in onore di
Raffaello Causa
ISBN 978-88-569-0507-6
in onore di
raffaello causa
a cura di fabrizio vona
Sommario
7
Introduzione
Fabrizio Vona
12
Ritorno a Causa
Stefano Causa
22
Raffaello Causa e la scultura del Trecento. Qualche
appunto sulla base della bibliografia recente
Eleonora d’Auria
31
Gli studi di Raffaello Causa sull’arte del Quattrocento
Serenella Greco
36
Raffaello Causa e le arti del XVI secolo
Francesco Lofano
46
Causa e il Seicento: attualità di un maestro
Gianluca Forgione
53
Raffaello Causa e la civiltà del disegno a Napoli.
Con un’aggiunta alla grafica di Consalvo Carelli
Mauro Vincenzo Fontana
60
La ‘civiltà’ del Settecento a Napoli di Raffaello Causa
Augusto Russo
71
Per (la) Causa risorgimentale. Il momento unitario
della pittura meridionale dell’Ottocento
Giulio Brevetti
80
Raffaello Causa e il “vigile amore” per l’arte
contemporanea
Maria De Vivo
88
Bibliografia degli scritti di Raffaello Causa
a cura di Francesca Russo
93
Bibliografia generale
Francesco Lofano
Raffaello Causa e le arti del XVI secolo
Le più antiche tracce dell’interesse di Raffaello Causa1 per le arti del XVI secolo
non sono rivolte alla pittura (oggetto di ricerca privilegiato, sebbene non unico, che
caratterizzerà l’attività dello studioso nei trent’anni seguenti) ma alla scultura. Esse
sono contenute in un volume destinato a imprimere un segno fondamentale negli studi sulla cultura figurativa meridionale, ovvero il catalogo della mostra dedicata alla scultura lignea in Campania, da Causa curato insieme con Ferdinando Bologna nel 19502. Nel catalogo, infatti, figurano nove schede relative ad altrettanti
manufatti lignei di estrazione culturale manierista. Si tratta, in particolare, del Cristo e dolenti del Gesù Nuovo di Napoli, colà attribuito a Francesco Mollica, del Crocefisso e della Vergine dolente di Michelangelo Naccherino della chiesa napoletana
di Santa Maria dell’Incoronata, del leggio di Benvenuto Tortelli e Angelo Chiarini nella chiesa di SS. Severino e Sossio oltre ad altre importanti testimonianze della scultura lignea dello scorcio finale del XVI secolo3. Sebbene le schede risultino
rimarchevoli per raffinata capacità di esame degli aspetti formali delle opere e per
puntuale utilizzo delle fonti periegetiche, biografiche e documentarie napoletane,
non segnano in modo significativo il vero e proprio esordio di Raffaello Causa come
studioso di questioni artistiche del Cinquecento, che va collocato semmai nei due
anni seguenti – tra il 1951 e il 1952 – attraverso due opere storiografiche d’impianto
assai differente: da un lato il catalogo della prima mostra dedicata alle opere restaurate dalla Soprintendenza di Napoli4; dall’altro, a metà del 1952, appare il catalogo redatto e curato con Ferdinando Bologna dedicato a Fontainebleau e la maniera italiana5. Se nella mostra dedicata alle opere restaurate (prima di una fortunata serie durata fino al 1960) l’attenzione di Causa si rivolge soprattutto alle opere provenienti dal territorio, nella seconda esposizione lo studioso mostrerà ampia conoscenza delle vicende artistiche legate alla grande stagione della cosiddetta
“scuola di Fontainebleau”6. Nel catalogo di quest’ultima iniziativa figura una premessa di Bruno Molajoli. Emblematicamente lo studioso conclude il testo con un
ringraziamento rivolto a Roberto Longhi, verso il quale il Soprintendente riconosce
il debito scientifico contratto durante la preparazione della mostra e del relativo
catalogo7. Gioverà ricordare, sulla scorta delle indicazioni di Giovanni Romano8,
che la mostra ottenne un’importante recensione-saggio dello stesso Longhi, nella quale lo studioso ribadendo il proprio consenso verso alcuni assunti critici dell’iniziativa, a partire dallo stesso titolo, proponeva di utilizzare il termine vasariano
‘maniera’ in luogo dell’accorsato vocabolo ‘manierismo’9. Naturalmente si tratta
36 FRANCESCO LOFANO
di due percorsi storiografici differenti, ma che trovano in Causa un interprete capace di affrontare con invidiabile scrupolo lo studio di personalità artistiche molto diverse. D’altra parte, la significativa contestualità cronologica lascia emergere, in forma già matura, i due filoni di ricerca e studio che negli anni successivi condurranno lo studioso napoletano a orientare la complessa e problematica trama
dei suoi interessi nell’ambito dell’arte del Cinquecento. Entrambi potrebbero riferirsi alla bifronte posizione critica – inevitabilmente legata al proprio profilo professionale – assunta dal Causa nei decenni seguenti: da un lato emerge una rilevante attenzione rivolta ai percorsi delle arti nel territorio napoletano e campano,
dall’altro la densa attività di coltissimo funzionario di Soprintendenza e successivamente Soprintendente alle Gallerie della Campania lo impegneranno con risultati di non marginale rilevanza in territori artistici lontani dalla città in cui opera. Da quest’ultimo filone scaturiranno alcuni importanti studi destinati a segnare la storiografia artistica italiana: il riferimento va, appunto, alla citata mostra tenutasi nel 1952 dedicata, come si è detto, alla maniera italiana e alla scuola di Fontainebleau, sino al più tardo intervento ‘d’occasione’, dedicato alle scoperte derivanti dalle analisi radiografiche del dipinto tizianesco Paolo III con i nipoti Alessandro
e Ottavio Farnese, che fu pubblicato nel 1965 in un’importante raccolta di studi dedicati a Giuseppe Fiocco10.
Il primo filone – come si è detto – ha le sue radici nel ruolo di studioso di arte meridionale che Raffaello Causa svolse con risultati particolarmente fecondi, come
attestano le fondamentali osservazioni sui percorsi della pittura a Napoli nel Cinquecento contenute nel volume, apparso nel 1957, dedicato appunto alla storia
della pittura napoletana, il cui svolgimento è considerato dal XV al XIX secolo11.
