LoSguardo - Rivista di Filosofia
www.losguardo.net
Issn: 2036-6558
Coordinamento:
Simone Guidi
Antonio Lucci
Redazione:
Federica Buongiorno
Marzia Caciolini
Lorenzo Ciavatta
Jacopo Falà
Marco Gatto
Andrea Pinazzi
Libera Pisano
Contatti:
[email protected]
www.exnihilo.it
Numero VII, 2011 (III)
LIBERALISMO
E
DEMOCRAZIA
ottobre 2011
Indice
Editoriale
(di Andrea Pinazzi e Federica Buongiorno)
p. 7
John Locke and liberalism
(di Michael Zuckert)
“ 9
Voltaire. La libertà e il senso del limite
(di Riccardo Fubini)
“ 29
Adam Smith di sinistra
(di Sergio Cremaschi)
“ 45
Liberalismo e democrazia in Constant
(di Stefano De Luca)
“ 57
Tocqueville’s contribution to the american reconciliation of
greatness and justice in a true understanding of human
liberty
(di Peter Augustine Lawler)
“ 81
Siamo liberi perché fallibili
(di Dario Antiseri)
“ 99
Elogio del romanticismo: Isaiah Berlin
(di Francesco Saverio Trincia)
“ 109
Fra natura e storia. L’eredità di Bobbio per il futuro del
liberalismo. Un’ipotesi di lavoro
(di Corrado Ocone)
“ 121
Religione e liberalismo: ragione pubblica, sfera pubblica e
pluralismo culturale
(di Sebastiano Maffettone)
“ 129
Liberalismo e democrazia. Conversazione con Alessandro
Ferrara
(a cura di Andrea Pinazzi e Federica Buongiorno)
“ 151
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
N. 7, 2011 (III)
Liberalismo e Democrazia
Editoriale di Andrea Pinazzi e Federica Buongiorno
Qual è il rapporto tra liberalismo e democrazia? Sono ancora, come
voleva Guido De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo, due
termini al tempo stesso in continuità e in antitesi tra loro? La tesi di De
Ruggiero è troppo nota per dover esser più che accennata: egli individuava
la continuità nei principî guida su cui poggiano comunemente una visione
liberale del mondo e una concezione democratica della politica, ma
metteva in guardia dallo spingere troppo in là il parallelismo tra i due.
Se un liberalismo che si evolve da un livello feudale – in cui cioè si è
attenti a preservare la libertà di pochi – è già sulla strada democratica, la
democrazia propriamente detta vivrebbe, per De Ruggiero, di uno
sbilanciamento verso la dimensione comunitaria e collettivistica, di un
idolatrismo statale che la muterebbe in una sorta di Briareo a rischio di un
sostanziale conformismo. La democrazia si porrebbe così – pur nella
continuità delle premesse – in antitesi alla visione liberale, in cui è
l’elemento individuale a giocare un ruolo di primo piano.1
La prima delle domande cui questo settimo numero de Lo Sguardo
cerca di dar risposta riguarda, allora, la relazione tra i due termini in
oggetto: la “e” che li congiunge nel titolo prescelto assume una valenza
problematica di cui i saggi qui presentati sono testimonianza palpabile.
Può ancora, quel rapporto, esser pensato nel senso deruggeriano? O non si
deve, piuttosto, isolare il primo corno della questione, individuando nella
“fallibilità” dell’homo liberalis la base stessa della democrazia? Se
assumiamo il pluralismo delle posizioni (facendo attenzione a non cadere
nel relativismo) come il concetto base e la sostanza stessa della vita
democratica, non dobbiamo forse concludere che – lungi dall’esserle
accomunato solo nelle premesse – il liberalismo, inteso nella sua
componente etica, culturale, e, per dir così, metapolitica, costituisce
inevitabilmente il contenuto stesso della democrazia? E, che, in fondo, i
due termini sono più vicini di quanto, verbis, si tenda a sostenere?
È questa relazione, inserita nella cornice problematica appena
schizzata, che ci siamo proposti di indagare, invitando gli autori a
1
Cfr.: G. De Ruggiero; Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano, 1962,
pp. 357-367.
7
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
esprimersi al riguardo - non pretendendo, beninteso, di rappresentare qui
una storia del pensiero liberale, quanto piuttosto di sottolineare la
necessità di discutere un tema dalla grande rilevanza teorica e dalla
stringente attualità. Eminenti studiosi italiani e stranieri ci presentano,
così, la loro concezione del rapporto liberalismo-democrazia, attraverso il
confronto con una selezione dei classici del pensiero liberale e
democratico; la provenienza da tradizioni filosofico-politiche differenti, e a
volte tra loro opposte, non impedisce di rintracciare una continuità tra gli
interventi. Questi ultimi, infatti, sono legati dal comune riferimento a una
libertà figlia di un pluralismo non relativista, che prima ancora di
costituire un’istanza tipicamente liberale, è il cuore stesso della visione
democratica.
Tutti i contributi vengono qui pubblicati per la prima volta.
L’intervento di Sebastiano Maffettone era stato redatto per la conferenza
“Religion and Democracy”, tenutasi a Budapest il 15 e 16 dicembre del
2008, e viene qui tradotto e ripubblicato per gentile concessione
dell’autore.
Ringraziamo coloro che hanno voluto dare il loro contributo alla
realizzazione di questo numero e auguriamo a tutti una buona lettura,
invitandovi sin d’ora alla giornata di discussione sul tema che Lo Sguardo
ha organizzato per il 10 novembre prossimo a Roma, in collaborazione con
il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli di Roma, il
Dipartimento di Filosofia della Sapienza Università di Roma e Reset. Sarà
questa l’occasione, forse, per approfondire i temi affrontati nel numero e
per allargare la visuale sull’attuale contesto politico e sociale, così
duramente segnato al livello mondiale dagli effetti della recessione e a
maggior ragione attraversato da una richiesta di rinnovata capacità
responsiva della politica.
8
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
John Locke and Liberalism
di Michael P. Zuckert
John Locke is one of the preeminent names in the history of political
philosophy. He is often identified as the founder of the liberal tradition of
political thought and as the author of the most compelling case for
religious toleration. His achievements extend beyond moral and political
matters for he was the founder of modern empiricism, a doctrine of how
and what we can know, as well as being the author of important works in
economics, theology, and educational theory. His work remains influential
today, as is manifest in the revival of Lockean style political philosophy in
the late twentieth century by thinkers like John Rawls and Robert Nozick.
Locke lived in tempestuous times and often found himself very much
caught up in the tempests. The most obvious were the political tempests:
He lived though the two British revolutions of the seventeenth century, the
civil war of mid-century and the Glorious Revolution of 1688-89. His
father was on active participant in the former on the Parliamentary side;
Locke himself was much identified with the Whig Party before and during
the latter revolution because of his close relationship with the Earl of
Shaftesbury, the acknowledged leader of the Whigs in the post-Restoration
years. Locke was in exile in Holland when the Glorious Revolution came,
but his name is indelibly associated with it because he cast his Two
Treatises of Government as an effort «to establish the Throne of our Great
Restorer, our present King William», the ruler who supplanted King
James II as a result of the Glorious Revolution.
In those turbulent times Locke did not lead a cloistered life. It is a
matter of some controversy among scholars as to just how much Locke was
entangled in restoration era revolutionary plots, but his role as
Shaftesbury’s confidante, secretary, aide de camp guaranteed that he was
involved in some part of it. On two separate occasions he felt that his
safety required that he flee England for fairly extended periods on the
continent, once in France, and then in Holland.
Locke’s political writings must be seen to some extant as efforts to
9
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
respond to the issues underlying the political turmoil of the age. Those
conflicts were complex because they occurred along two dimensions — the
strictly political or constitutional and the religious. The political dimension
concerned the relations between the powers of King and Parliament; the
religious dimension derived from the unsettled character of British
Christianity that followed on the Reformation. Locke wrote his Two
Treatises to settle the political side, and his Letter on Toleration to settle
the religious side.
Of course, to emphasize the relation between Locke’s writings and his
political context is not to reduce those writings to being merely partisan
statements with bearing only on the immediate situations. He attempted
to speak to the political conflicts of his time by presenting the truth about
politics and the political place of religion, truth that was valid for more
than this particular time and place. Locke was a political actor, but he was
also a philosopher, and examination of his writing’s bears out the view that
his philosophic and political activity were completely intertwined. It was
an era of turmoil and innovation in the philosophic world also. Locke was
a generation or so younger than the great innovators of modern
philosophy and natural science. Thus his work shows great debts to
Francis Bacon, Thomas Hobbes, and perhaps most of all, René Descartes,
pioneers of the new philosophy. Locke was also a great friend of Isaac
Newton, of Robert Boyle, one of the early practitioners of the science of
chemistry, and of Thomas Sydenham, one of the founders of modern
medical science. Indeed, so far as Locke can be said to have had a
profession it was as a physician, in which capacity he first met Shaftesbury,
an event that changed his life by lifting him out of the ivory tower
atmosphere of Oxford and replanting him in the Shaftesbury household.
Locke presented himself in his major work, An Essay Concerning
Human Understanding, as a mere «under-laborer in clearing ground a
little, and removing some of the rubbish, that lies in the way to
knowledge». This is no doubt too modest, for his achievements in the
Essay are much greater than that, but his identification of his task is
helpful for getting a sense of the overall character of Locke’s corpus. The
“rubbish” he wished to remove is the the dominant scholasticism, what
Locke often refers to as the teachings of «the schools». Locke was a
partisan in the debate between the new philosophy of Bacon, Descartes,
and the others and the old scholastic philosophy tracing back to Thomas
Aquinas and Aristotle. Locke’s moral, political, and religions writings are
best understood as an effort to apply the new philosophy, as he understood
and developed it, to the practical affairs of human life.
Given that understanding of Locke’s efforts, it is surely not surprising
that his political philosophy has been controversial from the outset.
Because he expected controversy he published only a few of his writings
with his name on them, most importantly his masterwork, the Essay
Concerning Human Understanding. His Two Treaties, his Letter on
Toleration, his The Reasonableness of Christianity were all published
10
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
anonymously. Nonetheless, all of these but the Two Treatises entangled
him in major controversies in his own time, most often with clergymen
who found his writings insufficiently orthodox. Locke’s later years were
spent, in large part, in producing long responses to the various clerical
attacks his work inspired. He was concerned that his works not be taken to
be so religiously heterodox as his critics claimed.
Locke remains controversial among scholars today, with the religion
issue still underlying much of the controversy. Ironically perhaps, the
terms of the debate have shifted since the seventeenth century, for now the
dominant view is that Locke is, perhaps above all, a religious thinker, a
Christian thinker. The dissenters from that orthodox view see Locke as a
more secular thinker. The controversies are probably more heated than
they need be, for when properly understand it becomes clear that Locke
straddles the divide between the scholars in a way that makes both sides
right.
Locke’s political philosophy is contained mainly in his Two Treatises
of Government, but others of his works, especially his Letter on Toleration
contain important supplementary materials. The Two Treatises was
published in 1690, shortly after the Glorious Revolution and ostensibly to
justify the replacement of James II as King by William III. According to
the prevailing scholarly consensus, Locke wrote most of the Two Treatises
perhaps a decade before he published it. The occasion, it is now believed,
was not the Glorious Revolution, but the agitation to prevent the openly
Catholic James from succeeding his brother Charles II as King. The leader
of this movement for Exclusion, as it was called, was Locke’s friend and
patron, the Earl of Shaftesbury.
The first of the Two Treatises was aimed against the work of Sir
Robert Filmer, strong partisan of the royalists in the political conflicts of
the day, who had argued in his book Patriarcha that kings ruled by divine
right. Of course that claim had been raised much earlier, by James I, for
example, but Filmer attempted to show that divine right monarchy was
established in the Bible. According to Filmer, God had appointed Adam,
the first father to mankind, king of all his descendents, with his monarchic
power descending to his next heir: Filmer put together the account of
Adam’s creation in Genesis with the widely accepted social fact that
children owed obedience to their fathers to create the theory that the
power of kings was the power of Adam, a power inherent in fatherhood.
Although the evidence is somewhat mixed, it appears that Filmer’s
doctrine had much influence in the years when the Exclusion Controversy
roiled the waters of British politics. The First Treatise was a
thoroughgoing and extremely effective critique of Filmer’s argument,
challenging, among other things, Sir Robert’s Biblical interpretations.
According to Locke’s subtitle, the First Treatise aimed to overthrow
«the False Principles and Foundation» of Filmer’s system. The second
essay was meant to supply «The True Original, Extent, and End of CivilGovernment». The first was largely critical in character; the second more
11
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
constructive. Nonetheless, much of importance for understanding Locke’s
philosophy of politics is to be found in the First Treatise, a fact that speaks
strongly against the dominant practice of reading the Second Treatise
without the First.
1. Locke and the Liberal Tradition
Locke is the founder of the liberal tradition in political thought. What
can that mean? In the first instance it means that he asks a certain - novel question about politics and then answers it in a certain novel way. His
question comes to sight in the definition of political power with which he
opens his Second Treatise.
«Political power then I take to be a right of making laws with Penalties of
Death, and consequently all less Penalties, for the Regulating and Preserving
of Property, and of employing the force of the Community, in the Execution of
such Laws, and in the defense of the Commonwealth from Foreign Injury, and
all this only for the Public good (II3)».
Locke’s definition of political power contains many noteworthy points but
most striking because most jarring is his opening assertion: «Political
Power then I take to be a Right […]». This sounds strange in our ears
because we usually take political power to be a fact, not a “right.” Political
power, according to Locke, is a certain kind of power to coerce, to make
and enforce laws with the penalty of death and consequently all lesser
penalties as well. He highlights the harsh coercive side of political power
and by denoting it a right he brings to the fore the question: what makes
right this coercive power? Locke is not taking for granted the existence and
contours of political power. He demands at the outset a justification for its
very existence. It is for this reason that he begins his political
philosophizing by positing a state of nature, that is, a «state of perfect
freedom» and «a state also of Equality, wherein all the Power and
Jurisdiction is reciprocal, no one having more than another». He posits a
condition in which human beings are subject to no law but the law of
nature and are «subject to no body (II12)». The state of nature is a state of
anarchy, of no political power as Locke has defined it. Although there are
real life instances of the state of nature («all Princes and Rulers of
Independent governments all through the World, are in a State of Nature
[II19]»), the chief point of the state of nature is not to identify an actual
condition. It is to give us the baseline of no authority and to pose for us in
a particularly graphic way the question implied in the definition of political
power: whence come the right to exercise coercive power, especially the
power to take the life of another?
Locke is, in the first instance, the founder of the liberal tradition
because he so clearly formulates the demand that the very existence of
political power as rightful coercion be justified. It might be objected to this
12
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
formulation that Locke merely follows Thomas Hobbes in positing a state
of nature and demanding an account of the genesis and justification of
political power from that beginning. This would be a fair objection, but
Hobbes is at best a proto-liberal, for from the starting point of absolute
freedom he generates the legitimacy of an absolute sovereign. Locke is a
liberal in the full sense because he generates from the condition of no-rule
only limited governmental power.
