U BRICCHETTU
Ognuno di noi è una Luna:
ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro
Mark Twain
Letteratura locale a irresponsabilità limitata
(a cura di Luca Mattei, Sergio Pedemonte, Enrico Righi, Alberto Rivara,
Raffaele Rossetti e Marisa Sciutti)
Numero 24 – Novembre 2015
Approfitto delle pagine del nostro U Bricchettu per salutare e ringraziare
ancora una volta tutti i soci vecchi e nuovi del Centro Culturale. Grazie per
la fiducia che mi avete dimostrato.
Sono certo che, grazie all'impegno, alla passione e all'entusiasmo che ci
accomuna non sarà disattesa.
Grazie a chi mi ha proposto, a chi per tanti anni è stato motore ed anima
del Centro, guidando con impegno, competenza e passione e da cui io, in
tutta franchezza, ho soltanto da imparare. Grazie a Enrico, Luca, Marisa,
Maria, Alberto, Paolo, Sergio ...
La loro amicizia, la loro passione, il loro impegno sarà determinante nel
realizzare il programma e gli obiettivi prefissati per il 2016.
Diverse manifestazioni ed eventi sono infatti in via di definizione.
Alcuni sono già pronti e vi attendono nei primi mesi dell'anno.
Serate di beneficenza, conferenze, visite ai Musei e presentazioni editoriali,
oltre a serate interculturali. Questi eventi oltre al classico fine culturale e
di aggregazione avranno anche lo scopo di promuovere e valorizzare il
nostro territorio e le sue importanti realtà.
Concludo porgendo a tutti voi e alle vostre famiglie i miei più cari e sinceri
Auguri di Buon Natale e sereno 2016
Il Presidente
Raffaele Rossetti
2
Riproponiamo
Ogni volta
che ci accingiamo
a scegliere i componimenti per questo foglio
che sembra sopravvivere al di là di ogni aspettativa, ebbene,
ogni volta
ci chiediamo se davvero
non esistano cinquanta milioni di autori in Italia.
Perlomeno qui da noi ce ne sono tanti e
ci fa piacere scoprirli lentamente, ma costantemente, e,
ogni volta
cominciare a parlare con loro
del perché e del percome si scrive.
Il Bricchettu è poi un punto finale:
il bello è veder arrivare fogli gualciti
alle dipendenze di un timido, o di un giovanissimo,
che poi si rivelano oltremodo interessanti dal punto di vista letterario.
Scusateci se non possiamo,
ogni volta,
farvi partecipare che ad una piccola parte
dello spettacolo1.
1
Da U Bricchettu, n. 5 del 1997.
3
Da poveri cristi a disagiati
Sergio Pedemonte
“Da poveri cristi a disagiati”: in poche parole questa è la storia di chi viveva a Serrè, Griffoglieto,
Borgo, Pinceto o addirittura alla Cascina I Piani, negli anni ’50. Poveri cristi perché sentivano
maggiormente che nei decenni precedenti la differenza tra il fondovalle e dove vivevano.
Man mano iniziarono a scendere e a trovare occupazione nelle fabbriche, ma il ricordo
dell’amara campagna permaneva e molti divennero dei disagiati. Le strade verso le frazioni
erano state fatte per scappare più velocemente, ma fortunatamente servivano anche per
arrivarci il sabato o la domenica. Con il passare degli anni necessitavano di manutenzione le case
che ormai avevano come proprietari figli, nipoti e affini: un intrigo da dover richiedere avvocati
per le eredità. Così molti cominciarono a vendere ai cittadini che ne fecero la casa per l’estate, ma
dove l’auto non poteva giungere le abitazioni dei nonni crollarono, come a Cascissa, e il silenzio
scese e continua anche adesso.
Gli altri borghi rivivono e le famiglie non hanno più i cognomi tipici come i Bertuccio a
Montessoro, i Molinari a Villa, i Cornero a Prarolo, i Seghezzo alle Cascine, per non parlare dei
Rolla a Isola che sono ormai scomparsi.
E’ meglio o è peggio? Le fatiche sono certamente minori e l’età media è aumentata, ma ci sono
anche problemi: uno di questi è l’equilibrio idrogeologico, la quasi scomparsa del dialetto tra i
giovani, la perdita di mestieri e delle tradizioni. Come tutti, anch’io faccio l’esempio delle veglie
nelle stalle dove si trasmettevano proprio le antiche attività, la memoria collettiva, i vocaboli, i
toponimi, le favole, insomma il patrimonio culturale che oggi è sostituito da ben altro.
