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I nuovi musei

Sono lieta di aprire questa sessione sulle Semiotiche urbane, concepita, nell'ambito del seminario Senso dei luoghi, come approfondimento e dibattito a partire da pubblicazioni recenti. Il tipo di approccio rinnova la felice tradizione delle Letture semiotiche, per cui Iuav si è contraddistinto nel panorama degli studi di settore, ma anche interdisciplinari, in Italia e all'estero.

Semiotica dei nuovi musei Sono lieta di aprire questa sessione sulle Semiotiche urbane, concepita, nell’ambito del seminario Senso dei luoghi, come approfondimento e dibattito a partire da pubblicazioni recenti. Il tipo di approccio rinnova la felice tradizione delle Letture semiotiche, per cui Iuav si è contraddistinto nel panorama degli studi di settore, ma anche interdisciplinari, in Italia e all’estero. Ci tengo a ricordare i 3 appuntamenti sugli spazi agiti già offerti dal LISaV nel contesto delle Letture e che giustificano, per i molti punti in comune, la scelta del libro che vado a presentare, cioè Isabella Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Laterza 2011 (Fig. 1). L’autrice insegna Scienze semiotiche a Roma La Sapienza ed è presidente dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici. Riavvolgiamo il nastro, breve rewind: - la riflessione, nel 2004, sui saggi di Manar Hammad, architetto e semiologo, contenuti in Leggere lo spazio. Comprendere l’architettura (Fig. 2), a cui ha fatto seguito, un anno dopo, la giornata di studi Manar Hammad, con il seminario Spazializzazione e pratiche e la conferenza Lo spazio sacro nell’architettura orientale(Fig. 3); la lettura tematica Pratiche e strategie, nel 2007, in occasione della quale discutevamo la raccolta Scene del consumo. Dallo shopping al museo, a cura di Isabella Pezzini e Pierluigi Cervelli (Fig. 4). Questi vari titoli convergono su una nozione di spazio modellato rispetto a programmi di riterritorializzazione e architettato o ri-adattato inscrivendo figurativamente le sue prassi d’uso. Macchine iniziatiche che incitano a percorsi orientati in senso cognitivo e patemico. Hammad, che in Scene del consumo ha edito la sua indagine sul Museo della Centrale Montemartini a Roma, insiste su un aspetto in particolare: le relazioni di controllo e di reazione che un soggetto enunciazionale, qui solitamente collettivo (architetto, committente, autorità politiche, curatore, artisti, designer, gestori, éclairaigistes – sempre più richiesti, buon pro per il nostro convegno sulla luce) instaura tra gli ordini discorsivi del museo. Il discorso architettonico controlla e regola il discorso dell’allestimento; il discorso dell’allestimento controlla e regola il discorso degli oggetti. E viceversa, aggiungerei: ci sono spazi espositivi addizionati a nuclei originari o che appositamente sorgono ed espandono se stessi e il loro marchio, in ragione del discorso delle opere, molto spesso extralarge. Pensiamo alla Dia:Foundation, caso estremo, che come massa corporea arriva a scomparire (Figg. 5-6). Le mutazioni discendono dal reciproco aggiustarsi dei livelli che Hammad enuclea e dall’elasticità dei loro plessi. A sua volta la nuova architettura museale è un centro di gravitazione e rifondazione antropica, dove non ha senso distinguere un paesaggio come luogo di esistenza, ontologico, e un paesaggio come campo di esperienza, semiotico (Fontanille), ma in rapporto al museo si attua una sovrascrittura su un palinsesto già stratificato di segni, di tracce, di memorie. Il paesaggio a prima vista più innocente o selvaggio è ritagliato da uno sguardo che si interessa alle sue articolazioni fisiche. Sul libro di Isabella Pezzini Semiotica dei nuovi musei torno volentieri dopo una recensione scritta per Alfabeta2 lo scorso novembre. Le recensioni, si sa, sono forme discorsive di catalisi, spot del genere dei riassunti, dei compendi. Qui si offre invece la possibilità di un’analisi, con l’esplicitazione di alcune questioni e l’accesso al confronto. Scopriamo l’assetto del libro (Fig. 7): Pezzini sceglie alcuni casi, isotopici per successo di pubblico, area geografica, l’Europa, ed età, gli ultimi quindici anni. Sono il Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao, il Museo dell’Ara Pacis di Richard Meier a Roma, il Museo Ebraico di Daniel Libeskind e il Monumento alle vittime dell’Olocausto di Peter Eisenman a Berlino, la Punta della Dogana di Tadao Ando e la Fondazione Vedova di Renzo Piano a Venezia, il Quai Branly di Jean Nouvel a Parigi, la chiesa di Renzo Piano per San Pio a San Giovanni Rotondo (Figg. 