It is not only the conclusion of Locke’s argument that earns him the
title of father of the liberal traditions. There was something about the type
of argument he made that was significant as well. The immediate target of
his critical First Treatise was Robert Filmer, who, according to Locke,
rested his argument solely on «Scripture-proofs». In relying on the Bible
Filmer was by no means unique for the time; much of the serious political
thinking in the 17th century was, one might say, political theology, rather
than political philosophy. Although Locke engages in Biblical oneupmanship against Filmer, he rests neither his main critical weight nor his
constructive philosophizing there. In the First Treatise Locke identified
reason as mankind’s «only star and compass». To take guidance elsewhere
can carry man «to a Brutality below the level of the Beasts, when he quits
his reason (I58)». Locke is thus a rationalist and depends not on revelation
for understanding the “true original” of political life. Thus there are few
biblical citations in the Second Treatise. This is not to say that Locke is
hostile to revelation; he grants that it has a place in establishing truths that
transcend the powers of reason, but he is wary of so-called revelations that
induce irrational enthusiasm. To avoid enthusiasm he insists that reason
has a role in establishing the credentials of alleged revelations. Politics, he
believes, is well within the sphere of reason and thus, although he
occasionally looks to the Bible for confirmation of conclusions he draws on
the basis of reason, it is reason by which he “steers”.
Locke’s definition of political power highlights rightful coercion as
the decisive means of the political and at the same time he emphasizes the
limited ends for which that power exists: «for the Regulating and
Preserving of Property, and […] the defence of the common-wealth from
Foreign Injury, and all this only for the Publick Good». The definition of
the political thus points to a series of topics that together give Locke’s
political philosophy its particular texture: (1) On what basis does he posit a
state of nature as the proper beginning point? (2) What does he mean
when he specifies the «regulation and preservation of property» as (one
of) the chief ends of political life? and (3) How does he get from the state
of nature to rightful political power?
2. The State of Nature and Natural Rights
Locke begins by positing a state of nature, a condition in which men
are not subject to political rule, but in which nonetheless have moral
guidance. «The State of Nature has a Law of Nature to govern it, which
13
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
obliges every one (II6)». The Content of the law of nature derives from the
claim that «men being all the workmanship of one Omnipotent and
infinitely wise Maker; all the servants of one sovereign Master, sent into
the world by his order and about his business, they are his property, whose
workmanship they are, made to last during his, not one another’s
Pleasure».
Certain limitations on what human beings may do to
themselves and others follow from the fact that they are God’s property.
The may not «destroy one another», for that would be a violation of God’s
property in men. A man may not even «quit his Station willfully» for the
same reason. That is, they may not «take away, or impair the life or what
tends to the Presentation of the Life, the Liberty, Health, Limb, or Goods
of another (II6)». As God’s property men are morally obliged to respect
certain limits in their dealings with self and others. These limits in effect
establish rights to life, liberty, and property for all, rights which include
the immunity from others’ efforts to harm them. This “workmanship”
argument, on which Locke places much weight, should not be taken to be
an appeal to Biblical doctrine per se, although it obviously echoes
theological interpretations of the account of creation in Genesis. Locke
does not present it as a version of Genesis, however. Although he does not
attempt a rational proof for the existence of an omnipotent, omniscient,
creating God in the Treatises, he does attempt such a proof in his Essay
Concerning Human Understanding and it is that rational argument that is
the backdrop for his assertions in the Second Treatise. That is, he is not
deviating from his affirmation of reason as our «only star and compass».
Locke is appealing here to a theological argument, but we need to
recognize the distinction, so commonplace in Locke’s time, between
Biblical and rational theology. Locke is appealing to an argument meant to
be one of rational theology.
We are God’s property, but Locke also affirms that «every man has
Property in his own Person. This nobody has any Right to but himself
(II27)». Which is it - are men God’s property or their own? What are we to
make of Locke’s apparent contradiction? We cannot answer those
questions unless we understands what Locke is saying when he declares
men to have «property in their own persons», or to be self-owners. Locke
is hereby stepping into a debate set off by his predecessor Thomas Hobbes,
w ho stipulated that by nature, or in the natural state, men possessed the
«right of nature», which is a «right of every man to everything», which,
Hobbes explains, includes a right even to one another’s bodies. This is no
doubt an extensive doctrine of right, for it implies there is no wrong in
nature, i.e., no action or claim that can be raised that goes beyond one’s
rights. Hobbes intended that conclusion for he understood right to be a
liberty pure and simple, that is, a moral warrant or permission to do (or
not) as the right possessing agent chooses. With natural right so
understood it was but a short step for Hobbes from the state of nature to a
state of war, for all have a right to do to others whatever they please. Of
course, Thomas’ right to John’s body or life imposes no obligation on John
14
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
to recognize or give way to Thomas’s effort to exercise his right. John has
just the same right relative to Thomas and indeed has an incentive to
preemptively exercise his right against Thomas. Everyone has an incentive
and a right to preempt the hostile actions of others: the inevitable result is
war.
Many readers of Hobbes were put off by his doctrine of natural right;
some accused him of misusing the very concept of right. A right, it was
rejoined, is not merely a liberty, but it is a morally valid claim such that it
comes with a correlative duty in another to respect or recognize that right
in some way. Thus if Thomas has a right of free speech, others have a duty
or obligation not to interfere with Thomas in his exercise of his right. Or
more immediately to the point, if Thomas has a right to life, then others do
wrong if they take his life; they violate a duty, moral limitation imposed on
them by Thomas’s right. Right, as these critics saw it, is concomitant with
duty, if only the duty to forbear from interfering with the right holder in
his enjoyment of his right.
Locke affirm that men have property in themselves, and goes so far
as to call all the natural rights men possess “property”; he affirms, for
example, that man «[…] hath by nature a power, […] to preserve his
property, that is, his life, liberty and estate, against the injuries and
attempts of other men (II87)». What are usually referred to as the objects
of rights - life, liberty, and estate - are referred to by Locke as property.
Unlike “right,” which has the ambiguity of meaning at work in the debate
between Hobbes and his critics, property is unequivocal. To affirm
property is to affirm that nobody else has a right, without the consent of
the owner, to seize, damage, or otherwise infringe on the property of
another. Thus Locke can say that the infringements by others on one’s
property are “injuries,” i.e., actions against rights, jura in the original
Latin. Although some scholars have identified the Hobbesean and Lockean
doctrine of rights, they are in fact quite different.
Lockean rights, whether derived from God’s ownership or from selfownership, thus have as correlates duties of forbearance on the part of
others. That means, among other things, that men do not have a natural
right to one another’s bodies. They have instead a moral immunity against
others using violence or otherwise impinging on their bodies. It is wrong
for others to coerce or interfere with the bodies (the platform of life), the
actions (liberty), or the external goods (property) of others. Because men
have the basic natural rights and the correlative immunity from coercion,
the initial situation is rightfully conceived of as a state of nature, that is to
say, a state where there is no authority or political power as Locke has
defined it, for that is at core the right to use coercion even into death. The
state of nature then is an inference from the natural endowment with
rights, understood as derived either from divine or self-ownership.
Locke contradicts himself, or at least says something very puzzling
when he affirms both sorts of ownership, but the strange thing is that the
results - natural rights and the state of nature - are more or less the same
15
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
no matter which starting point one follows out. One of the most
characteristic and pervasive features of Locke’s political philosophy is just
this double track argument proceeding simultaneously from quite different
premises to the same conclusions. Because Locke proceeds on both tracks
through his Second Treatise, the scholars have divided into champions of a
theistic versus champions of a non-theistic Locke. Why Locke gave both
kinds of arguments is difficult to say simply on the basis of his political
writings. One would need to probe his epistemological and theological
writings to get insight into this difficult question. But our need is to
understand how Locke’s political doctrine flows from a convergence of the
two lines of augment.
3. Property
Since Locke uses the term “property” to describe all the natural
rights, his identification of «the Regulation and Preserving of Property» as
the purpose for which political power exists means that he understands the
purpose of government in the same terms as Thomas Jefferson used in the
American Declaration of Independence: «in order to secure these rights,
governments are instituted among men». Contrary to what some have said
of Locke, he does not see government as exclusively serving the needs of
property and property owners, understood in the narrow sense of external
goods. Men form civil societies, Locke says, «for the mutual Preservation
of their Lives, Liberties, and Estates, which I call by the general, Name,
Property (II123)». All human beings are possessors of some property in this
extended sense.
Yet it is true that Locke is also deeply concerned with property in the
narrow sense and that concern is also reflected in his positing the
regulation and protection of property as the chief end of civil society.
Locke devotes an entire chapter of his Second Treatise to the topic of
property. This chapter is probably the best known part of the treatise and
seems to have been the part Locke took special pride in, for he commended
it above all else in the book
The chapter on property has attracted as much attention as it has
because its main line of argument and its conclusions have been held to lay
the ground work for the theory of capitalism. The context for Locke’s
discussion is set by his polemical confrontation with Filmer, on the one
side, and more generally with the way property and political economy were
generally understood in the dominant Christian-Aristotelian tradition that
defined the reigning political culture.
Filmer had maintained that not only did God grant Adam and his
heir dominion over the rest of mankind, but that He had granted private
ownership to the non-human parts of the world to them as well. He rested
his claim in part on the authority of the Bible, but he also argued that no
other theory could account for the possibility of legitimate private
property. If, Filmer reasoned, the world was originally not Adam’s
16
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
property, but was common to all mankind, then no part of the world could
rightly come to belong to any individual. If the world were common
property to all, then the consent of all would be required to remove any of
it from the common and make it private. But that consent never was and
never could be achieved. Thus if the world were originally common, it
would always remain so. However, Adam as original proprietor could
authorize the transfers of ownership that eventually led to the distribution
of property of the modern age.
Locke put forward an array of arguments, some drawn from his
theistic, some from his non-theistic track. His first move, however, was to
reconceptualize the original commons as Filmer had spoken of it. Things
may be in common in two ways, as jointly owned or as unowned. Filmer
understood the hypothetical original commons as jointly owned; Locke
maintained that it is better understood as unowned, which leaves open the
possibility that parts of the commons can come to be privately owned. He
pointed out, secondly, that in order to survive men must appropriate goods
in the original commons, for a man must eat to live and in eating the food
«must be his, and so his, i.e., a part of him, that another can no longer
have any right to it, before it can do him any good for the support of his life
(II26)». This primitive act of appropriation must be understood as right, for
if we think the matter through via the workmanship argument we see that
in creating man God must have had a «design, that man should live and
abide for same time upon the Face of the Earth, and not that so curious
and wonderful a piece of workmanship […] should perish again, presently
after a few minutes continuance (I86)».
Alternatively, if we think of men as self-owners and possessors of a
right to preservation, we can see that «every man has a Property [in] the
labour of his Body, and the work of his Hands». These «are properly his»;
when he mixed what is his, his labor, with what is unowned, the commons,
in the service of his preservation, he acts with right to make what was
unowned his. Mixing his labor not only legitimates his primitive
appropriation, e.g., digesting, but it generates the kind of exclusive claim
that constitutes property, even if he collects items that he does not
immediately eat. «It being by him removed from the common state Nature
placed it in, it hath by this labour something annexed to it, that excludes
the common right of other men (II27)». Thus Locke initiates his «labor
theory of property», which is meant to refute Filmer’s critique of the
possibility of private property on any basis other than his notion of an
original divine donation of the world to Adam.
Locke’s discussion of property was also addressed against traditional
notions of property, which, in various ways, set limitations on acquisition,
ownership, and use of property. Locke initially accepts such limitations. At
various moments in his account of the right to appropriate the fruits of the
earth and then to appropriate the earth itself he suggest that there is a
limit to what one may rightfully appropriate: that one take no more of the
fruits of the earth than «one can make use of to any advantage of life
17
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
before it spoils (II31)», and that of land “every man” can appropriate
through his labor «as much as he could make use of (II36)». The
limitations have a common theme and like much in Locke have a dual root.
Under the law of nature, i.e., the rules for treating others that are the
obverse of one’s natural rights, one may not directly or indirectly harm
others, unless there is a good reason, such as one’s own preservation
coming into conflict with theirs. One thus has a right to appropriate as
much of the external world as is useful to one, but not more, for to take
more than one can use is to put others at risk of (at least) indirect harm
gratuitously. This natural law duty has the advantage of being nearly selfenforcing, for both appropriating the fruits and cultivating the earth
requires the expenditures of hard labor. Rational men will not expend
labor to acquire goods that will spoil, i.e., be of no use to them. Thus the
«spoilage limitation» has a solid grounding in moral principle and in the
actual principles of human behavior. It is what Locke elsewhere calls an
“endowed” moral principle in being more than a mere moral dictate. It is a
natural law in an emphatic sense.
The most characteristic feature of Locke’s philosophy of property is
his demonstration that the limitations on the acquisition and possession of
property no longer have validity or force in civilized society. He
demonstrates this both as a matter of individual right and of the «publick
good». He had justified the initial appropriation of land on the ground
that the earth in its natural condition leaves men in a state of «penury»,
which requires of men that they labor. Over time they discover that labor
invested in cultivating the land is far more productive than labor expended
in hunting and gathering activities (II32). Indeed, cultivated land is one
hundred times more productive than uncultivated land, so the individual
who “encloses” or takes land out of the natural commons does no harm to
his fellows, for he, in effect, gives back to mankind ninety-nine acres for
every acre he cultivates. The one who takes is thus a benefactor.
This is Locke’s perhaps most fundamental insight: what nature
supplies are «almost worthless» raw materials; human labor supplies most
of what is of value through its power to transform the given and make it
both more plentiful and more suited to human use. The solution to the
human problem, so far as there is a solution, lies in unleashing human
creative labor power to produce in order to overcome the various forms of
penury men face in the world. The fulfillment of human nature, so far as
there is a fulfillment, is the unleashing of human power to transform, to
make a world, for man is the making or transforming animal, the animal
with the power to overcome by negating the given and through that
negation to produce a “second nature” through positive productive action.
Such negation/production is in part in the service of need, the needs
associated with survival, but more than that is the expression of human
freedom and rationality itself.
In addition to a labor theory of property, Locke also has a labor
theory of value, not precisely the same as what Marx meant by that phrase
18
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
but a recognizable forerunner of it. As becomes clear as the argument in
chapter on property proceeds, once all the land is owned, labor is no
longer a title to property, but it remains the source of value, as explained
above. This is not to say, however, that labor in itself is the source of
exchange value. Locke sees that prices are the result of market forces supply and demand - and are not nor should they be, related directly to the
labor invested in goods. Market prices, what men in general are willing to
pay for goods, signal how the labor of individuals can be coordinated to
produce goods that are in the «publick good»; individual labor
uncoordinated with the labor and desires of others has no guarantee of
serving the public good.
The mechanism by which labor becomes of use, or greater use to
others is exchange. Locke outlines a two-stage process whereby the
spoilage limitation is overcome both as a moral and as a practical matter.
The first stage has to do with barter. If one can exchange the surplus one
has of one good, i.e., of what one has (or can have) over and above what
one can use without spoiling, for the surplus of another, one can rightly
acquire more than the spoilage limitation would otherwise allow. The
possibility of bartering, then both encourages and morally permits the
expenditure of more labor than life without barter would allow.
The decisive innovation, however, is money, for this can be stored
indefinitely with no threat of spoilage and thus it leads to an even greater
unleashing of human labor, for it, in effect, waives all limits on acquisition
by leading to an exponential increase in productivity.
