régisseur» viene messa in scena «la lotta delle personalità, nessuna delle quali vorrebbe cedere il passo nelle esigenze dell’insieme nè sottostare agli ordini del capo».7 Il quale capo ad un certo punto, comportandosi in modo dispotico, viene «messo bellamente alla porta dagli attori, finalmente concordi nel proclamare: sei di troppo, faremo da noi, perché hanno finito per identificarsi coi personaggi», personaggi che «vogliono vivere, ciascuno, da sè la propria parte».8 E benché questo apparente trionfo degli attori sull’invadenza della regia, lasci intendere che il dispotismo di quel signore dal nome nordico non sia altro che una caricatura delle megalomanie da régisseurs d’oltralpe, di cui il corago Anton Giulio Bragaglia intendeva essere l’antecedente in patria, nella lettura di d’Amico, la conclusione era tutt’altra. E cioè che «ogni artista deve essere sé stesso: ma che tutti poi debbono obbedire all’arte ed alla sua disciplina. La quale disciplina è data dal direttore e dalle parti scritte dall’autore: ma l’autore in persona se ne resti fuori dal teatro, il suo compito egli l’ha esaurito a tavolino».9 Il disciplinato lavoro del regista sulle parti scritte, oltre a permettergli di mantenere il controllo sulle derive autarchiche degli interpreti, definisce secondo d’Amico la scena moderna come scena ‘di regia’. Pirandello vi contribuiva, secondo d’Amico, ripetendo note posizioni estetiche del «nostro tempo», ovvero facendo del nuovo testo «una sostanziale apologia del regista».10 Si trattava di sfidare il secolare istrionismo di mattatori e primedonne che continuavano a riempire i teatri italiani, resistendo a qualsiasi innovazione e mantenendo la propria sovranità sulla scena con il trucco di sovrapporre la propria personalità a quella scritta per loro, o meglio, per i personaggi, dagli autori. In tal modo, gli attori legittimavano una sistematica invasione del testo poetico che essi ricreavano a modo loro, come se fosse, appunto, un copione da recitare «a soggetto». 7 8 9 10 dell’assoluto controllo della scena da parte dei mattatori. Su questo si veda Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento (Bari: Laterza, 1998), 7–8. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 94. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 94. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 95. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 95. 203 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly Nel 1929, mentre d’Amico scriveva Il tramonto del grande attore, la vena istrionica tipicamente italiana non dava in verità alcun segnale di esaurimento e proprio per questo la scena moderna già consacrata dai registi-creatori nelle capitali europee (Parigi e Berlino, appunto) tardava ad annunciarsi in Italia. Ciò che invece stava accadendo in patria era che alcuni attori riaffermavano il proprio dominio anche nel campo della drammaturgia, inaugurando relazioni privilegiate con nuovi autori (fu il caso, in quegli anni, della Duse che ci provò con Ibsen prima di dedicarsi a d’Annunzio). Ed era noto che Pirandello scriveva per gli attori, se non sempre su commissione, comunque ispirato dalla loro fisicità: ora la corporatura tarchiata, la risata sfrenata, la gestualità eccessiva ed il dialetto del puparo catanese Angelo Musco (per cui compose Pensaci, Giacomino!, Il berretto a sonagli, La giara); ora, agli antipodi, la sobria eleganza e la voce nasale di Ruggero Ruggeri, per cui creò il personaggio raisonneur di Lamberto Laudisi (in Ciascuno a suo modo, rifiutato dall’attore in quanto ruolo non protagonista), cui seguì una galleria di protagonisti creati ‘su misura’ per l’attore, come Baldovino, Leone Gala, Martino Lori (rispettivamente del Piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti e Tutto per bene) fino all’innominato protagonista dell’Enrico IV. Nel 1925, stava pensando di creare personaggi femminili per Dina Galli ed Emma Gramatica quando ai provini per la compagnia che avrebbe debuttato all’Odescalchi si presentò Marta Abba: rossa come molte donne delle sue novelle e di nome Marta, come l’eroina del suo primo romanzo (L’esclusa). Fu lei la musa della sua produzione successiva (L’amica delle mogli, Come tu mi vuoi, Trovarsi ecc.) ed interlocutrice privilegiata (insieme a Salvini, piuttosto consultato in materia di scenografia, costumi, luci, musica ed effetti sonori) nella valutazione dei problemi che sorgono dall’esperienza diretta dell’allestimento; problemi rilevanti per l’autore che in quel triennio (1925–28) svolse anche ruolo di capocomico. Specialmente, interessava a Pirandello la materialità della doppia presenza dell’attore, come persona e come personaggio, sul palcoscenico e fuori di esso; la Abba ben comprese il dilemma, tanto che, non appena scritturata, prese l’abitudine di far affiggere il nome del personaggio, invece che il proprio, sulla porta del camerino. Si faceva strada, su quel palcoscenico e anche grazie all’interlocuzione con la Abba, una idea di immedesimazione dell’attore nel personaggio, ovvero di un processo di appropriazione ‘da dentro’ (di stampo stanislavskiano) che decisamente capovolgeva l’idea (di stampo crociano) 204 Alessandra Vannucci 11 12 Fo rA uth or Us eO nly dell’intrusione dell’interprete nella creatura immaginata dall’autore. La necessaria ‘deformazione’ che ne deriva e che costituisce per l’arte drammatica una «soggezione inovviabile» all’arte della recitazione (come sembrava rimpiangere un Pirandello non ancora capocomico, nel 1908, nel noto saggio in cui paragonava gli attori a degli «illustratori necessari, purtroppo»)11 diventava, dal nuovo punto di vista da capocomico, un campo di analisi sperimentale dei procedimenti attoriali – oscillanti tra esserci e fingere, tra il ‘vivere la parte’ ed il rappresentarla – di cui la scrittura drammatica poteva farsi agente. E dunque Pirandello, non più limitandosi a scrivere personaggi adatti agli interpreti che aveva in mente, si mise a creare figure che potessero animarsi direttamente in teatro, sulle assi del palcoscenico e pure in platea, nei camerini e nei ridotti, ‘formandosi’ della materia della vita: vita ovunque presente e da ciascuno vissuta con l’ambigua spontaneità di chi, mentre vive, recita una o molte parti. E non fu certo la sola Abba che gli fece cambiare idea al punto da dichiarare, in uno scritto del 1935, d’aver visto attori così immedesimati nel personaggio che, pur recitando le parole del testo, agivano come «se lo creassero essi spontaneamente» e davano l’impressione che «potrebbero seguitare, almeno per un certo tempo, a parlare spontaneamente senza tradire la parte».12 Fu bensì un suo lunghissimo studio (a coprire almeno il periodo di quasi trent’anni tra i due saggi citati) dei processi che costruiscono l’esecuzione attoriale la quale, così come la scrittura rispetto all’immaginazione, dovrebbe «balz[ar] viva dalla concezione e soltanto per virtù di essa, per un movimento non provocato Luigi Pirandello, ‘Illustratori, attori, traduttori’, Nuova Antologia (16 gennaio 1908), in SI, 635–58: 641. Luigi Pirandello, ‘La diminuzione dei nostri grandi attori dipende dalla supremazia del regista?’, Il dramma 213 (1° luglio 1935), 4. Su questo cfr. Donatella Orecchia, ‘Silvio d’Amico e Luigi Pirandello: frammenti di un incontro (1918–1936)’, L’Asino di B. 10/11 (marzo 2006), 67–96; <https://www.academia.edu/43611078/ORECCHIA_ Silvio_d_Amico_e_Luigi_Pirandello_frammenti_di_un_incontro_1918_1936_? email_work_card=view-paper> (ultima consultazione 24.08.2020). Nel 1905, osservando la Duse, Pirandello elogiava la personalità multipla dell’attrice, la quale «sarà tanto più grande quanto più saprà negare la sua particolare essenza per assumere quella ideata e vivente nel dramma» (Il momento, Torino, 01.06.1905), apud Sarah Zappulla Muscarà, Pirandello in guanti bianchi (Caltanissetta: Salvatore Sciascia, 1983), 129. 