Accanto a questo contributo potrebbero essere considerati, all’interno di tale filone, per la ricchezza e la rilevanza di osservazioni sul piano storico, i noti studi
sulle splendide tarsie lignee della Certosa di San Martino, pubblicati in un articolo nella rivista “Napoli nobilissima” nel 196212 cui seguì un successivo contributo dedicato al restauro delle stesse opere apparso ancora su “Napoli nobilissima” nel 196713 ed un volume ‘di pregio’ edito per i tipi di Ricordi negli stessi
anni14. Come si dirà più avanti, l’interesse di Causa per le personalità attive a Napoli nel corso del Cinquecento lo condurrà a non trascurarne l’importanza persino in uno dei suoi saggi più fortunati e fecondi sul piano storiografico, ovvero
quello dedicato alla pittura a Napoli tra Naturalismo e Barocco, apparso nella collana “Storia di Napoli” nel 197215, che si apre proprio con il riconoscimento del
ruolo tutt’altro che marginale rivestito da artisti come Belisario Corenzio, Fabrizio Santafede e Luigi Rodriguez.
Converrà dunque riprendere il discorso dagli anni Cinquanta. Come si è accennato, tra il 1952 e il 1960 Raffaello Causa curerà quattro mostre di indubbio rilievo
per il recupero e lo studio del patrimonio artistico napoletano, le quali presenteranno le opere restaurate provenienti dagli edifici cittadini ma anche dalle stesse raccolte museali.
Nella prima mostra, che ebbe luogo tra il dicembre 1951 e il gennaio 1952, diverse saranno le opere restaurate del secolo XVI. Nell’esposizione saranno, infatti, esposte le due tavole raffiguranti San Michele e Sant’Andrea ascritte dallo studioso ad
un ignoto pittore del principio del Cinquecento, provenienti dalla chiesa di Sant’Angelo a Nilo, il Sant’Adriano attribuito a Bartolomeo Bermejo del Museo Nazionale
RAFFAELLO CAUSA E LE ARTI DEL XVI SECOLO 37
di Capodimonte, l’Andata al Calvario dalla chiesa di San Domenico Maggiore dello Pseudo-Bramantino e, infine, una Figura allegorica nel catalogo assegnata ad un
ignoto pittore emiliano del XVI secolo proveniente dal Museo di Capodimonte16.
Nella mostra successiva, figurano tre opere del XVI secolo: la Vergine con Bambino attribuita per la prima volta a Gerolamo Imparato e proveniente dalla Quadreria
dei Girolamini, l’Adorazione dei Magi proveniente dalla Cappella Filangieri di Livardi e, infine, il celebre polittico di Andrea Sabatini dell’Abbazia di Cava de’ Tirreni17. Nel 1953, in occasione della III Mostra dei Restauri, per rimanere all’arco cronologico oggetto del presente contributo, occorre ricordare che Causa curerà le schede della Natività e dell’Adorazione dei magi di Andrea Sabatini, provenienti dalla Quadreria dei Girolamini, del San Michele Arcangelo di Marco Pino, della chiesa napoletana di Santa Maria la Nova, della Madonna in gloria tra santi e anime purganti proveniente dalla chiesa di san Giovanni a Carbonara, riferita a Cesare Turco,
della Maddalena e della Santa Caterina, custodite nella Quadreria dei Girolamini,
attribuite a Silvestro Buono e infine della Deposizione di Cristo di Fabrizio Santafede, anch’essa proveniente dall’Oratorio napoletano18.
Lo studioso affiderà alla lunga nota introduttiva del catalogo della IV Mostra dei
Restauri un bilancio dell’esperienza di Direttore del Laboratorio di Conservazione19. Nella premessa, significativa è la rilevanza ‘politica’ delle sue osservazioni sulle difficili condizioni in cui i funzionari della Soprintendenza ai Monumenti della Campania avevano dovuto operare in quei primi decenni del dopoguerra, durante i quali un consistente e inaspettato incremento edilizio aveva finito per dirottare molte energie nella tutela del paesaggio piuttosto che nel restauro e tutela
di opere di scultura e architettura inserite nei loro contesti architettonici. Nel catalogo della IV Mostra, redatto congiuntamente (e senza distinzione di paternità
delle schede) con Marina Causa Picone e Oreste Ferrari, figurano le schede relative alle ultime opere restaurate dal Laboratorio della Soprintendenza napoletana.
Tra queste uno spazio consistente occupano i dipinti del XVI secolo, tra i quali emergono: il Ritratto di giovinetto di Rosso Fiorentino (già esposto alla mostra sulla maniera italiana e la scuola di Fontainebleau), l’Annunciazione di Tiziano proveniente da San Domenico, accompagnata dal presunto Ritratto di Lavinia, dal Ritratto di
Paolo III e dalla Maddalena dello stesso pittore veneto. A queste schede seguono quelle relative alla Madonna con bambino e santo vescovo di Dosso Dossi, al Ritratto di Erasmo attributo ad Hans Holbein e infine a due opere provenienti da chiese napoletane come l’Allegoria dell’ordine francescano di Francesco Curia e la Sacra conversazione proveniente dalla chiesa dei SS. Severino e Sossio di Fabrizio Santafede20. Unitamente alla fortuna critica, le schede presentano efficaci e utili relazioni di restauro
che consentono di apprenderne la storia conservativa e le condizioni alle quali erano pervenute in quel tempo nei laboratori di restauro. È, così, possibile rilevare che,
ad esempio, nel corso del restauro dell’Annunciazione di Tiziano erano emerse due
distinte fasi esecutive dell’opera sia nella quinta architettonica che in parte della
figura dell’Angelo annunciante. Tali risultati permettono all’autore della scheda, che,
sulla base dell’esame dell’impianto linguistico adoperato, possiamo riconoscere nello stesso Causa, di avanzare l’affascinante ipotesi di un’opera lasciata incompiuta dall’artista e completata nell’ambito del suo entourage21.