One result of the invention of money, however, is the disappearance
of the commons. Men no longer have unowned land on which they can
hunt and gather for subsistence. The new system of private property
greatly advantages some over others, for some own land, while others are
reduced to their self-owned bodies and labor-power, which they must sell
in order to survive. Locke sees this arrangement, so objectionable to
thinkers like Rousseau and Marx, as justified by the rights of the owners
but also by its service to all, including the non-owners. The creation of a
complex society with a complex division of labor, and great productive
power is of benefit for all, because, as Locke says, «a king of a large and
fruitful territory [in America, where there is no private property] feeds,
lodges, and is clad worse than a day labourer in England (II41)».
Everybody benefits from the system of private property and the
regime of unlimited acquisition that money makes possible, at least in
theory. So far as that is not the case, Locke affirms a «right to charity»,
which «gives every Man a Title to so much out of another’s Plenty as will
keep him from extreme want, where he has no means to subsist otherwise
(I42)». It is, of course, odd to speak of charity as a right, as Locke does, but
he does so because it is actually a manifestation of the inalienable right all
have to preservation. In support of this lingering natural right Locke
proposed a poor law, i.e., a limited safety net right to social support that
could, he thought, provide the means of subsistence to which the
19
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
unemployed have a right without sapping incentives to labor by creating
an incentive to dependency. To modern eyes Locke’s proposal looks harsh,
but its details are less important for today than the philosophic basis on
which Locke formulated his welfare scheme.
The system of private ownership serves the public good so far as it
allows freedom to acquire and use property. All (more or less) are better
off under this system than they would be without it, but the benefits are
differentially spread through society, which thus takes on a class character.
Some own much and can hire others to do the hard labor that produces
value; others must sell their labor to survive. Although Locke affirms that
all are better off, some are a good deal better off than others, and great
inequality comes to characterize society.
The regime of private property comes to have a particularly
prominent role to play in political life, as is visible in Locke’s definition of
political power. For one, Locke affirms almost unlimited power to
determine the uses of property - a freedom implicit in the very idea or
nature of property, but also on the whole necessary to the adjustment of
property use to markets and thus to the public good. But he does not
concede complete freedom. The natural limits that one not harm others
remains in effect always, and thus property is subject to regulation in order
to prevent it from doing harm. Thus Locke affirms that one aim of political
power is «for the Regulation […] of Property». On the other hand, the
great inequality concomitant on the property system introduces the strong
possibility of class conflict in which some, the owners, are tempted, and
may possess the resources to oppress the non-owners (i.e., threaten their
property in themselves), and in which the others, the non-owners may try
to dispossess or redistribute the property of the owners. Both the claims of
individual natural right and the public good speak against either of these
outcomes and thus Locke affirms that the purpose of political power is also
the «Preserving of Property», meaning the preserving of the property
rights of all in both the narrow and broad senses for property in light of the
potential conflict between the two. Without government to «regulate and
preserve» both sorts of property, this institution of so great value to
mankind is vulnerable to abuses by both of the great classes formed
around ownership. Property is thus another great reason for the negation
or overcoming of the state of nature and the formation of civil government.
4. Political Power
Locke begins with the state of nature, i.e., the recognition that
because human beings are naturally rights possessors, they are not
naturally subject to political authority. But Locke is no anarchist; the point
of his political philosophy is to show how, despite the fact that men are
born free they came to be rightfully subject to political power and that this
subjection is for the good of all, i.e., the public good. Locke’s treatment of
20
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
the making of political society is framed by one major question and one
major claim. The question is this: «If Man in the state of Nature be so free;
[…] If he be absolute Lord of his own Person and possessions, equal to the
greatest, and subject to no Body, why will he part with his freedom?
(II123)». And the claim is this: «Men being […] by Nature, all free, equal
and independent, no one can be put out of his Estate, and subjected to the
Political Power of another without his consent».
When Locke asks why men leave the freedom and equality of the
state of nature he is asking why can men not live together without the
coercive institution of the state. As with many aspects of his political
philosophy he supplies a complex, two-stage answer. The state of nature, it
will be recalled, is a state in which men are «perfectly free» of all law and
all subjection, except to the law of nature. Locke assumes, first that these is
a law of nature, a set of moral rules, which is known to men, i.e.,
promulgated, and by which they are capable of regulating their behavior.
The existence and effectiveness of this law seems to distinguish Locke’s
version of the state of nature from Hobbes’s. In the latter case, the state of
nature is straightforwardly equivalent to the state of war, because the
moral mandate naturally governing men is the right of nature, which, it
may be recalled, mandates a right to everything, including each other’s
bodies. The two states are one because to act under the mandate of the
right of nature produces war, not as a deviation but as a fulfillment of the
natural moral guide to action. Locke, on the other hand, affirms natural
law as either the implicate of the workmanship argument or as the obverse
of the basic rights concomitant with self-ownership. To war against others,
i.e., to use or threaten force against them, is a violation of the law of nature
and thus at least in principle Locke can distinguish the state of nature and
the state of war, the latter being the «use of force without right», and the
former the absence of that condition (II19,20).
Even assuming full knowledge of the law of nature, the state of
nature tends to degenerate into a state of war. The two states are often or
even normally coincident, but they are not conceptually identical. To show
how the state of nature typically degenerates into a state of war, i.e., to
show why men, even when they know the moral rule that should govern
their actions, cannot live well without the coercive authority of
government, Locke posits what he calls a «strange doctrine»: all men in
the state of nature possess the «executive power of the law of nature»,
which, is a power to enforce the law on their own and others’ behalf (II 9,
13). In order to be a law the law of nature must have some effective
sanction in this world; therefore someone must have an enforcement
power. But since all men are naturally equal in authority, this power, if it
exists at all, must be held by all equally. In the state of nature, then, there
can exist two different sorts of use of force: force without right; i.e.,
violations of the law of nature, and force with right, i.e., attempts to punish
and deter force without right.
Even when men know the moral rule that is to govern their actions
21
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
they are tempted to use force without right. The discussion of property
supplies one set of reasons for the constant temptation to such violations.
Men live in a penurious world relative to their needs and desires, the
penuriousness of which can be overcome only with painful labor. Hence
there is a constant temptation to violate the labor and ownership claims of
others in order to acquire goods without labor. Other sorts of rivalries,
jealousies, and enmity may also provoke the use of force without right.
The naturally authorized response to these violations of the law of
nature is use of the natural executive power against the criminal. This
power is extensive and expansive. It extends to the right to inflict the
penalty of death, a penalty that may be imposed even if the transgressor
has only robbed, or even is merely perceived to be a threat to another. No
one is obliged to wait until the potential transgressor has made his attempt
on one’s life or goods. The attempt may be anticipated and the executive
power deployed preemptively.
Men, being naturally more concerned with their own survival and
that of their friends and family, will tend to overreact to transgressors and
potential transgressors; since it is difficult to know for certain whether
another has «enmity» towards one, and since it is dangerously risky to
estimate wrongly, men will tend to act preemptively more than is strictly
rational or warranted. However, this tendency will be greatly accentuated
by the dialectic of preemption: all will be aware that all others will be
tempted to preempt and all will be even more likely to act preemptively to
preempt the preemptive actions of the others. This dialectic of preemption
more or less guarantees that the state of nature will degenerate into a state
of war. Indeed, perhaps the must striking fact about this state of war is
that in it legitimates acts of force against others will not be easily
distinguishable from illegitimate ones. Human beings, so self-favoring and
able to rationalize their own motives for action, will be able to deceive
themselves into thinking that transgressive actions are really preemptive
enforcement actions.
The end result is what Locke gently calls the great “inconvenience” of
the state of nature, the «inconvenience being that the basic rights, or
property in both narrow and extended senses, are “very insecure». So,
harsh as it may be to live under coercive government Locke shows that the
situation of men without it is worse than with it, especially if it is properly
constructed. Locke’s answer to his own question of why men leave the
state of nature is, then, that the absence of public coercive power leads to
an intolerable situation of rights insecurity.
If that is not bad enough, Locke also suggests that he has understated
the problem in his analysis of the dynamic leading from the state of nature
to the state. He had initially assumed that men know the law of nature,
but in a later recapitulation he denies that as well: «For though the Law of
Nature be plain and intelligible to all rational creatures; yet Men being
biased by their Interest, as well as ignorant for want of study of it, are not
apt to allow it as a law binding to them in the application of it to their
22
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
particular Cases (II124)». Locke’s thought moves in two somewhat different
directions. The law of nature is «plain and intelligible to all rational
creatures». Yet it also must be studied to be known, and most men do not
study it, and therefore most are ignorant of it. If ignorant of it, they cannot
take it as the rule of their action. In the Treatise Locke expends little effort
explaining how the law of nature is known and why it requires study. He
addressed that question at length in his early (1662) manuscript on the law
of nature. Although he affirms the existence of this law, he concludes from
the empirical evidence that men are for the most part ignorant of it and
that, being secret and hidden it requires great effort to discover, effort than
men may have a natural law duty to undertake, but which, being ignorant
of the natural law, they do not undertake. In this early manuscript as well
in the Two Treatises Locke raises the serious question of whether the law
of nature is sufficiently promulgated to be binding and effective. If the law
of nature, i.e., the natural moral limitations on behavior, is not naturally
known, then all the more reason to suspect that the state of nature will not
be the potentially harmonious and peaceful state that human life
effectively governed by natural moral standards might be.
In sum, men cannot live without government because the alternative
- non-coerced or individually enforced guidance by natural morality - is
ineffective and leads to a situation in which rights are extremely insecure.
«Thus Mankind, notwithstanding all the Privileges of the state of Nature,
being but an ill condition, is quickly driven into Society», for the sake of
securing their rights, or in Lockean language, preserving their property
(II127).
5. Consent
Men thus need political power, or authority, but given its natural
absence, how can they rightfully create it? Do not the same natural rights
that lead to positing a state of nature, the same rights that require
protection from government, also stand in the way of creating legitimate
political power?
The basic ingredient in the creation of government is the very same
executive power of the law of nature, which contributed to the state of
nature’s being so intolerable a condition. The executive power provides a
legitimate basis for political power, for it is a natural and rightful power to
coerce others, including a right to kill them, in order to protect property in
the extended sense. In terms of his narrative of the state of nature, when
men discover that they can not safely abide the state of nature, they come
together to pool their individual natural executive powers. They agree first
to form a society and resign up their executive powers to the community.
The individuals surrender their right to wield the executive power on their
own and according to their own judgment. The state that they create thus
acquires a «monopoly of legitimate coercion». The coercive power that
exists in the community is now exercised «by Men having Authority for the
community (II87,130)».
23
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
The process whereby the executive power is transferred to the
community is called by Locke compact; and it requires the unanimous and
individual consent of every would-be member. The compact actually has
two elements: first, the unanimous agreement to form a political society,
and then a unanimous agreement that the majority of the community will
have the power or right to establish a particular sort of government for the
community.
As we have seen, Locke emphasizes that the entire process occurs
according to the «consent of the governed», as Thomas Jefferson put it in
the American Declaration of Independence. Since no person is born
subject to another the only way in which subjection can be instituted is
voluntarily and consent is the means by which this is done. Unlike many of
the Whig thinkers who preceded him, Locke did not claim that the consent
of some group of «original compactors» was sufficient to bind their
descendents. The consent of each member, since each is free and equal, is
required to continually reconstitute the political society. Locke develops
two themes in his doctrine of consent. One concerns the content of
consent; the other means by which consent is given.
Since political power is constructed from the natural executive power
of the members, this power must be given up: «the Power of punishing he
wholly gives up (II130)». Consent also disposes of the «Power […] of doing
whatsoever he thought fit for the Preservation of himself, and the rest of
Mankind». This power, each compactor «gives up to be regulated by Laws
made by the Society, so far forth as the preservation of himself, and the
rest of that Society shall require (II129).» In other words in creating
political authority, men give up their original equality; in subjecting
themselves to be “regulated” by the laws of the society, they give up their
original liberty.
In the abstract, Locke’s doctrine of the means of consent is largely
intelligible but many ambiguities and uncertainties surround the more
specific working out of the doctrine. Most members of political society,
with the exceptions perhaps, of naturalized citizens, have no recollection of
having given anything like explicit consent to being a member. Most were
indeed born into society and subject to the reigning authorities. Locke
raises the question: «Every Man, being […] naturally free, and nothing
being able to put him into subjection to any Earthly Power, but only his
own Consent, it is to be considered, what shall be understood to be a
sufficient Declaration of a Mans Consent, to make him subject to the Laws
of any Government (II119)». Locke’s discussion of this question permits of
no simple answer. The difficulty stems from the multitude of forms of
consent Locke allows, but the bearing of which he does not carefully sort
out. Thus he explicitly recognizes express consent, presumably taking an
oath or some related act; tacit consent, consent expressed in some lesser
way, or implied in some other overt act undertaken; constructive consent,
an imputation of consent (and the contents of consent) to men as what
“rational men” in that circumstance would or should consent to; and
24
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
finally, consent as consensus. All four of these meanings one at work in
different places in Locke’s theory, but careful readers have had a difficult
time sorting out which is in play where and, in particular, how to
understand his most thematic claims: nothing can put a man «into
subjection to any Earthly Power, but only his own Consent (II119)».
6. Government
However we are to understand consent Locke is very explicit that
there are limits to what men may consent to, i.e., to the kind of
government they may subject themselves to. «But though Men when they
enter into Society, give up the Equality, Liberty, and Executive Power they
had in the State of Nature», the legislative power they create cannot «be
absolutely Arbitrary over the Lives and Fortunes of the People […] (II135)».
In accord with his dual grounding of rights, Locke has a two-fold argument
to prove absolutism «impossible». On the one hand, «no Body can transfer
to another more power than he has in himself; and no Body has an
absolute, arbitrary power over himself», a reference to the “workmanship
argument” and the limitations imposed on one’s power over oneself (II135).
On the other hand, in a very striking example of Locke’s deployment of the
idea of constructive consent, he affirms that men, cannot be presumed to
have consented to absolute, arbitrary power in their governors, «for no
rational Creature can be supposed to change his condition with an
intention to be worse», which, according to him, an absolutist regime
would be (II131). Here is a very fine example of how Locke’s theistic and
non-theistic strands of argument land him in the exact same place.
Locke lays down quite flexible guidelines for the form of government
the majority of the society may settle on. The community may chose
among the various forms «as they think well», always accepting
absolutism. Not only will rational individuals create government in a form
of their choosing, but they will create a certain sort of government, what
we now think of as a liberal order. In the first place, rational actors will
understand that government is an artifact of their rational willing: as an
artifact they will realize it has been made or should be understood as
existing --for certain specific purposes, namely, to secure their preexisting
rights. Rational individuals will understand the shortcomings of the state
of nature that produce the radical insecurity of life without government.
Although there is a law to govern the state of nature this does not of its
own accord suffice. Though the law exists «yet men, being biased by their
interest, as well as ignorant for want of study of it, are not apt to allow it as
a law binding to them (II124)». That is, the law is not known sufficiently.
Moreover, the system of self-enforcement means there is no disinterested
judge to apply the law to resolve controversies (II125). Finally, with no
organized enforcement of the law, the naturally strong are able to ride over
the weak despite the law of nature (II126). Rational individuals recognize,
25
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
then, the chief lacks of the state of nature as the absence of a legislative
authority to particularize and promulgate the law, an independent neutral
judge to resolve disputes under the laws, and a potent neutral executive to
enforce the law. From his doctrine of the state of nature Locke thus
generates the modern theory of separation of functions.
