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U Bricchettu 24

U BRICCHETTU Ognuno di noi è una Luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro Mark Twain Letteratura locale a irresponsabilità limitata (a cura di Luca Mattei, Sergio Pedemonte, Enrico Righi, Alberto Rivara, Raffaele Rossetti e Marisa Sciutti) Numero 24 – Novembre 2015 Approfitto delle pagine del nostro U Bricchettu per salutare e ringraziare ancora una volta tutti i soci vecchi e nuovi del Centro Culturale. Grazie per la fiducia che mi avete dimostrato. Sono certo che, grazie all'impegno, alla passione e all'entusiasmo che ci accomuna non sarà disattesa. Grazie a chi mi ha proposto, a chi per tanti anni è stato motore ed anima del Centro, guidando con impegno, competenza e passione e da cui io, in tutta franchezza, ho soltanto da imparare. Grazie a Enrico, Luca, Marisa, Maria, Alberto, Paolo, Sergio ... La loro amicizia, la loro passione, il loro impegno sarà determinante nel realizzare il programma e gli obiettivi prefissati per il 2016. Diverse manifestazioni ed eventi sono infatti in via di definizione. Alcuni sono già pronti e vi attendono nei primi mesi dell'anno. Serate di beneficenza, conferenze, visite ai Musei e presentazioni editoriali, oltre a serate interculturali. Questi eventi oltre al classico fine culturale e di aggregazione avranno anche lo scopo di promuovere e valorizzare il nostro territorio e le sue importanti realtà. Concludo porgendo a tutti voi e alle vostre famiglie i miei più cari e sinceri Auguri di Buon Natale e sereno 2016 Il Presidente Raffaele Rossetti 2 Riproponiamo Ogni volta che ci accingiamo a scegliere i componimenti per questo foglio che sembra sopravvivere al di là di ogni aspettativa, ebbene, ogni volta ci chiediamo se davvero non esistano cinquanta milioni di autori in Italia. Perlomeno qui da noi ce ne sono tanti e ci fa piacere scoprirli lentamente, ma costantemente, e, ogni volta cominciare a parlare con loro del perché e del percome si scrive. Il Bricchettu è poi un punto finale: il bello è veder arrivare fogli gualciti alle dipendenze di un timido, o di un giovanissimo, che poi si rivelano oltremodo interessanti dal punto di vista letterario. Scusateci se non possiamo, ogni volta, farvi partecipare che ad una piccola parte dello spettacolo1. 1 Da U Bricchettu, n. 5 del 1997. 3 Da poveri cristi a disagiati Sergio Pedemonte “Da poveri cristi a disagiati”: in poche parole questa è la storia di chi viveva a Serrè, Griffoglieto, Borgo, Pinceto o addirittura alla Cascina I Piani, negli anni ’50. Poveri cristi perché sentivano maggiormente che nei decenni precedenti la differenza tra il fondovalle e dove vivevano. Man mano iniziarono a scendere e a trovare occupazione nelle fabbriche, ma il ricordo dell’amara campagna permaneva e molti divennero dei disagiati. Le strade verso le frazioni erano state fatte per scappare più velocemente, ma fortunatamente servivano anche per arrivarci il sabato o la domenica. Con il passare degli anni necessitavano di manutenzione le case che ormai avevano come proprietari figli, nipoti e affini: un intrigo da dover richiedere avvocati per le eredità. Così molti cominciarono a vendere ai cittadini che ne fecero la casa per l’estate, ma dove l’auto non poteva giungere le abitazioni dei nonni crollarono, come a Cascissa, e il silenzio scese e continua anche adesso. Gli altri borghi rivivono e le famiglie non hanno più i cognomi tipici come i Bertuccio a Montessoro, i Molinari a Villa, i Cornero a Prarolo, i Seghezzo alle Cascine, per non parlare dei Rolla a Isola che sono ormai scomparsi. E’ meglio o è peggio? Le fatiche sono certamente minori e l’età media è aumentata, ma ci sono anche problemi: uno di questi è l’equilibrio idrogeologico, la quasi scomparsa del dialetto tra i giovani, la perdita di mestieri e delle tradizioni. Come tutti, anch’io faccio l’esempio delle