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Multimedialità di Pirandello: tra creazione e ricezione
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Pirandello agli attori
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Non recitare. Agisci. Non ricreare. Crea. Non imitare la vita.
Vivi. Non scolpire immagini. Sii. Se non ti piace, cambialo.
(Living Theatre, Paradise Now, 1968)
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Abstract
Il saggio verifica la disponibilità di Pirandello ad assorbire l’arte degli attori nei testi,
specialmente quelli che prevedono la controscena e ne potenziano al massimo gli effetti,
come Sei personaggi e Questa sera si recita a soggetto. Quando ordisce l’improvvisazione,
Pirandello affronta il paradosso dell’attore che, mentre recita la parte, la vive. Nel
periodo in cui assume funzioni di capocomico (1925–28), l’autore accetta la sfida di
far sprigionare l’opera, sul campo pratico della messinscena, da polarità tipiche della
routine teatrale, come l’ambiguo rapporto attore/personaggio. Più tardi, residente
a Berlino e alimentato dal fatto d’esser spettatore di allestimenti di testi propri ad
opera di registi stranieri, suggerisce soluzioni sceniche (in due lettere del 1930) a
Guido Salvini, che dirige la versione romana di Questa sera si recita a soggetto. In quel
contesto avanguardista, Pirandello intuisce la felice realizzazione di proposte testuali
eredi del teatro all’italiana (toni da melodramma e recitazione ‘a soggetto’) in scene
‘immersive’ che tendono ad abolire qualsiasi separazione tra palco e platea. Così,
anche se ignote all’autore, risultano coerenti due letture radicali di quei testi: quella
di Antonin Artaud, attore nel riallestimento dei Sei personaggi diretto da Pitoëff nel
1934, che esaltò l’opportunità, unica per l’attore, di esercitare la verità del personaggio
fino alle estreme conseguenze (un esercizio di crudeltà che oggi diremmo performativo);
e quella del Living Theatre nell’allestimento di Tonight We Improvise a New York,
nel 1955, ove nessuno dei presenti poteva considerarsi escluso da accadimenti che
attestavano incessantemente che quanto stava avvenendo non era altro che l’effettiva
realtà di quella serata (un happening).
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1. L’invenzione del regista
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La recensione di Silvio d’Amico a Questa sera si recita a soggetto, al Quirino,
nel giugno del 1930, subito prima del consueto resoconto delle chiamate
(«venti e più»), chiude l’elenco degli interpreti con un commento
di rilievo: «Tutti viventi, come vuol Pirandello, la propria parte; ma
nessuno fin al punto di una delle due bimbe che all’ultimo atto, davanti
alle straverie della mamma in delirio, si mise a piangere disperatamente e
bisognò portarla via».1
La commedia aveva debuttato al Neues Schauspielhaus di Königsberg,
con titolo Heute Abend wird aus dem Stegreif gespielt, il 25 gennaio di
quell’anno ed era stata poi riallestita al Lessing Theater di Berlino – ove
Pirandello risiedeva da due anni, vivendo la vertigine della città tedesca
che si profilava come epicentro del mercato cinematografico europeo. Da
lontano, forse rifletteva anche sulla fine dell’impresa romana in cui s’era
cacciato qualche anno prima: la fondazione del Teatro d’Arte e la gestione,
in qualità di direttore, della sua residenza alla sala Odescalchi (1925–27).
Proprio nel corso di questo auto-esilio a Berlino, ove le avanguardie s’erano
consacrate anche grazie al lavoro sperimentale di registi come Piscator e
Max Reinhardt, un Pirandello già capocomico immaginò uno spettacolo
(Questa sera, appunto) in cui si discute, senza un istante di tregua, su
come fare lo spettacolo mentre lo si fa. Opportunamente, nella dedica
che scrisse sulla copia donata a Reinhardt dell’edizione tedesca della nuova
commedia,2 Pirandello dichiarava «grande riconoscenza» al regista
austriaco e sembrava suggerirgli una nuova messa in scena (di Questa sera,
appunto, il cui protagonista è un regista e porta un nome tedesco). In una
lettera a Guido Salvini da Berlino (4 aprile 1929), Pirandello dichiarò la
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, La tribuna
(18.6.1930), ora in Id., Cronache del teatro 1929–1955 (Bari: Laterza, 1964), 90–6.
Nella traduzione di Heinrich Kahn (Berlino: Reimar Hobbing, 1929), precedente
a quella italiana (Milano, Mondadori, 1930). Lo fa notare Alessandro Tinterri, ‘Le
prime messinscene di Questa sera si recita a soggetto’, in AA.VV., Testo e messa in
scena (Urbino: La Nuova Italia Scientifica, 1986); <http://siciliateatro.org/sera/
int05.htm> (ultima consultazione 24.08.2020).
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sfida: «Non so ancora se sarà messa in scena da Reinhardt o da Hartung.
Per un Direttore di scena sarà una prova magnifica, anche di abnegazione,
perché la commedia […] è contro gli eccessi della così detta régie».3
Pur essendo dunque rientrato nella funzione di autore, con la messinscena
di questa e altre sue future opere affidata ad altri registi e, per l’Italia, a Guido
Salvini che era stato suo assistente per gran parte del repertorio della ormai
sciolta compagnia, Pirandello non resisteva all’idea di intromettersi nelle
scelte di regia. Lo fece in altre due lettere a Salvini (30 marzo e 20 aprile del
1930),4 nelle quali descrive l’allestimento della prima versione tedesca dello
spettacolo, diretta da Hans Carl Müller nella periferica Königsberg (e non da
Reinhardt a Berlino, come sperava). Dallo scambio di opinioni tra autore e
giovane regista risulterà quella «concertazione della sconcertante messinscena
con una grazia ed uno stile cui purtroppo non siamo abituati» che d’Amico,
spettatore romano, non mancherà di rilevare nella sua recensione.5
Nello spettacolo, che come annunciato in locandina, secondo precise
indicazioni dell’autore, sarà recitato «a soggetto» sotto la direzione di
tale Dottor Hinkfuss – personaggio cui d’Amico attribuisce funzioni di
régisseur e metteur en scène ovvero di regista, distinguendolo dal direttore
di scena6 – si assiste secondo il critico ad «un andirivieni che ha per teatro
non solo il palcoscenico ma anche la platea e perfino […] il ridotto».
Apud Alessandro Tinterri, ‘Le prime messinscene di Questa sera si recita a soggetto’.
Il debutto avvenne al Teatro di Torino il 14.04.1930, con una compagnia costituita
da Salvini appositamente, lo spettacolo passò per diverse città prima di giungere a
Roma, il 16 giugno, quando lo vide anche Pirandello. Nella lettera del 20.04.1930,
Pirandello assicura a Salvini l’esclusiva sui Giganti della montagna: «a quali mani
potrei affidarli più sicuramente?» aggiunge. Le due lettere sono conservate nel
Fondo Salvini, Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova. La lettera del 30 marzo
1930 è riprodotta da Alessandro d’Amico nella ‘Notizia’ al dramma in MNIV, 258–
63.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 96.
Nel 1930, la parola «regista» non era stata ancora coniata; provvedette Migliorini
nel 1932 dietro proposta della rivista Scenario. Salvini in questa occasione si
attribuì il ruolo di ‘maestro di scena’, forse per distinguersi dal ‘direttore’ cui, nella
tradizione italiana, si attribuiscono mansioni di arredamento, ordine e sorveglianza
e non propriamente di ‘regia’. Usando termini francesi, nella recensione, d’Amico
sottolinea l’inesistenza del ruolo sulle scene italiane dominate, fino a quel momento,
da convenzioni ottocentesche di capocomicato che garantivano la manutenzione
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Attraverso «istruzioni, battibecchi, bizze e ripicche d’artisti fra loro e con
il loro régisseur» viene messa in scena «la lotta delle personalità, nessuna
delle quali vorrebbe cedere il passo nelle esigenze dell’insieme nè sottostare
agli ordini del capo».7 Il quale capo ad un certo punto, comportandosi in
modo dispotico, viene «messo bellamente alla porta dagli attori, finalmente
concordi nel proclamare: sei di troppo, faremo da noi, perché hanno finito per
identificarsi coi personaggi», personaggi che «vogliono vivere, ciascuno,
da sè la propria parte».8 E benché questo apparente trionfo degli attori
sull’invadenza della regia, lasci intendere che il dispotismo di quel signore
dal nome nordico non sia altro che una caricatura delle megalomanie da
régisseurs d’oltralpe, di cui il corago Anton Giulio Bragaglia intendeva essere
l’antecedente in patria, nella lettura di d’Amico, la conclusione era tutt’altra.
E cioè che «ogni artista deve essere sé stesso: ma che tutti poi debbono
obbedire all’arte ed alla sua disciplina. La quale disciplina è data dal direttore
e dalle parti scritte dall’autore: ma l’autore in persona se ne resti fuori dal
teatro, il suo compito egli l’ha esaurito a tavolino».9
Il disciplinato lavoro del regista sulle parti scritte, oltre a permettergli
di mantenere il controllo sulle derive autarchiche degli interpreti, definisce
secondo d’Amico la scena moderna come scena ‘di regia’. Pirandello vi
contribuiva, secondo d’Amico, ripetendo note posizioni estetiche del
«nostro tempo», ovvero facendo del nuovo testo «una sostanziale apologia
del regista».10 Si trattava di sfidare il secolare istrionismo di mattatori
e primedonne che continuavano a riempire i teatri italiani, resistendo a
qualsiasi innovazione e mantenendo la propria sovranità sulla scena con
il trucco di sovrapporre la propria personalità a quella scritta per loro, o
meglio, per i personaggi, dagli autori. In tal modo, gli attori legittimavano
una sistematica invasione del testo poetico che essi ricreavano a modo loro,
come se fosse, appunto, un copione da recitare «a soggetto».
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dell’assoluto controllo della scena da parte dei mattatori. Su questo si veda Paolo
Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento (Bari: Laterza, 1998), 7–8.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 94.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 94.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 95.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 95.
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Nel 1929, mentre d’Amico scriveva Il tramonto del grande attore, la vena
istrionica tipicamente italiana non dava in verità alcun segnale di esaurimento
e proprio per questo la scena moderna già consacrata dai registi-creatori nelle
capitali europee (Parigi e Berlino, appunto) tardava ad annunciarsi in Italia.