205 Pirandello agli attori eO nly industriosamente, ma libero, cioè promosso dall’immagine stessa, che vuol liberarsi, tradursi in realtà e vivere» (SI, 643). Forse si mise a studiare (come auspicava nel saggio del 1908) quali moti «organati e combinati» potessero produrre nell’attore «il fenomeno più elementare che si trova in fondo all’esecuzione d’ogni opera d’arte», quello di suscitare «un’imagine (cioè quella specie di essere immateriale e pur vivente, che l’artista ha concepito e sviluppato con l’attività creatrice dello spirito) un’imagine, che tende a divenire […] il movimento che la effettui, la renda reale, all’esterno, fuori dell’artista» (SI, 642–3). È certamente dell’attore tale sfida di trovare quale corpo, voce e gesto possano tradurre sul palcoscenico la figura immaginata dall’autore; ed è un compito che il regista può accompagnare; mentre l’autore può solamente auspicare. or Us Nell’esecuzione si dovrebbero dunque trovare tutti i caratteri della concezione. Può avvenir questo nell’arte drammatica? […] Come l’autore, per fare opera viva, deve immedesimarsi con la sua creatura, fino a sentirla com’essa sente se stessa, a volerla com’essa vuole se stessa; così, e non altrimenti, se fosse possibile, dovrebbe fare l’attore. (SI, 643) 13 14 Fo rA uth S’insiste poco sul fatto (dimostrato con ampia documentazione da Alessandro d’Amico ed Alessandro Tinterri)13 che questo gettarsi senza riserve del poeta sul palcoscenico, vivendone miserie e glorie, mentre tentava di realizzare il suo progetto di riforma della scena italiana, abbia reso la breve avventura di Pirandello con il Teatro d’Arte non meno appassionante di quella di Copeau al Vieux Colombier e di Brecht al Berliner Ensemble. Un progetto in cui l’autore, invece di combattere le contraddizioni dell’arte, le abbracciò al punto da farne dispositivi di creazione (registica) e di scrittura.14 In quest’ordine, perché fu a partire dall’esperienza anche conflittuale che ne ebbe come capocomico che Pirandello si decise ad affrontare il paradosso dell’attore che vive la Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico. La Compagnia del Teatro d’Arte di Roma (Palermo: Sellerio, 1987). Franca Angelini nel suo Teatro e spettacolo del primo Novecento (Bari: Laterza, 1988), 164–8 nota una «coerenza assoluta» dal punto di vista teorico ed un rapporto «tutt’altro che entusiasta» di Pirandello con la regia; qui seguo la sfida che l’autore in veste di capocomico accetta, nonostante tutto, mettendosi alla prova sul campo pratico, non sempre convergente con quello teorico. 206 Alessandra Vannucci eO nly parte mentre la recita o l’effemerità dello spettacolo che un testo non può fissare, perché come la vita vive di una forma diversa ogni volta che avviene. L’opera dunque accoglie ed elabora in forma drammatica (sebbene continuamente interrotta e mai conclusa, sempre «da farsi») l’impossibilità dello spettacolo in quanto opera. Seppur negando teoricamente a qualsiasi interprete la possibilità di essere un tramite trasparente dell’opera, è però proprio questo che Pirandello esigeva in prova e cercava incessantemente, nei suoi interpreti e perfino in sé stesso – rivelandosi anche attore e perfino «attore consumatissimo» secondo Corrado Pavolini: or Us A loro non parlava – con estremo acume e con mirabile chiarezza – che del contenuto del dramma: ne poneva in chiaro i significati umani, le ragioni psicologiche, i contrasti, i valori; aveva un modo tutto suo di portare l’attore dentro lo stato d’animo voluto dalla situazione scenica; dava, e da maestro, l’intonazione della battuta, se l’interprete non la trovava spontaneamente. Talvolta poi, attore consumatissimo lui stesso e vorrei dire sinfonico, dal pronunciare una battuta passava senza neanche avvedersene al dialogo, dal dialogo al concertato, facendo lui tutte le parti, con una bravura sbalorditiva nel mutar tono, espressione, gesto e figura dall’una all’altra, fino a dare ai suoi comici ammirati e silenziosi il senso d’una vivente orchestra di voci, di caratteri, di passioni.15 15 16 Fo rA uth La memoria di Luigi Almirante (primo Padre dei Sei personaggi in cerca d’autore nella messinscena della compagnia Niccodemi, del 1921) ci riporta l’immagine dell’autore che, in piedi, leggeva il suo nuovo testo «magnificamente» ovvero sbracciando e contraffacendo tutte le voci per un pubblico di attori perplessi, anzi «spaventati, perché non avevamo idea di questa roba».16 L’analisi del copione mostra che alle prove per la seconda messinscena, diretta da Pirandello stesso (MNII, 638), nel maggio del 1925, la parte del Padre arrivò tagliata, seguendo (sostiene Almirante) i suggerimenti dell’attore. Un avvicinamento che giustifica cambiamenti in stampa per altre commedie, come i tagli alla versione Corrado Pavolini, ‘Pirandello alle prove’, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967), 917–24: 923. Intervista radiofonica del 1960 ad Alessandro d’Amico e Fernaldo Di Giammatteo, trascritta da Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al primo Padre’, Teatro e Storia 7/2 (1992), 295–328. 207 Pirandello agli attori 17 18 19 Fo rA uth or Us eO nly pubblicata in italiano del Berretto a sonagli, acquisiti (ufficialmente per aver smarrito l’originale) dalla versione adattata per la scena da Musco;17 oppure le molte nuove didascalie contenenti istruzioni per gli attori nella seconda stampa di Ciascuno a suo modo (Mondadori, 1933)18 e infine le varianti testuali suggerite a Salvini nelle due lettere che l’autore gli invia in preparazione del debutto romano di Questa sera si recita a soggetto (alcune varianti furono poi integrate nelle successive edizioni di Maschere nude). Tra i suggerimenti di Pirandello a Salvini per l’allestimento di Questa sera interessa citare, all’inizio della lettera del 30 marzo 1930: «qualche taglio bisogna fare, ma con molto accorgimento, al discorso di Hinkfuss rispettandone le cose nuove ed essenziali che dice» (MNIV, 258). Interessa poiché avvicina l’autore al personaggio del regista, di cui anche d’Amico sosteneva che la commedia fosse una ‘sostanziale apologia’; non però un regista in funzione di capocomico né di direttore di scena, bensì un regista «creatore e signore dello spettacolo» (MNIV, 258) ovvero maestro portatore di un’idea rivoluzionaria di teatro. Non pare strano che a Pirandello premesse raccontare ai suoi attori del magistero di Stanislavskij al Teatro d’Arte, pur non seguendone le indicazioni.19 La sua presenza in teatro, anche prima della fondazione della compagnia, non lasciava margini di ambiguità riguardo le proprie ambizioni. Già Niccodemi ricorda che, durante le prove, Pirandello sedeva accanto al suggeritore e sussurrava le battute di tutti incalzando gli attori. Anche quando restava silenzioso, riusciva ad attirare l’attenzione: «in lui, seduto, c’è più movimento che in tutti: la scena è lui; la riassume, la riassorbe e la Sui rapporti tra Pirandello ed il sistema tradizionale del ‘grande attore’, cfr. Luigi Squarzina, Da Dioniso a Brecht. Pensiero teatrale e azione scenica (Bologna: Il Mulino, 1988), 233–89. Giuliano Campo ha parlato delle relazioni con Musco nel suo intervento ‘L’attore nelle novelle di Pirandello’ durante la Jornada em homenagem aos cento e cinquenta anos de nascimento de Luigi Pirandello, Ciclo Pirandello International, Universidade de São Paulo (FFLCH/USP, 23.11.2017). Si vedano la ‘Notizia’ di Alessandro d’Amico e l’apparato di note e varianti in MNIII, 305–21 e 889–93. Già note in Italia tramite Tatiana Pavlova, un’attrice russa naturalizzata italiana, che aveva lavorato con allievi del maestro e a cui d’Amico affidò l’insegnamento di regia appena istituito all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1935). Dopo di lei, per molti anni il titolare della cattedra fu Salvini. 208 Alessandra Vannucci Us eO nly ributta fuori da tutti i pori del suo viso».20 Salvini riporta che Pirandello esigeva dagli attori «un ritmo serrato di recitazione […], viva e vibratile, […] un fuoco di artificio continuo».21 Le didascalie scritte per i 43 testi teatrali forniscono ad ogni interprete indicazioni più che complete, in cui la descrizione fisica illustra una specie di identità psico-corporea con dettagli caratteristici della presenza del personaggio (colori, tic, deformazioni fisiche, posture, acconciature, incarnato, trucco, gesti) che paiono offerti come strumenti per la creazione dell’attore: veri e propri dispositivi di ‘presentificazione’ dalla cui efficace esecuzione poteva dipendere quel ritmo «vivo e vibratile» che, secondo Salvini sopra citato, l’autore-regista esigeva dalla compagnia. Lo scenografo Virgilio Marchi testimonia che, dal giorno della formazione della compagnia, Pirandello assunse il ruolo oltreché il titolo di Maestro con cui prese a farsi chiamare: e «non abbandonò più il palcoscenico». Fo rA uth or Si amalgamava coi suoi personaggi, ne guidava i passi nel suo mondo di autore e […] sacrificava vecchi pregiudizi scenici e comicali al suo disegno di far vivere la parte in sofferenza e in potenza di spirito […]. Era un tornare «da capo» col distruggere la personalità dell’attore per dargli, plasmargli, nell’animo a grado a grado la personalità del personaggio. Instancabile nelle continue prove, il Maestro confezionava, nella misura dell’individuo da rappresentare, lo spirito dell’attor comico. Era una continua lotta per sostituire un individuo immaginato ed ormai respirante nel cosmo dell’arte, all’individuo attore. Le soste della recitazione erano sempre occupate da una conferenza sul modo della recitazione.22 Tra gli scopi delle «conferenze» del Maestro c’era quello di mettere l’attore in condizioni di immedesimazione analoghe a quelle che lui stesso conosceva in quanto scrittore: se l’attore doveva dar vita al personaggio, era necessario che lo sentisse in sé vivo, attingendo ad esso 20 21 22 Dario Niccodemi, Tempo passato (Milano: Treves, 1929), 81–8, cit. in Andrea Camilleri, ‘Pirandello e la regia teatrale’, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967), 311–15: 314. Guido Salvini, ‘Il terzo atto dei Giganti della Montagna’, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967), 925–8: 925. Marchi, apud Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 433. 