veglie nelle stalle dove si trasmettevano proprio le antiche attività, la memoria collettiva, i vocaboli, i toponimi, le favole, insomma il patrimonio culturale che oggi è sostituito da ben altro. Non bisogna indulgere solo sugli aspetti positivi di quelle esistenze, ma analizzarne anche le parti negative e chiedersi se si possono mitigare quest’ultime dando rilancio a un’economia ancora di sussistenza, ma che arricchisca chi ha la voglia di riprenderla. Non si pensi di riuscire a introdurre la meccanizzazione della Pianura Padana, né i raccolti immediati o la filiera corta che ricompensa il lavoro fatto. Occorrono mezzi che solo le Regioni possono fornire, per disboscare, ripristinare strade, rifare i muri a secco, innestare le vecchie varietà di frutta e, non ultimo, avere una casa con elettricità, fogne, acqua ed elettrodomestici, perché ritornare alla campagna non deve significare essere tagliati fuori dal mondo. Con la crisi del sistema economico liberista e comunista, con la dipendenza dell’energia dai Paesi confinanti e no, l’Italia dovrà trovare una via di sviluppo a cavallo tra quella che rimpiangiamo e quella odierna. Loro, magari con il telefonino, torneranno. 4 U segnu di Franca Oberti Avevo già trent’anni quando un’anziana del paese di mio padre, nella Val Vobbia, mi disse: “Ti saveivi che toe nonna a segnava e storte?”. Nemmeno sapevo cosa stesse dicendo. Ero cresciuta con una mamma atea, con un padre dedicato all’attività commerciale aperta anche di domenica. Andavo a scuola dalle suore e tutto ciò che non era il rituale del Sacerdote era definito opera del diavolo. Pochi giorni dopo presi una storta – credo ci sia un tempo per ogni cosa –. Era estate, stavo al paesello coi bambini piccoli, una mia parente mi disse di andare “dalla Maria, che segna le storte”; la Maria era la donna che mi aveva detto quella strana frase. In quel frangente, la medicina ufficiale era irraggiungibile: lontano l’ospedale, lontano il medico, i bambini da accudire… Andai dalla Maria; mi fece sedere e mettere il piede su uno sgabellino basso. Andò nella dispensa e tornò con un pezzetto di sugna di maiale; mi girò le spalle e prese una tazzina di acqua fredda. La sentii mugugnare qualcosa sottovoce, poi si girò e cominciò a spalmare la sugna sulla mia caviglia dolorante. Era un lavoro lento e sistematico, ogni tanto con la sugna praticava un segno di croce, la sentivo mormorare qualche parola, forse preghiera. Poi mi fasciò con una fettuccia bianca nuova, incrociandola più volte, e mi disse: “Torna domani e dopodomani; dobbiamo farlo tre volte”. Il terzo giorno era sparito il gonfiore, la caviglia non mi faceva più male e la mia curiosità era alle stelle. Cominciai a desiderare di saperne di più, così andai a trovarla e le chiesi ragguagli su quanto mi aveva detto di mia nonna. Le donne di campagna di una volta sono state un dono che nessuno ha capito veramente. C’era una sorellanza tra loro che oggi è rarissima; forse si sta ricostruendo quel tessuto sociale perduto, ma occorre spogliarsi di tante, troppe cose, e la nostra società è implacabile. Mi raccontò che mia nonna segnava le storte e poco prima di morire – è ancora oscuro per me questo antico sapere, ma spero di arrivarci per tempo – le aveva detto che voleva passarle il segno. Mia nonna morì all’improvviso, quando io avevo nove mesi, non avrebbe fatto in tempo a passarlo a me. Mi chiedo spesso quale fantastica intuizione abbia avuto, ma non so se e quando avrò la risposta. La Maria divenne così la tenutaria di un passaggio di famiglia; mi raccontò che la bisnonna era la levatrice e segnava anche lei le storte. Senza ammantarmi d’orgoglio, anzi, sentendomi investita di una grande responsabilità, ringrazia la Maria di aver mantenuto il segno e le chiesi se mi riteneva degna di questo passaggio. Con la sua voce flebile e un sorriso un po’ sdentato, mi disse: “Vedremo, vedremo…”. Passarono alcuni anni, quasi mi stavo dimenticando del dono; un’estate la Maria mi chiamò e mi fece andare a casa sua. Molto seria mi disse: “Ti passo il segno”. Per rispetto ai miei antenati, non posso raccontare nulla di quel rituale, se non a chi lo avrà dopo di me, ma fu un’esperienza, la prima di una lunga serie, che mi cambiò completamente. La Maria era una donna molto religiosa; credente, praticante, onesta e trasparente. Pochi mesi dopo morì, un caso? Tuttora segno le storte, anche se pochi ormai ci credono, e questo dono si è arricchito di altri 5 doni che, nella mia trasformazione, sono arrivati. Non mi ammanto di orgoglio, anzi, mi sento, come diceva una grande donna, una matita nelle mani di Dio. L’umiltà è una porta stretta, la fede è una porta bassa, a volte penso alla porticina della porziuncola e capisco San Francesco. Senza pretendere di raggiungere tali livelli, provo a vivere con il suo insegnamento, nelle attuali condizioni del nostro quotidiano. Nessuna pretesa di diventare Santa, anzi, sono molto legata alla mia umanità, mi lascio andare a piccoli peccati di gola, piccoli egoismi, mi accorgo di tante mie mancanze, ma tengo molto ai valori più importanti della vita che per me ruotano tutti attorno alla famiglia e alla comunità in cui si vive. Disegno di Giorgio Cinacchio, 2014. Da anni Giorgio ritrae Isola e gli Isolesi. La sua tecnica, particolarmente espressiva, restituisce immagini della realtà attraverso un filtro sentimentale. Paesaggi e volti ci appaiono così più vivi di come li conosciamo 6 Viaggio sullo specchio d’acqua Simona Gadaleta Nel pomeriggio t’incammini e il sole ti dà una grande pacca sulle spalle T’incammini con tanta altra gente attaccata come tante calamite Salpi su una nave che non sai dove ti porterà Vedi la schiuma prodotta dal suo passaggio lungo la via Finalmente il vento ti fa un rapido cenno di saluto dandoti un po’ di respiro Poi vedi un aereo che sfreccia sopra le mille teste che guardano il blu di sopra e il blu di sotto E vedi intorno a te molte case e molte persone dalle loro finestre vedono solo un ombra Che galleggia sopra un grande specchio azzurro Poi finalmente arrivi alla tua destinazione in tempo per vedere il sole tramontare sull’acqua 7 Ichnusa Racconti de Su Lumedu (Racconti di Olmedo) Olmedo, novembre 1968, dagli altoparlanti a tromba “della gloriosa marca Geloso” installati sul tetto di un edificio a tre piani di Via Sassari, la moglie di Adolfo il calzolaio, Maria Fiore, legge scandendo accuratamente le parole, un annuncio di vendita. L’annuncio, o come si diceva allora in sardo su bandhu, era stato commissionato da mio padre Ferdinando per mettere in vendita la sua moto Torpado 48cc e la bicicletta di mio fratello maggiore Giuseppe. Non era una vendita per necessità economica ma per necessità di svendita o come si dice a Genova nei periodi di saldi de desbarassu cioè svendita a prezzo stracciato. In effetti, la moto e la bicicletta avevano un valore sicuramente superiore alle 20 mila Lire richieste ma la necessità di disfarsene unita all’urgenza e alla fretta di partire, imponeva un prezzo appetibile; era un affare per chi avrebbe comprato. La moto Torpado era appena stata revisionata nel motore con intervento di rettifica del cilindro e sostituzione del pistone e delle fasce elastiche. La bicicletta invece era una mezza corsa, come si diceva allora, non dotata di cambio di velocità ma ben tenuta gommata e con cerchioni 28” e manubrio in acciaio lucidi da sembrare cromati. Ma come dicevo, Ferdinando, mio padre, aveva la necessità di dare via a prezzo minimo tutto quello che non poteva portare con se e così decise e fece perché da lì a qualche giorno noi, tutta la nostra famiglia si sarebbe trasferita a Genova. C’erano ad Olmedo in quel periodo, due calzolai e uno di questi, Adolfo, che oltre a essere un abilissimo artigiano, famoso per le sue