Ciò che invece stava accadendo in patria era che alcuni attori riaffermavano
il proprio dominio anche nel campo della drammaturgia, inaugurando
relazioni privilegiate con nuovi autori (fu il caso, in quegli anni, della Duse
che ci provò con Ibsen prima di dedicarsi a d’Annunzio). Ed era noto che
Pirandello scriveva per gli attori, se non sempre su commissione, comunque
ispirato dalla loro fisicità: ora la corporatura tarchiata, la risata sfrenata, la
gestualità eccessiva ed il dialetto del puparo catanese Angelo Musco (per
cui compose Pensaci, Giacomino!, Il berretto a sonagli, La giara); ora, agli
antipodi, la sobria eleganza e la voce nasale di Ruggero Ruggeri, per cui creò
il personaggio raisonneur di Lamberto Laudisi (in Ciascuno a suo modo,
rifiutato dall’attore in quanto ruolo non protagonista), cui seguì una galleria
di protagonisti creati ‘su misura’ per l’attore, come Baldovino, Leone Gala,
Martino Lori (rispettivamente del Piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti e
Tutto per bene) fino all’innominato protagonista dell’Enrico IV. Nel 1925,
stava pensando di creare personaggi femminili per Dina Galli ed Emma
Gramatica quando ai provini per la compagnia che avrebbe debuttato
all’Odescalchi si presentò Marta Abba: rossa come molte donne delle sue
novelle e di nome Marta, come l’eroina del suo primo romanzo (L’esclusa).
Fu lei la musa della sua produzione successiva (L’amica delle mogli, Come
tu mi vuoi, Trovarsi ecc.) ed interlocutrice privilegiata (insieme a Salvini,
piuttosto consultato in materia di scenografia, costumi, luci, musica ed
effetti sonori) nella valutazione dei problemi che sorgono dall’esperienza
diretta dell’allestimento; problemi rilevanti per l’autore che in quel triennio
(1925–28) svolse anche ruolo di capocomico. Specialmente, interessava a
Pirandello la materialità della doppia presenza dell’attore, come persona e
come personaggio, sul palcoscenico e fuori di esso; la Abba ben comprese il
dilemma, tanto che, non appena scritturata, prese l’abitudine di far affiggere
il nome del personaggio, invece che il proprio, sulla porta del camerino.
Si faceva strada, su quel palcoscenico e anche grazie all’interlocuzione
con la Abba, una idea di immedesimazione dell’attore nel personaggio,
ovvero di un processo di appropriazione ‘da dentro’ (di stampo
stanislavskiano) che decisamente capovolgeva l’idea (di stampo crociano)
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dell’intrusione dell’interprete nella creatura immaginata dall’autore.
La necessaria ‘deformazione’ che ne deriva e che costituisce per l’arte
drammatica una «soggezione inovviabile» all’arte della recitazione (come
sembrava rimpiangere un Pirandello non ancora capocomico, nel 1908,
nel noto saggio in cui paragonava gli attori a degli «illustratori necessari,
purtroppo»)11 diventava, dal nuovo punto di vista da capocomico, un
campo di analisi sperimentale dei procedimenti attoriali – oscillanti tra
esserci e fingere, tra il ‘vivere la parte’ ed il rappresentarla – di cui la scrittura
drammatica poteva farsi agente.
E dunque Pirandello, non più limitandosi a scrivere personaggi adatti
agli interpreti che aveva in mente, si mise a creare figure che potessero
animarsi direttamente in teatro, sulle assi del palcoscenico e pure in platea,
nei camerini e nei ridotti, ‘formandosi’ della materia della vita: vita ovunque
presente e da ciascuno vissuta con l’ambigua spontaneità di chi, mentre
vive, recita una o molte parti. E non fu certo la sola Abba che gli fece
cambiare idea al punto da dichiarare, in uno scritto del 1935, d’aver visto
attori così immedesimati nel personaggio che, pur recitando le parole
del testo, agivano come «se lo creassero essi spontaneamente» e davano
l’impressione che «potrebbero seguitare, almeno per un certo tempo,
a parlare spontaneamente senza tradire la parte».12 Fu bensì un suo
lunghissimo studio (a coprire almeno il periodo di quasi trent’anni tra i due
saggi citati) dei processi che costruiscono l’esecuzione attoriale la quale, così
come la scrittura rispetto all’immaginazione, dovrebbe «balz[ar] viva dalla
concezione e soltanto per virtù di essa, per un movimento non provocato
Luigi Pirandello, ‘Illustratori, attori, traduttori’, Nuova Antologia (16 gennaio
1908), in SI, 635–58: 641.
Luigi Pirandello, ‘La diminuzione dei nostri grandi attori dipende dalla supremazia
del regista?’, Il dramma 213 (1° luglio 1935), 4. Su questo cfr. Donatella Orecchia, ‘Silvio
d’Amico e Luigi Pirandello: frammenti di un incontro (1918–1936)’, L’Asino di B. 10/11
(marzo 2006), 67–96; <https://www.academia.edu/43611078/ORECCHIA_
Silvio_d_Amico_e_Luigi_Pirandello_frammenti_di_un_incontro_1918_1936_?
email_work_card=view-paper> (ultima consultazione 24.08.2020). Nel 1905,
osservando la Duse, Pirandello elogiava la personalità multipla dell’attrice, la quale
«sarà tanto più grande quanto più saprà negare la sua particolare essenza per
assumere quella ideata e vivente nel dramma» (Il momento, Torino, 01.06.1905),
apud Sarah Zappulla Muscarà, Pirandello in guanti bianchi (Caltanissetta: Salvatore
Sciascia, 1983), 129.
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industriosamente, ma libero, cioè promosso dall’immagine stessa, che vuol
liberarsi, tradursi in realtà e vivere» (SI, 643). Forse si mise a studiare (come
auspicava nel saggio del 1908) quali moti «organati e combinati» potessero
produrre nell’attore «il fenomeno più elementare che si trova in fondo
all’esecuzione d’ogni opera d’arte», quello di suscitare «un’imagine (cioè
quella specie di essere immateriale e pur vivente, che l’artista ha concepito
e sviluppato con l’attività creatrice dello spirito) un’imagine, che tende a
divenire […] il movimento che la effettui, la renda reale, all’esterno, fuori
dell’artista» (SI, 642–3). È certamente dell’attore tale sfida di trovare quale
corpo, voce e gesto possano tradurre sul palcoscenico la figura immaginata
dall’autore; ed è un compito che il regista può accompagnare; mentre
l’autore può solamente auspicare.
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Nell’esecuzione si dovrebbero dunque trovare tutti i caratteri della concezione. Può
avvenir questo nell’arte drammatica? […] Come l’autore, per fare opera viva, deve
immedesimarsi con la sua creatura, fino a sentirla com’essa sente se stessa, a volerla
com’essa vuole se stessa; così, e non altrimenti, se fosse possibile, dovrebbe fare l’attore.
(SI, 643)
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S’insiste poco sul fatto (dimostrato con ampia documentazione da
Alessandro d’Amico ed Alessandro Tinterri)13 che questo gettarsi senza
riserve del poeta sul palcoscenico, vivendone miserie e glorie, mentre
tentava di realizzare il suo progetto di riforma della scena italiana, abbia
reso la breve avventura di Pirandello con il Teatro d’Arte non meno
appassionante di quella di Copeau al Vieux Colombier e di Brecht al
Berliner Ensemble. Un progetto in cui l’autore, invece di combattere
le contraddizioni dell’arte, le abbracciò al punto da farne dispositivi di
creazione (registica) e di scrittura.14 In quest’ordine, perché fu a partire
dall’esperienza anche conflittuale che ne ebbe come capocomico che
Pirandello si decise ad affrontare il paradosso dell’attore che vive la
Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico. La Compagnia del
Teatro d’Arte di Roma (Palermo: Sellerio, 1987).
Franca Angelini nel suo Teatro e spettacolo del primo Novecento (Bari: Laterza, 1988),
164–8 nota una «coerenza assoluta» dal punto di vista teorico ed un rapporto
«tutt’altro che entusiasta» di Pirandello con la regia; qui seguo la sfida che l’autore
in veste di capocomico accetta, nonostante tutto, mettendosi alla prova sul campo
pratico, non sempre convergente con quello teorico.
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parte mentre la recita o l’effemerità dello spettacolo che un testo non
può fissare, perché come la vita vive di una forma diversa ogni volta
che avviene. L’opera dunque accoglie ed elabora in forma drammatica
(sebbene continuamente interrotta e mai conclusa, sempre «da farsi»)
l’impossibilità dello spettacolo in quanto opera.
Seppur negando teoricamente a qualsiasi interprete la possibilità di
essere un tramite trasparente dell’opera, è però proprio questo che Pirandello
esigeva in prova e cercava incessantemente, nei suoi interpreti e perfino in
sé stesso – rivelandosi anche attore e perfino «attore consumatissimo»
secondo Corrado Pavolini:
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A loro non parlava – con estremo acume e con mirabile chiarezza – che del contenuto
del dramma: ne poneva in chiaro i significati umani, le ragioni psicologiche, i contrasti,
i valori; aveva un modo tutto suo di portare l’attore dentro lo stato d’animo voluto dalla
situazione scenica; dava, e da maestro, l’intonazione della battuta, se l’interprete non
la trovava spontaneamente. Talvolta poi, attore consumatissimo lui stesso e vorrei dire
sinfonico, dal pronunciare una battuta passava senza neanche avvedersene al dialogo,
dal dialogo al concertato, facendo lui tutte le parti, con una bravura sbalorditiva nel
mutar tono, espressione, gesto e figura dall’una all’altra, fino a dare ai suoi comici
ammirati e silenziosi il senso d’una vivente orchestra di voci, di caratteri, di passioni.15
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La memoria di Luigi Almirante (primo Padre dei Sei personaggi in cerca
d’autore nella messinscena della compagnia Niccodemi, del 1921) ci
riporta l’immagine dell’autore che, in piedi, leggeva il suo nuovo testo
«magnificamente» ovvero sbracciando e contraffacendo tutte le voci per
un pubblico di attori perplessi, anzi «spaventati, perché non avevamo
idea di questa roba».16 L’analisi del copione mostra che alle prove per
la seconda messinscena, diretta da Pirandello stesso (MNII, 638), nel
maggio del 1925, la parte del Padre arrivò tagliata, seguendo (sostiene
Almirante) i suggerimenti dell’attore. Un avvicinamento che giustifica
cambiamenti in stampa per altre commedie, come i tagli alla versione
Corrado Pavolini, ‘Pirandello alle prove’, in AA.VV., Atti del Congresso
Internazionale di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967), 917–24: 923.