209 Pirandello agli attori 23 24 Fo rA uth or Us eO nly immediatamente e non costruendolo mediatamente, durante le prove o prima di ogni rappresentazione – come era invece abito creativo tipico della tradizione del grande attore italiano, specialmente di Tommaso Salvini (di cui il Guido, assistente di Pirandello, era nipote). È da notare che tale procedimento di ricognizione, avvicinamento e costruzione del personaggio aveva talmente impressionato Stanislavskij (spettatore di Salvini durante la tournée in Russia del 1891, quando questi recitò Otello e La morte civile, di Giacometti) che questi ne fece modello per la sua metodologia di ‘reviviscenza’. Salvini non si limitava a truccare il volto, ma ricomponeva tutto il suo essere, «fissando gradualmente i tratti del personaggio» in modo da presentificarlo sulla scena al punto che lo spettatore, «pur non conoscendo l’italiano, sentisse insieme a lui tutta l’acutezza della vita interiore [del personaggio]».23 Pur nell’ambito del naturalismo, il regista francese André Antoine conduceva i suoi attori in un procedimento opposto, in cui la presentificazione di un personaggio in scena era cercata attraverso lo ‘svuotamento’ del corpo e della voce del comédien che così avrebbe dato luogo alla creatura finta, la cui vita però avrebbe dovuto risultare allo spettatore in tutto identica ad una vita vera – cioè senza interruzioni, né dovute alla personalità dell’interprete, né al mestiere. «Tutte le volte che sotto il personaggio si percepisce l’attore, lo svolgimento drammatico si interrompe», sosteneva Antoine nella sua Causerie sur la mise en scène (1903).24 Nel presupposto che l’attore fosse una specie di manichino che poteva essere svuotato e messo a disposizione della realizzazione materiale dell’invenzione poetica, Pirandello aveva scritto i suoi saggi teorici, sia L’azione parlata (1899) sia Illustratori, attori e traduttori (1908). In quest’ultimo si attesta che i personaggi, così come escono «vivi e semoventi» dalla testa dell’autore che li fissa sulla pagina, possano poi da lì balzare sulla scena «liberi, vivi, operanti» (SI, 642) – così pretendono di fare i Sei Personaggi. Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso (Bari: Laterza, 1996), 451. Pubblicata su La revue de Paris, 01.04.1903. Il concetto è approfondito, per quanto riguarda Antoine, da Roberto Alonge, Il teatro dei registi (Roma/Bari: Laterza, 2010), 48–65 e per quanto riguarda Pirandello, da Claudio Vicentini, ‘Il modello della recitazione naturalista nella drammaturgia di Pirandello’, Il Castello di Elsinore 1 (1988), 205–41. 210 Alessandra Vannucci eO nly Non pare quindi affatto assurda, ma invece coerente a questo obiettivo, l’idea di Pirandello che ad un certo punto delle prove della prima versione della commedia propose (ricorda Almirante) d’inserire in scena un suo «grande ritratto» che gli attori della compagnia avrebbero dovuto sfondare entrando in scena come Personaggi; al che Almirante si ribellò («No dico, che facciamo? Il circo equestre? Coi cavalli che saltano nei cerchi?»)25 ed il Maestro rinunciò alla trovata. E non fu per una preoccupazione filologica ma per una scelta registica che, per la seconda messinscena del 1925, scrisse (e lesse al debutto) la Prefazione ove l’Autore racconta al passato il suo rifiuto dei personaggi, ma si palesa al pubblico nel tempo presente della rappresentazione, confessando d’esser forse uno degli spettatori, perplesso e sconcertato quanto loro: Us […] mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. […] E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico; e stiamo a vedere che cosa ne avverrà. (MNII, 654 e 656)26 25 26 Fo rA uth or Questo quanto all’autore, assente per proprio comodo. Ma quali indicazioni avrebbe fornito Pirandello, da regista – una volta letto il testo pur magnificamente e con le sue pur ricchissime didascalie? In che modo avrebbe potuto ottenere quel «prodigio d’arte», ovvero la trasposizione delle sue creature direttamente dalla sua testa (o dal copione) al palcoscenico? Come far entrare i personaggi ‘immediatamente’ nel corpo e nella voce degli attori? Non con il metodo della ‘reviviscenza’ tracciato da Stanislavskij perché, al di là delle apparenti figure di similarità nella relazione tra Maestro e compagnia, quel metodo ragionava (all’opposto, come abbiamo visto) su come un attore poteva entrare (mediatamente, attraverso lenti e graduali passaggi) nel personaggio. Non certo con la lista dei «rimedi» da capocomico (il trucco, il tono giusto ed altre ovvie teatralità di «effetto sicuro» come Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al primo Padre’, 310. Luigi Pirandello, ‘Prefazione’ ai Sei personaggi in cerca d’Autore, pubblicata su Comoedia del gennaio del 1925 con titolo ‘Come e perché ho scritto i Sei personaggi’, ora in MNII, 653–67. 211 Pirandello agli attori 27 28 29 Fo rA uth or Us eO nly «mettersi di tre quarti» e «metter fuori la voce»), la cui inefficacia, nei Sei personaggi, non fa che sottolineare l’inevitabile deformazione del Padre quando eseguito dal Primo Attore: una contraffazione che suscita la risata della Figliastra invece che il suo ribrezzo. Dina Saponaro e Lucia Torsello sostengono che alle «conferenze» seguissero «lunghi colloqui» individuali, in cui il Maestro «nel parlargli del personaggio, chiedeva all’attore di guardarlo negli occhi: quasi a cogliere nel fondo della sua anima, il fantasma originario della creazione. Se l’attore riusciva a cogliere in sé quel germe per Pirandello non vi era altro da insegnargli: il personaggio, la sua creatura, poteva rinascere attraverso l’attore».27 Almirante cita, per quanto riguarda i Sei personaggi, un suggerimento di «povertà»28 in cui è ravvedibile la ricerca di una essenzialità tecnica dell’attore: «un modo di assentarsi dal proprio io e dall’io teatrale falso ed artefatto per entrare nell’essere che non sa il teatro come mestiere del rappresentare ma sa il proprio istintivo dolore e il proprio istintivo piacere che fanno spettacolo solo davanti alle proprie pareti (le pareti del proprio io, ignorando la quarta parete)»,29 come spiega benissimo Virgilio Marchi. Il naturalismo gradito al Maestro era quindi un comportamento essenziale, non costruito ma ‘scoperto’ dall’attore come una specie di spontaneità (non propria bensì del personaggio) che tendeva a spostare la quarta parete ‘dentro’ all’interprete e permetteva la rimozione dallo spazio scenico degli inquadramenti formali necessari all’illusionismo. In che modo poi l’attore potesse dar luogo nel proprio corpo a tale spontaneità aliena, attraverso un percorso di rinascita più simile ad una possessione che ad un metodo di costruzione del personaggio, il Maestro probabilmente non sapeva insegnarlo: il prodigio avveniva «non si sa come» (così lo descrive in Come prima, meglio di prima). Ecco perché (al di là del nome e della chioma) la Abba affascinava Pirandello: Dina Saponaro/Lucia Torsello, Ri-tratti. Caleidoscopio di personaggi nel teatro di Luigi Pirandello (Roma: Bulzoni, 2016), 19. Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al primo Padre’, 316. Virgilio Marchi, in Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 433. 212 Alessandra Vannucci nly […] c’era un fuoco (continua Marchi), un istinto e una volubilità, una sofferenza che la inquadrarono immediatamente nel mondo intimo dei personaggi pirandelliani […] i personaggi immedesimati in Marta scoprivano la loro sofferenza: la sofferenza dell’attrice ne scaturiva palese dalle intime fibre dove nessuna pratica di mestiere d’attore riesce. Era facile al consumatissimo Picasso vincere in astuzia e strappare un interminabile applauso a scena aperta, ma non era facile raggiungerla nell’empito della sofferenza reale.30 30 31 32 Fo rA uth or Us eO L’idea del Maestro, che bisognasse trovare il modo di ‘vivere la parte’ senza rappresentarla, s’inverò in quell’attrice: «la formula parve nata per lei, contro il paradosso di Diderot, la finzione, l’istrionismo e il mestiere consumato dei vecchi tromboni».31 Negli anni a venire, sia l’attrice definì un suo stile ‘pirandelliano’ sia il Maestro diede forma ai propri fantasmi sotto il segno della personalità della Abba in una reciproca fascinazione, che fu magari anche di natura passionale, ma in essa ciò che più interessa è il forte impatto sperimentale. Non pare inverosimile che Pirandello pensasse a lei per far vivere (e morire) in scena Mommina, anche se non fu poi lei l’interprete scelta da Salvini. Nel 1932, Pirandello pensò per la Abba un doppio quasi ricalcato di sé stessa nei panni di un’attrice matura che vede nell’arte l’unica possibilità di «vivere tante vite» e in tal modo trovarsi, ovvero trovare espressione ad una forma più elevata e completa di vivere che sarebbe quella di essere persona e personaggio allo stesso tempo. Nel testo omonimo è enunciato un metodo per tale immedesimazione che non passa attraverso la costruzione del personaggio (puntellato dall’attore che gli sta dietro e dentro), bensì attraverso lo svuotamento dell’attore (che permette al personaggio di calarsi nel suo corpo e parlare con la sua voce). «Sulla scena», dirà non senza ambiguità la sdoppiata Abba/Donata nel primo atto di Trovarsi, «non sono mai io» (MNIV, 552).32 Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 413. Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 413. Sul rapporto creativo tra il Maestro e l’attrice, cfr. specialmente gli studi di Roberto Alonge, Luigi Pirandello, il teatro del XX secolo (Roma/Bari: Laterza, 1997) e gli atti del Convegno La scrittura e l’assenza. Le lettere di Pirandello a Marta Abba avvenuto al DAMS di Torino il 6–7 maggio 1997, pubblicati su Il castello di Elsinore 11, 33 (1998). 213 Pirandello agli attori 33 34 35 36 Fo rA uth or Us eO nly D’Amico la giudicava istintiva, incapace di misura, quasi primitiva nelle forme eccessive in cui ostentava il suo travaglio: un modo di essere persona e personaggio simultaneamente, che poteva essere interessante a patto che rimanesse sotto tutela del suo Autore. Scrisse proprio così, alludendo al ruolo di Pirandello nella creazione di quel personaggio/attrice nella recensione di una serata di lei al Valle, nel 1931, il cui autore era invece Molnár; e senza riuscire a dissimulare il disturbo che gli causava la vista di quell’attrice «convulsa nella balda persona, frenetica nella gesticolazione, ansante nella dizione e ché è grave: senza controlli».33 La giovine (era nata nel 1900), cresciuta troppo in fretta a ruoli di primadonna, aveva bisogno secondo d’Amico «d’un maestro: con che non s’intende solo un régisseur, nel senso di apparatore scenico, ma d’una guida seria, esperta, intelligente e moderna».34 Intendeva forse augurarle un regista, come alcuni mesi prima aveva auspicato per Zacconi una «fusione di competenze» che gli pareva «in Italia, fenomeno pressoché sconosciuto» e ne attribuiva la causa all’indisciplina tipicamente nostrana, ovvero, alla nostra «radicale incapacità di sottoporsi ad un capo».35 Non stupisce quindi l’ortodossia che guida d’Amico a seguire quasi testualmente Pirandello, nella recensione a Questa sera da cui abbiamo preso le mosse: «l’essenziale ci par questo: ogni rappresentazione è un tradimento, ogni artista drammatico vede e ricrea un personaggio, una scena, un dramma a modo suo; ogni interprete, se è un artista, non interpreta ma inevitabilmente rifà, svisandola, l’opera del poeta».36 Proprio la Abba era stata, anni prima, una parossistica Figliastra nei Sei personaggi. «Quant’è vero sub specie aeternitatis questo principio e quanto c’è nella sua pratica di capzioso e disastroso» era argomento, continuava d’Amico, spesso suscitato dalle dimostrazioni di gusto paradossale che il Pirandello teatrante offriva parodiando il Pirandello ben noto, quello dei testi teorici (come Illustratori, attori e traduttori) e narrativi (come la novella Leonora, addio! cui il dottor Hinkfuss in Questa sera si recita a soggetto dichiara di Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’ (01.03.1931), in Id., Cronache del teatro 1929–1955, 144. Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’, 144. Silvio d’Amico, ‘Polemica sul grande attore’, in Id., Cronache del teatro 1929–1955, 127. Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 90. 214 Alessandra Vannucci Fo rA uth or Us eO nly ispirarsi). Di tali cerebrali dimostrazioni, secondo d’Amico, Pirandello soffriva le aporetiche conseguenze: come, appunto quelle causate dalla povera bimba la quale, all’ultimo atto di Questa sera si recita a soggetto, dopo che Mommina è «caduta di schianto, morta», avrebbe dovuto (secondo quanto indicato dall’Autore in didascalia) «rest[are] lì immobil[e] sull[a] sediolin[a] ad aspettare» (MNIV, 394) ed invece (riporta d’Amico) «si mise a piangere disperatamente, e bisognò portarla via». Il disguido, oltre a distogliere l’attenzione dello spettatore dall’effetto tragico della morte (finta? vera?) della mamma, potrebbe portarlo a concludere che un attore non può ‘vivere la propria parte’ al punto di disperarsi sul serio o di lasciarci la pelle per davvero; in quanto, se il personaggio deve, dopo quella battuta, morire, l’attore non lo farà certo ogni sera. Ecco la morale consegnata al pubblico da Hinkfuss con tono un tantino didattico nella programmatica intenzionalità delle battute finali, ove si dichiarano l’impossibilità della recita «a soggetto» e la necessità, invece, se non dell’autore (quello no, che se ne resti fuori! comodamente assente), però delle «parti» scritte dall’autore. Il parallelo con l’intenzionalità della riforma goldoniana è trasparente, trattandosi anche in quel caso di un autore in funzione di capocomico che si mette in capo di farlo per davvero, riformando non solo i modi di produzione dell’arte ma l’arte stessa (tanto che d’Amico, commentando quelle ultime battute di Questa sera si recita a soggetto, rammenta ai suoi lettori, nella recensione citata, il didattismo del Teatro Comico). D’Amico dunque comprende che Pirandello, invece di farne caricatura, s’identifica con quel régisseur e ne desidera l’intervento competente, non nel senso di un «apparatore scenico», ma nel senso di un maestro degli attori, d’una guida «seria, esperta, intelligente e moderna»,37 di cui alla fin fine il testo è ‘apologia’. A prova che esiste davvero una tale intenzionalità nel testo, tra i suggerimenti di Pirandello (nella lettera a Salvini sopra citata, del 30.3.1930) si legga l’insistenza sull’effetto tragico della scena della mamma morta, il quale effetto viene subito interrotto dal regista: Quella scena tragica finale non può essere fine a se stessa. Bisogna arrivare alla conclusione di tutto quell’esperimento di recita a soggetto. E la conclusione dev’essere 37 Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’ (01.03.1931), 144. 215 Pirandello agli attori nly che il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori. Ho piuttosto pensato d’aggiungere qualche battuta per rendere più perspicuo il senso di tutto questo. […] Mommina, tirata su per le braccia, è inerte, come morta davvero, sfinita, esausta: ha vissuto, non ha recitato. Gli attori non possono far questo ogni sera. Debbono avere una parte da recitare. E ci vuole il poeta che la dia loro. (MNIV, 261–2)38 38 Fo rA uth or Us eO L’indicazione «tirata su per le braccia e inerte, come morta davvero, sfinita, esausta» suggerisce all’attrice e a chi la sorregge un’azione fisica che oggi definiremmo performativa, ovvero quella (paradossale) di ‘morire davvero’. È evidente che tale azione compiuta per davvero, non potrà essere ripetuta nelle successive repliche; va quindi compiuta per finta, mentre si sospende il giudizio del pubblico e lo si mantiene nell’illusione della morte ‘reale’ del personaggio. La paradossale sfida fa fallire, nel terzo atto, l’effetto a lungo preparato, con intenzionali sospensioni, della morte tragica di Sampognetta, che finalmente stronca la missione impossibile con la battuta: «non riesco a morire, signor Direttore; mi viene da ridere, vedendo come tutti son bravi, e non riesco a morire» (MNIV, 365). Ovviamente questa e tante altre «capziose e disastrose» conseguenze dell’aporia tecnica del ‘vivere la parte’ non sono solo previste nel testo come In questo caso si è reintegrato nel testo riprodotto da Alessandro d’Amico la frase «Gli attori non possono far questo ogni sera» che figura nell’autografo conservato al Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova. Nella lettera a Salvini del 30 marzo, Pirandello propone una variante rispetto al testo che era stato appena stampato da Mondadori, con l’aggiunta (poi accolta nelle successive edizioni) di alcune battute per questa scena finale. Eccole: «Verri: Si rialzi, signorina: non ha ancora capito che bisogna finire con una buffonata? (si prova a tirarla su per le braccia; Mommina resiste; è lì inerte, sfinita. Allora, chinandosi con gli altri su di lei) Oh Dio, signorina, che cos’ha? Dorina: Si sente male davvero? Signora Ignazia: Il cuore, davvero? L’attrice Caratterista: Eh, sfido! Ha vissuto, non recitato! Questi sono sforzi che si possono fare per una sera soltanto! (A Hinkfuss) Lei non vorrà mica che ci lasciamo la pelle! Verri: Su, su signorina … l’aiuto io. Una sedia … i sali. L’attore Caratterista: (A Hinkfuss) Ci vuole l’autore che ci dia le parti da recitare.» (MNIV, 262) 216 Alessandra Vannucci Fo rA uth or Us eO nly battute ad effetto, bensì premeditate come regole di un gioco che ancora dev’essere giocato, implicando quindi per attori e spettatori un elevato grado di variabilità riguardo la durata e l’esito di ogni scena, variabilità dovuta all’aleatorio che è proprio del gioco. Questa sera si pone fin dall’inizio come il copione per una trappola partecipativa zeppa di sospensioni ed interruzioni in cui il giudizio del pubblico (è vero? è finzione?) diventa parte in gioco e la sua presenza nella sala si intensifica, come durata di vita condivisa, indipendentemente dal tempo previsto per lo svolgimento della rappresentazione: eccone alcuni (peraltro notissimi) esempi. Ancora prima dell’alzata di sipario, una baruffa dietro di esso impedisce