8-23). A bruciapelo: in che cosa una semiotica dei nuovi musei differisce dalla vasta letteratura sull’argomento? Ebbene, si tratta di una descrizione empirica che coglie delle salienze da ognuno dei casi, le esamina e le mette in correlazione con salienze di natura contraria, complementare o contraddittoria. Pezzini indaga la storia di produzione e costruzione di queste architetture, tenendo conto dei disegni, delle piante e dei plastici e rilevando con gusto le controversie: i pentimenti o i tradimenti in fase di realizzazione, nelle polemiche tra committente, curatore e architetto (Guggenheim di New York), nelle contese dell’oggetto simbolico tra i leader, a forza di atti di spoliazione e appropriazione (Ara Pacis) o nei conflitti tra gruppi sociali e culturali. Ecco alcuni piani di pertinenza (Fig. 24): - la riqualificazione di aree dismesse, con “musei fuochi centripeti-centrifughi rispetto all’attorno” GUGGENHEIM BILBAO - il dialogo tra presente e passato: 1] l’invenzione della tradizione, che ricontestualizza e deautomatizza la percezione di un luogo inviolabile quale Roma antica - ARA PACIS 2] l’archeologia della cultura materiale destinata a un uso artistico - PUNTA DELLA DOGANA E FONDAZIONE VEDOVA - l’attivazione della memoria attraverso percorsi non facili, dominati dall’incertezza e dal disorientamento - MUSEO EBRAICO E MEMORIALE DI BERLINO - la risonanza tra diversità culturale e biodiversità - QUAI BRANLY - la valenza di una collezione attraverso il filtro della letteratura - PAMUK, IL MUSEO DELL’INNOCENZA - i rituali e la retorica dell’intrattenimento - SAN GIOVANNI ROTONDO Il filo rosso è la semiosi di un museo che, esponendo se stesso in quanto evento performativo, diviene medium di massa. Si marca una linea di confine: se nei musei tradizionali l’interesse è per le opere, di rado per gli edifici che le ospitano – razionali contenitori – nei nuovi musei è l’architettura artistica a farsi opera o meglio a funzionare come operazione di programmazione sensoriale. La modellazione 3D dei volumi formula la fattibilità architettonica in chiave scultorea, plasmando un’arte/Ambiente abitabile. Nel corpus di esempi questo giustifica l’occorrenza, apparentemente anomala, del complesso di Renzo Piano per Padre Pio, sintomo della comparabilità tra due regimi – religione e arte – nelle liturgie contemporanee del pellegrinaggio e della visita. Consiglio vivamente la parte del libro sul museo biografico del santo, un’installazione oggettuale-mediale dove dominano le statue in cera di padre Pio e Giovanni Paolo II, direttamente inviate dal Madame Tussauds di Londra. Pezzini indica tra i simboli religiosi le statue dei gabbiani sui pilastri del campanile, sostitutive già in sé delle classiche colombe (Fig. 25). Che Maurizio Cattelan, aduso all’ironia tra sacro e profano, le abbia commutate con uccelli più realistici, piccioni imbalsamati, per i cornicioni delle facciate e gli spazi istituzionali della 54. Biennale di Venezia? L’idea risale al 1997 (Fig. 26), quando l’artista aveva installato dei Turisti di paglia sulle travi del padiglione Italia. La citazione ridondante del 2011, con il qualificativo di Others, alieni, presenze inosservate, irradia sul territorio Biennale un tratto semantico – quello di essere un luogo di raduno e di culto – che la prima versione non prevedeva. Un dato attira l’attenzione di Pezzini verso i nuovi spazi espositivi: è la nascita, nel mondo, di circa 100 musei ogni anno. Non è ancora in corso un censimento, a cui andrebbe affiancata una mappatura degli studi effettuati di recente in proposito. Anche questi crescono a macchia d’olio: si va da ricognizioni di taglio storico o economico a riflessioni sul museo e i suoi pubblici a indagini sul collezionismo e la preservazione del contemporaneo, fino a disamine locali, su singole realtà [ho predisposto una bibliografia in merito. Ai semiologi suggerisco il numero unico Analyser le musée dei Travaux du Centre de Recherche Sémiologiques (1995)] Lo Iuav annovera almeno tre Unità di Ricerca correlate o incentrate sull’argomento: Fare mostre; Museologia del Design; Memoria e rappresentazione della città. Fare mostre è un asse parallelo, ma imprescindibile per capire le trasformazioni del museo: anche in diacronia ne interseca in modo appassionante il discorso, tanto da averne indotto il rovesciamento di segno e il reindirizzamento, verso il futuro, dello statuto conservativo. Pensiamo al ruolo della documenta di Kassel, sperimentale “museo x 100 giorni”, che ha stravolto le modalità del curare l’arte e sostituito il giudizio di gusto