realizzazioni delle Bottas Russas (scarponi da lavoro in cuoio spesso) che costruiva interamente partendo dalla misura del piede del cliente, aveva l’appalto dell’impianto di diffusione sonora utilizzato in paese per comunicare ogni notizia ritenuta utile a tutta la popolazione di Olmedo. È probabile che l’impianto sia stato installato prima dell’ultima guerra sicuramente per poter informare rapidamente e in modo capillare la popolazione. E vi posso garantire che funzionava; si sentiva da ogni angolo del paese. Negli anni 50 - 60 il sistema ad altoparlanti era ancora utilizzato per annunciare nelle prime ore del mattino, attraverso la lettura di un elenco apposito, tutto quello che si poteva trovare nel mercato. In genere, le parole finali del bando erano tottu barattu a su malcadu. Cioè, tutto a buon prezzo nel mercato. C’erano poi avvisi di sospensione del servizio acqua potabile oppure avvisi di vendita. Nei giorni di festa invece, il sistema “Geloso” diffondeva musica e brani molto ascoltati nei canali radio di allora. Le canzoni di Morandi, Celentano e Rita Pavone erano le più trasmesse ma quella che più ricordo è Speedy Gonzales, cantata non so più da chi, che aveva il potere di entrarmi in testa e per giorni a seguire non riuscivo a canticchiare nient’altro che quello stupido motivo. Ma torniamo a quel lontano giorno di novembre 1968 e a quell’avviso di vendita, sparato dalle trombe Geloso. Il senso vero dell’annuncio era questo: “Si avvisa la popolazione che la famiglia di 8 Ferdinando Piras vi saluta e lascia per sempre Olmedo … chi è interessato all’acquisto di una moto e una bicicletta in ottime condizioni … eccetera eccetera ... e cosa gai e via dicendo. Di lì a qualche giorno infatti, una volta organizzato il trasloco, saremmo partiti per Genova assieme alla famiglia di mio padrino di battesimo, Antoni e Senes. Durante il viaggio in pullman per raggiungere Porto Torres dove ci attendeva la nave che ci avrebbe portati a Genova, cominciai in parte a realizzare ciò che stavamo vivendo e sentire la nostalgia sotto forma di piccoli crampi allo stomaco, ma presi come eravamo da quella marea di novità che assorbiva tutti i nostri pensieri non davamo peso ai dettagli. Non ci rendevamo del tutto conto del cambiamento a cui andavamo incontro, pur sapendo che per noi, per tutti noi, Babbo, Mamma, i miei fratelli Giuseppe, Maria, Giovanni, Luigi, Tore, ed io Renato, non ci sarebbe più stato Olmedo e la casa di Via Manzoni n° 7 dove abitavamo, la strada falada de su trogliu (la strada del lavatoio), sa falada de Lucio (Via Alghero), le campagne su muntiju nostro campo di gioco, sa jaga la vecchia cancellata in legno che divideva la zona Muntiju dalla zona su Padru, zona da pascolo per greggi, sa caivonera dove andavamo per legna, su muntiju biancu dove c’erano arbusti di raro mirto bianco, e poi la Chiesa nuova del paese con la nostra Madonnina Talia e il parroco di allora Don Murgia, e ancora la piazza Sa Punta e i suoi bar di Giongavinu, Murone, S’Istangu (bar e tabacchino), sa Gelateria e so Cumbattentes, le botteghe di Tia Busciana, Marialene, Gesuina Cambone, Tidore, e le nostre scuole con tutti i nostri compagni e tanta gente alcuni dei quali non avremmo più rivisto. Tutto quello che era per noi Olmedo, Olmedo di allora come era e come lo ricordiamo ancora, finiva, finiva per sempre quella sera quando la nave Arborea della compagnia Tirrenia si staccò dalla banchina di attracco e lentamente ci fece attraversare il tratto di Mare tra Porto Torres e Genova. Genova ci accolse offendendoci con un vento gelido che ci procurava dolore alle orecchie mentre l’acqua nera del porto faceva puzzare l’aria di rinfrescumm-e e di pesce. Per noi non fu tutto facile ma avevamo la prospettiva del lavoro sicuro e della tranquillità economica che la nostra terra non ci aveva mai saputo dare e questo bastava per superare le avversità