l’inizio dello spettacolo e obbliga il regista ad una conferenza ‘improvvisata’ di cui non domina con esattezza la durata, in quanto essa dipende dalla zuffa invisibile. (Nella lettera a Salvini del 30 marzo, Pirandello insiste sulla necessità di mantenere l’attore che fa Hinkfuss nell’ignoranza, perché «la ribellione lo deve cogliere alla sprovvista, mentre stiracchia il suo discorso, aspettando che da dietro il sipario gli si faccia cenno […]. Che aspetti questo cenno, dovrà apparire evidente per qualche mossa o gesto d’imbarazzo o impazienza, che l’attore troverà facilmente»; MNIV, 261). Gli attori, per poter recitare «a soggetto» come promesso in locandina, si calano nei sentimenti reali del personaggio ed agiscono di conseguenza («m’è venuto spontaneo!» è la battuta dell’attrice che recita Mommina; MNIV, 359), interrompendo di continuo il flusso drammatico e trasgredendone le regole. Ancora, il Primo Attore rifiuta d’essere chiamato al proscenio dal regista che intende presentarlo: «non sono mica un burattino, io, nelle sue mani da mostrare al pubblico come quel palco lasciato lì vuoto e una sedia messa in un posto anziché in un altro per qualche suo magico effetto» (MNIV, 311). L’Attrice Caratterista, in quinta, schiaffeggia «all’improvviso» l’anziano collega Brillante poiché «se lo merita»; quindi costui spunta inatteso in proscenio «con una mano sulla guancia, vestito e truccato» da Sampognetta e si sfoga: «C’è che non tollero che la signora […] con la scusa della recita a soggetto m’appiccichi certi schiaffi veri (ha sentito?) che tra l’altro (gli mostra la guancia schiaffeggiata) m’ha rovinato il trucco, no?» (MNIV, 311–12). Le soluzioni sperimentali promesse alla platea da Hinkfuss non funzionano, ma tale disfunzionalità è intenzionale al gioco, come il ripetersi 217 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly della caduta del pagliaccio al circo. Durante la proiezione, subito prima dell’intermezzo, il comportamento scomposto degli attori che recitano personaggi che in quel momento sono spettatori ritardatari (la signora Ignazia, Mommina, Totina, ecc.) suscita l’indignazione di altri spettatori già accomodati (indicati nel testo come «voci» senza meglio specificare se si tratti di spettatori veri o finti), i quali in seguito trascinano lo scandalo nel ridotto, durante l’intervallo, dove il pubblico presumibilmente li segue. Qui Mommina lamenta d’essere sotto gli occhi di tutti e Verri si ribella ontologicamente al ruolo, accusando gli spettatori d’esser tali: «vorrei sapere che hanno da guardar tanto […] come se si stésse qua a dare uno spettacolo» (MNIV, 3). La simultaneità di tutte queste scene è programmata per deludere le aspettative: sia di chi resta in sala, invitato dal regista ad assistere all’insolito spettacolo del cambio scena e che perciò perde l’avvincente confusione del ridotto, sia di chi esce, visto che il regista annuncia che in questo caso «non perderà nulla di importante» ed invece poi descrive ciò che è avvenuto in sala (un effetto di luci a simulare cinematograficamente un campo di aviazione) come «un prodigio: la forma che si muove»; in quanto prodigio «non può essere che momentaneo» e non viene quindi ripetuto (MNIV, 345). Tutte queste interruzioni dell’azione drammatica, sospensioni, sovvertimenti e simultaneità intenzionalmente «capziose e disastrose» (come intendeva d’Amico) rendono la rappresentazione impossibile, ma inaugurano un’altra dimensione percettiva in cui nessuno è escluso dal gioco performativo, ovvero tutti in quella sala (attori, spettatori, addetti) d’improvviso ‘vivono la propria parte’; cioè recitano. 2. La rappresentazione è impossibile Esiste una rappresentazione impossibile, una recita cancellata ed una carriera abortita nella novella Il pipistrello. Di tali catastrofiche conseguenze è motivo la capziosa presenza di un attore che non recita e soltanto sempre vive la propria parte: il pipistrello appunto, così vero 218 Alessandra Vannucci 39 40 Fo rA uth or Us eO nly ed indomito nel suo svolazzio che distrugge qualsiasi «illusione di realtà» (NAI-1, 226). Alla proposta della pragmatica attrice (Gástina) di spegnere il lume, caso entri il pipistrello, per mantenere «l’illusione di realtà», il poeta (Faustino Peres) si oppone: «Illusione? No. Perché dice illusione, signorina? L’arte crea veramente una realtà»; al che lei replica: «Ah, sta bene. E allora io vi dico che l’arte la crea, e il pipistrello la distrugge» (NAI-1, 226). Dinanzi al pipistrello, troppo più bravo, gli altri attori si sentono ridicoli, svaniscono o meglio, svengono: e la sofferenza vibrante con cui l’attrice esegue la scena dello svenimento e per cui è freneticamente applaudita, non risulta da talento e dominio ma, al contrario, dalla totale perdita di controllo dovuta al panico che le suscita il pipistrello. Il copione è inutile, qualunque rappresentazione è impossibile; ne fa prova l’irrappresentabile (in quanto «vivo, vivissimo») pipistrello.39 La missione faustiana («l’arte crea la realtà») del Poeta, non casualmente a nome Faustino, s’interrompe («l’arte la crea ed il pipistrello la distrugge»): questi, riconoscendo che «la ragione unica degli applausi di quella sera era stata l’intrusione improvvisa e violenta di un elemento estraneo, casuale, che invece di mandare a gambe all’aria, come avrebbe dovuto, la finzione dell’arte, s’era miracolosamente inserito in essa, conferendole lì per lì, nell’illusione del pubblico, l’evidenza d’una prodigiosa verità», ritira il lavoro e rinuncia a scrivere. È stato notato che il «vero» (il pipistrello, come la vera tigre e la sua vera morte in un contesto in cui tutto il resto è finto, nel romanzo Si gira)40 si materializza Alcuni studiosi hanno avvicinato questa irrappresentabilità a quella dei Sei personaggi, come Franca Angelini e Giuliana Sanguinetti Katz in occasione del Convegno del 1978 sui rapporti dell’autore con il cinema; si veda Enzo Lauretta, a cura di, Pirandello e il cinema (Agrigento: Centro Studi Pirandelliani, 1978), 91–9 e 229–41. Invece Marialaura Simeone avverte che la scena dello svenimento anticipa quella della morte di Mommina, però invertita: «Mommina sente il personaggio fino al punto di sentirsi male davvero: è la verità dell’arte che si inserisce nella vita; ne Il pipistrello è la verità della vita che si è inserita nell’arte. Qui il teatro si fa da sè e non conclude. Il copione è inutile. È una specie di riforma al contrario del Teatro Comico goldoniano»; cfr. Il palcoscenico sullo schermo: Luigi Pirandello, una trilogia metateatrale per il cinema (Firenze: Cesati, 2016), 103. Il romanzo uscì prima con questo titolo (Milano: Mondadori, 1916) e poi col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925). Cfr. Michael Rössner, ‘La tigre finta e la tigre vera. Simulacra e visioni post-coloniali avant la lettre in Pirandello’ 219 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly sulla scena e nella narrativa pirandelliana come irruzione del rimosso da dimensioni percettive altre, a servizio della creazione ma non dominate dalla coscienza: il sogno, da cui Pirandello dice di trarre i personaggi, o la fantasia, che gl’invade lo studio di fantasmi. E se è comune ai personaggiautori (come Faustino, Serafino Gubbio e l’Autore dei Sei personaggi) ritrarsi, ammutolire e rinunciare a dar vita pubblica a quelle immagini la cui irruzione sulla pagina o in scena provoca catastrofi rendendo impossibile la rappresentazione, è però vero che Pirandello invece persiste a fare di questa impossibilità un copioso materiale per la sua creazione.41 La ragione di questa doppia natura (impossibile e possibile) del fenomeno è compresa benissimo da Faustino: «l’intrusione improvvisa e violenta di un elemento estraneo» conferisce ai presenti l’esperienza ermeneutica di un altro e superiore piano di realtà: almeno «lì per lì, […] l’evidenza di una prodigiosa verità» (NAI-2, 233). Nella Prefazione ai Sei personaggi, la cui storia risulta troppo melodrammatica per esser scritta e rappresentata, ma dal cui rigetto da parte di Autore e Attori sgorga materiale per un dramma sulla rappresentazione impossibile, Pirandello cita l’entrata del «fantasma di Madama Pace» come esempio di una tecnica di «spezzatura» applicata a ragion veduta e che consiste in «un improvviso mutamento del piano di realtà della scena, perché un personaggio può nascere a quel modo solo nella fantasia di un poeta non certo sulle tavole di un palcoscenico» (MNII, 664–5). Senza che nessuno se ne sia accorto, in quel momento la ho riaccolta nella mia fantasia pur non togliendola di sotto gli occhi agli spettatori: ho cioè mostrato ad essi, in luogo del palcoscenico, la mia fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso. Il mutarsi improvviso e incontrollabile di una apparenza da un piano di realtà a un altro è un miracolo della specie di quelli compiuti dal Santo che fa muovere la sua statua […]. Quel palcoscenico […] non esiste di per sé stesso come dato fisso e immutabile, come nulla di questa commedia esiste di preconcetto: tutto vi si fa, tutto 41 (conferenza di apertura della Jornada em homenagem aos cento e cinquenta anos de nascimento de Luigi Pirandello, São Paulo, 23.11.2017). Gli attori dei Sei personaggi non riescono a portare a termine la scena dell’incontro del Padre con la Figliastra; Ciascuno a suo modo deve essere interrotta prima del terzo atto per gli «spiacevoli incidenti» occorsi; Questa sera si recita a soggetto si presenta fin dall’inizio come un tentativo fallimentare di messinscena. 