Non bisogna indulgere solo sugli aspetti positivi di quelle esistenze, ma analizzarne anche le
parti negative e chiedersi se si possono mitigare quest’ultime dando rilancio a un’economia
ancora di sussistenza, ma che arricchisca chi ha la voglia di riprenderla. Non si pensi di riuscire a
introdurre la meccanizzazione della Pianura Padana, né i raccolti immediati o la filiera corta che
ricompensa il lavoro fatto. Occorrono mezzi che solo le Regioni possono fornire, per disboscare,
ripristinare strade, rifare i muri a secco, innestare le vecchie varietà di frutta e, non ultimo, avere
una casa con elettricità, fogne, acqua ed elettrodomestici, perché ritornare alla campagna non
deve significare essere tagliati fuori dal mondo.
Con la crisi del sistema economico liberista e comunista, con la dipendenza dell’energia dai Paesi
confinanti e no, l’Italia dovrà trovare una via di sviluppo a cavallo tra quella che rimpiangiamo e
quella odierna.
Loro, magari con il telefonino, torneranno.
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U segnu
di Franca Oberti
Avevo già trent’anni quando un’anziana del paese di mio padre, nella Val Vobbia, mi disse: “Ti
saveivi che toe nonna a segnava e storte?”. Nemmeno sapevo cosa stesse dicendo. Ero cresciuta
con una mamma atea, con un padre dedicato all’attività commerciale aperta anche di domenica.
Andavo a scuola dalle suore e tutto ciò che non era il rituale del Sacerdote era definito opera del
diavolo.
Pochi giorni dopo presi una storta – credo ci sia un tempo per ogni cosa –.
Era estate, stavo al paesello coi bambini piccoli, una mia parente mi disse di andare “dalla Maria,
che segna le storte”; la Maria era la donna che mi aveva detto quella strana frase.
In quel frangente, la medicina ufficiale era irraggiungibile: lontano l’ospedale, lontano il medico, i
bambini da accudire…
Andai dalla Maria; mi fece sedere e mettere il piede su uno sgabellino basso.
Andò nella dispensa e tornò con un pezzetto di sugna di maiale; mi girò le spalle e prese una
tazzina di acqua fredda. La sentii mugugnare qualcosa sottovoce, poi si girò e cominciò a
spalmare la sugna sulla mia caviglia dolorante. Era un lavoro lento e sistematico, ogni tanto con
la sugna praticava un segno di croce, la sentivo mormorare qualche parola, forse preghiera. Poi
mi fasciò con una fettuccia bianca nuova, incrociandola più volte, e mi disse:
“Torna domani e dopodomani; dobbiamo farlo tre volte”.
Il terzo giorno era sparito il gonfiore, la caviglia non mi faceva più male e la mia curiosità era alle
stelle. Cominciai a desiderare di saperne di più, così andai a trovarla e le chiesi ragguagli su
quanto mi aveva detto di mia nonna.
Le donne di campagna di una volta sono state un dono che nessuno ha capito veramente. C’era
una sorellanza tra loro che oggi è rarissima; forse si sta ricostruendo quel tessuto sociale
perduto, ma occorre spogliarsi di tante, troppe cose, e la nostra società è implacabile. Mi
raccontò che mia nonna segnava le storte e poco prima di morire – è ancora oscuro per me
questo antico sapere, ma spero di arrivarci per tempo – le aveva detto che voleva passarle il
segno. Mia nonna morì all’improvviso, quando io avevo nove mesi, non avrebbe fatto in tempo a
passarlo a me. Mi chiedo spesso quale fantastica intuizione abbia avuto, ma non so se e quando
avrò la risposta. La Maria divenne così la tenutaria di un passaggio di famiglia; mi raccontò che la
bisnonna era la levatrice e segnava anche lei le storte. Senza ammantarmi d’orgoglio, anzi,
sentendomi investita di una grande responsabilità, ringrazia la Maria di aver mantenuto il segno
e le chiesi se mi riteneva degna di questo passaggio. Con la sua voce flebile e un sorriso un po’
sdentato, mi disse: “Vedremo, vedremo…”.