sapendo che la scelta fatta dai nostri genitori ci avrebbe garantito un avvenire dignitoso. A Genova andammo ad abitare in un grande appartamento a Cornigliano in Via Ansaldo a poche centinaia di metri dall’Italsider. Condividevamo l’appartamento con la famiglia Senes di Foricca e Antoni che come noi avevano lasciato Olmedo per gli stessi nostri motivi. Loro erano meno numerosi di noi e occupavano tre camere e una cucina mentre noi avevamo a disposizione le altre quattro camere più una cucina. La convivenza durò poco fino a che Tia Foricca e il marito Antonio trovarono una sistemazione autonoma nei pressi di Campi di Cornigliano dove si trasferirono con tutta la loro famiglia. Capitava spesso, complice la nostalgia, di ricordare in famiglia fatti e aneddoti dei tempi passati a Olmedo. Quando eravamo in vena di ricordi c’era solo da scegliere a quale racconto dare la precedenza perché come un fiume in piena riaffioravano cose passate che sembravano dimenticate per sempre. Erano le giornate de attil’ammentas cussa olta … ti ricordi quella volta che … e partiva come un film il racconto di uno di noi che ricordava più di altri un episodio particolare di vita vissuta a Olmedo e per tutti gli altri che stavano a sentire era come viaggiare nel tempo. 9 Di Olmedo ho ricordi che risalgono ai miei primi anni di vita quando mio fratello Luigi non era ancora nato ed io ero il più piccolo della famiglia. Abitavamo allora in Via Brigata Sassari. Era una via di case basse che dai pressi della Chiesa Nuova andava a intersecare la famosa falada de su furru (per noi le strade avevano nomi diversi da quelli ufficiali a seconda delle situazioni). La strada dove c’era la panetteria, per noi era sa falada de su furru. In Via Brigata Sassari, dove allora abitavamo, se non sbaglio Tia Busciana aveva il suo antico negozio di alimentari mentre di fronte a noi abitava Tia Ciccia Salaris e più avanti Tia Jara e Serra, Tia Pizzenta e Tia Maria Ittoria. Questi nomi e tanti altri come Baroeddu, Capporale, Cadena, erano ricorrenti nei nostri attil’ammentas di Olmedo. Di quel periodo vissuto in Via Brigata Sassari ricordo qualche episodio, uno dei quali è il seguente. Una mattina, era ancora l’alba ma io ero già sveglio, Babbo, prima di inforcare la sua bicicletta e partire per il lavoro, mi fece fare qualche metro seduto sul sedile. L’equilibrio non è stato mai il mio forte, già da allora avevo difficoltà e paura di cadere e in preda ad essa mi aggrappai alla sacca tascapane di Babbo dove aveva il pentolino pieno di sugo rosso e bombette cotte, rovesciando parte del contenuto nella sacca. Babbo e Mamma la presero a ridere e poi con attenzione cercarono di recuperare quanto era possibile del sugo versato, e via … al lavoro. Come erano diversi i genitori di allora, immaginate la lite che avrebbe scatenato un simile episodio oggi. Ma allora le coppie pur lottando quotidianamente vivevano con rassegnazione e calma senza mai cercare motivi di scontro se non era necessario o i motivi erano di poco conto e avevano una pazienza infinita con i propri figli. Ho un altro ricordo del periodo vissuto in Via Brigata Sassari; una mattina bussò alla porta di casa un uomo anziano (Tiu Gion Matteu) che camminava reggendosi a un bastone su acchiddhu e parlò a mamma di non so cosa . Mamma subito dopo si disperò e pianse stringendo a se me e Giovanni mentre continuava a ripetere fizzo mios! fizzo mios! (figli miei). L’uomo aveva comunicato a mamma di un incidente sul lavoro nel corso del quale babbo aveva riportato la frattura di un braccio. A quei tempi non c’erano le tutele sul lavoro e chi aveva problemi di salute o di infortunio veniva licenziato. Babbo, a causa di quell’incidente, rimase senza lavoro per tanti mesi con quattro figli e moglie da mantenere. Mi chiedo ancora adesso come abbiano potuto far fronte a quella situazione, ma ricordo la calma e la rassegnazione