220 Alessandra Vannucci vi si muove, tutto vi è tentativo improvviso. Anche il piano di realtà […] arriva così a spostarsi organicamente. (MNII, 665) 42 43 Fo rA uth or Us eO nly In quanto fantasma scaturito dalla memoria di un personaggio, Madama Pace irrompe in scena interrompendone l’illusione, poiché («megera d’enorme grandezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante, da un lato, alla spagnola; tutta ritinta, vestita con goffa eleganza di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in mano e l’altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa»; MNII, 717) fa esplodere qualsiasi criterio di verosimiglianza. Tutto il resto viene rimbalzato fuor dalla forma squadrata del palcoscenico: all’apparire di Madama Pace, gli attori «schizzano via con urla di spavento» ed essa «in pochi passi» balza in primo piano, come se, nella sequenza delle immagini proposte, improvvisamente fosse stato inserito un close. La spezzatura è ravvedibile come un ‘taglio’ cui segue una ‘giunzione’ nel montaggio cinematografico, fino a rendere organica tutta la sequenza nei suoi raccordati spostamenti tra diversi piani di realtà. Il narratore/autore è, come Serafino Gubbio, un montatore. Non è strano che, sia di Pipistrello sia dei Sei personaggi, Pirandello abbia immaginato trasposizioni cinematografiche di cui volle occuparsi personalmente, se non della regia almeno del trattamento e per i quali si propose anche come attore. Neanche stupirà che, nella sceneggiatura della Film-Novelle, tratta nel 1928 dai Sei personaggi (e mai girato) Pirandello si proponesse d’apparire in veste di sé stesso come Autore: quanto mai fantasmatico, rimosso, irrappresentabile e dato per assente.42 Nel trattamento da lui stesso curato,43 il dramma dell’impossibile relazione Autore-Personaggi, anteriore a quella Personaggi-Attori che rende la Il tema dei personaggi che acquisiscono vita propria assilla Pirandello fin dalla novella Personaggi, pubblicata sul Ventesimo (10.06.1906); ripreso nella novella La tragedia d’un personaggio, pubblicata sul Corriere della sera (19.10.1911) (inclusa nel quarto volume delle Novelle per un anno, intitolato L’uomo solo), e ancora in Colloquii coi personaggi, pubblicata dal Corriere di Sicilia (17.–18.08.1915). Le battute riecheggiano identiche fino al dramma del 1921. Per un approfondimento cfr. Ferdinando Taviani, Due interviste in una, 311. La sceneggiatura è riportata da Marialaura Simeone, Il palcoscenico sullo schermo: Luigi Pirandello, una trilogia metateatrale per il cinema, 107. 221 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly rappresentazione irrappresentabile, si materializza nelle prime immagini: ove Pirandello voleva che si vedessero il Poeta curvo al suo scrittoio con i Personaggi «indomabili» che gli danzano intorno, prima in grandezza «sovrannaturale», poi «sempre più piccoli» fino a radunarglisi in una mano. Questa si solleva e si posa sulla fronte del Poeta, per lasciarli entrare. Con le immagini tagliate e raccordate in un montaggio che contrappone piani diversi di realtà, la favola prende una consistenza organica laddove era concitata e confusa nell’opera scenica. Così Pirandello auspica che finalmente, sullo schermo «s’assisterà veramente alla creazione dell’opera d’arte. Le idee appariranno in un primo momento imprecise, confuse, poi via via concretizzate, proprio così come avviene nella mia mente d’autore».44 Fu quasi d’obbligo per il Teatro d’Arte allestire i Sei personaggi per la tournée europea dell’estate del 1925, poiché il pubblico di Parigi e Berlino dopo aver assistito alle messinscene di Pitoëff (aprile del 1923) e di Reinhardt (dicembre/gennaio del 1924) voleva vedere la ‘vera’ interpretazione degli ambigui personaggi, diretta dall’Autore ed eseguita dagli attori della sua compagnia.45 Pirandello aveva assistito all’allestimento di Pitoëff a Parigi ma soltanto letto commenti su quello di Reinhardt. Ad ogni modo prese in considerazione tutte le variazioni di tono, movimenti, costumi, illuminazione e atmosfera di cui riuscì ad avere notizia e non furono pochi i dettagli di similarità e differenza notati dai critici. Sulla scena tedesca si osservò che, invece d’apparire come fantasmi, i Personaggi possedevano una carnalità che ne riduceva l’effetto – considerando che Reinhardt li aveva immersi in un’atmosfera irreale ed espressionista che ne eliminava qualsiasi residuo di verosimiglianza e riduceva il testo ad un copione cui ispirarsi – pertanto, non essendo disposto ad eccedere nella sperimentazione al di là dell’abolizione di quarta parete e fondale, Pirandello sembrò ai critici meno pirandelliano dei suoi registi.46 Alfred Kerr sul Berliner Tageblatt 44 Marialaura Simeone, Il palcoscenico sullo schermo, 107. 45 Per un accurato confronto tra le regie di Pirandello e le messinscene straniere, vedi Alessandro Tinterri, ‘Pirandello regista del suo teatro: 1925–1928’, Quaderni di teatro 9, 34 (novembre 1986), 54–64. 46 Cfr. Oscar Büdel, ‘Pirandello sulla scena tedesca’, Quaderni del Piccolo Teatro 1 (1961), 102. Sull’argomento vedi Michael Rössner, ‘La fortuna di Pirandello in Germania e le messinscene di Reinhardt’, Quaderni di teatro 9 /34 (novembre 1986), 40–53. 222 Alessandra Vannucci Fo rA uth or Us eO nly (13.10.1925) mise i due allestimenti a confronto e rilevò che nella messinscena italiana la teatralità si installava su ogni piano di rappresentazione, non solo quella dei personaggi che mettono in scena sé stessi come quella di uno «strano consesso famigliare» ma ancora quella teatralità che sarebbe propensione «innata degli italiani in confronto con la sobrietà tedesca borghese».47 Nonostante ciò, il critico garantì che l’istrionismo non prevaleva, bensì risultava «filtrato da una regia». E non da una regia qualsiasi, ma dalla regia dell’autore stesso, nella quale risultava notevole «il desiderio di trapassare dalla quotidianità al mondo crepuscolare». E qui il critico poneva una domanda perspicace, cui stiamo cercando qui di dare risposta: «Ma quando tecnicamente tra i due mondi si avverte una frattura, quando diventa percepibile il passaggio dall’uno all’altro, è colpa di Pirandello? O del macchinista?».48 Per quanto riguarda Pitoëff, il quale come è noto faceva entrare i Personaggi dal montacarichi direttamente sul palcoscenico e da lì pure li faceva uscire, a mostrare che arrivavano da un ‘fuori’ e in quell’altrove riprendevano il loro tormentato cammino, l’iniziale sconcerto pirandelliano si mutò in approvazione49 al punto che modificò l’indicazione in didascalia. La nuova didascalia suggerisce che entrino dalle porte della sala, annunciati dall’Usciere, come se venissero dalla strada e che scendano dal corridoio tra le poltrone «un po’ smarriti e perplessi» (MNII, 677). L’uscita di scena dei Personaggi i quali, dopo il gran tumulto che segue il colpo di rivoltella e la morte (vera? finta?) del ragazzo, sono scomparsi insieme agli attori dietro al fondalino abbassato, è descritta da Pirandello, nell’ultima didascalia, come un effetto cinematografico di stacco netto – che la scenotecnica teatrale dell’epoca poteva attribuire ad un errore del macchinista oppure all’estro di un regista. Infatti Pirandello in didascalia suggerisce: «Subito, come per uno sbaglio d’attacco, s’accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi […]. Il capocomico schizzerà via dal palcoscenico atterrito. Contemporaneamente, si spegnerà il riflettore» ed essi usciranno come «forme trasognate» (MNII, 758). 47 48 49 Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 150. Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 150. La didascalia originale indicava una normale entrata dai camerini. 