Gli anni che precedono quest’ultimo impegno storiografico erano stati segnati da
un’impresa critica di non trascurabile importanza nell’avvio degli studi sulla pit38 FRANCESCO LOFANO
tura a Napoli d’età moderna e della prima età contemporanea. Il riferimento va
al testo, al quale si è accennato in precedenza, dedicato alla pittura napoletana tra
XV e XIX secolo. Si tratta di un volume dal taglio non specialistico ma tutt’altro
che riepilogativo o sommario. In esso sono ricostruiti i percorsi che caratterizzano lo svolgimento della pittura a Napoli in un ampio arco cronologico: tra il crepuscolo del Medioevo e le scuole di Resina e Posillipo. Inanellando dati e personalità, talora di primaria importanza e talaltra di semplice raccordo tra le età che
scandiscono la narrazione, il lavoro si presenta come un prezioso tentativo non solo
di aggiornare quanto era stato tracciato da Sergio Ortolani, con innegabile densità di risultati, nel catalogo della celebre mostra del 1938 dedicata alla pittura napoletana tra Seicento e Ottocento, ma anche di ampliarne il percorso con l’analisi della produzione pittorica napoletana dei secoli XV e XVI22. Naturalmente questa annessione presuppone una differente prospettiva ermeneutica rispetto alla fisionomia della pittura nella capitale del Viceregno e del Regno tracciata dall’Ortolani. Per Causa, infatti, un’identità pittorica propriamente napoletana emerge già
alla metà del XV secolo con l’attività di Colantonio, personalità paradigmatica delle scelte artistiche compiute dal primo sovrano aragonese, il quale s’impone nel
panorama napoletano con un lessico differente, lontano dalle tendenze di gusto
marchigiano o lombardo che avevano caratterizzato la pittura degli anni precedenti del secolo23. La vicenda colantoniana segna, secondo Causa, il principio di
una fase nuova della pittura napoletana perché ne indica un avvio identitario, dal
quale sboccerà l’esperienza di Antonello da Messina destinata a portare ad altissima maturazione il crocevia culturale embrionalmente rappresentato appunto da
Colantonio. Se dunque la figura del pittore, letto come interprete della temperie
culturale della prima età aragonese, schiude il nuovo corso della pittura napoletana del Quattrocento, fondamentali per gli sviluppi del secolo successivo saranno, secondo Causa, due avvenimenti: da un lato gli affreschi del chiostro dei SS.
Severino e Sossio di Antonio Solario, dall’altro l’attività napoletana impregnata di
umori lombardo-bramanteschi del cosiddetto Pseudo-Bramantino24, oggi identificato nel pittore spagnolo Pedro Fernández da Murcia25. Nella costruzione storiografica tracciata dal Causa, un ruolo di fondatore della scuola locale è rivestito dalla personalità di Andrea Sabatini, il quale costituisce, a giudizio dello studioso, il primo testimone della ricezione da parte di personalità locali delle fonti
più aggiornate della cultura pittorica primo-cinquecentesca, tanto che l’autore tornerà a ribadire l’ipotesi di un viaggio a Roma per comprendere l’esperienza e la
cultura figurativa del maestro salernitano26. Per lo studioso, infatti, il Sabatini rappresenta una personalità capace di conciliare l’esperienza raffaellesca con “una pacata narrativa paesana”27, formulando un lessico caratterizzato da un intenso lirismo venato di accenti di più cordiale comprensibilità. Quest’ultima determinazione critica rende il Sabatini, nell’impalcatura di Causa, il legittimo punto d’avvio alla stagione figurativa locale del XVI secolo, poiché di questo artista egli ricostruisce la personalità, tutt’altro che estranea ai fermenti creativi centro-italiani: anzi talmente coinvolta da quella realtà innovativa, da dar vita ad un lessico
nuovo, ad un’esperienza figurativa del tutto originale. Nella produzione risalente alle decadi centrali del Cinquecento, Causa riconosce come essenziale l’apporto di pittori “forastieri” come Giovan Francesco Penni, Polidoro da Caravaggio,
Leonardo da Pistoia, Giorgio Vasari, Pedro Roviale lo Spagnolo e Marco Pino da
RAFFAELLO CAUSA E LE ARTI DEL XVI SECOLO 39
Siena, in grado di introdurre nella capitale del Viceregno radicali novità28. Nella
ricostruzione storiografica gli artisti locali appaiono attardati nella mera prosecuzione,
spesso modesta, di tendenze pittoriche avviate in altri centri. Tra questi, lo studioso
riserva particolare attenzione alle personalità di Silvestro Buono e Giovan Bernardo
Lama, che dalla sua analisi risultano al di sopra della diffusa serialità nella produzione del tempo29.
Pur riconoscendo gli apporti forniti dai pittori fiamminghi, sciamati in città negli ultimi tre decenni del Cinquecento, Raffaello Causa, muovendosi nel solco del
giudizio longhiano30, individuerà nella pittura di Francesco Curia l’unica autentica esperienza figurativa in grado di assicurare alla fine del secolo una dignitosa conclusione31. Tuttavia, resta il fatto che per lo studioso la “vita artistica cittadina” del XVI secolo si concludeva “con un bilancio fallimentare”32. Quest’ultima valutazione, che oggi appare non priva di una certa perentoria drasticità, suggellava, in realtà, la griglia interpretativa adottata dallo studioso, mirante a porre l’accento sul problema del rapporto tra le grandi personalità provenienti dai
maggiori centri artistici italiani e i più modesti apporti locali che gli appaiono spesso di importanza trascurabile e, comunque, non paragonabili alla densità creativa delle esperienze figurative extra-napoletane, che nella città sono interpretate
da personalità di sicuro spicco. La cultura metodologica che innerva questo importante contributo appare in larga misura frutto della meditazione sui testi di Longhi ma anche dell’assimilazione di alcune riflessioni di Croce33. Se, infatti, lo studioso sembra aderire all’idea crociana di una storia intesa come storia dell’espressione linguistica e stilistica34, la trama di relazioni formali, l’esame degli
svolgimenti stilistici, che poco concedono all’analisi dei contesti storici nei quali
operano tali personalità o alle loro vicende biografiche e intellettuali recano i segni di uno studioso attratto, in questa fase, dalla “critica figurativa pura” di memoria longhiana. D’altra parte, la soverchiante distinzione tra artisti di precipuo
rilievo (sovente “forastieri” con alcune significative eccezioni come dimostra il giudizio su Andrea Sabatini) e maestri minori (spesso “locali”) che articola lo svolgersi delle riflessioni dello studioso, mi pare, possa essere posta in relazione con
i postulati teorici di un saggio crociano, largamente frequentato dagli storici dell’arte, intitolato: Il carattere di totalità dell’espressione estetica, apparso per le edizioni di Laterza nel 1917. In questo contributo, come è noto, il filosofo sostiene la fondamentale distinzione tra “grandi maestri” e “artisti mediocri” affermando che
i primi possiedono il dominio della storia dello stile, mentre gli altri sono confinati nella “sfera documentaria” rispetto alla società ad essi contemporanea35. Causa trae dalle tesi crociane la tabula teorica su cui impostare il proprio lavoro critico, ma, allo stesso tempo, egli pare voler conciliare un siffatto impianto teorico con
la lettura e la profonda assimilazione delle pagine del Longhi giovane e maturo.