che Mamma prima di tutto e Babbo, avevano nell’accettare le disgrazie, disgrascia, senza che la cosa pesasse su di noi figli . A seguito di quell’episodio Babbo una volta ristabilitosi dall’infortunio partì per la Germania in cerca di lavoro. Ma i ricordi più nitidi e nostalgici sono quelli che mi tornano in mente quando penso alla casa di Via Manzoni al n° 7 dove ci eravamo trasferiti quando avevo compiuto cinque anni e dove abbiamo abitato fino al giorno della nostra partenza per Genova. Di quel periodo ho tantissimi ricordi che hanno coinvolto non solo me e altri membri della nostra famiglia ma anche nostri vicini di casa e tanti altri ancora che spero non si offendano se un giorno troveranno il loro nome o paranummene tra le righe di questi scritti. 10 Il viaggio (seconda puntata) Raffaele Rossetti Quella verso le Lofoten fu una traversata di quelle che si ricordano. Lasciato il porto di Bodo, in Norvegia, il vento rinfrescò quasi subito, e la fastidiosa acquerugiola che mi accompagnava dal pomeriggio lasciò il posto ad un groppo che confondeva il cielo con il mare in un caos di schiuma. L’onda lunga di prua rendeva la nave simile ad un cavallo a dondolo, strapazzato da un bimbo capriccioso. I pochi viaggiatori, per lo più camionisti e locali, sedevano ai tavoli davanti a fumanti tazze di caffè a discutere, chi rideva rumorosamente, chi dormiva, del tutto incuranti del pessimo umore di Nettuno, là fuori … Io pensavo alla mia Land Rover, nella pancia della nave, assicurata al ponte con delle cime, proprio tra due giganteschi Scania, che avrebbero potuto ridurla in polpette. Ma anche Nettuno smaltì la sua ira e nodo dopo nodo, la costa fece la sua comparsa e con essa anche un pallido sole. Sbarcai a Moskenes e mi diressi a nord, in un paesaggio da sogno, piccoli villaggi di pescatori, con le loro caratteristiche casette rosse si specchiavano in un acqua di smeraldo, il grande nord ha il potere di ubriacarti di emozioni, le priorità cambiano, il senso del tempo assume una diversa rilevanza. I profumi ti inebriano ... Inizi a pensare che tanta bellezza non può essere nata per caso, d’improvviso ti ritrovi più vicino a Dio di quando sei partito. Quella notte faticai ad addormentarmi. Era la prima in assoluto che trascorrevo fuori dai rassicuranti confini di un campeggio. Rassettate le poche stoviglie della cena, indugiai a lungo fumando le mie inseparabili Petteroe’s micidiali sigarette nazionali norvegesi. Finchè il vento freddo che scendeva dalla gola a nord, non mi convinse ad aprire la tenda. Ero solo naturalmente, è sempre stato così nella maggior parte dei miei viaggi. Chiusi velocemente la zip della tenda, come se quel sottile strato di tela potesse tener fuori i miei fantasmi immaginari. Non so quante volte mi svegliai, qualsiasi rumore della natura veniva amplificato dalla mia mente. Ad un certo punto mi parve di sentire distintamente dei passi sull’erba gelata dalla brina. Alle prime luci dell’alba, rassegnato, uscii dalla tenda e mi preparai un tè bollente, per rianimarmi dal freddo pungente e iniziai a ridere di me stesso, per la notte appena trascorsa, in bianco. Posai la tazza sul tavolino e notai un pugno di bacche, i cosiddetti Lamponi artici. Beh. Pensate quello che volete ma io non li avevo raccolti la sera prima. Fu la prima di una lunga serie, non ancora esaurita, di notti trascorse nel bel mezzo del nulla. I fantasmi piano piano si allontanarono. Ma non del tutto ... Chi può dire con sicurezza che i folletti non esistono? 