Intervista radiofonica del 1960 ad Alessandro d’Amico e Fernaldo Di Giammatteo,
trascritta da Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al primo
Padre’, Teatro e Storia 7/2 (1992), 295–328.
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pubblicata in italiano del Berretto a sonagli, acquisiti (ufficialmente per
aver smarrito l’originale) dalla versione adattata per la scena da Musco;17
oppure le molte nuove didascalie contenenti istruzioni per gli attori nella
seconda stampa di Ciascuno a suo modo (Mondadori, 1933)18 e infine le
varianti testuali suggerite a Salvini nelle due lettere che l’autore gli invia in
preparazione del debutto romano di Questa sera si recita a soggetto (alcune
varianti furono poi integrate nelle successive edizioni di Maschere nude).
Tra i suggerimenti di Pirandello a Salvini per l’allestimento di Questa
sera interessa citare, all’inizio della lettera del 30 marzo 1930: «qualche
taglio bisogna fare, ma con molto accorgimento, al discorso di Hinkfuss
rispettandone le cose nuove ed essenziali che dice» (MNIV, 258). Interessa
poiché avvicina l’autore al personaggio del regista, di cui anche d’Amico
sosteneva che la commedia fosse una ‘sostanziale apologia’; non però un
regista in funzione di capocomico né di direttore di scena, bensì un regista
«creatore e signore dello spettacolo» (MNIV, 258) ovvero maestro portatore
di un’idea rivoluzionaria di teatro. Non pare strano che a Pirandello
premesse raccontare ai suoi attori del magistero di Stanislavskij al Teatro
d’Arte, pur non seguendone le indicazioni.19
La sua presenza in teatro, anche prima della fondazione della compagnia,
non lasciava margini di ambiguità riguardo le proprie ambizioni. Già
Niccodemi ricorda che, durante le prove, Pirandello sedeva accanto al
suggeritore e sussurrava le battute di tutti incalzando gli attori. Anche
quando restava silenzioso, riusciva ad attirare l’attenzione: «in lui, seduto,
c’è più movimento che in tutti: la scena è lui; la riassume, la riassorbe e la
Sui rapporti tra Pirandello ed il sistema tradizionale del ‘grande attore’, cfr. Luigi
Squarzina, Da Dioniso a Brecht. Pensiero teatrale e azione scenica (Bologna: Il
Mulino, 1988), 233–89. Giuliano Campo ha parlato delle relazioni con Musco
nel suo intervento ‘L’attore nelle novelle di Pirandello’ durante la Jornada em
homenagem aos cento e cinquenta anos de nascimento de Luigi Pirandello, Ciclo
Pirandello International, Universidade de São Paulo (FFLCH/USP, 23.11.2017).
Si vedano la ‘Notizia’ di Alessandro d’Amico e l’apparato di note e varianti in MNIII,
305–21 e 889–93.
Già note in Italia tramite Tatiana Pavlova, un’attrice russa naturalizzata italiana, che
aveva lavorato con allievi del maestro e a cui d’Amico affidò l’insegnamento di regia
appena istituito all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1935). Dopo di lei,
per molti anni il titolare della cattedra fu Salvini.
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ributta fuori da tutti i pori del suo viso».20 Salvini riporta che Pirandello
esigeva dagli attori «un ritmo serrato di recitazione […], viva e vibratile,
[…] un fuoco di artificio continuo».21
Le didascalie scritte per i 43 testi teatrali forniscono ad ogni interprete
indicazioni più che complete, in cui la descrizione fisica illustra una specie
di identità psico-corporea con dettagli caratteristici della presenza del
personaggio (colori, tic, deformazioni fisiche, posture, acconciature,
incarnato, trucco, gesti) che paiono offerti come strumenti per la
creazione dell’attore: veri e propri dispositivi di ‘presentificazione’ dalla
cui efficace esecuzione poteva dipendere quel ritmo «vivo e vibratile» che,
secondo Salvini sopra citato, l’autore-regista esigeva dalla compagnia. Lo
scenografo Virgilio Marchi testimonia che, dal giorno della formazione
della compagnia, Pirandello assunse il ruolo oltreché il titolo di Maestro
con cui prese a farsi chiamare: e «non abbandonò più il palcoscenico».
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Si amalgamava coi suoi personaggi, ne guidava i passi nel suo mondo di autore
e […] sacrificava vecchi pregiudizi scenici e comicali al suo disegno di far vivere
la parte in sofferenza e in potenza di spirito […]. Era un tornare «da capo» col
distruggere la personalità dell’attore per dargli, plasmargli, nell’animo a grado a
grado la personalità del personaggio. Instancabile nelle continue prove, il Maestro
confezionava, nella misura dell’individuo da rappresentare, lo spirito dell’attor comico.
Era una continua lotta per sostituire un individuo immaginato ed ormai respirante
nel cosmo dell’arte, all’individuo attore. Le soste della recitazione erano sempre
occupate da una conferenza sul modo della recitazione.22
Tra gli scopi delle «conferenze» del Maestro c’era quello di mettere
l’attore in condizioni di immedesimazione analoghe a quelle che lui
stesso conosceva in quanto scrittore: se l’attore doveva dar vita al
personaggio, era necessario che lo sentisse in sé vivo, attingendo ad esso
20
21
22
Dario Niccodemi, Tempo passato (Milano: Treves, 1929), 81–8, cit. in Andrea
Camilleri, ‘Pirandello e la regia teatrale’, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale
di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967), 311–15: 314.
Guido Salvini, ‘Il terzo atto dei Giganti della Montagna’, in AA.VV., Atti del
Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani (Firenze: Le Monnier, 1967),
925–8: 925.
Marchi, apud Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 433.
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immediatamente e non costruendolo mediatamente, durante le prove o
prima di ogni rappresentazione – come era invece abito creativo tipico
della tradizione del grande attore italiano, specialmente di Tommaso
Salvini (di cui il Guido, assistente di Pirandello, era nipote). È da notare
che tale procedimento di ricognizione, avvicinamento e costruzione del
personaggio aveva talmente impressionato Stanislavskij (spettatore di
Salvini durante la tournée in Russia del 1891, quando questi recitò Otello
e La morte civile, di Giacometti) che questi ne fece modello per la sua
metodologia di ‘reviviscenza’. Salvini non si limitava a truccare il volto,
ma ricomponeva tutto il suo essere, «fissando gradualmente i tratti del
personaggio» in modo da presentificarlo sulla scena al punto che lo
spettatore, «pur non conoscendo l’italiano, sentisse insieme a lui tutta
l’acutezza della vita interiore [del personaggio]».23
Pur nell’ambito del naturalismo, il regista francese André Antoine
conduceva i suoi attori in un procedimento opposto, in cui la presentificazione
di un personaggio in scena era cercata attraverso lo ‘svuotamento’ del corpo
e della voce del comédien che così avrebbe dato luogo alla creatura finta, la
cui vita però avrebbe dovuto risultare allo spettatore in tutto identica ad una
vita vera – cioè senza interruzioni, né dovute alla personalità dell’interprete,
né al mestiere. «Tutte le volte che sotto il personaggio si percepisce l’attore,
lo svolgimento drammatico si interrompe», sosteneva Antoine nella sua
Causerie sur la mise en scène (1903).24 Nel presupposto che l’attore fosse una
specie di manichino che poteva essere svuotato e messo a disposizione della
realizzazione materiale dell’invenzione poetica, Pirandello aveva scritto i
suoi saggi teorici, sia L’azione parlata (1899) sia Illustratori, attori e traduttori
(1908). In quest’ultimo si attesta che i personaggi, così come escono «vivi
e semoventi» dalla testa dell’autore che li fissa sulla pagina, possano poi da
lì balzare sulla scena «liberi, vivi, operanti» (SI, 642) – così pretendono
di fare i Sei Personaggi.
Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso (Bari: Laterza, 1996), 451.
Pubblicata su La revue de Paris, 01.04.1903. Il concetto è approfondito, per quanto
riguarda Antoine, da Roberto Alonge, Il teatro dei registi (Roma/Bari: Laterza,
2010), 48–65 e per quanto riguarda Pirandello, da Claudio Vicentini, ‘Il modello
della recitazione naturalista nella drammaturgia di Pirandello’, Il Castello di Elsinore
1 (1988), 205–41.
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Non pare quindi affatto assurda, ma invece coerente a questo obiettivo,
l’idea di Pirandello che ad un certo punto delle prove della prima versione
della commedia propose (ricorda Almirante) d’inserire in scena un suo
«grande ritratto» che gli attori della compagnia avrebbero dovuto sfondare
entrando in scena come Personaggi; al che Almirante si ribellò («No dico,
che facciamo? Il circo equestre? Coi cavalli che saltano nei cerchi?»)25 ed il
Maestro rinunciò alla trovata. E non fu per una preoccupazione filologica
ma per una scelta registica che, per la seconda messinscena del 1925, scrisse
(e lesse al debutto) la Prefazione ove l’Autore racconta al passato il suo
rifiuto dei personaggi, ma si palesa al pubblico nel tempo presente della
rappresentazione, confessando d’esser forse uno degli spettatori, perplesso
e sconcertato quanto loro:
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[…] mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro,
quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. […] E allora, ecco, lasciamoli andare
dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico;
e stiamo a vedere che cosa ne avverrà. (MNII, 654 e 656)26
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Questo quanto all’autore, assente per proprio comodo. Ma quali
indicazioni avrebbe fornito Pirandello, da regista – una volta letto il testo
pur magnificamente e con le sue pur ricchissime didascalie? In che modo
avrebbe potuto ottenere quel «prodigio d’arte», ovvero la trasposizione
delle sue creature direttamente dalla sua testa (o dal copione) al
palcoscenico? Come far entrare i personaggi ‘immediatamente’ nel corpo
e nella voce degli attori?
Non con il metodo della ‘reviviscenza’ tracciato da Stanislavskij perché,
al di là delle apparenti figure di similarità nella relazione tra Maestro e
compagnia, quel metodo ragionava (all’opposto, come abbiamo visto) su
come un attore poteva entrare (mediatamente, attraverso lenti e graduali
passaggi) nel personaggio. Non certo con la lista dei «rimedi» da capocomico
(il trucco, il tono giusto ed altre ovvie teatralità di «effetto sicuro» come
Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al
primo Padre’, 310.