Tuttavia, l’exemplum fornito dallo storico dell’arte appare volto, in questo testo, verso un più scorrevole indirizzo narrativo: la concettosità e vertigine verbale di matrice longhiana trovano in queste pagine di Causa una misura più coerente con
gli scopi dell’opera, destinata, evidentemente, ad un pubblico diversificato. La complessità delle questioni affrontate e il taglio del volume inducono lo studioso, in
questa circostanza, a non concedere nulla ai paradigmi ecfrastici che pure non saranno assenti nelle pagine del Causa maturo, come si osserverà di seguito. Egli
ricorre semmai al racconto di un intreccio di vicende in cui, sul modello costitui40 FRANCESCO LOFANO
to dall’esempio longhiano, sembrano potersi riconoscere più pacati registri discorsivi.
Se si prosegue con l’esame del filone legato agli interessi di Causa rivolti verso la
cultura artistica napoletana, senza dubbio notevole interesse riveste un trittico di
contributi, apparsi tra il 1962 e il 1967, dedicati al coro e alle tarsie lignee cinquecentesche della Certosa di San Martino. Ricco di riflessioni sul piano dell’indagine delle fonti documentarie, è il primo di questi interventi. Apparso, nel 1962, sulla rivista “Napoli nobilissima”, in questo resta predominante l’analisi formale e
stilistica nonché l’intricato problema attributivo che viene risolto in favore di Giovan Francesco d’Arezzo e del Maestro Prospero, sulla scorta della valorizzazione
di un passo della lettera di Pietro Summonte al Michiel. A questo primo risultato
seguirà, cinque anni più tardi, nel 1967, una ricerca che avrà per oggetto le medesime
opere insieme ad altri aspetti della Certosa di San Martino, che, in questa circostanza, potrà avvalersi dei risultati emersi dal restauro condotto sui manufatti. Tra
i due interventi si colloca la pubblicazione di un volume “di pregio” anch’esso dedicato alle tarsie lignee: caratterizzato da un raffinato apparato fotografico e, in generale, contraddistinto da una veste editoriale lussuosa, il lavoro verrà pubblicato nel 1962 per i tipi di Ricordi a Milano. Alla premessa critica seguono dodici paragrafi dedicati a ciascuna delle tarsie. In questi brevi letture, che potremmo definire di taglio micrografico, destinate a commentare una per una le singole tarsie, Causa dà prova di misurarsi ancora una volta con il paradigma longhiano. All’esame dei confronti formali con opere analoghe, scandito da una prosa dalla sintassi complessa e talora ardita, segue una lettura dei risultati stilistici ai quali sono
giunti gli autori delle tarsie napoletane. Si consideri, come esemplare di questo atteggiamento critico, il secondo paragrafo del volume, dedicato alla tarsia raffigurante
il Candeliere e la navicella: “Le serie delle ‘nature morte’ di Giovan Francesco d’Arezzo non sfugge (almeno nella impostazione generale) all’incontenibile forza di suggestione che dovevano esercitare le tarsie realizzate solo qualche anno prima da
Fra’ Giovanni da Verona nella cappella dei Tolosa e nella Sagrestia Vecchia della
chiesa napoletana di Monteoliveto (ora le une e le altre riunite insieme nella Sagrestia Nuova), i riquadri di Fra’ Giovanni si datano tra il 1506 e il 1510 e questi
di San Martino, poco prima del ’24, quando vengono ricordati dal Summonte, e
forse eseguiti a partire dal ’16. In particolare per queste composizioni di oggetti
appare palese che i due cicli muovono da un repertorio comune, e si tratta di un
‘gusto’ che aveva trovato ormai da tempo la sua codificazione in Urbino, e generalmente nelle Marche, ancora prima di incentrarsi per Napoli nella figura dominante
di Fra’ Giovanni da Verona. E però, una volta riconosciute le fin troppo palesi concordanze, bisogna pur rilevare che Giovan Francesco d’Arezzo rinuncia a battere la via spericolata, troppo spesso scadente nella pur ostentata tecnicistica, del maggior modello, per tendere ad effetti diversi e personali: la ricerca dei valori cromatici
appare accentuata e la composizione si semplifica al massimo […] così da acquistare una particolare risonanza, una voce intima e intensa”36.
Ma si veda anche il paragrafo dedicato alla tarsia raffigurante Calice e messale, così
descritto: “Così lo stelo del calice si segmenta in un innesto di listarelle geometriche, un complesso giuoco di incastro mai traducibile in oro, in argento o in qualsiasi altri metallo più o meno nobile; così, con intuizione di pari vivacità, la venatura
del legno, rispettata nel suo andamento decorativo, patina col senso irreale di una
ceramica antica di piattello poggiato in equilibrio instabile, e poco meno che imRAFFAELLO CAUSA E LE ARTI DEL XVI SECOLO 41
possibile, sul margine del libro”37. In quest’ultimo periodo la forma sintattica torna a riannodarsi, innervata di chiasmi e procedimenti ellittici. Si osservino, in modo
particolare, le simmetrie scandite dal ‘così’ anaforicamente ripetuto (“così lo stelo del calice”, “così, con intuizione di pari vivacità, la venatura del legno”) ma
anche l’elegante aggettivazione si concede a talune similitudini utili a tradurre
in forma verbale gli arditi scorci prospettici allestiti dai due intarsiatori. Si tratta, in via definitiva, di pagine di rara capacità espressiva di uno storico dell’arte che pare volersi misurare con il modello ecfrastico longhiano38, all’interno di
un prodotto editoriale particolarmente adatto ad una prova critica come questa.