223 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly Inoltre, la didascalia iniziale di Pirandello mette in allerta chiunque «voglia tentare una traduzione scenica della commedia» a distinguere i Personaggi dagli Attori della compagnia: i primi dovranno apparire «non come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili; e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori» (MNII, 678). Oltre alla lieve stoccata a Reinhardt, che appunto aveva inteso rendere fantasmatici i Personaggi, emerge dalla didascalia il sospetto che Pirandello giudichi ardua se non impossibile una precisa esecuzione fisica di tali creature. Il suggerimento dell’uso di maschere e di costumi stilizzati (quello del Padre «squadrato dalle spalle imbottite», informa Marchi)50 che potrebbero obbligare i movimenti degli attori ad una «rigidità di statua» contraddice un primo suggerimento di Pirandello, nel copione del 1921, per cui i Personaggi dovevano invece possedere una «levità di sogno».51 Di fatto, la sfida del rappresentare quegli «esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e veston panni; forse meno reali, ma più veri!» (come recita il testo dei Sei personaggi; MNII, 681) è lanciata agli interpreti dai quali si esige la capacità dello stacco netto che, per il tramite di una violenta irruzione del ‘vero’ (come il vero svenimento della Gástina all’apparire del pipistrello), produca l’effetto d’immersione nel perturbante, ossia la spezzatura, non però come tecnica di scrittura o di montaggio, bensì come modo di recitazione. Il contrasto tra Attori e Personaggi è strumentale ad esemplificare la distanza tra modi convenzionali di rappresentazione e questo genere di performance quasi mai prima eseguita: ove attori che impersonano Personaggi accusano attori che impersonano Attori di non esser capaci di sentire «com’io dentro mi sento» (battuta del Padre) e «non assomigliare per nulla» (battuta della Figliastra), poiché un corpo è la memoria di un corpo e dunque, irrappresentabile da chiunque altro e non raccontabile («qui non si narra!» urla offesa la Figliastra; MNII, 692). La narrazione è rifiutata, la rappresentazione è impossibile ed il capocomico che ha accettato di sopperire alla colpevole assenza dell’autore fallisce, essendogli inoltre rinfacciato d’averlo fatto per vanità. Eppure lo spettacolo avviene, deve pur avvenire sotto gli occhi ed in presenza degli spettatori. 50 51 In Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 132. Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Claudio Vicentini, ‘Il modello della recitazione naturalista’, 37. 224 Alessandra Vannucci 52 53 54 55 Fo rA uth or Us eO nly Non si vuole qui approfondire la carriera dei Sei personaggi, il cui effetto nel 1921 fu quello di una «bomba a mano che scoppiò nella testa degli spettatori», secondo Antonio Gramsci che fu tra il pubblico di quello scandaloso debutto.52 Qualcosa scoppiò anche nella testa degli attori: il solito Almirante confessa che, alla fine della prima lettura, lui e gli altri competentissimi componenti della compagnia Niccodemi erano «rimasti sbalorditi […] teatralmente parlando a noi ci sembrava impossibile che si potesse rappresentare una cosa del genere»53 e che al debutto, il tumulto fu tale che bande di spettatori avversari e favorevoli vennero a male parole e finalmente alle mani: «si sono picchiati». Durante la commedia, però, «nessuno schiamazzo: il pubblico era sbalordito come lo eravamo noi, perché era una cosa completamente fuori dall’ordinario. […] Il sipario era calato e noi non si sapeva che cosa era. Lui sorrideva imperterrito. Tant’è vero che io pensavo che lui, dopo questo, non scrivesse mai più teatro».54 Invece, Pirandello si decise a riallestire lo spettacolo e a portarlo in giro per il mondo come manifesto del proprio modo di concepire il teatro, specialmente dal punto di vista relazionale ovvero per quanto riguarda le reazioni che un’opera viva può suscitare nei più svariati pubblici; forse lo divertiva cogliere quella sfida da lui stesso, come autore, lanciata. Le dichiarazioni che concede ai giornali europei, durante quella tournée, sono possibilmente da intendere come provocazioni pubblicitarie che giocano con l’immagine pubblica di scrittore paradossale che lo aveva reso famoso; e comunque, in esse il tono di sfida è chiaramente ravvedibile: «Non mi è bastato scrivere commedie e farle rappresentare. Oggi sono capocomico e metteur en scène d’una compagnia drammatica. Dovete crederci, proprio perché è assurdo».55 Un altro spettatore notevole, Antonin Artaud, scrisse dell’allestimento dei Sei personaggi di Pitoëff, il cui successo fu talmente strepitoso da essere Recensione al Piacere dell’onestà pubblicata su Ordine nuovo, 29.11.1917, in Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale (Torino: Einaudi, 1966), 307. Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al primo Padre’, 298. Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una’, 324. Luigi Pirandello, ‘En confidence’, Le Temps (20 luglio 1925), cit. in Claudio Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro (Venezia: Marsilio, 1993). 225 Pirandello agli attori 56 57 58 Fo rA uth or Us eO nly replicato per più di tre mesi alla Comédie des Champs-Elysées – condizione che permise allo stesso Artaud di farsi scritturare nel ruolo del Suggeritore. Aveva cominciato a fare l’attore per il cinema, quella primavera, e rispose ad una inchiesta di René Clair per Théâtre et Comoedia illustré. In esso, Artaud sosteneva che «il teatro è un tradimento» perché in esso, tra opera e spettatore, s’interpone sempre la materialità degli attori, mentre al cinema l’attore è trasparente come un «segno vivente»: «Charlot rappresenta Charlot, Fairbanks rappresenta Fairbanks. Sono loro il film […]. È per questo che non esistono».56 L’opacità dell’attore teatrale è fortemente ripudiata nella recensione ai Sei personaggi. In questo testo Artaud, attore lui stesso, educato alla rigorosa scuola di Dullin, intravede una via fisica per la comprensione della paradossale sfida di dar vita a personaggi la cui vita è più vera di quella degli attori: «Essi vivono, affermano di essere reali […]. Sono più reali di Lei, direttore e di voi, guitti immondi. Allora, noi attori cosa siamo? Eppure, questi Personaggi sono ancora degli attori ad incarnarli! Si pone in questo modo tutto il problema del teatro».57 La via che Artaud ravvisa nei Sei personaggi è quella della crudeltà, ovvero di un tale svuotamento della materia corporea tramite il rigore della tecnica che possa annullare nell’attore qualsiasi opacità e farlo trasparente allo «spettacolo dell’anima». Il «grado zero» della rappresentazione è vivere la pura funzione-finzione: il corpo senz’organi. Il quadro della scena contemporanea tracciato da Artaud nei celeberrimi testi degli anni seguenti è desolante, con l’unica eccezione dei «capolavori di Pirandello» (come scrive in una bozza di lettera a René Daumal del 14 luglio 1931),58 i quali aprono, agli occhi del visionario poeta, uno spiraglio di speranza spalancato sul vuoto della frase restata inconclusa: «C’è spazio adesso per un teatro che …». L’inchiesta uscì nel marzo del 1923, sul numero 15, ma il contributo di Artaud non compare. È riportato nel magistrale saggio di Franco Ruffini, ‘Pirandello e Artaud’, in Id., Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro (Roma: Bulzoni, 2001), 69–76. La recensione firmata da Artaud uscì nel maggio del 1923 su La criée 24, e fu ristampata in Le théâtre et son double (Paris: Gallimard, 1938), trad. italiana: Il teatro e il suo doppio (Torino: Einaudi, 1968), 110–11. Franco Ruffini, ‘Pirandello e Artaud’, 75. 226 Alessandra Vannucci nly Per fare una ricognizione della rotta di Pirandello in questo vuoto pulsante di possibilità, torniamo alla lettera spedita a Salvini nel marzo del 1930, sulla messinscena nel periferico teatro di Königsberg e dinanzi ad una platea provinciale di Questa sera si recita a soggetto, che come sappiamo gli parve «mirabile»: eO La commedia vive tutta di vita meravigliosa senza posare un momento, ed il pubblico, che vorrebbe aver cento occhi e cento orecchi, ne resta incantato dal principio alla fine. Lo stupore diventa subito il clima naturale della commedia, per cui naturali appaiono anche i fulminei trapassi dal comico al tragico, e tutto è accettato con gioja quasi infantile dal pubblico che ad un tempo ride e si commuove. (MNIV, 258) or Us Ciò che Pirandello, in veste di spettatore, ammira è la capacità del regista di montare le scene con «stridenti contrasti di straordinario effetto» come, nella pantomima iniziale, la sequenza della processione religiosa che grazie ad uno «scatto immediato» diventa l’interno di un cabaret e poi una scena di melodramma. La sequenza, ottenuta dal regista grazie a due palchi giustapposti ed un fondalino di trasparenza, è descritta con molti dettagli di colore e sonoplastia. Fo rA uth Il codazzo è numeroso e di bellissimo effetto pittorico. La trasparenza del cabaret è ottenuta magnificamente: scatto immediato di suoni, luci e colori. Luci variopinte: colori in parte cupi, lugubri dal lato della Chanteuse, in parte sgargiantissimi dal lato delle ballerinette che, molto brillanti e vivaci, intercalano nel canto impressionantissimo della tragica Chanteuse stridule grida giojose e risate e colpi di mani alle cosce e chiocchi di dita in mirabile concerto dissonante; il jazz intanto impazza. La scena, con questi risalti, si sostiene un bel po’. […] mentre il pubblico […] sta a guardare i due palchi illuminati […], si vede lassù una Primadonna ed un Baritono che cantano goffamente al suono di un grammofono, ingrandito dalla radio, il finale del primo atto di un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio, tutto cangiato. Siamo veramente catapultati in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa la caricatura e la parodia, cantanti che si sbracciano piumati e il grammofono invece dell’orchestra. (MNIV, 259) La percezione lucida delle tecniche