Luigi Pirandello, ‘Prefazione’ ai Sei personaggi in cerca d’Autore, pubblicata su
Comoedia del gennaio del 1925 con titolo ‘Come e perché ho scritto i Sei personaggi’,
ora in MNII, 653–67.
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«mettersi di tre quarti» e «metter fuori la voce»), la cui inefficacia,
nei Sei personaggi, non fa che sottolineare l’inevitabile deformazione del
Padre quando eseguito dal Primo Attore: una contraffazione che suscita
la risata della Figliastra invece che il suo ribrezzo. Dina Saponaro e Lucia
Torsello sostengono che alle «conferenze» seguissero «lunghi colloqui»
individuali, in cui il Maestro «nel parlargli del personaggio, chiedeva
all’attore di guardarlo negli occhi: quasi a cogliere nel fondo della sua anima,
il fantasma originario della creazione. Se l’attore riusciva a cogliere in sé
quel germe per Pirandello non vi era altro da insegnargli: il personaggio,
la sua creatura, poteva rinascere attraverso l’attore».27 Almirante cita, per
quanto riguarda i Sei personaggi, un suggerimento di «povertà»28 in cui
è ravvedibile la ricerca di una essenzialità tecnica dell’attore: «un modo
di assentarsi dal proprio io e dall’io teatrale falso ed artefatto per entrare
nell’essere che non sa il teatro come mestiere del rappresentare ma sa il
proprio istintivo dolore e il proprio istintivo piacere che fanno spettacolo
solo davanti alle proprie pareti (le pareti del proprio io, ignorando la quarta
parete)»,29 come spiega benissimo Virgilio Marchi.
Il naturalismo gradito al Maestro era quindi un comportamento
essenziale, non costruito ma ‘scoperto’ dall’attore come una specie di
spontaneità (non propria bensì del personaggio) che tendeva a spostare la
quarta parete ‘dentro’ all’interprete e permetteva la rimozione dallo spazio
scenico degli inquadramenti formali necessari all’illusionismo. In che modo
poi l’attore potesse dar luogo nel proprio corpo a tale spontaneità aliena,
attraverso un percorso di rinascita più simile ad una possessione che ad un
metodo di costruzione del personaggio, il Maestro probabilmente non
sapeva insegnarlo: il prodigio avveniva «non si sa come» (così lo descrive
in Come prima, meglio di prima).
Ecco perché (al di là del nome e della chioma) la Abba affascinava
Pirandello:
Dina Saponaro/Lucia Torsello, Ri-tratti. Caleidoscopio di personaggi nel teatro di
Luigi Pirandello (Roma: Bulzoni, 2016), 19.
Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al
primo Padre’, 316.
Virgilio Marchi, in Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello
capocomico, 433.
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[…] c’era un fuoco (continua Marchi), un istinto e una volubilità, una sofferenza che
la inquadrarono immediatamente nel mondo intimo dei personaggi pirandelliani
[…] i personaggi immedesimati in Marta scoprivano la loro sofferenza: la sofferenza
dell’attrice ne scaturiva palese dalle intime fibre dove nessuna pratica di mestiere
d’attore riesce. Era facile al consumatissimo Picasso vincere in astuzia e strappare un
interminabile applauso a scena aperta, ma non era facile raggiungerla nell’empito
della sofferenza reale.30
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L’idea del Maestro, che bisognasse trovare il modo di ‘vivere la parte’
senza rappresentarla, s’inverò in quell’attrice: «la formula parve nata per
lei, contro il paradosso di Diderot, la finzione, l’istrionismo e il mestiere
consumato dei vecchi tromboni».31
Negli anni a venire, sia l’attrice definì un suo stile ‘pirandelliano’ sia
il Maestro diede forma ai propri fantasmi sotto il segno della personalità
della Abba in una reciproca fascinazione, che fu magari anche di natura
passionale, ma in essa ciò che più interessa è il forte impatto sperimentale.
Non pare inverosimile che Pirandello pensasse a lei per far vivere (e morire)
in scena Mommina, anche se non fu poi lei l’interprete scelta da Salvini.
Nel 1932, Pirandello pensò per la Abba un doppio quasi ricalcato di sé
stessa nei panni di un’attrice matura che vede nell’arte l’unica possibilità
di «vivere tante vite» e in tal modo trovarsi, ovvero trovare espressione
ad una forma più elevata e completa di vivere che sarebbe quella di essere
persona e personaggio allo stesso tempo. Nel testo omonimo è enunciato un
metodo per tale immedesimazione che non passa attraverso la costruzione
del personaggio (puntellato dall’attore che gli sta dietro e dentro), bensì
attraverso lo svuotamento dell’attore (che permette al personaggio di calarsi
nel suo corpo e parlare con la sua voce). «Sulla scena», dirà non senza
ambiguità la sdoppiata Abba/Donata nel primo atto di Trovarsi, «non
sono mai io» (MNIV, 552).32
Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 413.
Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 413.
Sul rapporto creativo tra il Maestro e l’attrice, cfr. specialmente gli studi di Roberto
Alonge, Luigi Pirandello, il teatro del XX secolo (Roma/Bari: Laterza, 1997) e gli
atti del Convegno La scrittura e l’assenza. Le lettere di Pirandello a Marta Abba
avvenuto al DAMS di Torino il 6–7 maggio 1997, pubblicati su Il castello di Elsinore
11, 33 (1998).
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D’Amico la giudicava istintiva, incapace di misura, quasi primitiva
nelle forme eccessive in cui ostentava il suo travaglio: un modo di essere
persona e personaggio simultaneamente, che poteva essere interessante
a patto che rimanesse sotto tutela del suo Autore. Scrisse proprio così,
alludendo al ruolo di Pirandello nella creazione di quel personaggio/attrice
nella recensione di una serata di lei al Valle, nel 1931, il cui autore era invece
Molnár; e senza riuscire a dissimulare il disturbo che gli causava la vista di
quell’attrice «convulsa nella balda persona, frenetica nella gesticolazione,
ansante nella dizione e ché è grave: senza controlli».33 La giovine (era nata
nel 1900), cresciuta troppo in fretta a ruoli di primadonna, aveva bisogno
secondo d’Amico «d’un maestro: con che non s’intende solo un régisseur,
nel senso di apparatore scenico, ma d’una guida seria, esperta, intelligente
e moderna».34 Intendeva forse augurarle un regista, come alcuni mesi
prima aveva auspicato per Zacconi una «fusione di competenze» che
gli pareva «in Italia, fenomeno pressoché sconosciuto» e ne attribuiva la
causa all’indisciplina tipicamente nostrana, ovvero, alla nostra «radicale
incapacità di sottoporsi ad un capo».35 Non stupisce quindi l’ortodossia che
guida d’Amico a seguire quasi testualmente Pirandello, nella recensione a
Questa sera da cui abbiamo preso le mosse: «l’essenziale ci par questo: ogni
rappresentazione è un tradimento, ogni artista drammatico vede e ricrea
un personaggio, una scena, un dramma a modo suo; ogni interprete, se è
un artista, non interpreta ma inevitabilmente rifà, svisandola, l’opera del
poeta».36 Proprio la Abba era stata, anni prima, una parossistica Figliastra
nei Sei personaggi.
«Quant’è vero sub specie aeternitatis questo principio e quanto c’è nella
sua pratica di capzioso e disastroso» era argomento, continuava d’Amico,
spesso suscitato dalle dimostrazioni di gusto paradossale che il Pirandello
teatrante offriva parodiando il Pirandello ben noto, quello dei testi teorici
(come Illustratori, attori e traduttori) e narrativi (come la novella Leonora,
addio! cui il dottor Hinkfuss in Questa sera si recita a soggetto dichiara di
Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’ (01.03.1931), in Id., Cronache del
teatro 1929–1955, 144.
Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’, 144.
Silvio d’Amico, ‘Polemica sul grande attore’, in Id., Cronache del teatro 1929–1955, 127.
Silvio d’Amico, ‘Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, al Quirino’, 90.
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ispirarsi). Di tali cerebrali dimostrazioni, secondo d’Amico, Pirandello
soffriva le aporetiche conseguenze: come, appunto quelle causate dalla
povera bimba la quale, all’ultimo atto di Questa sera si recita a soggetto, dopo
che Mommina è «caduta di schianto, morta», avrebbe dovuto (secondo
quanto indicato dall’Autore in didascalia) «rest[are] lì immobil[e] sull[a]
sediolin[a] ad aspettare» (MNIV, 394) ed invece (riporta d’Amico) «si
mise a piangere disperatamente, e bisognò portarla via». Il disguido, oltre
a distogliere l’attenzione dello spettatore dall’effetto tragico della morte
(finta? vera?) della mamma, potrebbe portarlo a concludere che un attore
non può ‘vivere la propria parte’ al punto di disperarsi sul serio o di lasciarci
la pelle per davvero; in quanto, se il personaggio deve, dopo quella battuta,
morire, l’attore non lo farà certo ogni sera.
Ecco la morale consegnata al pubblico da Hinkfuss con tono un tantino
didattico nella programmatica intenzionalità delle battute finali, ove si
dichiarano l’impossibilità della recita «a soggetto» e la necessità, invece,
se non dell’autore (quello no, che se ne resti fuori! comodamente assente),
però delle «parti» scritte dall’autore. Il parallelo con l’intenzionalità della
riforma goldoniana è trasparente, trattandosi anche in quel caso di un
autore in funzione di capocomico che si mette in capo di farlo per davvero,
riformando non solo i modi di produzione dell’arte ma l’arte stessa (tanto
che d’Amico, commentando quelle ultime battute di Questa sera si recita
a soggetto, rammenta ai suoi lettori, nella recensione citata, il didattismo
del Teatro Comico). D’Amico dunque comprende che Pirandello, invece
di farne caricatura, s’identifica con quel régisseur e ne desidera l’intervento
competente, non nel senso di un «apparatore scenico», ma nel senso di un
maestro degli attori, d’una guida «seria, esperta, intelligente e moderna»,37
di cui alla fin fine il testo è ‘apologia’.
A prova che esiste davvero una tale intenzionalità nel testo, tra i
suggerimenti di Pirandello (nella lettera a Salvini sopra citata, del 30.3.1930)
si legga l’insistenza sull’effetto tragico della scena della mamma morta, il
quale effetto viene subito interrotto dal regista:
Quella scena tragica finale non può essere fine a se stessa. Bisogna arrivare alla
conclusione di tutto quell’esperimento di recita a soggetto. E la conclusione dev’essere
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Silvio d’Amico, ‘La serata di Marta Abba al Valle’ (01.03.1931), 144.