Passarono alcuni anni, quasi mi stavo dimenticando del dono; un’estate la Maria mi chiamò e mi
fece andare a casa sua. Molto seria mi disse:
“Ti passo il segno”. Per rispetto ai miei antenati, non posso raccontare nulla di quel rituale, se
non a chi lo avrà dopo di me, ma fu un’esperienza, la prima di una lunga serie, che mi cambiò
completamente. La Maria era una donna molto religiosa; credente, praticante, onesta e
trasparente. Pochi mesi dopo morì, un caso?
Tuttora segno le storte, anche se pochi ormai ci credono, e questo dono si è arricchito di altri
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doni che, nella mia trasformazione, sono arrivati. Non mi ammanto di orgoglio, anzi, mi sento,
come diceva una grande donna, una matita nelle mani di Dio. L’umiltà è una porta stretta, la fede
è una porta bassa, a volte penso alla porticina della porziuncola e capisco San Francesco. Senza
pretendere di raggiungere tali livelli, provo a vivere con il suo insegnamento, nelle attuali
condizioni del nostro quotidiano. Nessuna pretesa di diventare Santa, anzi, sono molto legata alla
mia umanità, mi lascio andare a piccoli peccati di gola, piccoli egoismi, mi accorgo di tante mie
mancanze, ma tengo molto ai valori più importanti della vita che per me ruotano tutti attorno
alla famiglia e alla comunità in cui si vive.
Disegno di Giorgio Cinacchio, 2014. Da anni Giorgio ritrae Isola e gli Isolesi. La sua tecnica, particolarmente
espressiva, restituisce immagini della realtà attraverso un filtro sentimentale. Paesaggi e volti ci appaiono
così più vivi di come li conosciamo
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Viaggio sullo specchio d’acqua
Simona Gadaleta
Nel pomeriggio t’incammini e il sole ti dà una grande pacca sulle spalle
T’incammini con tanta altra gente attaccata come tante calamite
Salpi su una nave che non sai dove ti porterà
Vedi la schiuma prodotta dal suo passaggio lungo la via
Finalmente il vento ti fa un rapido cenno di saluto dandoti un po’ di respiro
Poi vedi un aereo che sfreccia sopra le mille teste che guardano il blu di sopra e il blu di sotto
E vedi intorno a te molte case e molte persone dalle loro finestre vedono solo un ombra
Che galleggia sopra un grande specchio azzurro
Poi finalmente arrivi alla tua destinazione in tempo per vedere il sole tramontare sull’acqua
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Ichnusa
Racconti de Su Lumedu
(Racconti di Olmedo)
Olmedo, novembre 1968, dagli altoparlanti a tromba “della gloriosa marca Geloso” installati sul
tetto di un edificio a tre piani di Via Sassari, la moglie di Adolfo il calzolaio, Maria Fiore, legge
scandendo accuratamente le parole, un annuncio di vendita.
L’annuncio, o come si diceva allora in sardo su bandhu, era stato commissionato da mio padre
Ferdinando per mettere in vendita la sua moto Torpado 48cc e la bicicletta di mio fratello maggiore
Giuseppe. Non era una vendita per necessità economica ma per necessità di svendita o come si dice
a Genova nei periodi di saldi de desbarassu cioè svendita a prezzo stracciato.
In effetti, la moto e la bicicletta avevano un valore sicuramente superiore alle 20 mila Lire richieste
ma la necessità di disfarsene unita all’urgenza e alla fretta di partire, imponeva un prezzo
appetibile; era un affare per chi avrebbe comprato.
La moto Torpado era appena stata revisionata nel motore con intervento di rettifica del cilindro e
sostituzione del pistone e delle fasce elastiche. La bicicletta invece era una mezza corsa, come si
diceva allora, non dotata di cambio di velocità ma ben tenuta gommata e con cerchioni 28” e
manubrio in acciaio lucidi da sembrare cromati.
Ma come dicevo, Ferdinando, mio padre, aveva la necessità di dare via a prezzo minimo tutto quello
che non poteva portare con se e così decise e fece perché da lì a qualche giorno noi, tutta la nostra
famiglia si sarebbe trasferita a Genova.