Rational individuals will thus form a political system containing
these three functions. Locke also concludes that rational individuals will
establish a government that separates the powers in different and
independent institutions (II143). The separation of powers is one device by
which rational actors attempt to assure that the government they establish
will serve the ends for which it exists. All «well-framed governments»
separate the legislative and executive powers (II159). (Locke considers the
judiciary part of the executive but he does insist on a judiciary importantly
independent of the executive head).
Locke concludes that rationally constructed government implies not
only separated powers, but limited power as well. That means in the first
instance legislative supremacy over the executive (II149). It also means
limitations on the powers of the legislature. Although the core of the
limitations is substantive - protection of the rights of all and public good so
far as that is possible - the limitations Locke specifies are more formal
than substantive. The legislature must rule by standing public law not by
arbitrary decrees. The laws must apply equally to all (II142), including
especially the legislators themselves. Locke sees these two requirements
together as the best guarantee of good governance, or at least of
governance aiming at the public good (II138).
Although Locke is strongly in favor of legislative supremacy - the
legislative function is conceptually primary, and the legislature, possessing
the will but not the force of the community, is more safely entrusted in
practice with supremacy. Nonetheless, Locke also demonstrates that there
must be a large scope for independent action by the executive, which he
calls by the traditional name of prerogative. His it is not, however, the
traditional doctrine of prerogative (II163). He defines the prerogative as a
«power to act according to discretion, for the publick good, without the
prescription of the law, and sometimes even against it (II160)». Locke and
his rational individuals/social contractors recognize that it is not always
«necessary or useful to set precise bounds to […] power in all things
(II164)». Political life is too uncertain, too subject to unpredictable and
threatening contingencies for it to be entirely governed by rules and
procedures established in advance (II160). Locke, a great champion of what
we have come to think of as constitutionalism, recognizes the limitations
to the aspiration to constitutionalism. At the same time he reminds of the
dangers of this kind of executive power freed from law and legislative
control. Although he generally seeks to control political power by law, he
recognizes that at the end of the day this cannot be entirely done. The
executive can appeal to the public good as justification for exercises of
prerogative, Locke is confident that if «this power» is «imployed for the
26
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
benefit of the community, and suitably to the trust and ends of the
government, [it] never is questioned (II161)». When the prerogative is
questioned, there is «no judge on earth» to settle a dispute between the
executive and the legislature. The people themselves, in what Locke
quaintly calls the «appeal to Heaven» must judge though some extra-legal
means. Locke’s openness to revolution or the routinization of political
violence is a corollary of his attempt to develop a viable constitutionalism
marked by the maximum possible rule of law.
7. Revolution
At the end of the Second Treatise Locke turns to the “end” in the
sense of the death of government. He surveys four circumstance or ways in
which civil government may come to an end: conquest, which is the
equivalent of «demolishing an House (II175)»; usurpation, which occurs
when a person or persons other than those designated in the established
political order seize power, is also a kind of death for civil government,
because a usurper «hath no right to be obeyed», which means that
juridically there is no government (II198); tyranny, which Locke defines as
«the exercise of power beyond right, which nobody can have a right to»
has the same fatal effects as usurpation (II202). Finally, in a kind of
summary chapter Locke speaks of «the dissolution of government», a
chapter in which he lays out his well-known doctrine (usually misnamed
as) the right of revolution.
Locke’s position on “the end” of civil government follows seamlessly
from his clear rejection of the legitimacy of absolute arbitrary power and
his affirmation of institutionally and constitutionally necessary means to
the effectuation of non-arbitrary government. Government that goes
beyond its bounds is no government at all. When governments act beyond
their powers, they are using force without right, and thus, literally,
provoking a state of war with their citizenry. The citizens may then act as
they have a right to in a state of war - they may resist illegitimate authority
and act to establish new, legitimate government. When they do so, Locke
insists, they are not rebelling - it is the authorities who go beyond their
legitimate powers who reintroduce the state of war and who therefore
rebel - in Latin, re-bellare - bring back war (II226). Locke then denies that
he is a teacher of rebellion and disorder, as he strives to make resistance to
rulers more respectable than it had ever been.
27
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Voltaire:
la libertà e il senso del limite
di Riccardo Fubini
Decisamente, e non da oggi, non tira buona aria per Voltaire,
insieme ed ancor più che per i suoi confratelli dell’età illuministica. Non mi
riferisco soltanto alle reazioni da lui suscitate, che si protraggono sino al
presente, con gli epiteti di relativismo, laicismo, miscredenza. A segnare un
distacco, spinto fino all’oblio, sta la cultura della nostra modernità, che
pure all’eredità illuministica pretende richiamarsi. All’opposizione
dogmatica si risponde con altrettanto dogmatismo; alla polemica
succedono affermazioni identitarie, preclusive di ogni dibattito. E
soprattutto l’amore di verità cede il luogo a una disinvoltura tutta retorica,
che sgomberi il campo da tutto quanto di faticoso e scomodo può sussistere
nella verità stessa, nonché nello spirito di ricerca e di dialogo che essa
presuppone.
Ma torniamo al tema di Voltaire.
«Confesso – scriveva Julien Benda introducendo nel 1936 il Dictionnaire
philosophique – che nella mia giovinezza leggevo il Dictionnaire con il culto
un po’ distratto dovuto ai combattenti di una lotta ormai conclusa. Lo leggo
ora con animo diverso, nel constatare che la lotta non è per nulla finita, che
l’avversario di un tempo conduce tuttora la lotta con più fede e determinazione
che mai. La gloria dei polemisti, così si suol dire, dura un solo giorno. Ma si
prescinde dal caso in cui essi pervengono ad aderire all’umanità eterna, della
quale hanno saputo cogliere, come per un lampo, tutti i risvolti»1.
Anch’io, se è lecito, ho la mia piccola testimonianza da recare.
Lavoravo alla raccolta degli Scritti politici di Voltaire2, dominati fra i loro
tanti motivi dall’orrore per il regicidio, quando apprendo per radio
l’assassinio di Kennedy. Uscito il volume, esso viene recensito sul torinese
“La Stampa” dal suo vicedirettore Carlo Casalegno, per il quale, a suo dire,
rileggere Voltaire non è solo un piacere, ma “una consolazione”. Anni dopo,
come molti ricorderanno, Casalegno, che aveva assunto posizione di punta
contro il terrorismo, viene ucciso dai terroristi sull’uscio di casa. Voltaire,
Voltaire, Dictionnaire philosophique, Introduction, relevé des variantes et notes
par Julien Benda, Texte établi par Raymond Naves, Paris 1961, p. XIV.
2
Voltaire, Scritti politici, Introduzione e commento di R. Fubini, Torino 1964
(citato in seguito come Scritti politici).
29
1
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
insomma, vive per contrapposizione anche in queste tragedie del nostro
tempo.
Eppure, si diceva, non è autore popolare, e non lo è più che mai per
l’Italia. La visione dell’Illuminismo che più si è affermata in sede storica
non porta l’impronta di Voltaire. Penso soprattutto all’opera del maggiore
fra i nostri storici dell’Illuminismo, Franco Venturi. Militante
dell’antifascismo, si era rivolto come studioso a figure eroiche del
Settecento in lotta contro i parametri stessi del potere dominante, il trono e
l’altare. Nella maturità tuttavia egli mutò obiettivo, e – nella sua stessa
delusione politica – considerò essenzialmente la cultura illuministica nella
sua azione pratica, come perenne incitamento alla “riforma”, in specie alla
modernizzazione degli apparati di governo in Italia.3 Ma per davvero la
politica, lo Stato sono così docilmente governabili dalle élites? E quali
saranno le cattedre elitarie a formare le élites medesime? Come si vede il
millenario quesito di Platone, quis custodiet custodes, ci ripiomba nel
marasma ad un tempo politico e culturale che noi tutti stiamo vivendo.
Per tornare al punto, sarà bene affrontare nell’analisi storica quegli
stessi quesiti che a proposito di Voltaire Julien Benda proponeva nei tragici
anni ’30 del secolo ora trascorso. Mi rivolgo particolarmente ad alcuni libri
recenti, che ci aiutano allo scopo. Mi riferisco in particolare alla silloge
miscellanea dedicata all’Illuminismo da V. Ferrone e D. Roche; 4 al
ponderoso volume dello storico di origine ebraico-olandese, ma uscito
negli USA, Jonathan I. Israel, dedicato all’ “Illuminismo radicale”;5 ed
infine alla monografia dedicata alla concezione dello Stato in Voltaire da
una giovane studiosa di scienze politiche, Maria Laura Lanzillo.6
Naturalmente nel corso del lavoro mi misurerò con quanto avevo scritto al
riguardo introducendo la raccolta degli Scritti politici, e nella Nota storica
alle singole opere.7
Cominciamo dalle varie prospettive suggerite dal Dizionario storico.
Alcuni degli autori insistono sul cosmopolitismo che caratterizza grandi
figure della tradizione razionalistica, quali appunto Voltaire e Goethe, in
implicita contrapposizione con la celebrazione nazionalistica, quale andava
affermandosi a fine Ottocento e principio Novecento. Le parole chiave sono
quelle di “ragione”, “umanità”, “tolleranza”, “generosità”, “utilità pubblica”,
come valori propri dell’uomo, autonomi rispetto a quelli trascendenti del
Cristianesimo.8 La nuova bibbia è il Dictionnaire philosophique portatif, la
raccolta voltairiana di massime essenziali, brevi perché evidenti, alla
portata di tutti, non bisognose quindi di lunga trattazione. Così ribatte in
Si cfr., a titolo di esempio, le monografie: F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia,
Firenze 1946 (II ed., Torino 1980); e Saggi sull’Europa illuminista. I, Alberto Radicati di
Passerano, Torino 1954. L’opus magnum del secondo periodo è: Settecento riformatore,
Torino 1969-1990, 5 voll.
4
L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari
1998 (citato in seguito come L’Illuminismo).
5
Jonathan I. Israel, Radical Enlightenment. Philosphy and the Making of
Modernity 1650-1750. Oxford- New York 2001. Lo indico in seguito come ISRAEL.
6
M. L. Lanzillo, Voltaire. La politica della tolleranza, Roma-Bari 2000, Lo indico
in seguito come LANZILLO.
7
Cfr. Scritti politici, rispettivamente Introduzione. pp. 11-105, e Nota storica,
pp.147-212.
8
Cfr. W. Frijhoff, Cosmopolitismo, in Illuminismo, pp. 21-30.
30
3
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
tale sede Voltaire all’affermazione secondo cui, a differenza dei cristiani, i
pagani non possedevano una morale: «I dogmi sono tutti diversi, mentre la
morale è la stessa in tutti gli uomini che fanno uso della ragione».9 In altri
termini, la ragione, a tutti comune incarnandosi nei precetti della
“religione naturale”, sta a fondamento di quella concordia che le guerre di
religione avevano lacerato. Ma davvero Voltaire era così intimamente
fiducioso? Davvero tale fiducia nella ragione corrispondeva a una pari
fiducia nell’uomo “naturale”, caro poi a Rousseau? Lo stesso autore da cui
abbiamo tratto la citazione dal Dictionnaire philosophique scrive a
proposito dei contes philosophiques di Voltaire: «L’ingenuità delle anime
pure e sincere» è contrapposta alla «realtà della violenza e della crudeltà.
L’amore dell’ordine si scontra così con l’evidenza del disordine esistente».
Come si vede, in questa seconda proposizione la polemica anti-cristiana
non c’entra; il bersaglio è piuttosto offerto dall’ottimismo dottrinale, che
Rousseau aveva infaustamente riproposto, ma che era patrimonio di
un’intera tradizione giusnaturalistica. La “Legge naturale” di Voltaire non
si appoggia a una dottrina, ma si rivolge come monito beneaugurante ai
governanti. Le proposizioni di Voltaire – e più che mai negli scritti a larga
diffusione – ben raramente esauriscono il suo pensiero: alludono, si
conformano alle circostanze, ma senza escludere a priori la pari efficacia
dell’affermazione contraria. L'autore, in altri termini, non va preso per
singoli assiomi, ma come testimonianza oltremodo sensibile, da cui egli
derivava – stavolta sì con ferma coerenza – alcuni punti di principio, posti
a consuntivo ed approdo delle traversie del passato.
Soprassiedo ad altri temi essenziali proposti dagli autori del
Dizionario storico dell’età illuministica, quali la “felicità”,10 la “libertà”,11 la
“tolleranza”,12 su cui torneremo oltre. Mi soffermo invece sul più
problematico dei punti di principio posti da Voltaire, che egli stesso
affermava e poneva al tempo stesso in dubbio secondo il paradosso del
Portatif: «L’uguaglianza è dunque al tempo stesso la cosa più naturale e la
più chimerica».13 L’autore che tratta il tema, Rolf Reichardt,14 oppone a
Voltaire, conservatore rassegnato, la sentenza di Montesquieu, Esprit des
lois, VII, 31, secondo cui «nello stato di natura gli uomini nascono, è vero,
nell’uguaglianza, ma non potrebbero rimanervi. La società gliela fa perdere
ed essi non ridiventano uguali se non in grazia delle leggi». Montesquieu
progressista contro Voltaire conservatore? Io vi vedrei piuttosto una
compassata tradizione giurisprudenziale contro un pensiero inquieto, e
aperto dunque, nei dilemmi del reale, alle più varie possibilità.
Pari aporie sono riconoscibili in Voltaire anche nella teoria della
conoscenza. Nel suo contributo Vincenzo Ferrone si sofferma sul Traité de
Cfr. M. Delon, Morale, ivi, pp. 31-39.
Ph. Roger, Felicità, ivi, pp. 31-39.
11
F. Diaz, Libertà, ivi, pp. 50-61.
12
A. Rotondò, Tolleranza, ivi, pp. 62-77.
13
Voltaire, Dictionnaire philosophique, ed. cit., pp. 175-180. Mentre è affermato il
buon diritto soggettivo all’uguaglianza («Chaque homme, dans le fond de son coeur, a
droit de se croir entièrement égal aux autres hommes»), d’altra parte sono contrapposte le
situazioni sociali stabilite, non rimovibili senza gravi sovvertimenti. « … ici toutes les parts
sont faites», è aggiunto nelle più tarde Questions sur l’Encyclopédie, in risposta alle
proposizioni di Rousseau; cfr. Scritti politici, p. 24.
14
R. Reichardt, Uguaglianza in Illuminismo, pp. 90-105, qui p. 94.
31
9
10
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
métaphysique, l’ambiziosa opera che Voltaire scrisse nel ritiro di Cirey nel
nome della scienza di Newton e dell’empirismo di Locke: le nuove
prospettive che già nelle Lettres philosophiques aveva contrapposto alla
metafisica di Cartesio.15 Eppure, ad onta del titolo ambizioso, l’opera (che
Voltaire non volle mai pubblicare) verte sui «laceranti dubbi sull’uomo»,
nella sua storia e nelle sue capacità di conoscenza.16 E pari dubbi, nella
medesima sede, egli esprime a proposito della libertà: «Non c’è forse
problema più semplice di quello della libertà, ma non ce n’è nessuno che
l’uomo non abbia reso più complicato».17 Sicché, vale aggiungere, i dubbi
avanzati nel Traité avrebbero costituito il soggetto stesso della seguente e
più tarda disquisizione filosofica, Le Philosophe ignorant, che è volta a
dimostrare «come sia impossibile giungere a conoscere il primo principio
che ci spinge al pensiero e all’azione». L’uomo, al di là del suo volere, è in
qualche modo costretto all’esistenza, della cui natura gli è precluso il
rendersi conto: «Non siamo liberi, ma siamo eterni, poiché, quand’anche vi
fosse creazione, è impossibile creare qualcosa dal nulla».18 (Voltaire, per
inciso, guardava con inquietudine all’incipiente teoria dell’evoluzione, che
sopravveniva a sconvolgere ulteriormente la già turbata concezione del
mondo).19
E su questa nota di scetticismo passiamo a considerare la dottrina
politica di Voltaire, valendoci della recente monografia di Lanzillo.