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che il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori. Ho
piuttosto pensato d’aggiungere qualche battuta per rendere più perspicuo il senso di
tutto questo. […] Mommina, tirata su per le braccia, è inerte, come morta davvero,
sfinita, esausta: ha vissuto, non ha recitato. Gli attori non possono far questo ogni
sera. Debbono avere una parte da recitare. E ci vuole il poeta che la dia loro. (MNIV,
261–2)38
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L’indicazione «tirata su per le braccia e inerte, come morta davvero,
sfinita, esausta» suggerisce all’attrice e a chi la sorregge un’azione fisica che
oggi definiremmo performativa, ovvero quella (paradossale) di ‘morire
davvero’. È evidente che tale azione compiuta per davvero, non potrà
essere ripetuta nelle successive repliche; va quindi compiuta per finta,
mentre si sospende il giudizio del pubblico e lo si mantiene nell’illusione
della morte ‘reale’ del personaggio. La paradossale sfida fa fallire, nel terzo
atto, l’effetto a lungo preparato, con intenzionali sospensioni, della morte
tragica di Sampognetta, che finalmente stronca la missione impossibile
con la battuta: «non riesco a morire, signor Direttore; mi viene da ridere,
vedendo come tutti son bravi, e non riesco a morire» (MNIV, 365).
Ovviamente questa e tante altre «capziose e disastrose» conseguenze
dell’aporia tecnica del ‘vivere la parte’ non sono solo previste nel testo come
In questo caso si è reintegrato nel testo riprodotto da Alessandro d’Amico la frase
«Gli attori non possono far questo ogni sera» che figura nell’autografo conservato
al Museo-Biblioteca dell’Attore di Genova. Nella lettera a Salvini del 30 marzo,
Pirandello propone una variante rispetto al testo che era stato appena stampato da
Mondadori, con l’aggiunta (poi accolta nelle successive edizioni) di alcune battute
per questa scena finale. Eccole:
«Verri: Si rialzi, signorina: non ha ancora capito che bisogna finire con una buffonata?
(si prova a tirarla su per le braccia; Mommina resiste; è lì inerte, sfinita. Allora, chinandosi
con gli altri su di lei) Oh Dio, signorina, che cos’ha?
Dorina: Si sente male davvero?
Signora Ignazia: Il cuore, davvero?
L’attrice Caratterista: Eh, sfido! Ha vissuto, non recitato! Questi sono sforzi
che si possono fare per una sera soltanto! (A Hinkfuss) Lei non vorrà mica che ci
lasciamo la pelle!
Verri: Su, su signorina … l’aiuto io. Una sedia … i sali.
L’attore Caratterista: (A Hinkfuss) Ci vuole l’autore che ci dia le parti da
recitare.» (MNIV, 262)
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battute ad effetto, bensì premeditate come regole di un gioco che ancora
dev’essere giocato, implicando quindi per attori e spettatori un elevato
grado di variabilità riguardo la durata e l’esito di ogni scena, variabilità
dovuta all’aleatorio che è proprio del gioco. Questa sera si pone fin dall’inizio
come il copione per una trappola partecipativa zeppa di sospensioni ed
interruzioni in cui il giudizio del pubblico (è vero? è finzione?) diventa
parte in gioco e la sua presenza nella sala si intensifica, come durata di vita
condivisa, indipendentemente dal tempo previsto per lo svolgimento della
rappresentazione: eccone alcuni (peraltro notissimi) esempi.
Ancora prima dell’alzata di sipario, una baruffa dietro di esso impedisce
l’inizio dello spettacolo e obbliga il regista ad una conferenza ‘improvvisata’
di cui non domina con esattezza la durata, in quanto essa dipende dalla
zuffa invisibile. (Nella lettera a Salvini del 30 marzo, Pirandello insiste sulla
necessità di mantenere l’attore che fa Hinkfuss nell’ignoranza, perché «la
ribellione lo deve cogliere alla sprovvista, mentre stiracchia il suo discorso,
aspettando che da dietro il sipario gli si faccia cenno […]. Che aspetti questo
cenno, dovrà apparire evidente per qualche mossa o gesto d’imbarazzo
o impazienza, che l’attore troverà facilmente»; MNIV, 261). Gli attori,
per poter recitare «a soggetto» come promesso in locandina, si calano
nei sentimenti reali del personaggio ed agiscono di conseguenza («m’è
venuto spontaneo!» è la battuta dell’attrice che recita Mommina; MNIV,
359), interrompendo di continuo il flusso drammatico e trasgredendone le
regole. Ancora, il Primo Attore rifiuta d’essere chiamato al proscenio dal
regista che intende presentarlo: «non sono mica un burattino, io, nelle sue
mani da mostrare al pubblico come quel palco lasciato lì vuoto e una sedia
messa in un posto anziché in un altro per qualche suo magico effetto»
(MNIV, 311). L’Attrice Caratterista, in quinta, schiaffeggia «all’improvviso»
l’anziano collega Brillante poiché «se lo merita»; quindi costui spunta
inatteso in proscenio «con una mano sulla guancia, vestito e truccato»
da Sampognetta e si sfoga: «C’è che non tollero che la signora […] con
la scusa della recita a soggetto m’appiccichi certi schiaffi veri (ha sentito?)
che tra l’altro (gli mostra la guancia schiaffeggiata) m’ha rovinato il trucco,
no?» (MNIV, 311–12).
Le soluzioni sperimentali promesse alla platea da Hinkfuss non
funzionano, ma tale disfunzionalità è intenzionale al gioco, come il ripetersi
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Pirandello agli attori
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della caduta del pagliaccio al circo. Durante la proiezione, subito prima
dell’intermezzo, il comportamento scomposto degli attori che recitano
personaggi che in quel momento sono spettatori ritardatari (la signora
Ignazia, Mommina, Totina, ecc.) suscita l’indignazione di altri spettatori
già accomodati (indicati nel testo come «voci» senza meglio specificare
se si tratti di spettatori veri o finti), i quali in seguito trascinano lo scandalo
nel ridotto, durante l’intervallo, dove il pubblico presumibilmente li segue.
Qui Mommina lamenta d’essere sotto gli occhi di tutti e Verri si ribella
ontologicamente al ruolo, accusando gli spettatori d’esser tali: «vorrei sapere
che hanno da guardar tanto […] come se si stésse qua a dare uno spettacolo»
(MNIV, 3). La simultaneità di tutte queste scene è programmata per
deludere le aspettative: sia di chi resta in sala, invitato dal regista ad assistere
all’insolito spettacolo del cambio scena e che perciò perde l’avvincente
confusione del ridotto, sia di chi esce, visto che il regista annuncia che in
questo caso «non perderà nulla di importante» ed invece poi descrive ciò
che è avvenuto in sala (un effetto di luci a simulare cinematograficamente
un campo di aviazione) come «un prodigio: la forma che si muove»; in
quanto prodigio «non può essere che momentaneo» e non viene quindi
ripetuto (MNIV, 345).
Tutte queste interruzioni dell’azione drammatica, sospensioni,
sovvertimenti e simultaneità intenzionalmente «capziose e disastrose»
(come intendeva d’Amico) rendono la rappresentazione impossibile, ma
inaugurano un’altra dimensione percettiva in cui nessuno è escluso dal
gioco performativo, ovvero tutti in quella sala (attori, spettatori, addetti)
d’improvviso ‘vivono la propria parte’; cioè recitano.
2. La rappresentazione è impossibile
Esiste una rappresentazione impossibile, una recita cancellata ed
una carriera abortita nella novella Il pipistrello. Di tali catastrofiche
conseguenze è motivo la capziosa presenza di un attore che non recita
e soltanto sempre vive la propria parte: il pipistrello appunto, così vero
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ed indomito nel suo svolazzio che distrugge qualsiasi «illusione di
realtà» (NAI-1, 226). Alla proposta della pragmatica attrice (Gástina)
di spegnere il lume, caso entri il pipistrello, per mantenere «l’illusione
di realtà», il poeta (Faustino Peres) si oppone: «Illusione? No. Perché
dice illusione, signorina? L’arte crea veramente una realtà»; al che lei
replica: «Ah, sta bene. E allora io vi dico che l’arte la crea, e il pipistrello
la distrugge» (NAI-1, 226). Dinanzi al pipistrello, troppo più bravo,
gli altri attori si sentono ridicoli, svaniscono o meglio, svengono: e la
sofferenza vibrante con cui l’attrice esegue la scena dello svenimento e
per cui è freneticamente applaudita, non risulta da talento e dominio
ma, al contrario, dalla totale perdita di controllo dovuta al panico che le
suscita il pipistrello. Il copione è inutile, qualunque rappresentazione è
impossibile; ne fa prova l’irrappresentabile (in quanto «vivo, vivissimo»)
pipistrello.39 La missione faustiana («l’arte crea la realtà») del Poeta,
non casualmente a nome Faustino, s’interrompe («l’arte la crea ed il
pipistrello la distrugge»): questi, riconoscendo che «la ragione unica
degli applausi di quella sera era stata l’intrusione improvvisa e violenta
di un elemento estraneo, casuale, che invece di mandare a gambe all’aria,
come avrebbe dovuto, la finzione dell’arte, s’era miracolosamente inserito
in essa, conferendole lì per lì, nell’illusione del pubblico, l’evidenza d’una
prodigiosa verità», ritira il lavoro e rinuncia a scrivere. È stato notato
che il «vero» (il pipistrello, come la vera tigre e la sua vera morte in un
contesto in cui tutto il resto è finto, nel romanzo Si gira)40 si materializza
Alcuni studiosi hanno avvicinato questa irrappresentabilità a quella dei Sei
personaggi, come Franca Angelini e Giuliana Sanguinetti Katz in occasione del
Convegno del 1978 sui rapporti dell’autore con il cinema; si veda Enzo Lauretta, a
cura di, Pirandello e il cinema (Agrigento: Centro Studi Pirandelliani, 1978), 91–9 e
229–41. Invece Marialaura Simeone avverte che la scena dello svenimento anticipa
quella della morte di Mommina, però invertita: «Mommina sente il personaggio
fino al punto di sentirsi male davvero: è la verità dell’arte che si inserisce nella vita;
ne Il pipistrello è la verità della vita che si è inserita nell’arte. Qui il teatro si fa da sè
e non conclude. Il copione è inutile. È una specie di riforma al contrario del Teatro
Comico goldoniano»; cfr. Il palcoscenico sullo schermo: Luigi Pirandello, una trilogia
metateatrale per il cinema (Firenze: Cesati, 2016), 103.