con l’interrogazione e la comprensione; a Manifesta (1993), che ha spostato l’arte fuori dai centri canonici del potere; a Skulptur Projecte di Münster (1976), modello virtuoso di riabilitazione, attraverso una mostra di arte plastica all’aperto, di una cittadina rasa al suolo nei bombardamenti della seconda guerra mondiale; alla Biennale di Venezia, con la sua diaspora dei padiglioni nazionali permanenti, oggi sempre più richiesti e, una volta costruiti, costantemente rimotivati nella loro segnicità, anche con modifiche strutturali – si veda il padiglione Israele con Sigalit Landau all’ultima Biennale Arte. Il campo espanso dell’opera ha implicato il coinvolgimento e la modulabilità dello spazio e dettato nuovi criteri di esposizione e comunicazione. Una mostra è pietra miliare in questo senso, When attitudes become form, 1969, Kunsthalle di Berna, dove, per mandato di Harald Szeemann, Joseph Beuys, Robert Morris, Bruce Nauman, Mario Merz, Jannis Kounellis, sfruttano zone in precedenza mai marcate nel percorso espositivo: pavimenti, angoli, zone cieche. In Occidente, fino a tutto l’Ottocento, pareti, impiantiti, soffitti, porte, finestre interferivano pochissimo con l’oggetto di rappresentazione, in cornice. Anzi, secondo l’invenzione di Vincenzo Borghini per lo studiolo di Francesco de’ Medici a Firenze (1570-73), primo nucleo attestato di una Wunderkammer in Europa, bisognava “accomodare le storie ai luoghi e non i luoghi alle storie” e stare sempre attenti, distribuendo le immagini, a “non entrar in qualche gran lecceto et anche di non lasciare nulla vuoto”. Da un certo momento in poi – dall’approccio totalizzante dell’arte in Wagner e poi nelle avanguardie, spiega bene Angela Vettese – l’opera è esplosa dai propri limiti e ha cominciato a tentare una ricostruzione dell’universo. I futuristi avevano esteso alla città l’aspirazione a un cambiamento radicale e sistematico dei comportamenti, su un piano politico e civile (arte = vita). La nuova architettura artistica inverte la direzione: trasferisce la città nella semiosfera dei musei, completamente rigenerati, non più “cimiteri di sforzi vani” o “dormitori da inondare sviando i canali” (Marinetti). Ecco che questo costruito si porta dentro un’arte “architettonica”, Judd, Serra, Heizer, Flavin, De Maria (vita = arte). Viceversa c’è chi – come Jean Clair – è pronto a dichiarare che i musei sono in crisi – divenuti luna park – e a insorgere contro la deriva mercantile che affitta le collezioni nazionali e trasforma l’arte in spettacolo. La politica del Louvre ad Abu Dhabi, conclusa in tre mesi e programmata su un arco di 30 anni, sarebbe l’esempio più costernante di una marca di lusso ceduta in franchising per attirare le folle. Il vantaggio del libro di Isabella Pezzini è che l’analisi si svolge qui nella prospettiva del visitatore: l’autrice compie delle passeggiate negli spazi in questione, tesaurizza le visite e le esamina senza scostarsi dalla postura osservativa. Il metodo semiotico mira non a una descrizione esterna o neutrale, ma a un’obiettività, in quanto “rilevanza di una manifestazione articolata per qualcuno”. Da un punto di vista esterno le architetture descritte lasciano emergere le tracce del loro procedere costruttivo e hanno una figuralità che enfatizza l’aspetto processuale delle ricerche artistiche – ecco le spirali, le sospensioni, i labirinti, le serpentine (“pelli strutturali” disegnate dall’informatica). Varcando la soglia e assumendo un punto di vista interno, ci si accorge che questi schemi non sono formali, ma hanno una delega specifica: formano alla competenza del volere: si offrono come apparati seduttivi e diagrammi che recano inscritti ritmi e tensioni. Prospetti veri e propri, nel senso che non coprono più né nascondono, ma, attraverso adiuvanti inediti quali il vetro, l’acciaio, lo zinco, quasi sempre fratti e che interagiscono con la luce, mediano l’esperienza che si compirà all’interno, preconizzandola. Insomma, lasciano intravedere non l’oggetto di valore museo, bensì il programma narrativo che scandisce il congiungersi con esso. Funziona a riguardo la tesi di Renato Bocchi del parallelismo tra narratività e architettura, in quanto operazione configurante nello spazio (c’è dietro espressamente Paul Ricœur). Scrive Bocchi: “non è in causa il progettare uno spazio fisico stabile, finito, ma piuttosto il progettare un processo di trasformazione e altresì un processo di percezione progressiva: processi che possono essere guidati ma non fissati una volta per tutte. Il programma di un progetto di paesaggio assomiglia pertanto + a uno story-board o a una sceneggiatura teatrale o filmica. Tende a offrire una chiave di lettura. Non è molto dissimile dal progetto d’interni di un museo, poiché contempera un itinerario significativo, una sequenza ordinata secondo una successione spazio-temporale, con una serie di episodi o opere specifiche”. Sia Bocchi sia Pezzini citano Steven Holl, con il modello della Parallasse: “cambiamento della disposizione di superfici che definiscono lo spazio in virtù del cambiamento della posizione osservativa”. Il Kiasma di Helsinki (Figg. 27-28), ma potenzialmente qualsiasi museo disegnato secondo questi criteri, si costituisce come dispositivo per pensare i nostri movimenti verticali o obliqui attraverso lo spazio urbano. Racconta, articolandola, la reversibilità tra vedente e visibile, un fenomeno che non riusciamo a catturare cognitivamente mentre lo esperiamo. Il libro di Isabella Pezzini offre numerosi spunti e ognuno dei capitoli meriterebbe molto più spazio di quello che possiamo riservargli in questa sede. Mi limiterò a una serie di osservazioni e ad alcuni interrogativi da ponte per il dibattito: - la prima considerazione riguarda il tema del recupero come ri-generazione, che tratti nei 2 casi di Punta della Dogana e Fondazione Vedova. C’è uno scandaglio degli strati degli edifici per cui Tadao Ando arriva a manifestare e a montare insieme tempi diversi del palinsesto: vecchie pietre accanto a delle nuove, rendendo visibili le tracce del suo intervento. È più importante non l’edificio finito, ma il processo che lo ha ri-animato, in grado di far coincidere l’antico essere contenitore per merci e il destino di contenitore per opere. Merci e opere appartengono a un medesimo regime dello scambio. Solo che adesso le opere-merci stanno ferme e sono i visitatori a circolare, trasportati dalle attrattive del percorso. In Punta della Dogana. Il ragionamento che fai, comparativo (Fig. 29), ti porta a notare l’opposto in Fondazione Vedova. Qui le opere-merci si muovono: nel dispositivo meccanico-elettronico che conduce le pitture dal buio del deposito alla luce si legge in filigrana la memoria del trasporto ripetitivo dei sacchi di sale, a opera degli “sciavi”. C’è da chiedersi se questi tentativi di traduzione delle antiche attività siano marcati in Tate Modern (2000), ex centrale elettrica monumentale (Herzog e De Meuron) o al MAXXI di Zaha Hadid (2010), quartiere di vecchie caserme. - poni poi un interessante problema sull’interpretazione dei nuovi musei e sulle sue decodifiche “aberranti”. C’è una fenomenologia della fruizione che distorce l’uso per cui l’architettura è pensata, ma che finisce per rivelarsi produttiva. A proposito del Memoriale di Berlino scrivi che il tipo di spazio pubblico non discontinuo induce un comportamento da bighellone, in chiave turisticoludica. Citi Benjamin: “il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto”. L’interazione corporea con il labirinto contrasta tale tendenza, disorientando e tentando poi il difficile compito di riorientare. Ma concludi (p. 81): “la frequentazione individuale o collettiva di uno spazio dà luogo a forme idiosincratiche di fruizione, inizialmente non previste da chi ha concepito o allestito gli spazi e che in certi casi possono arrivare alla risemantizzazione”. Ne sappiamo ben poco, è un punto che varrebbe la pena approfondire. Tra l’altro sarebbe stimolante confrontare il Monumento all’Olocausto di Eisenman con il progetto di Michael Arad e Peter Walker per l’area di Ground Zero, Reflecting Absence, dove l’emergenza da terra del monolite diviene immergenza nell’acqua, evocazione dei morti (ci ha lavorato Andrea Pinotti). Difficile bighellonare lì dentro. - la tua clinica dei musei include infine una dimensione critica, per quanto velata e sempre espressa in forma dubitativa. La rintraccio nei passaggi che dedichi alle strategie museali dell’informazione e della comunicazione: consideri paratesti di accompagnamento (didascalie, cataloghi, mappe, guide), dispositivi multimediali e altre protesi di realtà aumentata. E vi trovi un eccessivo intento pedagogico, l’invito all’iperconsumo o una spettacolarizzazione che rischia di mettere a distanza più che di avvicinare. Un’altra perplessità che hai è riguardo alle misure del confronto tra antico e contemporaneo nell’Ara Pacis: la performance monumentale della sfilata di Valentino, sorta di rituale postmoderno, ti fa nascere il sospetto che l’Ara di Augusto fosse stata presa in ostaggio. Fino a dove può spingersi la compenetrazione sincronica?
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