Studiosa di scienze politiche, essa ritiene che dai vari scritti di Voltaire si
possa derivare un contributo al configurarsi di un paradigma (o “modello”)
positivo, capace di «produrre la rottura catastrofica e rivoluzionaria»
rispetto a «una organizzazione politica e sociale ormai vecchia».20 Pur nel
suo eclettismo e nelle sue oscillazioni, a Voltaire lo studioso si può dunque
rivolgere come a un teorico della modernità, collocato nella «tradizione di
pensiero che ha le sue radici nel giusnaturalismo moderno».21 Facendo
riferimento a un vecchio studio di Raimondo Craveri, l’autrice sottolinea
l’impatto su Voltaire della dottrina di Hobbes;22 ma di un Hobbes
stemperato dal costituzionalismo di Locke, almeno nel senso, se non di un
fermo assioma, perlomeno di un auspicio beneaugurante: «dalla teoria
empirista può … derivare l’idea di una morale che si basa solo sulla
certezza di un consiglio, di un invito di Dio a essere giusti ».23
Per quanto mi riguarda, anche per la mia formazione disciplinare,
non posso seguire l’autrice su tale linea paradigmatica. Soprattutto non
saprei inserire in un discorso di teoria costituzionale un autore come
Voltaire, che percepiva come frammentarie le varie tradizioni d’ancien
régime: «Les États, les lois, tout est fait de pièces et de morceaux».24 Di
V. Ferrone, Scienza, ivi, pp. 332-341.
Cfr. T. Besterman, Voltaire, Milano 1971, pp. 177, 337.
17
Cfr. Lanzillo, p. 172.
18
Cfr. Besterman, op. cit., pp. 395-396.
19
Si veda per es., di Voltaire, L’uomo dai quaranta scudi, cap. VI, in Scritti politici,
pp. 701-712.
20
Lanzillo, p. XVIII.
21
Ivi, p. XVI.
22
R. Craveri, Voltaire politico dell’illuminismo, Torino 1937.
23
Lanzillo, p. 170, nota 160, a proposito del Philosophe ignorant.
24
Voltaire’s Notebooks, ed. T. Besterman, Genève 1952, vol. II, p. 122; e Scritti
politici, p. 13.
32
15
16
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Locke, mentre vanta e divulga il Saggio sull’intelletto umano, tace invece
di quello sul governo. Egli invece – come già si è premesso – preferisce il
riferimento a Hobbes: «Hobbes è stato in questo l’eco di tutte le persone
sensate. Tutto è convenzione e forza».25 La sentenza è tratta dai Dialoghi
dell’A, B, C, che non costituiscono già, come potrebbe parere, il compendio
pedagogico di una dottrina, ma un libero dibattito – attribuito per
simulazione a un deista inglese – sulle filosofie politiche correnti di
«Hobbes, Grozio e Montesquieu», laddove i dialoganti, sia pure in un
complesso molto miscellaneo, incarnano rispettivamente un parlamentare
inglese, un democratico olandese, e infine il membro di un’aristocrazia,
presumibilmente quella ginevrina.26 La discussione si apre sui nomi
suddetti, e a uscirne peggio è Grozio, cumulo di un’erudizione risaputa. La
classica dottrina giusnaturalistica, fondata sul diritto romano e
modernamente rielaborata da Grozio e Puffendorf, urta con l’esigenza, in
Voltaire, di verità tangibili e immediate. La sua nozione di “diritto
naturale”, che in lui si confonde spesso con la “religione naturale”, ben
lungi dal costituire fondamento e controllo della legge positiva, si
trasforma in un auspicio ultimo, al limite un ideale consolatorio, con cui
commisurare la “prodigiosa diversità” delle leggi e dei costumi. Tale è
appunto l’oggetto, in sede storiografica, dell’Essai sur les moeurs et l’esprit
des nations, ideologicamente concepito come controparte dell’opposta
tradizione dottrinale incentrata sulla storia sacra, esemplarmente
rappresentata dal Discours sur l’histoire universelle di Bossuet. Sul tema
occorrerà ritornare; è qui invece opportuno passare direttamente al tema
essenziale della tolleranza, secondo Lanzillo «il cardine di tutta la
costruzione voltairiana».27 Voltaire, secondo l’autrice, oltrepassa la
concezione che era stata di Bayle e di Locke, della tolleranza come rapporto
di coesistenza di varie chiese, raggiungendo invece una «dimensione
universale», nel senso che il concetto non costituisce «solo una virtù
intellettuale, ma una delle strutture portanti dell’edificio statuale».28 E così
soggiunge: «La conclusione del Trattato segna l’uscita di Voltaire dal
modello europeo della tolleranza, basato sul rapporto maggioranzaminoranza, verso la tolleranza che diventa libertà d’opinione tra pari».29
Personalmente non forzerei a tal modo la definizione, secondo il criterio di
cui si diceva, dei paradigmi e dei modelli. La tolleranza sei-settecentesca
concepita come immunità concessa a determinate condizioni a nuclei
religiosi minoritari, rifletteva ancora in certo modo una tradizione
medievale (penso agli stanziamenti di comunità mercantili, o ai patti
concessi alle compagnie prestatrici ebraiche, estesi fino a comprendere
intere comunità). In tal senso strumentale le garanzie offerte a gruppi
religiosi minoritari erano definite nel gergo politico come “tollerantismo”.
Per Federico II di Prussia, da parte di un saggio sovrano «il faut s’en tenir
au tolérantisme».30 Pierre Bayle, che, a detta di Voltaire, aveva scritto
Cfr. Lanzillo, P. 47.
Voltaire, A, B, C, o dialoghi tra A, B, C,, tradotti dall’inglese del sig. Huet, in
Scritti politici, pp. 841-923.
27
Lanzillo, P. 63.
28
Ivi, p. 97.
29
Ibidem.
30
Cfr. Scritti politici, p. 181; e anche in genere ISRAEL, p. 265.
33
25
26
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
«delle cose molto più ardite» del Trattato che andava allora diffondendo,31
aveva in effetti rivendicato la piena libertà di coscienza, ed eretto la ragione
naturale a «tribunale supremo» della verità, dunque entro un quadro
prettamente filosofico e teologico.32 Voltaire – in questo senso correggerei
almeno parzialmente Lanzillo – non pensa certamente a un nuovo patto
costituzionale, che garantisca libertà di culto. La sua rivoluzione è diretta
alla pubblica opinione («une révolution dans les esprits»).33
Ma il concetto della tolleranza ha in Voltaire un suo risvolto
particolare, al di là delle franchigie legali e della stessa libertà di coscienza,
verso la quale peraltro egli inclina ormai apertamente nei suoi ultimi anni.
Nella sua accezione più profonda, la tolleranza è per Voltaire il rimedio
esistenziale alla debolezza dell’uomo. Così inopinatamente si conclude –
dopo le consuete tirate anticlericali – l’articolo Tolérance nel Dictionnaire:
«Siamo noi tutti sazi di debolezze e di errori; perdonarci a vicenda le nostre
stoltezze è la prima legge della natura». E, dopo esempi di quello che la
religione cristiana avrebbe dovuto operare, e non risultare invece fomite di
discordia, e dopo avere addotto l’esempio edificante dei Quaccheri, così
bruscamente conclude: «Ma è fatto ancor più chiaro che noi dobbiamo
tollerarci a vicenda, perché siamo tutti deboli, incoerenti, esposti al
mutamento e all’errore. Una canna che il vento ha piegato nel fango dice
alla canna sua vicina, adagiata nel senso opposto: “Striscia a modo mio,
miserabile, o presenterò istanza che ti arrestino e ti mettano al rogo».34 La
canna (roseau) esposta ai venti di Voltaire evoca, non pare dubbio
intenzionalmente, il celebre luogo dei Pensieri di Pascal (I, 6), che
paragona l’uomo nella sua debolezza a una canna, ma una canna pensante:
«L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature, mais c’est un
roseau pensant». Altri luoghi voltairiani confermano la pertinenza
dell’evocazione pascaliana. Besterman per esempio rimarca l’ «intonazione
pascaliana» del capitolo del Philosophe ignorant, che reca come titolo
“Fondatissima disperazione”, e che svolge il concetto di come «sia
impossibile giungere a conoscere il primo principio che ci spinge al
pensiero e all’azione».35 Analogamente le Questions sur l’Encyclopédie
additano quale compito della metafisica di «meditare se, per il bene di noi
animali liberi e pensanti, si debba ammettere un Dio remuneratore e
vendicatore, il quale ci serva a un tempo di freno e di conforto, o se occorre
invece respingere quest’idea, abbandonandoci senza speranze alle nostre
calamità e senza rimorsi ai nostri crimini».36 La tolleranza, in questo senso
più profondo, esistenziale, è per Voltaire la contropartita dal punto di vista
esclusivamente umano, alla “scommessa” sul divino di Pascal: quel Pascal
su cui, a suo stesso dire, Voltaire aveva a lungo meditato, e con il quale era
Cfr. Scritti politici, p. 171.
Cfr. Israel, p. 336; e anche Rotondò, in Illuminismo, pp. 62-77.
33
Cfr. Scritti politici, p. 168; particolarmente importante è la lettera a D’Alambert
del dicembre 1763, ivi, pp. 173-174.
34
Dictionnaire philosophique, ed. cit., pp. 401-407.
35
Besterman, op. cit., p. 395.
36
Cfr. Lanzillo, p. 71.
34
31
32
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
sceso in discussione diretta nell’ultima delle Lettres philosophiques, come
per opporre resistenza a tanto imperiosa potenza d’ingegno.37
Tutto ciò è importante perché contribuisce a chiarire un lato
essenziale in Voltaire. L’aspetto morale prevale in lui su quello meramente
conoscitivo. L’empirismo di Locke e la scienza di Newton – beninteso per
quanto più preme a Voltaire – costituiscono un’arma contro il
dogmatismo: un anti-dogmatismo che, a differenza di un mero
positivismo, ha una spiccata valenza morale. In tale spirito si volge, a
differenza del «sublime misantropo Pascal», alla considerazione della
vicenda umana, quale vedeva esemplarmente rispecchiata negli Essais di
Montaigne.38
L’attenzione principale di Voltaire, immutata malgrado le varie
peregrinazioni emblematicamente rappresentate in Candide (in
Inghilterra, a Cirey, a Berlino, a Ginevra e infine nel porto franco di
Ferney) è essenzialmente rivolta alla storia e alla cultura di Francia.
Attraverso Pascal, si è veduto, Voltaire recuperava Montaigne; tra i suoi
personaggi emblematici, è il cancelliere Michel de l’Hôpital, che aveva
mirato alla pacificazione delle guerre di religione e all’unificazione del
diritto.39 Nel nome dell’unità della giurisdizione Voltaire avversa le
rimostranze dei Parlamenti, le antiche corti di giustizia che pretendono
rappresentare, secondo l’esempio del Parlamento di Inghilterra, la
costituzione originaria del regno. Nel contrapporre i diversi e non
comparabili esiti della vicenda storica di Francia e d’Inghilterra, Voltaire
pare in apparenza assumere la veste di fautore dell’assolutismo, secondo la
thèse royale sostenuta dall’abate Jean Baptiste Dubos, suo
corrispondente.40 La maggiore testimonianza di tale convinzione fu, per
Voltaire Le Siècle de Louis XIV , che così dichiarava in apertura: «bisogna
perché uno Stato sia potente, o che il popolo abbia una libertà fondata sulle
leggi, o che l’autorità sovrana sia stabilita senza contraddizioni».41 Il fine
politico perseguito era, inseparabilmente, la secolarizzazione del potere
monarchico, là dove i “lumi” dei philosophes sarebbero subentrati
all’influenza esercitata dai padri gesuiti sul gran re. Sotto la spinta
dell’opinione anche il potere assoluto si sarebbe addolcito, pur senza che
Voltaire entrasse (come è tipico in lui) in maggiori specificazioni di ordine
costituzionale. Contrariamente a Montesquieu, egli non considera la
costituzione inglese come modello; egli pone invece a confronto le
costituzioni di Inghilterra e di Francia. Là dove, nel primo caso, la
37
Si veda la “voce” relativa al Catalogue de la plupat des écrivains français qui
ont paru dans le siècle de Louis XIV, in Voltaire, Oeuvres historiques, ed. R. Pomeau,
Paris, La Pléiade, 1962, p. 1192: «Il voulut se servir de la supériorité de ce génie comme les
rois de leur puissance; il crut tout soumettre et tout abaiser par la force». Si veda al
riguardo Lettere filosofiche, “Lettera Venticinquesima sui pensieri di Pascal”, in Scritti
politici, pp.318-347; sul concetto della “scommessa”, ivi, p.323 s. (§ 5). Per inciso l’opera
deve il suo titolo – Lettere filosofiche, appunto, e non più, come nella forma primitiva:
Letters concerning English nation – all’aggiunta del capitolo su Pascal, come a metterlo
alla prova dinanzi all’empirismo utilitaristico inglese.
38
Cfr. Scritti politici, pp. 336-337.
39
Cfr. Scritti politici, pp. 32, 970.
40
Ivi, pp. 61, 448; e Lettre à M. l’abbé Dubos, 30 ottobre 1738, posta a titolo di
dedica del Siècle de Louis XIV; cfr. Oeuvres historiques, cit., pp. 605-07.
41
Scritti politici, p. 41.