Il romanzo uscì prima con questo titolo (Milano: Mondadori, 1916) e poi col
titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925). Cfr. Michael Rössner, ‘La tigre
finta e la tigre vera. Simulacra e visioni post-coloniali avant la lettre in Pirandello’
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Pirandello agli attori
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sulla scena e nella narrativa pirandelliana come irruzione del rimosso da
dimensioni percettive altre, a servizio della creazione ma non dominate
dalla coscienza: il sogno, da cui Pirandello dice di trarre i personaggi, o la
fantasia, che gl’invade lo studio di fantasmi. E se è comune ai personaggiautori (come Faustino, Serafino Gubbio e l’Autore dei Sei personaggi)
ritrarsi, ammutolire e rinunciare a dar vita pubblica a quelle immagini
la cui irruzione sulla pagina o in scena provoca catastrofi rendendo
impossibile la rappresentazione, è però vero che Pirandello invece persiste
a fare di questa impossibilità un copioso materiale per la sua creazione.41
La ragione di questa doppia natura (impossibile e possibile) del fenomeno
è compresa benissimo da Faustino: «l’intrusione improvvisa e violenta di
un elemento estraneo» conferisce ai presenti l’esperienza ermeneutica di
un altro e superiore piano di realtà: almeno «lì per lì, […] l’evidenza di
una prodigiosa verità» (NAI-2, 233).
Nella Prefazione ai Sei personaggi, la cui storia risulta troppo
melodrammatica per esser scritta e rappresentata, ma dal cui rigetto da parte
di Autore e Attori sgorga materiale per un dramma sulla rappresentazione
impossibile, Pirandello cita l’entrata del «fantasma di Madama Pace»
come esempio di una tecnica di «spezzatura» applicata a ragion veduta e
che consiste in «un improvviso mutamento del piano di realtà della scena,
perché un personaggio può nascere a quel modo solo nella fantasia di un
poeta non certo sulle tavole di un palcoscenico» (MNII, 664–5).
Senza che nessuno se ne sia accorto, in quel momento la ho riaccolta nella mia fantasia
pur non togliendola di sotto gli occhi agli spettatori: ho cioè mostrato ad essi, in luogo
del palcoscenico, la mia fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico
stesso. Il mutarsi improvviso e incontrollabile di una apparenza da un piano di realtà
a un altro è un miracolo della specie di quelli compiuti dal Santo che fa muovere la
sua statua […]. Quel palcoscenico […] non esiste di per sé stesso come dato fisso e
immutabile, come nulla di questa commedia esiste di preconcetto: tutto vi si fa, tutto
41
(conferenza di apertura della Jornada em homenagem aos cento e cinquenta anos de
nascimento de Luigi Pirandello, São Paulo, 23.11.2017).
Gli attori dei Sei personaggi non riescono a portare a termine la scena dell’incontro
del Padre con la Figliastra; Ciascuno a suo modo deve essere interrotta prima del
terzo atto per gli «spiacevoli incidenti» occorsi; Questa sera si recita a soggetto si
presenta fin dall’inizio come un tentativo fallimentare di messinscena.
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vi si muove, tutto vi è tentativo improvviso. Anche il piano di realtà […] arriva così
a spostarsi organicamente. (MNII, 665)
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In quanto fantasma scaturito dalla memoria di un personaggio, Madama
Pace irrompe in scena interrompendone l’illusione, poiché («megera
d’enorme grandezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e
una rosa fiammante, da un lato, alla spagnola; tutta ritinta, vestita con
goffa eleganza di seta rossa sgargiante, un ventaglio di piume in mano e
l’altra mano levata a sorreggere tra due dita la sigaretta accesa»; MNII,
717) fa esplodere qualsiasi criterio di verosimiglianza. Tutto il resto viene
rimbalzato fuor dalla forma squadrata del palcoscenico: all’apparire di
Madama Pace, gli attori «schizzano via con urla di spavento» ed essa
«in pochi passi» balza in primo piano, come se, nella sequenza delle
immagini proposte, improvvisamente fosse stato inserito un close. La
spezzatura è ravvedibile come un ‘taglio’ cui segue una ‘giunzione’ nel
montaggio cinematografico, fino a rendere organica tutta la sequenza nei
suoi raccordati spostamenti tra diversi piani di realtà. Il narratore/autore
è, come Serafino Gubbio, un montatore.
Non è strano che, sia di Pipistrello sia dei Sei personaggi, Pirandello
abbia immaginato trasposizioni cinematografiche di cui volle occuparsi
personalmente, se non della regia almeno del trattamento e per i quali si
propose anche come attore. Neanche stupirà che, nella sceneggiatura della
Film-Novelle, tratta nel 1928 dai Sei personaggi (e mai girato) Pirandello
si proponesse d’apparire in veste di sé stesso come Autore: quanto
mai fantasmatico, rimosso, irrappresentabile e dato per assente.42 Nel
trattamento da lui stesso curato,43 il dramma dell’impossibile relazione
Autore-Personaggi, anteriore a quella Personaggi-Attori che rende la
Il tema dei personaggi che acquisiscono vita propria assilla Pirandello fin dalla
novella Personaggi, pubblicata sul Ventesimo (10.06.1906); ripreso nella novella La
tragedia d’un personaggio, pubblicata sul Corriere della sera (19.10.1911) (inclusa
nel quarto volume delle Novelle per un anno, intitolato L’uomo solo), e ancora in
Colloquii coi personaggi, pubblicata dal Corriere di Sicilia (17.–18.08.1915). Le
battute riecheggiano identiche fino al dramma del 1921. Per un approfondimento
cfr. Ferdinando Taviani, Due interviste in una, 311.
La sceneggiatura è riportata da Marialaura Simeone, Il palcoscenico sullo
schermo: Luigi Pirandello, una trilogia metateatrale per il cinema, 107.
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rappresentazione irrappresentabile, si materializza nelle prime immagini: ove
Pirandello voleva che si vedessero il Poeta curvo al suo scrittoio con i
Personaggi «indomabili» che gli danzano intorno, prima in grandezza
«sovrannaturale», poi «sempre più piccoli» fino a radunarglisi in una
mano. Questa si solleva e si posa sulla fronte del Poeta, per lasciarli entrare.
Con le immagini tagliate e raccordate in un montaggio che contrappone
piani diversi di realtà, la favola prende una consistenza organica laddove
era concitata e confusa nell’opera scenica. Così Pirandello auspica che
finalmente, sullo schermo «s’assisterà veramente alla creazione dell’opera
d’arte. Le idee appariranno in un primo momento imprecise, confuse, poi
via via concretizzate, proprio così come avviene nella mia mente d’autore».44
Fu quasi d’obbligo per il Teatro d’Arte allestire i Sei personaggi per la
tournée europea dell’estate del 1925, poiché il pubblico di Parigi e Berlino
dopo aver assistito alle messinscene di Pitoëff (aprile del 1923) e di Reinhardt
(dicembre/gennaio del 1924) voleva vedere la ‘vera’ interpretazione degli
ambigui personaggi, diretta dall’Autore ed eseguita dagli attori della
sua compagnia.45 Pirandello aveva assistito all’allestimento di Pitoëff a
Parigi ma soltanto letto commenti su quello di Reinhardt. Ad ogni modo
prese in considerazione tutte le variazioni di tono, movimenti, costumi,
illuminazione e atmosfera di cui riuscì ad avere notizia e non furono pochi
i dettagli di similarità e differenza notati dai critici. Sulla scena tedesca si
osservò che, invece d’apparire come fantasmi, i Personaggi possedevano una
carnalità che ne riduceva l’effetto – considerando che Reinhardt li aveva
immersi in un’atmosfera irreale ed espressionista che ne eliminava qualsiasi
residuo di verosimiglianza e riduceva il testo ad un copione cui ispirarsi –
pertanto, non essendo disposto ad eccedere nella sperimentazione al di
là dell’abolizione di quarta parete e fondale, Pirandello sembrò ai critici
meno pirandelliano dei suoi registi.46 Alfred Kerr sul Berliner Tageblatt
44 Marialaura Simeone, Il palcoscenico sullo schermo, 107.
45 Per un accurato confronto tra le regie di Pirandello e le messinscene straniere, vedi
Alessandro Tinterri, ‘Pirandello regista del suo teatro: 1925–1928’, Quaderni di
teatro 9, 34 (novembre 1986), 54–64.
46 Cfr. Oscar Büdel, ‘Pirandello sulla scena tedesca’, Quaderni del Piccolo Teatro
1 (1961), 102. Sull’argomento vedi Michael Rössner, ‘La fortuna di Pirandello in
Germania e le messinscene di Reinhardt’, Quaderni di teatro 9 /34 (novembre
1986), 40–53.
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(13.10.1925) mise i due allestimenti a confronto e rilevò che nella messinscena
italiana la teatralità si installava su ogni piano di rappresentazione, non
solo quella dei personaggi che mettono in scena sé stessi come quella
di uno «strano consesso famigliare» ma ancora quella teatralità che
sarebbe propensione «innata degli italiani in confronto con la sobrietà
tedesca borghese».47 Nonostante ciò, il critico garantì che l’istrionismo
non prevaleva, bensì risultava «filtrato da una regia». E non da una regia
qualsiasi, ma dalla regia dell’autore stesso, nella quale risultava notevole
«il desiderio di trapassare dalla quotidianità al mondo crepuscolare». E
qui il critico poneva una domanda perspicace, cui stiamo cercando qui di
dare risposta: «Ma quando tecnicamente tra i due mondi si avverte una
frattura, quando diventa percepibile il passaggio dall’uno all’altro, è colpa
di Pirandello? O del macchinista?».48
Per quanto riguarda Pitoëff, il quale come è noto faceva entrare i
Personaggi dal montacarichi direttamente sul palcoscenico e da lì pure
li faceva uscire, a mostrare che arrivavano da un ‘fuori’ e in quell’altrove
riprendevano il loro tormentato cammino, l’iniziale sconcerto pirandelliano
si mutò in approvazione49 al punto che modificò l’indicazione in didascalia.