C’erano ad Olmedo in quel periodo, due calzolai e uno di questi, Adolfo, che oltre a essere un
abilissimo artigiano, famoso per le sue realizzazioni delle Bottas Russas (scarponi da lavoro in cuoio
spesso) che costruiva interamente partendo dalla misura del piede del cliente, aveva l’appalto
dell’impianto di diffusione sonora utilizzato in paese per comunicare ogni notizia ritenuta utile a
tutta la popolazione di Olmedo. È probabile che l’impianto sia stato installato prima dell’ultima
guerra sicuramente per poter informare rapidamente e in modo capillare la popolazione. E vi
posso garantire che funzionava; si sentiva da ogni angolo del paese.
Negli anni 50 - 60 il sistema ad altoparlanti era ancora utilizzato per annunciare nelle prime ore del
mattino, attraverso la lettura di un elenco apposito, tutto quello che si poteva trovare nel mercato.
In genere, le parole finali del bando erano tottu barattu a su malcadu. Cioè, tutto a buon prezzo nel
mercato. C’erano poi avvisi di sospensione del servizio acqua potabile oppure avvisi di vendita.
Nei giorni di festa invece, il sistema “Geloso” diffondeva musica e brani molto ascoltati nei canali
radio di allora. Le canzoni di Morandi, Celentano e Rita Pavone erano le più trasmesse ma quella
che più ricordo è Speedy Gonzales, cantata non so più da chi, che aveva il potere di entrarmi in testa
e per giorni a seguire non riuscivo a canticchiare nient’altro che quello stupido motivo.
Ma torniamo a quel lontano giorno di novembre 1968 e a quell’avviso di vendita, sparato dalle
trombe Geloso. Il senso vero dell’annuncio era questo: “Si avvisa la popolazione che la famiglia di
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Ferdinando Piras vi saluta e lascia per sempre Olmedo … chi è interessato all’acquisto di una moto e
una bicicletta in ottime condizioni … eccetera eccetera ... e cosa gai e via dicendo.
Di lì a qualche giorno infatti, una volta organizzato il trasloco, saremmo partiti per Genova assieme
alla famiglia di mio padrino di battesimo, Antoni e Senes.
Durante il viaggio in pullman per raggiungere Porto Torres dove ci attendeva la nave che ci avrebbe
portati a Genova, cominciai in parte a realizzare ciò che stavamo vivendo e sentire la nostalgia sotto
forma di piccoli crampi allo stomaco, ma presi come eravamo da quella marea di novità che
assorbiva tutti i nostri pensieri non davamo peso ai dettagli.
Non ci rendevamo del tutto conto del cambiamento a cui andavamo incontro, pur sapendo che per
noi, per tutti noi, Babbo, Mamma, i miei fratelli Giuseppe, Maria, Giovanni, Luigi, Tore, ed io Renato,
non ci sarebbe più stato Olmedo e la casa di Via Manzoni n° 7 dove abitavamo, la strada falada de su
trogliu (la strada del lavatoio), sa falada de Lucio (Via Alghero), le campagne su muntiju nostro
campo di gioco, sa jaga la vecchia cancellata in legno che divideva la zona Muntiju dalla zona su
Padru, zona da pascolo per greggi, sa caivonera dove andavamo per legna, su muntiju biancu dove
c’erano arbusti di raro mirto bianco, e poi la Chiesa nuova del paese con la nostra Madonnina Talia
e il parroco di allora Don Murgia, e ancora la piazza Sa Punta e i suoi bar di Giongavinu, Murone,
S’Istangu (bar e tabacchino), sa Gelateria e so Cumbattentes, le botteghe di Tia Busciana, Marialene,
Gesuina Cambone, Tidore, e le nostre scuole con tutti i nostri compagni e tanta gente alcuni dei
quali non avremmo più rivisto.
Tutto quello che era per noi Olmedo, Olmedo di allora come era e come lo ricordiamo ancora, finiva,
finiva per sempre quella sera quando la nave Arborea della compagnia Tirrenia si staccò dalla
banchina di attracco e lentamente ci fece attraversare il tratto di Mare tra Porto Torres e Genova.
Genova ci accolse offendendoci con un vento gelido che ci procurava dolore alle orecchie mentre
l’acqua nera del porto faceva puzzare l’aria di rinfrescumm-e e di pesce.
Per noi non fu tutto facile ma avevamo la prospettiva del lavoro sicuro e della tranquillità
economica che la nostra terra non ci aveva mai saputo dare e questo bastava per superare le
avversità sapendo che la scelta fatta dai nostri genitori ci avrebbe garantito un avvenire dignitoso.