Qui la restituzione verbale dell’oggetto artistico, posta in atto dallo studioso, trova un esito di gagliarda efficacia sul piano descrittivo; la trama di relazioni nella quale il manufatto è collocato, in sostanziale concordia con la lectio longhiana, si riaccende attraverso un colto sviluppo lessicale.
Queste osservazioni potrebbero bastare per delineare i contorni di un’opera caratterizzata da una vibrante tensione linguistica, la quale consente all’autore di dar
prova non solo della sua adesione al modello di Longhi ma anche della sua cultura letteraria tutt’altro che ininfluente sul piano espressivo e formale. L’impianto editoriale, che qualifica il volume, consente all’autore di confrontare anche visivamente (le immagini, infatti, fronteggiano i paragrafi) testo scritto e testo figurativo, quasi a volerne mimare anche sul piano visivo una sostanziale equivalenza. Tuttavia, la serrata alternanza di lingua scritta e immagine, in una raffinata sequenza di rispecchiamenti vicendevoli tra codici espressivi differenti non guida semplicisticamente lo studioso verso un esempio di forbita, ma pur riduttiva mimesis
dell’opera d’arte figurativa, secondo il rischio, talora avvertito dalla critica, che caratterizza alcuni epigoni minori del Longhi. L’atteggiamento di Causa, in queste
pagine, può semmai essere considerato di duplice natura: da un lato il suo lessico sembra volersi misurare con la forma figurativa, dando vita ad un periodare mai
scontato e sostenuto da un bagaglio linguistico alto e capace di penetrare le radici formali del manufatto figurativo; dall’altro egli non pare voler rinunciare a collocare le opere d’arte all’interno di un ‘genere’, quello della tarsia lignea, cercando di comprenderne le differenze e le qualità precipue che contraddistinguono le
opere napoletane rispetto ai coevi e precedenti analoghi manufatti italiani.
Negli stessi anni nei quali viene pubblicata la trilogia di studi dedicati al coro della certosa napoletana, appare un contributo di ambito cinquecentesco particolarmente denso di implicazioni sul piano storico e iconografico. In questo caso le circostanze che sollecitano l’intervento sono molto differenti – si tratta, infatti, di una
silloge di scritti in onore di Giuseppe Fiocco apparsa nel 1965 come numero della rivista “Arte Veneta” – ne consegue che la dimensione linguistica adottata dallo storico dell’arte trova un tono più marcatamente oggettivante. Oggetto del contributo è il ritratto di Paolo III Farnese con i nipoti conservato a Capodimonte, riconsiderato alla luce delle recenti indagini diagnostiche. Le analisi condotte sull’opera permettono, infatti, allo studioso di ricavare preziose informazioni sui vasti pentimenti che caratterizzano il dipinto. Causa osserva, infatti, come la posizione dei due nipoti, svelata dalle indagini, risulti assai differente rispetto alla redazione definitiva. Gli elementi raccolti inducono Causa ad avanzare l’ipotesi che
tali pentimenti sarebbero da porre in relazione con una differente concezione compositiva del dipinto. La vicenda trova una propria conclusione con l’idea che l’ope42 FRANCESCO LOFANO
ra aveva avuto una vera e propria “prima edizione”39 sottoposta a consistenti modifiche in seguito a nuove circostanze delineatesi nel corso della sua esecuzione.
L’itinerario dello studioso, relativo alle arti del secolo decimosesto, durante gli anni
seguenti, sembra avviato verso un sostanziale esaurimento, a favore di un sempre crescente interesse verso le questioni artistiche riguardanti i secoli dell’età barocca ma anche in ragione della mai interrotta attenzione verso la pittura dell’Ottocento meridionale. Il celebre saggio dedicato alla pittura napoletana dal Naturalismo al Barocco, sarà, infatti, aperto con alcune considerazioni dedicate ai pittori della tarda maniera attivi a Napoli nei primi decenni del Seicento. Da un lato
lo studioso ne afferma il ruolo di cerniera tra i due secoli, d’altra parte liquida la
loro vicenda nell’alveo delle esperienze figurative che appartengono alla stagione precedente e, dunque, inevitabilmente ‘superate’ dal nuovo corso della pittura napoletana del secolo XVII, contrassegnato dalla fondante esperienza caravaggesca. Scrive, infatti, lo storico dell’arte: “e pure bisognerà dare un attestato di
riconoscimento – e non solo cosciente e cieca caparbietà – a questi pittori che riescono in piena coerenza e correttezza di risultati, a svolgere il loro lavoro durante gli anni di maggiore affermazione del naturalismo e del luminismo, senza mai
deflettere, se non marginalmente, dal convinto tradizionalismo, che solo qualche
volta sembra appannarsi per effetto della ‘moda’ imperante”40.
Nell’architettura del saggio, Belisario Corenzio, Fabrizio Santafede e Luigi Rodriguez
appaiono a Causa come i corifei di un lessico orgogliosamente attardato, ma caparbiamente perdurante dentro il Seicento. Tuttavia, all’interno di un siffatto giudizio, è possibile riscontrare un significativo riconoscimento della statura di queste personalità. Lo studioso sostiene, infatti, che l’esperienza manierista napoletana prosegue anche nel XVII secolo, convivendo con le novità della pittura caravaggesca, tanto da finire con l’occupare gli spazi che quest’ultima corrente lascia parzialmente inappagati, come quelli della pittura a fresco, pur restando inevitabilmente sconfitta sul piano della “modernità”.