La nuova didascalia suggerisce che entrino dalle porte della sala, annunciati
dall’Usciere, come se venissero dalla strada e che scendano dal corridoio tra
le poltrone «un po’ smarriti e perplessi» (MNII, 677). L’uscita di scena dei
Personaggi i quali, dopo il gran tumulto che segue il colpo di rivoltella e la
morte (vera? finta?) del ragazzo, sono scomparsi insieme agli attori dietro al
fondalino abbassato, è descritta da Pirandello, nell’ultima didascalia, come
un effetto cinematografico di stacco netto – che la scenotecnica teatrale
dell’epoca poteva attribuire ad un errore del macchinista oppure all’estro
di un regista. Infatti Pirandello in didascalia suggerisce: «Subito, come per
uno sbaglio d’attacco, s’accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi
e spiccate, le ombre dei Personaggi […]. Il capocomico schizzerà via dal
palcoscenico atterrito. Contemporaneamente, si spegnerà il riflettore» ed
essi usciranno come «forme trasognate» (MNII, 758).
47
48
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Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 150.
Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 150.
La didascalia originale indicava una normale entrata dai camerini.
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Inoltre, la didascalia iniziale di Pirandello mette in allerta chiunque
«voglia tentare una traduzione scenica della commedia» a distinguere i
Personaggi dagli Attori della compagnia: i primi dovranno apparire «non
come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili;
e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori»
(MNII, 678). Oltre alla lieve stoccata a Reinhardt, che appunto aveva inteso
rendere fantasmatici i Personaggi, emerge dalla didascalia il sospetto che
Pirandello giudichi ardua se non impossibile una precisa esecuzione fisica
di tali creature. Il suggerimento dell’uso di maschere e di costumi stilizzati
(quello del Padre «squadrato dalle spalle imbottite», informa Marchi)50 che
potrebbero obbligare i movimenti degli attori ad una «rigidità di statua»
contraddice un primo suggerimento di Pirandello, nel copione del 1921,
per cui i Personaggi dovevano invece possedere una «levità di sogno».51
Di fatto, la sfida del rappresentare quegli «esseri vivi, più vivi di quelli
che respirano e veston panni; forse meno reali, ma più veri!» (come recita il
testo dei Sei personaggi; MNII, 681) è lanciata agli interpreti dai quali si esige
la capacità dello stacco netto che, per il tramite di una violenta irruzione del
‘vero’ (come il vero svenimento della Gástina all’apparire del pipistrello),
produca l’effetto d’immersione nel perturbante, ossia la spezzatura, non però
come tecnica di scrittura o di montaggio, bensì come modo di recitazione.
Il contrasto tra Attori e Personaggi è strumentale ad esemplificare
la distanza tra modi convenzionali di rappresentazione e questo genere
di performance quasi mai prima eseguita: ove attori che impersonano
Personaggi accusano attori che impersonano Attori di non esser capaci di
sentire «com’io dentro mi sento» (battuta del Padre) e «non assomigliare
per nulla» (battuta della Figliastra), poiché un corpo è la memoria di un
corpo e dunque, irrappresentabile da chiunque altro e non raccontabile
(«qui non si narra!» urla offesa la Figliastra; MNII, 692). La narrazione è
rifiutata, la rappresentazione è impossibile ed il capocomico che ha accettato
di sopperire alla colpevole assenza dell’autore fallisce, essendogli inoltre
rinfacciato d’averlo fatto per vanità. Eppure lo spettacolo avviene, deve
pur avvenire sotto gli occhi ed in presenza degli spettatori.
50
51
In Alessandro d’Amico/Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico, 132.
Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Claudio Vicentini, ‘Il modello
della recitazione naturalista’, 37.
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Non si vuole qui approfondire la carriera dei Sei personaggi, il cui
effetto nel 1921 fu quello di una «bomba a mano che scoppiò nella testa
degli spettatori», secondo Antonio Gramsci che fu tra il pubblico di quello
scandaloso debutto.52 Qualcosa scoppiò anche nella testa degli attori: il
solito Almirante confessa che, alla fine della prima lettura, lui e gli altri
competentissimi componenti della compagnia Niccodemi erano «rimasti
sbalorditi […] teatralmente parlando a noi ci sembrava impossibile che si
potesse rappresentare una cosa del genere»53 e che al debutto, il tumulto
fu tale che bande di spettatori avversari e favorevoli vennero a male parole
e finalmente alle mani: «si sono picchiati». Durante la commedia, però,
«nessuno schiamazzo: il pubblico era sbalordito come lo eravamo noi,
perché era una cosa completamente fuori dall’ordinario. […] Il sipario era
calato e noi non si sapeva che cosa era. Lui sorrideva imperterrito. Tant’è
vero che io pensavo che lui, dopo questo, non scrivesse mai più teatro».54
Invece, Pirandello si decise a riallestire lo spettacolo e a portarlo in giro
per il mondo come manifesto del proprio modo di concepire il teatro,
specialmente dal punto di vista relazionale ovvero per quanto riguarda
le reazioni che un’opera viva può suscitare nei più svariati pubblici; forse
lo divertiva cogliere quella sfida da lui stesso, come autore, lanciata. Le
dichiarazioni che concede ai giornali europei, durante quella tournée, sono
possibilmente da intendere come provocazioni pubblicitarie che giocano
con l’immagine pubblica di scrittore paradossale che lo aveva reso famoso;
e comunque, in esse il tono di sfida è chiaramente ravvedibile: «Non mi
è bastato scrivere commedie e farle rappresentare. Oggi sono capocomico
e metteur en scène d’una compagnia drammatica. Dovete crederci, proprio
perché è assurdo».55
Un altro spettatore notevole, Antonin Artaud, scrisse dell’allestimento
dei Sei personaggi di Pitoëff, il cui successo fu talmente strepitoso da essere
Recensione al Piacere dell’onestà pubblicata su Ordine nuovo, 29.11.1917, in Antonio
Gramsci, Letteratura e vita nazionale (Torino: Einaudi, 1966), 307.
Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una al
primo Padre’, 298.
Luigi Almirante, in Ferdinando Taviani, ‘Sei personaggi: due interviste in una’, 324.
Luigi Pirandello, ‘En confidence’, Le Temps (20 luglio 1925), cit. in Claudio
Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro (Venezia: Marsilio, 1993).
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replicato per più di tre mesi alla Comédie des Champs-Elysées – condizione
che permise allo stesso Artaud di farsi scritturare nel ruolo del Suggeritore.
Aveva cominciato a fare l’attore per il cinema, quella primavera, e rispose
ad una inchiesta di René Clair per Théâtre et Comoedia illustré. In esso,
Artaud sosteneva che «il teatro è un tradimento» perché in esso, tra opera
e spettatore, s’interpone sempre la materialità degli attori, mentre al cinema
l’attore è trasparente come un «segno vivente»: «Charlot rappresenta
Charlot, Fairbanks rappresenta Fairbanks. Sono loro il film […]. È per
questo che non esistono».56 L’opacità dell’attore teatrale è fortemente
ripudiata nella recensione ai Sei personaggi. In questo testo Artaud, attore
lui stesso, educato alla rigorosa scuola di Dullin, intravede una via fisica
per la comprensione della paradossale sfida di dar vita a personaggi la cui
vita è più vera di quella degli attori: «Essi vivono, affermano di essere reali
[…]. Sono più reali di Lei, direttore e di voi, guitti immondi. Allora, noi
attori cosa siamo? Eppure, questi Personaggi sono ancora degli attori ad
incarnarli! Si pone in questo modo tutto il problema del teatro».57
La via che Artaud ravvisa nei Sei personaggi è quella della crudeltà,
ovvero di un tale svuotamento della materia corporea tramite il rigore della
tecnica che possa annullare nell’attore qualsiasi opacità e farlo trasparente
allo «spettacolo dell’anima». Il «grado zero» della rappresentazione
è vivere la pura funzione-finzione: il corpo senz’organi. Il quadro della
scena contemporanea tracciato da Artaud nei celeberrimi testi degli anni
seguenti è desolante, con l’unica eccezione dei «capolavori di Pirandello»
(come scrive in una bozza di lettera a René Daumal del 14 luglio 1931),58
i quali aprono, agli occhi del visionario poeta, uno spiraglio di speranza
spalancato sul vuoto della frase restata inconclusa: «C’è spazio adesso per
un teatro che …».
L’inchiesta uscì nel marzo del 1923, sul numero 15, ma il contributo di Artaud non
compare. È riportato nel magistrale saggio di Franco Ruffini, ‘Pirandello e Artaud’,
in Id., Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro (Roma: Bulzoni, 2001), 69–76.
La recensione firmata da Artaud uscì nel maggio del 1923 su La criée 24, e fu
ristampata in Le théâtre et son double (Paris: Gallimard, 1938), trad. italiana: Il
teatro e il suo doppio (Torino: Einaudi, 1968), 110–11.
Franco Ruffini, ‘Pirandello e Artaud’, 75.
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Per fare una ricognizione della rotta di Pirandello in questo vuoto
pulsante di possibilità, torniamo alla lettera spedita a Salvini nel marzo
del 1930, sulla messinscena nel periferico teatro di Königsberg e dinanzi ad
una platea provinciale di Questa sera si recita a soggetto, che come sappiamo
gli parve «mirabile»:
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La commedia vive tutta di vita meravigliosa senza posare un momento, ed il
pubblico, che vorrebbe aver cento occhi e cento orecchi, ne resta incantato dal
principio alla fine. Lo stupore diventa subito il clima naturale della commedia,
per cui naturali appaiono anche i fulminei trapassi dal comico al tragico, e tutto è
accettato con gioja quasi infantile dal pubblico che ad un tempo ride e si commuove.
(MNIV, 258)
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Ciò che Pirandello, in veste di spettatore, ammira è la capacità del regista
di montare le scene con «stridenti contrasti di straordinario effetto»
come, nella pantomima iniziale, la sequenza della processione religiosa
che grazie ad uno «scatto immediato» diventa l’interno di un cabaret e
poi una scena di melodramma. La sequenza, ottenuta dal regista grazie
a due palchi giustapposti ed un fondalino di trasparenza, è descritta con
molti dettagli di colore e sonoplastia.
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Il codazzo è numeroso e di bellissimo effetto pittorico. La trasparenza del
cabaret è ottenuta magnificamente: scatto immediato di suoni, luci e colori.