A Genova andammo ad abitare in un grande appartamento a Cornigliano in Via Ansaldo a poche
centinaia di metri dall’Italsider.
Condividevamo l’appartamento con la famiglia Senes di Foricca e Antoni che come noi avevano
lasciato Olmedo per gli stessi nostri motivi.
Loro erano meno numerosi di noi e occupavano tre camere e una cucina mentre noi avevamo a
disposizione le altre quattro camere più una cucina.
La convivenza durò poco fino a che Tia Foricca e il marito Antonio trovarono una sistemazione
autonoma nei pressi di Campi di Cornigliano dove si trasferirono con tutta la loro famiglia.
Capitava spesso, complice la nostalgia, di ricordare in famiglia fatti e aneddoti dei tempi passati a
Olmedo.
Quando eravamo in vena di ricordi c’era solo da scegliere a quale racconto dare la precedenza
perché come un fiume in piena riaffioravano cose passate che sembravano dimenticate per sempre.
Erano le giornate de attil’ammentas cussa olta … ti ricordi quella volta che … e partiva come un film
il racconto di uno di noi che ricordava più di altri un episodio particolare di vita vissuta a Olmedo e
per tutti gli altri che stavano a sentire era come viaggiare nel tempo.
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Di Olmedo ho ricordi che risalgono ai miei primi anni di vita quando mio fratello Luigi non era
ancora nato ed io ero il più piccolo della famiglia. Abitavamo allora in Via Brigata Sassari. Era una
via di case basse che dai pressi della Chiesa Nuova andava a intersecare la famosa falada de su furru
(per noi le strade avevano nomi diversi da quelli ufficiali a seconda delle situazioni). La strada dove
c’era la panetteria, per noi era sa falada de su furru. In Via Brigata Sassari, dove allora abitavamo, se
non sbaglio Tia Busciana aveva il suo antico negozio di alimentari mentre di fronte a noi abitava Tia
Ciccia Salaris e più avanti Tia Jara e Serra, Tia Pizzenta e Tia Maria Ittoria. Questi nomi e tanti altri
come Baroeddu, Capporale, Cadena, erano ricorrenti nei nostri attil’ammentas di Olmedo.
Di quel periodo vissuto in Via Brigata Sassari ricordo qualche episodio, uno dei quali è il seguente.
Una mattina, era ancora l’alba ma io ero già sveglio, Babbo, prima di inforcare la sua bicicletta e
partire per il lavoro, mi fece fare qualche metro seduto sul sedile. L’equilibrio non è stato mai il mio
forte, già da allora avevo difficoltà e paura di cadere e in preda ad essa mi aggrappai alla sacca
tascapane di Babbo dove aveva il pentolino pieno di sugo rosso e bombette cotte, rovesciando parte
del contenuto nella sacca.
Babbo e Mamma la presero a ridere e poi con attenzione cercarono di recuperare quanto era
possibile del sugo versato, e via … al lavoro.
Come erano diversi i genitori di allora, immaginate la lite che avrebbe scatenato un simile episodio
oggi. Ma allora le coppie pur lottando quotidianamente vivevano con rassegnazione e calma senza
mai cercare motivi di scontro se non era necessario o i motivi erano di poco conto e avevano una
pazienza infinita con i propri figli.
Ho un altro ricordo del periodo vissuto in Via Brigata Sassari; una mattina bussò alla porta di casa
un uomo anziano (Tiu Gion Matteu) che camminava reggendosi a un bastone su acchiddhu e parlò a
mamma di non so cosa .
Mamma subito dopo si disperò e pianse stringendo a se me e Giovanni mentre continuava a
ripetere fizzo mios! fizzo mios! (figli miei).
L’uomo aveva comunicato a mamma di un incidente sul lavoro nel corso del quale babbo aveva
riportato la frattura di un braccio.
A quei tempi non c’erano le tutele sul lavoro e chi aveva problemi di salute o di infortunio veniva
licenziato. Babbo, a causa di quell’incidente, rimase senza lavoro per tanti mesi con quattro figli e
moglie da mantenere. Mi chiedo ancora adesso come abbiano potuto far fronte a quella situazione,
ma ricordo la calma e la rassegnazione che Mamma prima di tutto e Babbo, avevano nell’accettare
le disgrazie, disgrascia, senza che la cosa pesasse su di noi figli .