11 Notti di Genova Cristiano De Andrè La strada è piena di chiari di luna e le tue mani vele per il mare in questa notte che ne vale la pena l'ansimare delle ciminiere Genova era una ragazza bruna collezionista di stupore e noia Genova apriva le sue labbra scure al soffio caldo della macaia e adesso se ti penso io muoio un po’ se penso a te che non ti arrendi ragazza silenziosa dagli occhi duri amica che mi perdi adesso abbiamo fatto tardi adesso forse è troppo tardi Voci di un cielo freddo già lontano le vele sanno di un addio taciuto con una mano ti spiego la strada con l'altra poi ti chiedo aiuto Genova adesso ha chiuso in un bicchiere le voci stanche le voci straniere Genova hai chiuso tra le gelosie le tue ultime fantasie E adesso se ti penso io muoio un po’ se penso a te un pò mi arrendo alle voci disfatte dei quartieri indolenti alle ragazze dai lunghi fianchi e a te che un po' mi manchi ed è la vita intera che grida dentro o forse il fumo di Caricamento c'erano bocche per bere tutto per poi sputare tutto al cielo erano notti alla deriva notti di Genova che non ricordo e non ci credo Genova rossa, rosa ventilata di gerani ti facevi strada Genova di arenaria e pietra anima naufragata 12 Ti vedrò affondare in un mare nero proprio dove va a finire l'occidente ti vedrò rinascere incolore e chiederai ancora amore senza sapere quello che dai perché è la vita intera che grida dentro o forse il fumo di Caricamento c'erano bocche per bere tutto per poi sputare tutto al cielo erano notti alla deriva notti di Genova che regala donne di madreperla con la ruggine sulla voce e ognuna porta in spalla la sua croce tra le stelle a cielo aperto mentre dentro ci passa il tempo proprio adesso che ti respiro adesso che mi sorprendi così che se ti penso muoio un po’ che se ti penso muoio un po’ che se ti penso muoio un po' 13 La storia di Genova spiegata a un passante alla fermata dell’autobus Giovanni Giaccone Capire i genovesi è dura. Anche dire “genovesi” è arduo. Genova esiste da quando è nata Roma, dal 700 a. C., loro arroccati sul Castello scendevano verso il molo e sulla spiaggia per lavorare, aggiustare le reti per la pesca e scaricare e caricare le merci che arrivavano da posti lontani. Erano fenici quelli che arrivavano, etruschi e greci e alcuni si fermavano la notte, fuori dal Castello con qualche donna, per poi ripartire. Erano grandi i bambini di quelli lì quando arrivarono i romani che ai “genuati” piacquero più che agli altri liguri. Militari, ordinati e pagavano. Avevano bisogno dell’approdo e con loro portavano merci mai viste prese chissà dove. Genova si andava popolando e loro la disegnarono come sapevano fare soltanto loro, dei maestri. La città vecchia è ancora sulle direttrici che hanno tracciato i romani, linee rette e perpendicolari, precise. Quando venne Magone, il cartaginese, gli uomini furono uccisi e tutte le donne stuprate e i figli che nacquero erano mezzi africani. E nella Genova che venne ricostruita vissero anche loro. Fai presto a dire “genovesi”. E poi andarono via i romani che Genova era un centro importante e per un po’ di tempo, diversi secoli, era più facile morire che vivere. Tutti venivano a Genova a trovare riparo dalle invasioni di popoli lontani e feroci e vennero anche i milanesi e la cosa non piacque molto. E fai presto a dire genovesi. Genova non aveva una piazza centrale, mai avuta. Era divisa per famiglie. Piccole corti intorno ai palazzi stop. In eterna guerra fra loro. Stop. Carlo Magno pretese che erigessero delle mura per difendersi e lo fecero ma mica tanto volentieri. Un giorno una fontana cominciò a sputare sangue e la cosa non diceva niente di buono. Arrivarono i saraceni e misero a ferro e fuoco la città. Uccisero gli uomini e stuprarono le donne. Tutti i bambini che nacquero dopo nove mesi erano mezzi africani. Fai presto a dire genovesi. La città venne ricostruita più bella e ricca di prima e i traffici cominciarono a rifiorire, tutta l’Europa guardava verso Genova dove una moltitudine di uomini armati partiva per andare a liberare Gerusalemme. E divenne bellissima, ricca di palazzi e tesori, costellata di torri da cui i genovesi si tiravano tra di loro qualsiasi cosa, frecce, lance, pietre, pitali e merda. I genovesi hanno sempre avuto un brutto