35
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
fuoruscita dal sistema feudale aveva portato alla libertà, nel secondo egli,
sulla linea di continuità che si è detta, insiste sul dovere della Corona di
eliminare, con i residui feudali, anche quegli inveterati titoli di privilegio,
che erano la venalità delle cariche, e soprattutto le immunità ecclesiastiche;
ed infine, nel solco di una tradizione di pensiero giuridico particolarmente
francese, infine sfociata nel Codice di Napoleone, egli invoca l’unificazione
nazionale del diritto, con non minor calore di quanto auspichi, mediante il
Dictionnaire de l’Académie, la definizione della lingua. Solo dopo il
fallimento delle riforme di Turgot, in favore delle quali Voltaire aveva
dedicato la sua ultima campagna pubblicistica,42 la sua fiducia nella
monarchia sembra esaurita. Nel commentare ancora una volta, nel 1777,
l’Esprit des lois di Montesquieu, egli soggiunge per lettera a Condorcet che
l’opera avrebbe dovuto intitolarsi L’esprit républicain: «le genre humain
aurait adopté ce titre».43
Per chi legga gli scritti e la corrispondenza di Voltaire nei suoi
ultimi anni, la percezione dell’incombere della rivoluzione è netta; ma per
lui è una percezione negativa. L’interesse a Parigi per la rivoluzione
americana lo trova ostile, destando il timore di un riaccendersi della
guerra, dopo che la Francia aveva ceduto all’Inghilterra il grosso delle sue
colonie. Il ritorno, che si dice trionfale, a Parigi nel 1778 lo lascia sconvolto:
«La guerra è in ogni discorso … Vi è un lusso rivoltante e una miseria
atroce. Parigi è il crocevia di tutte le stoltezze e di tutti gli orrori
possibili».44
Ma torniamo al Voltaire della giovinezza. Egli fa la sua prima
pubblica comparsa rappresentando la tragedia Oedipe. Sotto mentite
spoglie egli diffida il pubblico dai tendenziosi oracoli sacerdotali, che molto
ricordano l’influenza del padre gesuita Le Tellier sul re defunto Luigi XIV,
sul quale era ora calato un ingiusto oblio («la vertue qui n’est plus est
bientôt oubliée»).45 Diretto bersaglio sono le mire della grande nobiltà,
riunita accanto al reggente Filippo d’Orléans nel governo collegiale detto
della “Polisinodia”. «Déjà de tous côtés les tyrans reparaissent», poetava il
giovane Arouet, non ancora Voltaire.46 La questione ha una rilevanza
anche dottrinale. Accanto alla persona e alla connivenza del Reggente
avevano trovato protezione le correnti libertine, che Luigi XIV aveva a suo
tempo costretto alla clandestinità e all’esilio. Emblematico al riguardo fu il
caso del nobile Boulainvilliers (1658-1722), autore di un’apologia «du
système de Benoît de Spinoza», del quale traduce l’ Etica, essendo inoltre
autore di un Traité de métaphysique, edito postumo col titolo specioso di
Réfutations des erreurs de Benoît de Spinosa.47 Spinoza era considerato il
filosofo ateo per antonomasia, e val la pena menzionare quanto, non senza
sarcasmo, Voltaire avrebbe scritto al tempo della sua polemica contro
l’ateismo professo: «Il suo trattato sull’ateismo era scritto in un latino
Cfr. Scritti politici, pp. 47, 200-212.
Ivi, p. 60. Prosegue: «c’est l’esprit républicain qui a immortalisé Tacite, plus que
sa précision. L’esprit républicain a plus duré que l’empire romain».
44
Ivi, p. 98.
45
Ivi , p. 72.
46
Ibidem.
47
A cura di N. Lenglet-Dufresoy, Amsterdam (ma Parigi) 1731, Cfr. ISRAEL, op.
cit., pp. 684-685.
36
42
43
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
oscuro e in stile molto arido; il sig. conte di Boulainvilliers l’ha tradotto in
francese sotto il titolo Rèfutation de Spinoza. Abbiamo solo il veleno, non
avendo avuto, a quanto pare, Boulainvilliers il tempo per darne
l’antidoto».48
Ma anche per un altro, ancor più fondamentale motivo Voltaire si
distingue da Boulainvilliers e con lui dalle correnti di letteratura
clandestina che sulla fine del regno di Luigi XIV avevano ricercato
l’appoggio della dissidenza nobiliare. Oltre che delle citate opere
filosofiche, Boulainvilliers fu autore di un sommario di storia di Francia,
che aveva a soggetto la “antica costituzione” (o, come era tradizione dire, le
sue “leggi fondamentali”), a regola dei corretti rapporti di nobiltà e corona.
Per questo egli rivendicava la primogenitura, fin dall’età barbarica, della
nobiltà, o – al dire della rappresentazione satirica di Voltaire - «voleva che
il mondo fosse ripartito tra briganti rifugiati nei castelli e schiavi erranti
nelle campagne».49
La parte che Voltaire si assegnò fin dalla giovinezza fu esattamente
quella opposta di Boulainvilliers. Con il poema La Henriade egli celebrò
Enrico IV, il sovrano che aveva posto fine alle guerre di religione e che era
morto assassinato per avere stabilito la tolleranza; mentre, particolare non
irrilevante, il poema nel primo progetto avrebbe dovuto intitolarsi La
Ligue, e cioè il partito filo-papale responsabile della notte di San
Bartolomeo.50 Subito di seguito egli concepì il progetto del Siècle de Louis
XIV, là dove, fuori di ogni apologetica, l’attenzione si rivolgeva ai progressi
politici, economici, amministrativi di un’epoca comunque gloriosa,
illustrata – quasi in un ritorno all’età di Augusto – da una grande
letteratura. «C’est l’ouvrage de toute ma vie», egli scriveva a un
corrispondente nel 1734, l’anno successivo della pubblicazione delle
Lettres philosophiques, che gli avevano procurato insieme persecuzione e
gloria. E così come nelle Lettere si era ricollegato, discutendolo, a Pascal,
nell’opera storica che seguì al Siècle, l’ Essai sur les moeurs et l’esprit des
nations, si ricollegò a un autore eminente del grand siècle, in un misto,
come nel caso di Pascal, di ammirazione e ripulsa. Come si sa, Voltaire fa
cominciare la sua narrazione da Carlo Magno, là dove Bossuet aveva
terminato il suo celebre Discours sur l’histoire universelle (1681). Il
vescovo di Meaux, che gli storici del nostro tempo definiscono come «uno
dei principali avvocati dell’assolutismo regale e il più efficace campione
dell’autorità, ortodossia e tradizione della chiesa di Francia»,51 godeva di
grande e sincera ammirazione da parte di Voltaire, che lo celebra come «le
sublime Bossuet».52 Egli definisce altresì il Discours, un prodotto oratorio
diretto all’educazione del principe ereditario, come «una declamazione
molto eloquente», all’opposto del vero storico, che «deve essere più filosofo
che oratore»53, ma dubitava al tempo stesso della sua piena sincerità. Nel
48
Cfr. Voltaire, Lettres à S.A. Mgr. Le Prince de ***, “Lettre X, sur Spinoza”, in
Mélanges, ed. J. Van den Heuvel, Paris, La Pléiade, 1971, p. 1221.
49
Lettera al presidente di parlamento C. J. Hénault (autore di un Abrégé de
l’histoire de France), 4 settembre 1749, in Scritti politici, p. 164.
50
Scritti politici, p. 75.
51
ISRAEL, op. cit., p. 475.
52
Cfr. rispettivamente Mélanges, cit., p. 639; e Oeuvres historiques, cit., p. 1184.
53
Cfr. Trattato sulla tolleranza, in Scritti politici, p. 499.
37
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
medaglione a lui dedicato nel Catalogue degli scrittori illustri del secolo di
Luigi XIV, così conclude: «Si è preteso che questo grand’uomo avesse
sentimenti filosofici differenti dalla sua teologia, all’incirca come un dotto
magistrato che, giudicando secondo la lettera della legge, si solleva a volte
al di sopra di essa con la forza del suo ingegno», ed è affermazione che
troviamo spesso ripetuta.54 Insomma, ricollegandosi a Bossuet, e
subentrando a quanto questi non aveva osato dire, ne tramutava la retorica
in storiografia “filosofica” , ma nell’impegno di mantenersi al livello del suo
referente. Comune oggetto era l’origine e il farsi della Francia moderna nel
suo quadro europeo, là dove la storia biblica culminata nell’impero
carolingio era sostituita dal Rinascimento europeo, al punto di arrivo del
regno di Luigi XIII, quando si veniva ormai affermando la modernità.
L’Essai sur les moeurs superava altresì i dubbi del cosiddetto “pirronismo
storico” in quanto storia di civiltà e cultura orientata alla modernità, senza
scordare la storia del lavoro umano anche nei suoi aspetti più umili. A
proposito dello sconsolante quadro dell’anarchia feudale, l’autore si arresta
a rimarcare il progresso della «arti necessarie» (della civiltà materiale,
diremmo oggi), patrimonio di quegli uomini che al modo delle formiche
«scavano le loro abitazioni in silenzio, mentre gli avvoltoi e le aquile si
lacerano tra di loro».55 È notevole, come ha osservato R. Pomeau, che tale
spunto sia suggerito, nel quadro di una comunità di studi non soltanto
ideologica d’Europa, da un passo delle Antiquitates Italicae Medii Aevi di
L.A. Muratori (II, 350): «Primo itaque statuo quod est ad artes homini ad
vitas necessarias et ad plerasque etiam ad commodum aut voluptatem
compositas eas nunquam deperisse vel postquam in Italicum regimen
invecta est barbaries».56
È infine importante la definizione della nazione: «Perché una
nazione sia riunita in quanto corpo del popolo, perché sia potente,
agguerrita, sapiente, certamente è necessario un tempo prodigioso … È
necessario un concorso di circostanze favorevoli lungo il corso dei secoli;
affinché si formi una grande società di uomini riuniti sotto le medesime
leggi ci vuole il medesimo tempo necessario a creare un linguaggio».57 Ogni
parola è qui significativa, e profondamente caratteristica di Voltaire.
Soffermiamoci su quella conclusiva, l’unità della lingua. Era questo il
compito per cui Voltaire appassionatamente stimolava l’Académie, e non
occorre dire quanto si sia in prima persona adoperato per rendere la lingua
francese chiara, essenziale, moderna. Ciò equivaleva, in epoca in cui il
latino ancora non aveva smarrito la sua antica qualità di linguaggio della
dottrina, al definitivo abbandono della vecchia scolastica, e l’adozione,
anche da parte della comunità dotta, del linguaggio comune, e con esso,
54
Cfr. Oeuvres historiques, cit., p. 1141; e anche Idee repubblicane, in Scritti
politici, p. 602.
55
Cfr. Voltaire, Essai sur les moeurs et l’esprit des nations depuis Charlemagne
jusqu’à Louis XIII, ed. R. Pomeau, Paris 1963, vol. I, p. 717, cap. LXXXI: «Les arts
nécessaires,n’avaient point péri: Les artisans et les marchands, que leur obscurité dérobe
à la fureur ambitieuse des grands, sont des fourmis qui se creusent des habitations en
silence, tandis que les aigles et les vautures se déchirent».
56
Ivi, vl. I, p. 222.
57
Cfr. Lanzillo, p. 115.
38
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
come scriveva Voltaire, del «beau droit de tout écrire»58: un diritto che egli
riteneva equivalente a quello di cittadinanza. All’espansionismo militare di
Luigi XIV viene così opposto quello culturale della lingua francese, al modo
stesso – verosimilmente più per congenialità che per conoscenza diretta –
Lorenzo Valla nel XV secolo aveva vantato l’imperium della lingua latina
(anch’essa lingua del parlato contrapposta a quella della Scolastica).59 Ed è
infine la lingua a scandire la chiarezza, dunque la verità del concetto. Alla
voce Vérité delle Questions sur l’Encyclopédie, Voltaire, riproponendo il
quesito di Pilato a Gesù: “che cos’è la verità”, così risponde: «in attesa di
meglio, quel che viene enunciato com’è».60 Come si è detto, pare
riascoltare a tre secoli di distanza la voce del Valla, che pure in quanto
precoce sostenitore di una filosofia empirica fondata sul linguaggio era
stato isolato al suo tempo, avendo una scarsa seppure scelta ricezione, per
ultimo da parte di Leibniz.61
La continuità di Rinascimento – Illuminismo rimane una nozione
essenziale, come può essere variamente esemplificato nella trattazione
generale di Israel. Qualche parola resta da dire su questo studioso e
l’interpretazione che egli propone. L’Illuminismo di cui tratta non è quello,
come lo chiama, della «corrente principale moderata», a cui apparterebbe
Voltaire. La sua ricerca è diretta a delineare una corrente «radicale», e cioè
ispirata all’ateismo di Spinoza. “Spinozista” era in effetti all’epoca un
equivalente di ateo. Federico di Prussia apriva per esempio il suo AntiMachiavelli con la seguente “Premessa”: «Il Principe di Machiavelli è in
fatto di morale quello che l’opera di Spinoza è in fatto di fede: Spinoza
smantellava le fondamenta della fede e non aspirava a nient’altro che a
rovesciare l’edificio della religione; Machiavelli corruppe la politica e si
diede a distruggere i precetti della morale».62 Voltaire non sta simili
schematismi, come si può vedere dal profilo che traccia di Spinoza:
«Spinoza era esattamente il contrario del ritratto che di lui viene tracciato.
Se si deve detestare il suo ateismo, non si deve mentire sulla sua persona …
Spinoza visse sempre in un rigoroso ritiro scansando la folla, nemico di
ogni superfluo, trascurato nel vestire, dedito a lavori manuali, non pose
mai il suo nome in capo alle opere. Non è certo questo il carattere di chi
ambisce alla gloria», e ne elogia infine i seri e precorritori studi biblici.63
Difficile è dunque escludere Voltaire anche per chi ponga la “fortuna” di
Spinoza al centro del discorso. Eppure per Israel «non è esagerato asserire
che il contributo intellettuale di Voltaire, in quanto distinto da quello
retorico e letterario consiste in poco più che nell’introduzione sul
continente di Newton e Locke».64 Che una visione dell’Illuminismo, sia pur
“radicale”, possa lasciare ai margini Voltaire (per non dire di Montesquieu)
e postuli al contrario una linea di continuità che faccia capo a Spinoza,
Cfr. Scritti politici, p. 29.
Cfr. R. Fubini, L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini rinascimentali –
critica moderna, Milano 2001, pp. 130-135, 184-207.
60
. Lanzillo, p. 92.
61
Cfr. R. Fubini, L’umanesimo italiano. Problemi e studi di ieri e di oggi, in “Studi
francesi”, LI, 2007, pp. 504-515.
62
Cfr. Scritti politici, p. 1031.
63
Cfr. Mélanges, cit., p. 1120 s.
64
Israel, op. cit., p. 515 S.
39
58
59
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
nell’improbabile compagnia di Diderot, Lamettrie, D’Holbac, Rousseau,
fino a Robespierre, e che in essa si riconosca la nostra modernità è
questione a dir poco problematica, e comunque molto personale per
ciascun lettore. Una discussione in merito porterebbe lontano; basti aver
rimarcato la confusione, del resto non limitata al nostro caso, tra valori di
conoscenza e valori di cultura, tra il piano della dottrina e quello della
compartecipazione sociale.