A seguito di quell’episodio Babbo una volta ristabilitosi dall’infortunio partì per la Germania in
cerca di lavoro. Ma i ricordi più nitidi e nostalgici sono quelli che mi tornano in mente quando
penso alla casa di Via Manzoni al n° 7 dove ci eravamo trasferiti quando avevo compiuto cinque
anni e dove abbiamo abitato fino al giorno della nostra partenza per Genova.
Di quel periodo ho tantissimi ricordi che hanno coinvolto non solo me e altri membri della nostra
famiglia ma anche nostri vicini di casa e tanti altri ancora che spero non si offendano se un giorno
troveranno il loro nome o paranummene tra le righe di questi scritti.
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Il viaggio
(seconda puntata)
Raffaele Rossetti
Quella verso le Lofoten fu una traversata di quelle che si ricordano. Lasciato il porto di Bodo, in
Norvegia, il vento rinfrescò quasi subito, e la fastidiosa acquerugiola che mi accompagnava dal
pomeriggio lasciò il posto ad un groppo che confondeva il cielo con il mare in un caos di
schiuma.
L’onda lunga di prua rendeva la nave simile ad un cavallo a dondolo, strapazzato da un bimbo
capriccioso. I pochi viaggiatori, per lo più camionisti e locali, sedevano ai tavoli davanti a fumanti
tazze di caffè a discutere, chi rideva rumorosamente, chi dormiva, del tutto incuranti del pessimo
umore di Nettuno, là fuori … Io pensavo alla mia Land Rover, nella pancia della nave, assicurata
al ponte con delle cime, proprio tra due giganteschi Scania, che avrebbero potuto ridurla in
polpette.
Ma anche Nettuno smaltì la sua ira e nodo dopo nodo, la costa fece la sua comparsa e con essa
anche un pallido sole.
Sbarcai a Moskenes e mi diressi a nord, in un paesaggio da sogno, piccoli villaggi di pescatori, con
le loro caratteristiche casette rosse si specchiavano in un acqua di smeraldo, il grande nord ha il
potere di ubriacarti di emozioni, le priorità cambiano, il senso del tempo assume una diversa
rilevanza. I profumi ti inebriano ... Inizi a pensare che tanta bellezza non può essere nata per
caso, d’improvviso ti ritrovi più vicino a Dio di quando sei partito.
Quella notte faticai ad addormentarmi. Era la prima in assoluto che trascorrevo fuori dai
rassicuranti confini di un campeggio. Rassettate le poche stoviglie della cena, indugiai a lungo
fumando le mie inseparabili Petteroe’s micidiali sigarette nazionali norvegesi. Finchè il vento
freddo che scendeva dalla gola a nord, non mi convinse ad aprire la tenda.
Ero solo naturalmente, è sempre stato così nella maggior parte dei miei viaggi. Chiusi
velocemente la zip della tenda, come se quel sottile strato di tela potesse tener fuori i miei
fantasmi immaginari. Non so quante volte mi svegliai, qualsiasi rumore della natura veniva
amplificato dalla mia mente. Ad un certo punto mi parve di sentire distintamente dei passi
sull’erba gelata dalla brina. Alle prime luci dell’alba, rassegnato, uscii dalla tenda e mi preparai
un tè bollente, per rianimarmi dal freddo pungente e iniziai a ridere di me stesso, per la notte
appena trascorsa, in bianco. Posai la tazza sul tavolino e notai un pugno di bacche, i cosiddetti
Lamponi artici. Beh. Pensate quello che volete ma io non li avevo raccolti la sera prima. Fu la
prima di una lunga serie, non ancora esaurita, di notti trascorse nel bel mezzo del nulla.
I fantasmi piano piano si allontanarono. Ma non del tutto ...
Chi può dire con sicurezza che i folletti non esistono?