Negli anni seguenti l’interesse di Raffaello Causa verso la produzione artistica del
XVI secolo, sembra diradarsi, rappresentato soltanto da schede o riferimenti in opere di ampio respiro monografico come il volume dedicato al Pio Monte della Misericordia pubblicato nel 197041 o quello sulla Certosa di San Martino apparso nel
197342. In queste opere, la prospettiva ermeneutica dello studioso, pur mantenendo
fermo il primato dell’exemplum longhiano (lo storico dell’arte era frattanto scomparso nel 1970), sembra volersi aprire a nuove istanze metodologiche: maggiore
appare l’interesse verso il ruolo della committenza; determinante risulta il richiamo
esercitato dalle novità documentarie, utilizzate per penetrare gli avvenimenti che
scandiscono le fasi di questi due cantieri, entrambi centrali nella ricostruzione dei
processi artistici cittadini. L’incessante interrogarsi sulle ragioni intime di un’identità artistica napoletana, intesa in senso plurale, all’interno cioè di una trama di relazioni e di apporti con gli altri centri artistici italiani e mediterranei, costituiscono ancora una volta la cifra che sostiene questi scritti. In essi Causa seppe restare
fedele alla lezione di Roberto Longhi, pur declinandola con prudenza, con le novità metodologiche che si andavano profilando all’orizzonte e che non dovettero
lasciarlo insensibile.
RAFFAELLO CAUSA E LE ARTI DEL XVI SECOLO 43
Su Raffaello Causa si vedano i
profili tracciati dopo la morte dello
studioso firmati da tre storici dell’arte
che in molteplici occasioni avevano
intrecciato il proprio percorso con
quello del Causa, cfr. A. Banti, In memoria di Raffaello Causa, in “Paragone. Arte”, 35, 1984, p. 3; A. GonzálezPalacios, Obituary: Raffello Causa
(1923-1984), in “The Burlington Magazine”, 128, 1986, pp. 677-678; L. Salerno, Raffaello Causa, in “Apollo”,
120, 1984, p. 152. A distanza di quattro anni dalla scomparsa dello studioso un efficace profilo intellettuale è stato fornito da F. Bologna, Ricordo di Raffaello Causa, in Studi onore di Raffaello Causa, a cura di P. Leone de Castris, Milano 1988, pp. 9-12.
Negli ultimi anni Stefano Causa ha
dedicato allo studioso napoletano alcuni interventi in cui sulla biografia
intellettuale si innestano ricordi familiari, cfr. in particolare: Id., Ritorno a Pitloo. Raffello Causa e la pittura
di paesaggio, Napoli 2004; Id., Francesco De Mura e il suo doppio, in “Paragone”, Anno LXV - Terza serie numero 116 (773), luglio 2014, pp. 2146; di quest’ultimo si veda, infine, il
contributo in questo volume.
2
Cfr. Sculture lignee in Campania, catalogo della mostra (Napoli, Palazzo Reale 1950), a cura di F. Bologna
e R. Causa, Napoli 1950. Sulla mostra
e sul relativo catalogo, rinvio al contributo di G.G. Borrelli, Sculture lignee
in Campania (1950), in I libri di Ferdinando Bologna. Percorsi di ricerca e strumenti di didattica, Atti delle giornate
di studio (Napoli, Università degli
Studi Suor Orsola Benincasa, Sala degli Angeli, 13-14 dicembre 2005), a
cura di P. Leone de Castris, Napoli
2007, pp. 35-45.
3
Oltre alle schede relative alle sculture citate – cfr. Sculture lignee in
Campania, cit., pp. 185-187, rispettivamente schede nn. 83, 84, 85 – allo
studioso napoletano spettano quelle relative all’Angelo Custode della
chiesa di San Domenico Maggiore,
all’opera di analogo soggetto del
Gesù Nuovo, all’Allegoria della Fede
del Santuario di Montevergine, alla
Pietà con angeli della Cappella del
Monte di Pietà di Napoli, al Crocefisso, attribuito dubitativamente a
Francesco Mollica, proveniente dalla chiesa napoletana di Santa Chiara e, infine, a due stalli della chiesa
di Sant’Agostino conservati nel
Museo della Certosa di San Martino a Napoli, cfr. Sculture lignee in
Campania, cit., pp. 186-188, rispetti1
44 FRANCESCO LOFANO
vamente schede nn. 83, 84, 85, 86, 87,
88, 89, 90, 91.
4
Cfr. I Mostra Didattica del Restauro,
catalogo della mostra (Napoli, Museo di San Martino, 20 dicembre
1951-10 gennaio 1952), a cura di R.
Causa, Napoli 1951. Nel catalogo figura un’interessante presentazione
di Bruno Molajoli, che introduce e
spiega il lavoro svolto dai laboratori della Soprintendenza, cfr. ivi, pp.
non numerate. Causa ripercorrerà alcuni aspetti della mostra in un prezioso contributo del 1952, cfr. Id., La
I Mostra Didattica di Restauri al Museo di S. Martino, estratto da “Napoli. Rivista Municipale edita a cura del
Comune di Napoli”, 1952, pp. 1-11.
5
La mostra e il catalogo furono curati da R. Causa insieme a F. Bologna.
Significativamente nel catalogo non
compaiono indicazioni che consentono la distinzione della paternità
delle schede, cfr. Fontainebleau e la maniera italiana, catalogo della mostra
(Napoli, Mostra d’Oltremare e del
Lavoro italiano nel mondo, 26 luglio12 ottobre 1952), a cura di F. Bologna
e R. Causa, Firenze 1952. Sulla mostra si vedano anche le due recensioni
di A Bertini, Fontainebleau e la maniera
italiana, in “Emporium”, 10, 1952, pp.
147-164; B. Molajoli, La Mostra “Fontainebleau e la maniera Italiana” a Napoli, in “Bollettino d’arte”, 37, 1952,
pp. 368-370.
6
Nel catalogo non vi sono indicazioni di paternità delle schede, a dimostrazione di un lavoro di profonda sinergia svolto dai due curatori: sarebbe quindi arduo, oltre che
antistorico, isolare il contributo di
Raffaello Causa.