di composizione della scena non impedisce l’effetto «irresistibile» di incantamento in cui cade anche 227 Pirandello agli attori Us eO nly quello spettatore d’eccezione; l’autore riconosce alla scrittura scenica una «magia» che potrebbe essere paragonata all’illusione cinematografica prodotta dal montaggio. L’abbaglio (siamo «veramente catapultati») costituisce un uso radicale dell’idea del ‘teatro nel teatro’, giacché, nota Pirandello (a Königsberg) tutto avviene in un vero «teatro d’opera di provincia». Il gioco si realizza pienamente quando gli attori si sparpagliano ovunque ed il pubblico, invitato da Hinkfuss ad uscire mentre il sipario è calato, non lo fa «perché (registra Pirandello nella lettera) attraverso gli usci aperti sul corridojo si vedono passeggiare a braccetto le coppie dei giovanotti con le ragazze […] e nel palchetto si vede ancora la signora Ignazia con due degli ufficiali»; in sala compaiono figure affidabili come «il ragazzotto che va vendendo cioccolatine e caramelle con la sua cassetta ad armacollo ed il suo berrettino da barman gallonato», mentre Nené e Totina lo vedono e Fo rA uth or […] trascinano dal corridojo […] fino sotto la buca del suggeritore i due giovani che sono con loro; e la prima scenetta si svolge lí; poi, questi quattro s’allontanano, se ne vengono fin sotto al palco dov’è rimasta la madre, e intanto entrano da un altro uscio nella sala, conversando, Dorina e Nardi, che infine chiamano e si uniscono agli altri quattro, e finita la scenetta d’insieme, tornano a uscire sul corridoio; ma già nella sala sono entrati Verri e Mommina a far la loro, appoggiati alla ringhiera d’un palco di prima fila; il pubblico non sa dove voltarsi prima; è preso da tutte le parti. (MNIV, 260) Ovvero: le scene da lui stesso previste per il ridotto avvengono invece «nella sala e sotto gli occhi degli spettatori, che si divertono un mondo» ed ecco che (esclama Pirandello al colmo dell’entusiasmo) «avviene il prodigio: tutto il teatro recita!» (MNIV, 260–1). 3. Vivere e morire senza fingere In Tonight We Improvise, allestimento del Living Theatre andato in scena nel marzo del 1955 allo Studio, una sala sulla 100° Strada a New York adattata (già per The Connection) in modo da non presentare alcuna separazione tra palco e platea, nessuno poteva considerarsi escluso da accadimenti che 228 Alessandra Vannucci Fo rA uth or Us eO nly attestavano incessantemente che quanto stava avvenendo non era altro che l’effettiva realtà di quella serata. Era un happening. Al posto della processione siciliana il gruppo viveva in pubblico una tranche de vie della loro normalità quotidiana, droghe incluse. Il discorso di Hinkfuss (ribattezzato Beckfuss già che era Julian Beck) era aggiornato all’avanguardia teatrale degli anni Cinquanta: la proposta della recita a soggetto era resa come performance, ovvero una produzione di presenza momentanea e non premeditata. Gli attori recitavano sé stessi mescolandosi agli spettatori e Mommina (era la Malina) si sedeva sulle ginocchia di uno qualsiasi. «Non avevamo alcun timore di essere aggressivi. Non solo sedevamo sulle loro ginocchia; li abbracciavamo, li trascinavamo» ricorda l’attrice.59 Il gruppo raccoglieva la sfida lanciata da Pirandello come una specie di missione estetico-politica: lo spettacolo mirava a svegliare il pubblico dal torpore e trascinarlo in un’estasi corale ove «eguagliare, unificare, avvicinare maggiormente tutti alla vita».60 E quando Beckfuss si impadroniva del palcoscenico, realizzandovi la sua bellissima ambientazione notturna che però risultava impraticabile, veniva espulso a spintoni dall’assemblea teatrale tradita ed infuriata – tanto che l’attore, al quale il soprannome di Beckfuss rimase appiccicato per anni, prese a chiamare il pubblico wild beast. Lo sforzo di far sì che attori e spettatori ‘vivessero’ la parte coincideva con lo sforzo di ‘controllare’ un evento anarchizzato ed un dramma impossibile, giacché veniva sistematicamente soverchiato dagli avvenimenti. In ciò Beck comprese che lo spettacolo riusciva bene proprio perché seguiva alla lettera le istruzioni scritte da Pirandello 25 anni prima: ove idee rivoluzionarie come l’autarchia performativa dell’attore, la partecipazione corale della platea e la simultaneità di vita e arte erano già poste come assi portanti di una piattaforma sperimentale molto più radicale dell’ovvia e magari un po’ usurata metateatralità associata all’autore. Difatti, confessa Beck, nello spettacolo «c’era ben poco di realmente improvvisato […] ma fu eseguito e diretto in maniera tale che gli spettatori pensassero spesso che fosse realmente improvvisato».61 59 60 61 Judith Malina, ‘Il Pirandello del Living’, Teatro e Storia 7/2 (ottobre 1992), 343. Julian Beck, Il lavoro del Living Theatre. Materiali 1952–69 (Milano: Ubulibri, 1982), 51. Julian Beck, La vita nel teatro (Torino: Einaudi, 1975), 90. 229 Pirandello agli attori Fo rA uth or Us eO nly Quindi mentre, da una parte, era intenzione del Living Theatre far dello spettacolo un’assemblea pubblica nella quale chiunque avesse uguale diritto alla parola e all’azione, come proposto da Erwin Piscator (un’utopia wagneriana, perfino nietzscheana, di teatro totale come alle origini); d’altra parte, era lavorando sulla struttura proposta da Pirandello che riuscivano a costruire un evento in cui ciò avvenisse per davvero. Riassume Judith Malina: «dall’influenza di Piscator abbiamo preso un desiderio costante di avere un vero dialogo con il pubblico […], dall’influenza di Pirandello abbiamo preso una tecnica per arrivare a questo dialogo».62 E spiega anche come ciò avveniva: «attraverso il momento della transe in cui la realtà è intensificata e si spezza, in cui entriamo nella zona del nostro mistero: il momento in cui attore e spettatore si guardano in una nuova luce e dicono: chi siamo? Ecco, in quel momento preciso poniamo una domanda politica, perché la consapevolezza politica porta l’evento teatrale sempre più vicino alla realtà ed alla vita».63 Adottando il suggerimento pirandelliano della «spezzatura», la logica di coincidenza tra arte e vita si svolgeva dall’interno e «immediatamente» nel corpo dei presenti, sia attori che spettatori; poiché ciascuno recitava sé stesso ed anche il copione, senza uscire dal proprio ruolo ma sdoppiandosi in esso, con una specie di strana fedeltà all’arte ed insieme alla vita. La coesistenza di tali stratificazioni realizzava la sfida lanciata da Pirandello, magari amplificando coralmente una certa fisicità da lui prevista, fino a contaminare e far recitare tutto il teatro (come nel caso della battuta sullo schiaffo ricevuto in quinta dall’Attore Brillante che si moltiplicava, nella messinscena del Living, in una girandola di domande, col risultato che pareva fossero volati non uno, ma chissà quanti schiaffi, oppure della provocazione sul fatto che gli attori stessero veramente improvvisando, lanciata dalla platea con tanta insistenza che alla fine il pubblico si innervosiva davvero). La scrittura scenica del Living Theatre potenziava l’aleatorio e provocava, nelle parti ‘vissute’ come improvvisazioni collettive a soggetto (performances) un effetto 62 63 Intervistata da Richard Sogliuzzo nel luglio 1974, in Franco Perrelli, I maestri della ricerca teatrale: Barba, Brook, Beck (Bari: Laterza, 2007), 76, n. 48. Judith Malina, intervistata da Richard Sogliuzzo, I maestri della ricerca teatrale: Barba, Brook, Beck, 76, n. 48. 230 Alessandra Vannucci Bibliografia or Us eO nly di spiazzamento o «spezzatura» secondo la terminologia pirandelliana, che potremmo anche definire «straniamento», secondo la definizione dei formalisti russi realizzata nella prassi delle avanguardie: ovvero, l’irrompere del reale nel piano di rappresentazione. Il modo in cui, nella scena finale, Malina-Mommina sembrava morire davvero, improvvisamente svuotando di energia il suo piccolo corpo produceva un effetto talmente perturbante da essere paragonato (dal critico Eric Bentley) ad uno stupro. L’esperienza immersiva ante litteram significò un tale strepitoso successo che ogni sera si dovevano aggiungere sedie. Fu riallestito quattro anni dopo al Living Theatre Playhouse, nel Village; proprio a partire da questo spettacolo, come ha scritto Claudio Meldolesi, «il Living andava acquisendo quella scienza dell’improvvisazione che l’avrebbe portato (anche attraverso Artaud) all’individuazione di una vitalità oltre la vita, la vitalità liminare e politica di Paradise Now».64 Fo rA uth AA.VV., La scrittura e l’assenza. Le lettere di Pirandello a Marta Abba, Il castello di Elsinore 11, 33 (1998). Alonge, Roberto, Luigi Pirandello, il teatro del XX secolo (Roma/Bari: Laterza, 1997). ——, Il teatro dei registi (Roma/Bari: Laterza, 2010). Angelini, Franca, Teatro e spettacolo del primo Novecento (Bari: Laterza, 1988). Artaud, Antonin, Il teatro e il suo doppio (Torino: Einaudi, 1968). Beck, Julian, La vita nel teatro (Torino: Einaudi, 1975). ——, Il lavoro del Living Theatre. Materiali 1952–69 (Milano: Ubulibri, 1982). 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