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Notti di Genova
Cristiano De Andrè
La strada è piena di chiari di luna
e le tue mani vele per il mare
in questa notte che ne vale la pena
l'ansimare delle ciminiere
Genova era una ragazza bruna
collezionista di stupore e noia
Genova apriva le sue labbra scure
al soffio caldo della macaia
e adesso se ti penso io muoio un po’
se penso a te che non ti arrendi
ragazza silenziosa dagli occhi duri
amica che mi perdi
adesso abbiamo fatto tardi
adesso forse è troppo tardi
Voci di un cielo freddo già lontano
le vele sanno di un addio taciuto
con una mano ti spiego la strada
con l'altra poi ti chiedo aiuto
Genova adesso ha chiuso in un bicchiere
le voci stanche le voci straniere
Genova hai chiuso tra le gelosie
le tue ultime fantasie
E adesso se ti penso io muoio un po’
se penso a te un pò mi arrendo
alle voci disfatte dei quartieri indolenti
alle ragazze dai lunghi fianchi
e a te che un po' mi manchi
ed è la vita intera che grida dentro
o forse il fumo di Caricamento
c'erano bocche per bere tutto
per poi sputare tutto al cielo
erano notti alla deriva
notti di Genova che non ricordo e non ci credo
Genova rossa, rosa ventilata
di gerani ti facevi strada
Genova di arenaria e pietra
anima naufragata
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Ti vedrò affondare in un mare nero
proprio dove va a finire l'occidente
ti vedrò rinascere incolore
e chiederai ancora amore
senza sapere quello che dai
perché è la vita intera che grida dentro
o forse il fumo di Caricamento
c'erano bocche per bere tutto
per poi sputare tutto al cielo
erano notti alla deriva
notti di Genova che regala
donne di madreperla
con la ruggine sulla voce
e ognuna porta in spalla la sua croce
tra le stelle a cielo aperto
mentre dentro ci passa il tempo
proprio adesso che ti respiro
adesso che mi sorprendi così
che se ti penso muoio un po’
che se ti penso muoio un po’
che se ti penso muoio un po'
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La storia di Genova spiegata a un passante alla fermata dell’autobus
Giovanni Giaccone
Capire i genovesi è dura. Anche dire “genovesi” è arduo.
Genova esiste da quando è nata Roma, dal 700 a. C., loro arroccati sul Castello scendevano verso il
molo e sulla spiaggia per lavorare, aggiustare le reti per la pesca e scaricare e caricare le merci che
arrivavano da posti lontani. Erano fenici quelli che arrivavano, etruschi e greci e alcuni si
fermavano la notte, fuori dal Castello con qualche donna, per poi ripartire.
Erano grandi i bambini di quelli lì quando arrivarono i romani che ai “genuati” piacquero più che
agli altri liguri. Militari, ordinati e pagavano. Avevano bisogno dell’approdo e con loro portavano
merci mai viste prese chissà dove. Genova si andava popolando e loro la disegnarono come
sapevano fare soltanto loro, dei maestri.
La città vecchia è ancora sulle direttrici che hanno tracciato i romani, linee rette e perpendicolari,
precise. Quando venne Magone, il cartaginese, gli uomini furono uccisi e tutte le donne
stuprate e i figli che nacquero erano mezzi africani.
E nella Genova che venne ricostruita vissero anche loro.
Fai presto a dire “genovesi”.
E poi andarono via i romani che Genova era un centro importante e per un po’ di tempo, diversi
secoli, era più facile morire che vivere. Tutti venivano a Genova a trovare riparo dalle invasioni di
popoli lontani e feroci e vennero anche i milanesi e la cosa non piacque molto.
E fai presto a dire genovesi.
Genova non aveva una piazza centrale, mai avuta. Era divisa per famiglie. Piccole corti
intorno ai palazzi stop. In eterna guerra fra loro. Stop.
Carlo Magno pretese che erigessero delle mura per difendersi e lo fecero ma mica tanto volentieri.
Un giorno una fontana cominciò a sputare sangue e la cosa non diceva niente di buono. Arrivarono i
saraceni e misero a ferro e fuoco la città. Uccisero gli uomini e stuprarono le donne. Tutti i bambini
che nacquero dopo nove mesi erano mezzi africani.
Fai presto a dire genovesi.
La città venne ricostruita più bella e ricca di prima e i traffici cominciarono a rifiorire, tutta l’Europa
guardava verso Genova dove una moltitudine di uomini armati partiva per andare a liberare
Gerusalemme. E divenne bellissima, ricca di palazzi e tesori, costellata di torri da cui i
genovesi si tiravano tra di loro qualsiasi cosa, frecce, lance, pietre, pitali e merda.
I genovesi hanno sempre avuto un brutto carattere.
Lo diceva anche Dante Alighieri.