7
Fontainebleau e la maniera italiana, cit.,
p. XI. Stefano Causa ha recentemente pubblicato una lettera indirizzata dal Longhi al Causa datata 3
ottobre 1952 – cfr. Id., Caravaggio tra
le camicie nere. La pittura napoletana dei
tre secoli. Dalla mostra del 1938 alle
grandi esposizioni del Novecento, Napoli 2013, p. 69 –, in cui lo studioso
piemontese ringrazia uno dei due curatori della mostra per l’invio del catalogo, non omettendo, tuttavia, di
avanzare le proprie riserve sui profili degli artisti redatti nel catalogo,
ma sottolineando al pari il valore
scientifico dell’iniziativa soprattutto
per gli studi sulla ‘maniera italiana’.
8
G. Romano, Storie dell’arte. Toesca,
Longhi, Wittkower, Previtali, Roma
2003, p. 55.
9
R. Longhi, Ricordo dei manieristi, in
“L’Approdo”, gennaio-marzo 1953,
pp. 55-59; ripubblicato in Id., Cinquecento classico e Cinquecento manieristico. 1951-1970, Firenze 1976, pp.
83-84.
10
Cfr. R. Causa, Per Tiziano, un pentimento nel “Paolo III, con i nipoti”, in
“Arte Veneta. Rivista di Storia dell’arte. Per gli ottant’anni di Giuseppe Fiocco”, anno XVII, 1964 (ma
1965), pp. 219-223.
11
Cfr. R. Causa, Pittura napoletana dal
XV al XIX secolo, Bergamo 1957, in
part. pp. 15-26.
12
Cfr. R. Causa, Giovan Francesco
d’Arezzo e Prospero maestri di commesso a Napoli. Le tarsie del coro dei conversi nella certosa di S. Martino, in
“Napoli nobilissima”, fasc. IV, 1962,
pp. 123-134.
13
Cfr. R. Causa, A proposito della
Certosa di San Martino: la cassa armonica del coro, il pavimento della chiesa;
come Presti e Fanzago si suddivisero il
lavoro; il restauro delle famose tarsie e la
sua storia troppo lunga, in “Napoli nobilissima”, fasc. VI, 1967, pp. 89-97.
14
Cfr. R. Causa, Tarsie cinquecentesche
nella Certosa di S. Martino a Napoli,
Milano 1962.
15
Cfr. R. Causa, La pittura del Seicento a Napoli dal Naturalismo al Barocco,
in Storia di Napoli, Cava de’ Tirreni
1972, vol. V, tomo II, pp. 915-994, in
part. pp. 915-916.
16
Cfr. I Mostra Didattica del Restauro,
cit., pp. 7-11, rispettivamente schede nn. 5-9.
17
Cfr. II Mostra dei Restauri, catalogo
della mostra (Napoli, Museo di San
Martino, 20 dicembre 1952-10 gennaio 1953), a cura di R. Causa, Napoli
1952, pp. 7-8, 10-11, rispettivamente
schede nn. 5, 6, 8.
18
Cfr. III Mostra dei Restauri, catalogo della mostra (Napoli, Museo di
San Martino, 20 dicembre 1953-20
marzo 1954), a cura di R. Causa, Napoli 1953, pp. 10-16, schede nn. 7, 8,
9, 10, 11, 12, 13.
19
Cfr. IV Mostra dei Restauri, catalogo della mostra (Napoli, Palazzo
Reale 1960), a cura di R. Causa, Napoli 1960, pp. 9-18.
20
Ivi, pp. 57-69, schede nn. 16, 17, 18,
19, 20, 21, 22, 23, 24, 25.
21
Ivi, pp. 58-61, scheda n. 17.
22
La mostra della pittura napoletana dei
secoli XVII-XVIII-XIX, catalogo della mostra (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 1938), a cura di
S. Ortolani, Napoli 1938.
23
Cfr. R. Causa, Pittura napoletana dal
XV al XIX secolo, cit., pp. 7-11.
24
Ivi, p. 16.
25
L’identificazione dell’artista con il
pittore spagnolo Pedro Fernández da
Murcia è stata possibile, come è
noto, solo nel 1984 con la scoperta del
documento di commissione relativo
al Polittico di Sant’Elena della Cattedrale di Girona, pubblicato in P.
Freixas, Documents per a l’art renaixentista català. La pintura a Girona durant al primier terç del segle XVI, in
“Annals de l’Institut d’Estudis Gironins”, XXVII, pp. 165-188, in part.
pp. 184-185, doc VI. Sulla vicenda critica legata alla figura del pittore rinvio a: Pedro Fernández da Murcia (lo
Pseudo Bramantino). Un pittore girovago nell'Italia del primo Cinquecento,
catalogo della mostra (Castellone,
chiesa della Trinità, 11 ottobre-30
novembre 1997), a cura di M. Tanzi,
Milano 1997.
26
Ivi, p. 19.
27
Ivi, p. 20.
28
Ivi, pp. 21-24.
29
Ivi, p. 24.
30
La rivalutazione del Curia, come
unica personalità degna di rilievo
della maniera napoletana, avviene attraverso un noto passo di R. Longhi,
cfr. Id., Battistello, in “L’Arte”, 18,
1915, pp. 58-75, 120-137, ora in Id.,
Opere complete, Firenze 1961, vol. I, p.
178. Su questa circostanza e sui successivi riferimenti all’opera del Curia da parte del Longhi si veda, I. di
Majo, Francesco Curia. L’opera completa, Napoli 2002, pp. 9, 12, nota 1.
31
Ivi, pp. 24-26.
32
Ivi, p. 26.
33
Sulla ricezione di Benedetto Croce da parte della storiografia artistica novecentesca, rinvio a G.C. Sciolla, Storia della critica d’arte del Novecento, Torino 2003, pp. 34-35, 149-151;
V. Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani, Macerata 2005, ad Indicem; A.
Mirabile, Scrivere la pittura. La ‘funzione Longhi’ nella letteratura italiana,
Ravenna 2012, pp. 47-50; O. Rossi Pinelli, La disciplina si consolida e si specializza, in Ead. (a cura di), La storia
delle storie dell’arte, Torino 2014, pp.