Luci variopinte: colori in parte cupi, lugubri dal lato della Chanteuse, in parte
sgargiantissimi dal lato delle ballerinette che, molto brillanti e vivaci, intercalano nel
canto impressionantissimo della tragica Chanteuse stridule grida giojose e risate e colpi
di mani alle cosce e chiocchi di dita in mirabile concerto dissonante; il jazz intanto
impazza. La scena, con questi risalti, si sostiene un bel po’. […] mentre il pubblico
[…] sta a guardare i due palchi illuminati […], si vede lassù una Primadonna ed un
Baritono che cantano goffamente al suono di un grammofono, ingrandito dalla radio,
il finale del primo atto di un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una
vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio, tutto cangiato. Siamo
veramente catapultati in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa
la caricatura e la parodia, cantanti che si sbracciano piumati e il grammofono invece
dell’orchestra. (MNIV, 259)
La percezione lucida delle tecniche di composizione della scena non
impedisce l’effetto «irresistibile» di incantamento in cui cade anche
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quello spettatore d’eccezione; l’autore riconosce alla scrittura scenica una
«magia» che potrebbe essere paragonata all’illusione cinematografica
prodotta dal montaggio. L’abbaglio (siamo «veramente catapultati»)
costituisce un uso radicale dell’idea del ‘teatro nel teatro’, giacché, nota
Pirandello (a Königsberg) tutto avviene in un vero «teatro d’opera di
provincia». Il gioco si realizza pienamente quando gli attori si sparpagliano
ovunque ed il pubblico, invitato da Hinkfuss ad uscire mentre il sipario è
calato, non lo fa «perché (registra Pirandello nella lettera) attraverso gli
usci aperti sul corridojo si vedono passeggiare a braccetto le coppie dei
giovanotti con le ragazze […] e nel palchetto si vede ancora la signora
Ignazia con due degli ufficiali»; in sala compaiono figure affidabili come
«il ragazzotto che va vendendo cioccolatine e caramelle con la sua cassetta
ad armacollo ed il suo berrettino da barman gallonato», mentre Nené e
Totina lo vedono e
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[…] trascinano dal corridojo […] fino sotto la buca del suggeritore i due giovani che
sono con loro; e la prima scenetta si svolge lí; poi, questi quattro s’allontanano, se ne
vengono fin sotto al palco dov’è rimasta la madre, e intanto entrano da un altro uscio
nella sala, conversando, Dorina e Nardi, che infine chiamano e si uniscono agli altri
quattro, e finita la scenetta d’insieme, tornano a uscire sul corridoio; ma già nella sala
sono entrati Verri e Mommina a far la loro, appoggiati alla ringhiera d’un palco di
prima fila; il pubblico non sa dove voltarsi prima; è preso da tutte le parti. (MNIV, 260)
Ovvero: le scene da lui stesso previste per il ridotto avvengono invece
«nella sala e sotto gli occhi degli spettatori, che si divertono un mondo»
ed ecco che (esclama Pirandello al colmo dell’entusiasmo) «avviene il
prodigio: tutto il teatro recita!» (MNIV, 260–1).
3. Vivere e morire senza fingere
In Tonight We Improvise, allestimento del Living Theatre andato in scena nel
marzo del 1955 allo Studio, una sala sulla 100° Strada a New York adattata
(già per The Connection) in modo da non presentare alcuna separazione
tra palco e platea, nessuno poteva considerarsi escluso da accadimenti che
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attestavano incessantemente che quanto stava avvenendo non era altro che
l’effettiva realtà di quella serata. Era un happening. Al posto della processione
siciliana il gruppo viveva in pubblico una tranche de vie della loro normalità
quotidiana, droghe incluse. Il discorso di Hinkfuss (ribattezzato Beckfuss
già che era Julian Beck) era aggiornato all’avanguardia teatrale degli anni
Cinquanta: la proposta della recita a soggetto era resa come performance,
ovvero una produzione di presenza momentanea e non premeditata. Gli
attori recitavano sé stessi mescolandosi agli spettatori e Mommina (era la
Malina) si sedeva sulle ginocchia di uno qualsiasi. «Non avevamo alcun
timore di essere aggressivi. Non solo sedevamo sulle loro ginocchia; li
abbracciavamo, li trascinavamo» ricorda l’attrice.59
Il gruppo raccoglieva la sfida lanciata da Pirandello come una specie di
missione estetico-politica: lo spettacolo mirava a svegliare il pubblico dal
torpore e trascinarlo in un’estasi corale ove «eguagliare, unificare, avvicinare
maggiormente tutti alla vita».60 E quando Beckfuss si impadroniva del
palcoscenico, realizzandovi la sua bellissima ambientazione notturna che
però risultava impraticabile, veniva espulso a spintoni dall’assemblea teatrale
tradita ed infuriata – tanto che l’attore, al quale il soprannome di Beckfuss
rimase appiccicato per anni, prese a chiamare il pubblico wild beast. Lo
sforzo di far sì che attori e spettatori ‘vivessero’ la parte coincideva con lo
sforzo di ‘controllare’ un evento anarchizzato ed un dramma impossibile,
giacché veniva sistematicamente soverchiato dagli avvenimenti. In ciò Beck
comprese che lo spettacolo riusciva bene proprio perché seguiva alla lettera
le istruzioni scritte da Pirandello 25 anni prima: ove idee rivoluzionarie
come l’autarchia performativa dell’attore, la partecipazione corale della
platea e la simultaneità di vita e arte erano già poste come assi portanti
di una piattaforma sperimentale molto più radicale dell’ovvia e magari
un po’ usurata metateatralità associata all’autore. Difatti, confessa Beck,
nello spettacolo «c’era ben poco di realmente improvvisato […] ma fu
eseguito e diretto in maniera tale che gli spettatori pensassero spesso che
fosse realmente improvvisato».61
59
60
61
Judith Malina, ‘Il Pirandello del Living’, Teatro e Storia 7/2 (ottobre 1992), 343.
Julian Beck, Il lavoro del Living Theatre. Materiali 1952–69 (Milano: Ubulibri,
1982), 51.
Julian Beck, La vita nel teatro (Torino: Einaudi, 1975), 90.
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Pirandello agli attori
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Quindi mentre, da una parte, era intenzione del Living Theatre far
dello spettacolo un’assemblea pubblica nella quale chiunque avesse uguale
diritto alla parola e all’azione, come proposto da Erwin Piscator (un’utopia
wagneriana, perfino nietzscheana, di teatro totale come alle origini); d’altra
parte, era lavorando sulla struttura proposta da Pirandello che riuscivano
a costruire un evento in cui ciò avvenisse per davvero. Riassume Judith
Malina: «dall’influenza di Piscator abbiamo preso un desiderio costante
di avere un vero dialogo con il pubblico […], dall’influenza di Pirandello
abbiamo preso una tecnica per arrivare a questo dialogo».62 E spiega anche
come ciò avveniva: «attraverso il momento della transe in cui la realtà è
intensificata e si spezza, in cui entriamo nella zona del nostro mistero: il
momento in cui attore e spettatore si guardano in una nuova luce e
dicono: chi siamo? Ecco, in quel momento preciso poniamo una domanda
politica, perché la consapevolezza politica porta l’evento teatrale sempre
più vicino alla realtà ed alla vita».63
Adottando il suggerimento pirandelliano della «spezzatura», la logica
di coincidenza tra arte e vita si svolgeva dall’interno e «immediatamente»
nel corpo dei presenti, sia attori che spettatori; poiché ciascuno recitava sé
stesso ed anche il copione, senza uscire dal proprio ruolo ma sdoppiandosi in
esso, con una specie di strana fedeltà all’arte ed insieme alla vita. La coesistenza
di tali stratificazioni realizzava la sfida lanciata da Pirandello, magari
amplificando coralmente una certa fisicità da lui prevista, fino a contaminare
e far recitare tutto il teatro (come nel caso della battuta sullo schiaffo ricevuto
in quinta dall’Attore Brillante che si moltiplicava, nella messinscena del
Living, in una girandola di domande, col risultato che pareva fossero volati
non uno, ma chissà quanti schiaffi, oppure della provocazione sul fatto che
gli attori stessero veramente improvvisando, lanciata dalla platea con tanta
insistenza che alla fine il pubblico si innervosiva davvero). La scrittura
scenica del Living Theatre potenziava l’aleatorio e provocava, nelle parti
‘vissute’ come improvvisazioni collettive a soggetto (performances) un effetto
62
63
Intervistata da Richard Sogliuzzo nel luglio 1974, in Franco Perrelli, I maestri della
ricerca teatrale: Barba, Brook, Beck (Bari: Laterza, 2007), 76, n. 48.
Judith Malina, intervistata da Richard Sogliuzzo, I maestri della ricerca teatrale:
Barba, Brook, Beck, 76, n. 48.
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Bibliografia
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di spiazzamento o «spezzatura» secondo la terminologia pirandelliana,
che potremmo anche definire «straniamento», secondo la definizione dei
formalisti russi realizzata nella prassi delle avanguardie: ovvero, l’irrompere
del reale nel piano di rappresentazione. Il modo in cui, nella scena finale,
Malina-Mommina sembrava morire davvero, improvvisamente svuotando
di energia il suo piccolo corpo produceva un effetto talmente perturbante
da essere paragonato (dal critico Eric Bentley) ad uno stupro. L’esperienza
immersiva ante litteram significò un tale strepitoso successo che ogni sera
si dovevano aggiungere sedie. Fu riallestito quattro anni dopo al Living
Theatre Playhouse, nel Village; proprio a partire da questo spettacolo, come
ha scritto Claudio Meldolesi, «il Living andava acquisendo quella scienza
dell’improvvisazione che l’avrebbe portato (anche attraverso Artaud)
all’individuazione di una vitalità oltre la vita, la vitalità liminare e politica
di Paradise Now».64
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AA.VV., La scrittura e l’assenza. Le lettere di Pirandello a Marta Abba, Il castello di
Elsinore 11, 33 (1998).
Alonge, Roberto, Luigi Pirandello, il teatro del XX secolo (Roma/Bari: Laterza, 1997).
——, Il teatro dei registi (Roma/Bari: Laterza, 2010).
Angelini, Franca, Teatro e spettacolo del primo Novecento (Bari: Laterza, 1988).
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——, Il lavoro del Living Theatre. Materiali 1952–69 (Milano: Ubulibri, 1982).
Büdel, Oscar, ‘Pirandello sulla scena tedesca’, Quaderni del Piccolo Teatro 1 (1961),
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Camilleri, Andrea, ‘Pirandello e la regia teatrale’, in AA.VV., Atti del Congresso
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64
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