Branca Doria era talmente feroce che il sommo poeta lo mette all’inferno che è ancora vivo.
Quando l’imperatore manifesta l’intenzione di venire a Genova la cosa puzza di bruciato. A fare
cosa?
Fu così che i genovesi, tutti uniti, costruiscono una mirabile muraglia in una decina di giorni. Che il
Barbarossa lo deve ancora spiegare cosa ci veniva a fare a Genova e comunque quella volta le
ricchezze rimasero ben al sicuro dietro le mura ma di piazze neanche a parlarne. Anzi con la
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polvere da sparo dalle torri si sparavano, i genovesi. E così fu deciso di abbatterle le torri, tranne
quella dell’Embriaco perché lui, proprio lui l’aveva liberata Gerusalemme, sul serio.
Altro che musse. Come dicevano e si dice ancora adesso.
Intanto Cristoforo Colombo, che era genovese, scoprì l’America ma siccome aveva due debiti,
preferiva attraversare l’Atlantico a nuoto che farselo menare dai genovesi a casa sua. Nessuno è
profeta in patria lo disse Gesù Cristo che poi non era neanche di Portoria che sarebbe stato ancora
più difficile.
Ai crucchi le piaceva ‘sta città, clima dolce, donne quante ne volevano (almeno allora) e forzieri
pieni d’oro. Il carattere degli abitanti era un po’ così ma anche loro non erano la simpatia a prima
vista. Trecento anni dopo, armati e in forze occuparono la città e le donne furono tutte le loro.
E i bambini che nacquero nove mesi dopo erano mezzi austriaci e mezzi genovesi ma non fecero in
tempo a vedere il loro papà perché nel frattempo uno un po’ più grande di loro, lo chiamavano
“balilla” non gli andò di aiutare i crucchi a spostare un cannone e scatenò un macello. E i crucchi
furono costretti a portare via gli stracci.
Hanno proprio un carattere difficile i genovesi, lo dicevano anche gli austriaci mentre
scappavano.
E poi vennero i francesi e di nuovo gli austriaci e si morì di fame per strada e poi cadde un re e se ne
fece un altro e un giorno, niente, esce fuori che i genovesi erano sotto quei mezzi austriaci dei
Savoia che quante volte gliele avevano suonate a Zuccarello ma niente. I Serenissimi non lo erano
più tanto e soprattutto non lo sarebbero mai più stati.
C’era da fare l’Italia e i genovesi avevano delle idee. Sempre meglio dei Savoia. Un tipo con
una bella parlantina passava svelto da via Lomellini dove abitava ai caffè di via Aurea dove si
parlava di politica e dell’Italia.
Beppe, Mazzini Beppe aveva grandi idee, lo chiamano ancora oggi padre della patria, erano
talmente toste quelle idee che quando lo vedevano i Savoia lo mettevano dentro senza passare dal
via.
Grandi idee.
Geniali.
Muore in esilio che gli avrebbero tirato volentieri una schioppettata se lo avessero visto Beppe, i
Savoia.
Mai compresi i genovesi.
Poi Garibaldi che però era di Nizza partì dallo scoglio di Quarto e in quattro e quattro otto arriva
quasi sino a Roma a cannonate che lui ce l’aveva a morte con il Papa ma lo fermano prima e lo
mandano in pensione. Almeno lui.
A Genova mandano giù il rospo dei Savoia e De Ferrari caccia tanto di quel grano per fare il porto
che finalmente i genovesi la fanno la piazza e la dedicano a lui.
I genovesi sanno essere generosi quando vogliono.
Con parsimonia come conviene.
E poi ci sono le guerre e di nuovo i crucchi che gli tocca andare via a calci nel culo anche stavolta che
i genovesi non hanno bisogno degli americani per farlo, anzi glielo potrebbero spiegare loro agli
yankee.
Sembra che i crucchi dicessero che i genovesi avevano proprio un brutto carattere mentre si
arrendevano a De Ferrari.
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E poi ci siamo noi che arriviamo dai fenici, dai romani, dagli africani, dai francesi, dai crucchi
ma che però abbiamo conservato il bene più prezioso.
Il nostro brutto carattere.
W Genova. W la Repubblica (di Genova)
Ringraziamo l’Autore per averci permesso la pubblicazione di questo articolo.
L’originale è sul suo sito www.giovannigiaccone.it
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