Voltaire, per tornare al punto, non pretende scoprire nuove idee;
suo assunto ambizioso è quello di dar loro vita, di metterle a confronto, di
farne parte i lettori. Inseparabile è il rifiuto a vincolarsi a una singola
dottrina. Nei suoi svariati scritti egli si misura con gli autori del suo tempo,
rimarcando i suoi punti di consenso o dissenso, o traendone fino al
paradosso le logiche conseguenze: si tratti della deterministica dottrina dei
climi di Montesquieu (chi potrebbe escludere che i Comuni di Inghilterra
non possano essere un giorno trapiantati in Turchia?), o dell’inquietante
egualitarismo di Rousseau, latore di nuove e più gravi oppressioni
dell’individuo: «Io non mi concedo ai miei concittadini senza riserva; non
do loro il potere di uccidermi e di derubarmi a maggioranza di voti. Mi
sottometto ad aiutarli e ad essere aiutato. Nessun’altra convenzione».65
La summa del pensiero di Voltaire non è la celebrazione trionfale
della “ragione”; sta piuttosto nell’averne segnalato i limiti, e perciò stesso
averne accresciuto il valore. Una delle “voci” più significative del
Dictionnaire philosophique è insieme anche la più breve e riguarda «i
limiti della ragione» («Bornes de l’esprit humain»). Nella sua conclusione
essa abbraccia il motto di Montaigne: «Que sais-je?». Il “deismo”
professato da Voltaire dal punto di vista della dottrina – egli è il primo a
riconoscerlo – è formula vuota: come annotava nei suoi taccuini, «Dio è
l’eterno geometra, ma i geometri non amano».66 Con la sua affermazione
egli segnava piuttosto il limite opposto all’affermazione contraria: «Questo
ragionamento antico che sembra voler detronizzare Dio e mettere in suo
luogo il caos, mi ha sempre atterrito».67 La professione deistica si qualifica
insomma come una convenienza sociale di fronte allo spirito di
sopraffazione che l’uomo avverte in se medesimo: «Abbiamo tutti la nostra
ora di dispotismo dopo aver vissuto secoli di schiavitù».68
I valori positivi che trovano la più ampia enunciazione nelle Questions sur
l’Encyclopédie, e che ancora regolano la nostra civile convivenza (le libertà
individuali, quella religiosa, di stampa, il buon diritto di ciascuno a
reclamare l’uguaglianza pur nel realistico confrontarsi con le situazioni
stabilite, l’esigenza infine di trasparenza nel linguaggio e nella
comunicazione) si qualificano per la loro stessa problematicità, per il
pericolo sempre incombente del riaccendersi degli antichi roghi: «Que ces
feux étouffés étaient prompts à renaître! », come è scritto nel Poème sur la
religon naturelle.69
Cfr. Pensieri sul governo, in Scritti politici, p. 444; Idee repubblicane, ivi, p.
590; e anche ivi. p. 176.
66
Cfr. Scritti politici, p. 15.
67
Ibidem.
68
Cfr. Voltaire’s Noteboks, cit., II, p. 417.
69
Cfr. Scritti politici, p. 32,
40
65
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Tali valori pertanto, piuttosto che non un programma verso la
modernità, ci si prospettano come altrettanti quesiti da riproporre
attraverso i secoli al lettore. Vediamo di non smarrirne l’ascolto.
Nota Bibliografica
1) Opere generali sull’Illuminismo e il XVIII secolo
Per consultazione e orientamento critico si vedano:
A. Ch. Kors, Encyclopedia of the Enlightenment, 4 voll., Oxford
2003;
A. Santucci (a cura di), Interpretazioni dell’Illuminismo,
Bologna 1979;
B. Baczko, Job mon ami: promesses du bonheur et fatalité du
mal, Paris 1997;
Ch. Marvaud – S. Menant (a cura di), Le siècle de Voltaire:
Hommage à R. Pomeau, Oxford 1987;
D.M. McMahon, Enemies of the Enlightenment. The French
Counter-Enlightenment and the Making of Modernity, Oxford
2001;
F. Venturi, Utopia e riforme nell’Illuminismo, Torino 1970;
G. Ammerer – H. Haas (a cura di), Ambivalenzen der
Aufklärung. Festschrift für G. Wengermesser, München 1997;
H. Delon – C. Setel (a cura di), Voltaire en Europe. Hommage a
Ch. Marvaux, Oxford 2000;
41
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
H. Reinalter – H. Kluesting (a cura di), Der aufgeklärte
Absolutismus im europäischen Vergleich, Wien 2002;
J. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of
Modernity, 1650-1750, Oxford 2001;
P. Gay (a cura di), Eighteenth Century Studies presented to A.N.
Wilson, New York 1975;
P. GAY, The Enlightenment. I, The Rise of Modern Paganism; II,
The Science of Freedom, New York 1966-1969;
P. Geyer (a cura di), Das 18. Jahrhundert: Aufklärung,
Regensburg 1995;
V. Ferrone e D. Roche (a cura di), L’Illuminismo, Dizionario
storico, Roma-Bari 1998 (II ed.);
W.H. Barber (a cura di), The Age of the Enlightenment. Studies
presented to Th. Besterman, Edinburgh-London 1967.
2) Contributi su Voltaire
Per consultazione generale:
J.Goulemot e altri (a cura di), Inventaire Voltaire, Paris 1996;
M. Smith, Studies on Voltaire and the Eighteenth Century:
Summary Index to the Volumes 1-249, Oxford 1989;
M.M. Barr, Quarante années
d’études
voltairiennes.
Bibliographie analytique des livres et articles sur Voltaire, 19261965, Paris 1968;
R. Trousson – J. Vercruysse (a cura di), Dictionnaire général de
Voltaire, Paris 2003;
U. Kolving (a cura di), Provisional table of contents for the
complete works of Voltaire, Oxford 1983.
Biografie e profili:
A.J. Ayer, Voltaire, London-Boston 1988 (trad. it., Bologna
1990);
A.O. Aldridge, Voltaire and the Century of Light, Princeton,
N.J., s.d. (ma 1975);
H.T. Mason, Voltaire: A Biography, Baltimore 1981 (trad. it.,
Vita di Voltaire, Roma-Bari 1984);
42
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
J. Orieux, Voltaire, Paris 1999;
P. Alatri, Introduzione a Voltaire, Roma-Bari 1989;
P. Lepape, Voltaire le conquerant: naissance des intellectuels
au siècle des lumières, Paris 1994;
Th. Besterman, Voltaire, London 1969 (trad. it., Milano 1971).
Aspetti particolari della biografia o del pensiero:
E. Chiari (a cura di), Voltaire e il concetto di filosofia nel
pensiero moderno, Firenze-Messina 1981;
F. Brezzi, L’esegesi biblica e il problema del male in Voltaire,
Roma 1970;
F. de Gandt (a cura di), Cirey dans la vie intellectuelle. La
réception de Newton en France, Oxford 2001;
G. Carobene, Tolleranza e libertà religiosa nel pensiero di
Voltaire, Torino 2000;
G. Collard, Voltaire, l’affaire Calas et nous, Paris 1994;
G. Haroche-Bouzinac, Voltaire dans ses lettres de jeunesse,
1711-1733: la formation d’un épistolier au 18e siècle, Paris 1992;
G. Tamagnini, Voltaire e i libertini: diritto, politica e libero
pensiero nell’opera di Voltaire, Modena 1981;
H. Gouhier, Rousseau et Voltaire: portraits dans deux miroirs,
Paris 1983;
L. Bianchi – A. Portigliolo (a cura di), Voltaire: religione e
politica. Seminario di studi, Napoli 1999;
M.L. Lanzillo, Voltaire, la politica della tolleranza, Roma-Bari
2000;
N. Cronk (a cura di), !tudes sur le Traité de la tolérance de
Voltaire, Oxford 2000;
R. Trousson, Socrate devant Voltaire, Diderot et Rousseau: la
conscience en face du mythe, Paris 1967;
R. Trousson, Visages de Voltaire (18 e -19 e siècles), Paris 2001;
R.J. Howells (a cura di), Voltaire and his world. Studies
presented to W.H. Barber, Oxford 1963;
S. Menant, Littérature par alphabet: le
philosopique portatif de Voltaire, Paris 1994;
Dictionnaire
43
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
U. Kolvig – Ch. Marvaud (a cura di), Voltaire et ses combats,
Actes du congrès international, Oxford 1994;
V. Crugton Andre, Le Traité sur la tolérance de Voltaire: un
champion des lumières contre le fanatisme, Paris 1999.
Riedizioni e traduzioni:
P. Gay, Voltaire politico: il poeta come realista, Bologna 1991
(con un’appendice);
R. Fubini, Interpretazioni di Voltaire. I, Rinnovamento di
interessi: l’ideologia religiosa, il romanzo filosofico, la
storiografia, in «Cultura e scuola», n. 12, 1964, pp. 50-60; II, La
politica, ivi, n. 15, 1965, pp. 49-54;
R. Pomeau, La religion de Voltaire, Nouvelle édition revue et
mise à jour, Paris 1995;
Voltaire, Traité sur la tolérance, Introduction, notes et
commentare par R. Pomeau, Paris 1989.
44
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Adam Smith di sinistra
di Sergio Cremaschi
1. Innamoratevi di Adam Smith!
Un articolo di Salvatore Veca su L’Unità del 6 marzo 1997 aveva come
sottotitolo Il mercato non è il demonio ma non innamoratevi di Adam
Smith. Che c’era di sbagliato? Non il contenuto dell’articolo che insisteva
sull’idea che la sinistra debba ritrovare i propri principi e che la tendenza a
recepire una versione un po’ più progressista del verbo del liberalismo
economico era un sintomo di senescenza. Quel che c’era di sbagliato stava
nel sottotitolo, dove Smith era identificato ancora una volta con il
Capitalismo. Da decenni nessuno fra gli studiosi smithiani dice più nulla
del genere.
In questo saggio mi propongo di offrire uno sguardo d’insieme su
un’interpretazione dello Smith etico-politico che riprende i risultati
dell’ultima fase degli studi smithiani iniziata nel 1976, l’anno della
Glasgow Edition delle opere smithiane 1. L’interpretazione qui proposta
può essere così riassunta: i) Smith è un anticartesiano e un postscettico,
ovvero un avversario di tutte le teorie che pretendono di ridurre la
molteplicità dei fenomeni a principi ultimi eccessivamente semplici; ii) un
‘antisistema’ smithiano abbastanza coerente, sebbene presentato soltanto
rapsodicamente nelle opere pubblicate, prevede uno spazio per una
filosofia naturale che non è in realtà nulla più che associazione di idee
secondo alcuni requisiti psicologici quali la semplicità, la coerenza,
l’analogia, e per una filosofia morale che comprende una giurisprudenza,
che è una grammatica del senso di giustizia che lo formula in regole
precise, e in una dottrina delle virtù, che è una illustrazione
inevitabilmente meno precisa del nostro senso dell’appropriatezza delle
azioni. Questa dottrina illustra un’istituzione sociale, la morale, che svolge
la funzione irrinunciabile di educare alla vita sociale attraverso il
riconoscimento della maggiore o minore appropriatezza delle nostre
reazioni simpatetiche.
Le implicazioni sulla relazione fra Smith e la tradizione del
liberalismo possono essere così precisate: i) il fatto che Smith sia un
anticartesiano, cioè un avversario dei sistemi, in metafisica, teoria della
1
Mi rifaccio in questa ricostruzione d’insieme in primo luogo a S. Cremaschi, Il
sistema della ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith,
Milano 1984, e poi vari saggi citati in seguito.
45
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
conoscenza, religione e politica ma anche un postscettico, cioè un
pensatore che come Kant è stato risvegliato da Hume dal sonno dogmatico
ma che come Kant crede di avere trovato un modo per imporre la validità
di certi argomenti senza dedurli da premesse ‘metafisiche’, si manifesta
anche in etica, politica, economia; quindi le sue teorie in questi campi sono
in un certo senso forme di “antiteoria”, cioè argomentazioni che partono
dall’assunzione degli inevitabili limiti della conoscenza e dell’intervento
attivo degli individui e dei soggetti collettivi; ii) lungi dall’essere un
immoralista, Smith difende un’etica normativa che privilegia un ristretto
catalogo di virtù private al vertice del quale pone una triade composta da
prudenza, giustizia, benevolenza; lungi dall’essere un realista politico,
d’altra parte, ha una sua concezione normativa, quella che chiama
«sistema della libertà naturale», che consiste nella pratica di tre virtù
pubbliche: libertà, giustizia, eguaglianza; iii) Smith è sicuramente
ammiratore dei pregi della virtù civile presentata da Montesquieu e prima
di lui da una tradizione di pensiero rinascimentale e seicentesco che si
suole chiamare “umanesimo civile” ed è acutamente consapevole delle
perdite che la civiltà urbana e manifatturiera basata sulla crescente
divisione del lavoro ha portato con sé, ma è altrettanto decisamente
convinto della non attualità del modello di virtù civile per via del fatto che
la divisione del lavoro in una società civilizzata rende impossibile la
conoscenza adeguata e la partecipazione politica della massa dei cittadini;
iv) Smith è però convinto che il metro di misura in base al quale valutare
l’ordinamento di una società sia la condizione dei labouring poor perché
questi sono coloro che sostentano il resto della società e che ne
costituiscono la maggioranza e perché le più elementari considerazioni di
umanità, condivise dalla più diverse dottrine morali, impongono che la
condizione del più svantaggiato abbia la priorità.
Smith fu un liberale in un primo senso, quello di sostenitore di tutte
le battaglie a favore della libertà sia nel senso di difesa dei diritti degli
individui sia nel senso di libertà politica, dell’eguaglianza, della giustizia,
ma non fu un liberale in un secondo senso, quello del liberalismo
economico fautore del Laissez Faire che si affermò nella Gran Bretagna
dell’Ottocento, caratterizzato dalla parola d’ordine Freedom contrapposta
alla parola d’ordine Liberty (laddove la prima sembrava alludere alla non
interferenza negli affari privati da parte della collettività, e la seconda alla
pretesa dei radicali di instaurare un governo legittimato dai cittadini) 2.
Anzi, la storia dell’identificazione di Smith con la dottrina del liberalismo
economico fu una sorta di commedia degli equivoci recitata all’epoca delle
guerre napoleoniche sulla stampa e nel Parlamento britannici nel corso
della quale gli esponenti Tory iniziarono a citarne singole frasi a difesa
della proprietà privata, gli esponenti Whig citarne altre a favore della
libertà d’iniziativa, mentre gli esponenti del radicalismo, sempre meno
ascoltati, continuarono a citare l’autore laddove deprecava i vizi dei ricchi e
dei potenti e difendeva i diritti degli oppressi 3. Smith, pur con tutta la sua
moderazione, fu vicino proprio al primo senso del liberalismo, e quindi
sicuramente all’interpretazione dei radicali e spesso a quella dei Whig, e fu
2
Si veda E. Rothschild, Economic Sentiments. Adam Smith, Condorcet, and the
Enlightenment, Cambridge, MASS 2001, pp. 52-71, particolarmente 58-61.
3
S. Rashid. The Myth of Adam Smith, Edward Elgar, Cheltenham 1998, cap. 7.
46
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
invece un feroce avversario dei ceti dominanti del suo tempo, in primo
luogo i mercanti e gli imprenditori manifatturieri, e con questi di ogni
argomento a favore della non ingerenza della collettività nei loro affari, sia
che si mascherasse dietro parole d’ordine ‘mercantiliste’ come avveniva nel
Settecento sia che si mascherasse dietro la parola d’ordine del Laissez
Faire, come si sarebbe fatto dopo la morte di Smith 4.
2. Un’etica e una teoria politica anticartesiane
Smith filosofo morale fu bistrattato come pochi. Marx, che pure ha
trattato lo Smith economista con grande rispetto, sembra averne ignorato
l’esistenza. Adorno e Horkheimer ne fecero uno dei pensatori di quella
borghesia che avrebbero creato prima le manifatture e poi i campi di
sterminio come estrema conseguenza del dispiegarsi della stessa logica del
‘dominio’, un cugino in incognito del marchese De Sade e un immoralista
assertore dell’identità fra vizi privati e pubbliche virtù. I tedeschi
dell’Ottocento lo lessero come un edificante predicatore della benevolenza
poi inspegabilmente convertito al culto dell’interesse egoistico proclamato
nella Ricchezza delle Nazioni. Gli inglesi dell’Ottocento invece pensarono
che, come tutti gli autori progressisti e non troppo clericali, dovesse essere
stato anche lui un utilitarista 5.