carattere. Lo diceva anche Dante Alighieri. Branca Doria era talmente feroce che il sommo poeta lo mette all’inferno che è ancora vivo. Quando l’imperatore manifesta l’intenzione di venire a Genova la cosa puzza di bruciato. A fare cosa? Fu così che i genovesi, tutti uniti, costruiscono una mirabile muraglia in una decina di giorni. Che il Barbarossa lo deve ancora spiegare cosa ci veniva a fare a Genova e comunque quella volta le ricchezze rimasero ben al sicuro dietro le mura ma di piazze neanche a parlarne. Anzi con la 14 polvere da sparo dalle torri si sparavano, i genovesi. E così fu deciso di abbatterle le torri, tranne quella dell’Embriaco perché lui, proprio lui l’aveva liberata Gerusalemme, sul serio. Altro che musse. Come dicevano e si dice ancora adesso. Intanto Cristoforo Colombo, che era genovese, scoprì l’America ma siccome aveva due debiti, preferiva attraversare l’Atlantico a nuoto che farselo menare dai genovesi a casa sua. Nessuno è profeta in patria lo disse Gesù Cristo che poi non era neanche di Portoria che sarebbe stato ancora più difficile. Ai crucchi le piaceva ‘sta città, clima dolce, donne quante ne volevano (almeno allora) e forzieri pieni d’oro. Il carattere degli abitanti era un po’ così ma anche loro non erano la simpatia a prima vista. Trecento anni dopo, armati e in forze occuparono la città e le donne furono tutte le loro. E i bambini che nacquero nove mesi dopo erano mezzi austriaci e mezzi genovesi ma non fecero in tempo a vedere il loro papà perché nel frattempo uno un po’ più grande di loro, lo chiamavano “balilla” non gli andò di aiutare i crucchi a spostare un cannone e scatenò un macello. E i crucchi furono costretti a portare via gli stracci. Hanno proprio un carattere difficile i genovesi, lo dicevano anche gli austriaci mentre scappavano. E poi vennero i francesi e di nuovo gli austriaci e si morì di fame per strada e poi cadde un re e se ne fece un altro e un giorno, niente, esce fuori che i genovesi erano sotto quei mezzi austriaci dei Savoia che quante volte gliele avevano suonate a Zuccarello ma niente. I Serenissimi non lo erano più tanto e soprattutto non lo sarebbero mai più stati. C’era da fare l’Italia e i genovesi avevano delle idee. Sempre meglio dei Savoia. Un tipo con una bella parlantina passava svelto da via Lomellini dove abitava ai caffè di via Aurea dove si parlava di politica e dell’Italia. Beppe, Mazzini Beppe aveva grandi idee, lo chiamano ancora oggi padre della patria, erano talmente toste quelle idee che quando lo vedevano i Savoia lo mettevano dentro senza passare dal via. Grandi idee. Geniali. Muore in esilio che gli avrebbero tirato volentieri una schioppettata se lo avessero visto Beppe, i Savoia. Mai compresi i genovesi. Poi Garibaldi che però era di Nizza partì dallo scoglio di Quarto e in quattro e quattro otto arriva quasi sino a Roma a cannonate che lui ce l’aveva a morte con il Papa ma lo fermano prima e lo mandano in pensione. Almeno lui. A Genova mandano giù il rospo dei Savoia e De Ferrari caccia tanto di quel grano per fare il porto che finalmente i genovesi la fanno la piazza e la dedicano a lui. I genovesi sanno essere generosi quando vogliono. Con parsimonia come conviene. E poi ci sono le guerre e di nuovo i crucchi che gli tocca andare via a calci nel culo anche stavolta che i genovesi non hanno bisogno degli americani per farlo, anzi glielo potrebbero spiegare loro agli yankee. Sembra che i crucchi dicessero che i genovesi avevano proprio un brutto carattere mentre si arrendevano a De Ferrari. 15 E poi ci siamo noi che arriviamo dai fenici, dai romani, dagli africani, dai francesi, dai crucchi ma che però abbiamo conservato il bene più prezioso. Il nostro brutto carattere. W Genova. W la Repubblica (di Genova) Ringraziamo l’Autore per averci permesso la pubblicazione di questo articolo. L’originale è sul suo sito www.giovannigiaccone.it 16