320-397, in part. pp. 327-344. Non è
questa la sede per tracciare una storia del rapporto tra la tradizione critica di area longhiana e il filosofo napoletano. Tuttavia sarà il caso di ricordare che Roberto Longhi dichiarerà la propria adesione all’idealismo
crociano in una lettera indirizzata a
Bernard Berenson del 1912, cfr. B. Berenson - R. Longhi, Lettere e scartafacci.
1912-1957, Milano 1993, p. 82. In età
matura, lo stesso Longhi darà alle
stampe un interessante contributo
mirante ad illuminare il proprio debito (mai acritico) rispetto alle posizioni crociane, cfr. Id., Omaggio a Benedetto Croce, in “Paragone. Arte”, 35,
1952, pp. 3-9, ora in Id., Opere Complete, vol. XIII, 1985, pp. 251-256.
Sulla ricezione e sulle riserve in
campo estetico nei confronti del filosofo napoletano da parte di Longhi
si vedano: G. Agosti, Longhi editore fra
Berenson e Venturi, in B. Berenson - R.
Longhi, Lettere e scartafacci. 19121957, cit., pp. 231-251, in part. pp. 235236; G.C. Sciolla, Storia della critica
d’arte del Novecento, cit., pp. 332-333.
34
Il riferimento va al saggio di B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari 1902.
35
B. Croce, Il carattere di totalità dell’espressione artistica, Bari 1917, ora in
Id., Breviario di estetica, Roma-Bari
1978, p. 127. Sulla ricezione di questa distinzione crociana, nella storiografia artistica, e, in particolare,
nel pensiero di Julius von Schlosser
si è soffermato Ricardo de Mambro
Santos, cfr. Id., Viatico viennese. La storiografia critica di Julius von Schlosser
e la metodologia di Benedetto Croce,
Sant’Oreste (Roma) 1998, pp. 57-58;
lo studioso ha successivamente ripercorso le proprie riflessioni sulla
ricezione di Croce nella costruzione
della Letteratura artistica dello Schlosser nel suo volume: Opera al bivio.
Alle origini della moderna storiografia
critica dell’arte, Sant’Oreste (Roma)
2001, pp. 22-25.
36
R. Causa, Le tarsie cinquecentesche
nella Certosa di S. Martino a Napoli, cit.,
paragrafo 2.
37
Ivi, paragrafo 3.
38
Per questo procedimento della critica longhiana, sul quale ha insistito lungamente la storiografia, si
rinvia all’intervento di A. Chastel,
Roberto Longhi: il genio dell’eckphrasis, in L’arte di scrivere sull’arte.
Roberto Longhi nella cultura del nostro
tempo, a cura di G. Previtali, Roma
1982, pp. 56-65.
39
Cfr. R. Causa, Per Tiziano: un pentimento nel “Paolo III con i nipoti”, cit.,
p. 222.
40
R. Causa, La Pittura del Seicento a Napoli dal naturalismo al Barocco, cit., pp.
915-916.
41
R. Causa, Opere d’arte del Pio Monte della Misericordia, Napoli 1970. In
particolare, lo studioso redige le
schede relative all’Adorazione dei
Magi di Filippo Criscuolo, ivi p. 92;
alla Madonna della Purità (dubitativamente attribuita a Teodoro d’Errico), ivi pp. 92-93; al Ritratto di do-
menicano (attribuito ad ignoto napoletano del XVI secolo), ivi, p. 96;
al presunto Ritratto di Eleonora da Toledo (attribuito ad ignoto fiorentino
del XVI secolo); alla Vergine con
Bambino che benedice un certosino, alla
Madonna con San Giuseppe e il Bambino con Santa Lucia, al presunto Ritratto di uomo in armatura (ivi attribuito a Fabrizio Santafede), ivi, pp.
103-104; al Ricco Epulone (colà attribuito a Ludovico Pozzoserrato di
Anversa), ivi, p. 105.
42
R. Causa, L’arte nella Certosa di San
Martino a Napoli, Napoli 1973. In particolare Causa menziona le note tarsie del coro ligneo, cfr. ivi, p. 22; il sepolcro di Carlo Gesualdo di Girolamo Santacroce, ivi, p. 27; la tela raffigurante la Presentazione della Vergine al tempio di Flaminio Torelli (il cui
contratto di commissione, ricordato
dallo stesso studioso, risale al 1588),
ivi, p. 32; gli affreschi e la pala con la
Crocefissione del Cavalier d’Arpino,
ivi, pp. 32, 35; la pala raffigurante la
Flagellazione di Luca Cambiaso e gli
affreschi colà ricondotti a Lazzaro Tavarone, ivi, pp. 32, 34; i lavori eseguiti
dai marmorari carraresi – Felice De
Felice, Raimo Bragantino e Fabrizio
di Guido – sul finire del secolo, ma
anche le sculture affidate al Caccini
nel 1593 raffiguranti San Giovanni
Battista, San Brunone, San Pietro e San
Paolo, ivi, p. 33. All’intervento dell’architetto Giovanni Antonio Dosio
dedica pagine più fitte di riflessioni,
ivi, pp. 33-35. Giudicati dal Causa
come “un’opera sensazionale di ebanisteria” sono gli armadi lignei intarsiati assegnati dallo studioso sulla base della documentazione emersa a Giovan battista Vigilante, Nunzio Ferraro, Lorenzo Ducha e Teodoro Voghel, ivi, p. 37.
RAFFAELLO CAUSA E LE ARTI DEL XVI SECOLO 45
a trent’anni dalla scomparsa di raffaello causa, l’ultima leva di ricercatori che ha indagato questa eredità
viva, e i docenti autorevoli che li hanno guidati, ripercorrono “nell’opera dello studioso, elementi e idee
che iscrivono l’opera del ‘soprintendente inarrivabile’
tra quelle che hanno lasciato un segno, le stesse che
avrebbero meritato ben prima di questa occasione
una riflessione profonda” [fabrizio vona]: dagli studi
sulle arti del XIV e XV secolo, attraverso i contributi
originali sulla civiltà figurativa dell’ottocento, sino
alle aperture pioneristiche alle espressioni più autentiche dell’arte contemporanea.
ISBN 978-88-569-0507-6
9
788856 905076