In realtà Smith fu un filosofo morale e la stessa Ricchezza delle
Nazioni è, più che un trattato di teoria economica, un’opera di ‘etica
applicata’ o una critica dell’ingiustizia e dell’oppressione ancora vigenti
nelle società relativamente prospere del Settecento. In etica Smith fu,
come detto, un anticartesiano e un postscettico, cioè un pensatore che
seguiva un percorso parallelo a quello seguito da Kant quasi negli stessi
anni. Essendo stato anch’egli destato dal sonno dogmatico per opera di
Hume, anch’egli cercò una via per andare oltre Hume, sia in epistemologia
sia in morale, cercando di mostrare come, anche se tutte le dottrine sono
dubbie, ve ne siano alcune più plausibili di altre, e come nella vita reale
non possiamo fare a meno di alcune assunzioni minimali. Questo vale in
epistemologia, dove si può illustrare come anche la teoria più recente e
apparentemente perfetta sia in linea di principio nulla più che una
soddisfacente creazione dell’immaginazione ma sia invece agli effetti
pratici un irrinunciabile modo per mettere ordine nelle nostre
rappresentazioni. Vale in modo analogo in etica, dove si può illustrare
come dottrine immoraliste come quella di Mandeville che identificano
vizio e virtù colgano un briciolo di verità, ma anche come le dottrine
razionaliste troppo rigorose come quella degli antichi stoici siano
condannate a conseguenze paradossali che finiscono per equiparare
anch’esse vizio e virtù, laddove invece non possiamo fare a meno di
4
Si veda S. Cremaschi, Adam Smith antiutilitarista, in «La società degli
individui», VIII, 2005, pp. 17-32; Id., Merchants, Master-Manufacturers and Greedy
People , in «History of Economic Ideas», xv, 2007, pp. 143-154; Id., Legge di natura e
scienza economica, in «Quaderni storici», XXXV, 2000, pp. 697-730; Id., La teodicea
social de Adam Smith, in «Empresa y Humanismo», 13, 2010, pp. 333-374.
5
Come spesso accade, questi strafalcioni sono poi ripetuti da autori che
sostengono idee eccellenti su altre cose ma non hanno trovato il tempo di documentarsi
su Adam Smith. È il caso di Alain Caillé sul quale si veda S. Cremaschi, Adam Smith
antiutilitarista, «La società degli individui», 8, 2005, n.3, pp. 17-32.
47
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
condannare il primo e lodare la seconda. Così Smith filosofo morale, lungi
dall’essere una delle cose strane che gli storici del pensiero hanno
affermato (un utilitarista, un platonico prosecutore di Shaftesbury, un
neostoico, uno scettico) è un post-scettico che sostiene che le diverse tesi
teoriche che si possono sostenere in quella che oggi si chiama metaetica
non hanno alcuna conseguenza in etica normativa, e che un’etica
normativa può essere costruita in maniera semplice e ovvia a partire da
alcuni giudizi minimali e irrinunciabili da parte di chiunque che non sia un
filosofo immoralista o un filosofo razionalista. Si giustifica così, senza
bisogno di farla discendere deduttivamente da una fondazione ma
operando una sorta di ‘bricolage’ morale con gli attrezzi delle reazioni
simpatetiche e dello spettatore imparziale, un’etica normativa 6. Questa
presenta un ristretto catalogo di virtù al vertice del quale pone una triade
composta da prudenza, giustizia, benevolenza, di modo che «l'uomo che
agisce secondo le regole della perfetta prudenza, di una rigorosa giustizia
e di un'appropriata benevolenza può essere considerato perfettamente
virtuoso» 7.
Proprio il carattere “sperimentale” dell’etica smithiana, anche se è ciò
che cerca di risolvere la difficoltà centrale delle etiche settecentesche, la
stessa che anche Kant tenta di risolvere, crea però non pochi problemi. In
primo luogo, mentre nella seconda edizione della Teoria, del 1761, Smith
tendeva a pensare allo spettatore imparziale come rimedio sicuro alla
variabilità dei sentimenti morali, nella sesta edizione, del 1790, ammette
che, essendo lo spettatore «un semidio», la sua metà mortale è anch'essa
esposta all'influenza delle passioni altrui per via dei sentimenti
simpatetici, e non è quindi in grado di assicurare un rifugio sicuro alla
coscienza del giusto immeritatamente disapprovato e condannato. In
secondo luogo, l’influenzabilità dello spettatore imparziale si manifesta
anche nella variabilità dei sentimenti a causa della quale nelle diverse
società le reazioni simpatetiche tendono a seguire gli usi e le consuetudini
più che a guidarli. Gli eschimesi hanno la crudele usanza di abbandonare i
vecchi, ma le dure condizioni in cui sopravvivono forse possono spiegare
come i loro sentimenti si siano abituati a questa crudeltà. Invece i greci e i
romani avevano l'usanza ancora più crudele di esporre i bambini non
desiderati anche in tempi in cui le loro condizioni erano tali che un eccesso
di nascite non avrebbe messo a rischio la sopravvivenza del gruppo, e
questo fenomeno si spiega, o meglio non si spiega, con il fatto che
l'immaginazione tende a essere plasmata dalle consuetudini e così ogni
istituzione purché antica ottiene il nostro rispetto8 . In terzo luogo, vi è la
«corruzione» dei sentimenti causata da tendenze innate come quella a
simpatizzare maggiormente con il più ricco e più potente, una tendenza
che svolge un'utile funzione in quanto sta all'origine delle diverse forme di
ordine sociale, ma è fonte di parzialità nei giudizi morali 9.
Il punto di vista da adottare sarebbe quello di uno spettatore
6
Si veda S. Cremaschi, L'etica moderna. Dalla Riforma a Nietzsche, Carocci,
Roma 2007, pp. 133-141.
7
Ivi, VI.3. (corsivo aggiunto).
8
A. Smith, Teoria dei sentimenti morali (1759), a cura di E. Lecaldano, RCS Libri,
Milano 1995, V.2.
9
Ivi, I.iii.3.
48
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
completamente imparziale, lo stesso che Dio ha nei confronti del mondo
che ha creato, ma il paradosso del giudizio morale sta nel fatto che questa
posizione resta irraggiungibile pur non cessando di essere un ineliminabile
ideale regolativo. Se totalmente imparziale, l’atteggiamento dello
spettatore sarebbe condannato a essere incapace di motivazione, perché il
perfetto equilibrio è tale da spegnere le passioni. Smith ipotizza che la
Natura abbia voluto che noi siamo incapaci di questa assoluta imparzialità,
ma che ci interessiamo della sorte dei nostri simili in cerchi concentrici:
noi stessi, i nostri familiari, i nostri concittadini, e buon ultimo il mondo
intero. L’impossibilità di totale imparzialità è un limite e un paradosso, ma
non è, agli effetti pratici, un vero male. Infatti ogni etica razionalista si
autoannulla. Gli stoici ad esempio credevano che, poiché il mondo è
governato dalla provvidenza divina,
«ogni singolo evento dovesse essere considerato come parte necessaria dell'universo,
tendente a promuovere l'ordine e la felicità generale del tutto, e che perciò i vizi e le
follie dell'uomo giocassero, nell'economia di tale piano, un ruolo tanto necessario
quanto la sua saggezza e la sua virtù e che, per l'eterna arte che trae il bene dal male,
fossero creati per tendere ugualmente alla prosperità e alla perfezione del gran sistema
della natura»10.
Si noti che questa era la tesi dei platonici di Cambridge sintetizzata
da Alexander Pope nel verso famoso «Whatever is, is right» 11 che esprime
proprio una posizione contraria a quella smithiana. E quindi il giudizio
morale deve necessariamente basarsi su una conoscenza incompleta ma
anche per gli stessi motivi deve avere una struttura non consequenzialista,
e quindi Smith non può essere utilitarista per le stesse ragioni per cui non
è razionalista.
Nonostante queste considerazioni sui limiti delle teorie etiche, e
addirittura sulla necessità di limiti alla conoscenza perché possa esistere il
giudizio morale, è possibile un’etica normativa perché esistono alcuni
sentimenti morali minimali costanti in ogni luogo e tempo. Dalla ripetuta
esperienza delle nostre spontanee reazioni di fronte al vizio e alla virtù si
derivano «per esperienza e induzione» massime generali o «regole
generali della moralità»12 che stanno al posto delle leggi di natura e che
sono comunemente considerate comandi della Divinità.
3. L’economia come discorso morale
Accanto alla morale privata esiste per Smith la giurisprudenza,
disciplina di cui svolse una trattazione che conosciamo attraverso gli
appunti delle lezioni tenute a Glasgow. La giurisprudenza naturale è una
dottrina che spiega la genesi e l’evoluzione delle leggi e delle istituzioni
tenendo conto della loro necessaria variabilità storica ma non per questo
rinunciando a darne una giustificazione. Questa giustificazione risiede
ultimamente nell’origine simpatetica del senso della giustizia che sta alla
10
Ivi, I.ii,4.4.
11
A. Pope, Saggio sull’uomo (1734), a cura di A. Zanini, Liberilibri, Macerata 1994,
v. 294.
12
A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., VII. 2. 6; III.4.8.
49
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
base di ogni norma e istituzione13. Anche la teoria giuridica e politica, non
meno della teoria etica, soffre di tensioni e paradossi che si concentrano
intorno alla tensione fra un ideale regolativo di imparzialità, eguaglianza,
perfetta giustizia e la ricostruzione di approssimazioni storicamente date a
questo ideale. Tali approssimazioni sono null’altro che dei second best, ma
sono anche le uniche opzioni praticabili 14. Resta nondimeno lo spazio per
la critica delle leggi, istituzioni e pratiche realmente esistenti, critica che
consiste nello svelare come, al di sotto delle belle parole, queste stiano ben
al di sotto degli standard rappresentati dall’approssimazione storicamente
possibile all’ideale di imparzialità, ma tendono invece costantemente a
risolversi in tentativi di manipolazione da parte dei ricchi e dei potenti a
danno della collettività.
La Ricchezza delle nazioni è la realizzazione parziale della teoria della
legge e del governo che l’autore si riprometteva di scrivere e di cui
conosciamo soltanto la versione conservata nelle Lezioni di Glasgow di cui
si è detto. L’opera è un complesso esercizio di persuasione volto a
dimostrare come il modo migliore in cui il governante può svolgere uno
dei suoi compiti, cioè quello di assicurare l’abbondanza delle provvigioni,
consista non in misure artificiose basate su complesse e opinabili teorie
ma nell’autolimitazione del proprio intervento accompagnata da un’opera
volta ad assicurare un quadro di rispetto della giustizia e della libertà entro
il quale le politiche migliori (o meno peggiori) vengono a realizzarsi da sé
per emergenza spontanea dell’ordine (una volta che questo ordine non sia
manipolato in partenza dai più ricchi e potenti). Va aggiunto però che il
governante deve anche assicurare l’erogazione a spese del contribuente di
una lista di beni pubblici di cui si dirà.
Una parte decisiva dell’opera è dedicata alla critica dei due “sistemi”
esistenti di “economia politica” e nella presentazione di un’alternativa, la
quale consiste nella rinuncia ad ogni “sistema”. Quello che Smith propone
come la soluzione è il «semplice e ovvio» sistema della libertà naturale che
consiste non in una diversa “economia politica” (intesa nel senso
etimologico del termine, quello di amministrazione del patrimonio della
nazione in analogia all’amministrazione di una famiglia o di uno oikos) ma
bensì nella instaurazione di «perfetta libertà, perfetta giustizia, perfetta
eguaglianza»15 .
Va notato che questo “sistema” è contrapposto ai due criticati, quello
mercantile e quello agricolo ma in modo tale da implicare che questi siano
“sistemi” in senso diverso da quello del sistema di Smith: quelli sono teorie
sulla natura della ricchezza da cui discendono direttive rigide sulle
politiche da attuare, questo è un sistema «semplice e ovvio». Le
implicazioni portate da questi due aggettivi si possono comprendere se si
ricorda che il termine “sistema” era stato usato da Smith con connotazione
negativa nella Storia dell’Astronomia laddove i sistemi erano «macchine
13
Lezioni di Glasgow, a cura di E. Pesciarelli, Giuffré, Milano 1991, LJ (A) v.
114-124.
14
Si veda S. Cremaschi, Adam Smith. Sceptical Newtonianism, Disenchanted
Republicanism, and the Birth of Social Science, in Knowledge and Politics: Case Studies
on the Relationship between Epistemology and Political Philosophy, a cura di M. Dascal
e O. Gruengard, Boulder, CO 1989, pp. 83-110.
15
A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni
(1776), a cura di A. Roncaglia, Isedi, Roma 19952, IV.ix.16-17; cfr. IV.ix.3 e IV.ix.51.
50
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
immaginarie» che creano l’illusione di farci vedere connessioni fra i
fenomeni della natura. Smith riconosceva che tali macchine immaginarie
sono indispensabili, perché la nostra mente non sa funzionare in altro
modo, ma sosteneva che inducono in errore quando piegano i fenomeni
agli schemi invece di adattare gli schemi ai fenomeni 16. Affermare che il
sistema della libertà naturale sia «semplice e ovvio» equivale a dire che
non è un “sistema” nello stesso senso negativo in cui lo è quello cartesiano.
Infatti, pur essendo il sistema giustificato da considerazioni teoriche sulla
natura della ricchezza, queste considerazioni sono soprattutto di natura
critica o negativa. Ciò che fanno è spiegare il paradosso della società
commerciale per cui è possibile la coesistenza di alti salari e prodotti a
basso prezzo. Il sistema che giustificano poi non consiste in direttive
d’ingegneria sociale ma al contrario si limita a prescrizioni morali e
giuridiche. È l’ovvio riconoscimento della necessità di instaurare libertà,
giustizia, eguaglianza che crea le condizioni per cui, attraverso l’emergenza
spontanea dell’ordine (che può avvenire però solo entro un quadro di
norme e diritti) si ha una crescita della ricchezza e una sua ripartizione fra
le tre classi della società che è, se non giusta, almeno non troppo distante
dall’essere tale.
Si ricordi che, laddove presenta il suo semplice e ovvio “sistema”, Smith
parafrasa una formula che compare nella prefazione della traduzione
inglese della Epistola de Tolerantia – e quindi non di Locke ma del suo
traduttore dal latino William Popple – che afferma: «Assoluta libertà,
giusta e vera libertà, eguale e imparziale libertà è la cosa di cui abbiamo
bisogno» 17. Si deve notare che la giustizia compare anche qui al centro, fra
le altre due virtù pubbliche, come compariva al centro della triade delle
virtù private, fra la prudenza e la beneficenza. Si noti anche che la triade
lockiana e smithiana è la stessa triade della Rivoluzione francese ma con la
giustizia al posto della fraternità.
Per comprendere che cos’è il «semplice e ovvio» sistema della libertà
naturale è bene evitare di farsi fuorviare dall’aggettivo «naturale» apposto
al sostantivo libertà. Anche la giustizia è corredata dell’aggettivo naturale
nelle Lezioni di Glasgow, laddove il termine è chiaramente più un luogo
comune settecentesco anglosassone che l’espressione di una teoria di un
ordine naturale come quella dei fisiocratici. Il sistema è in realtà un
antisistema: è l’ipotesi di un ordine approssimativo che s’instaurerebbe
spontaneamente una volta che si fossero abolite tutte le restrizioni
innaturali. Consiste in un grado accettabile di libertà, giustizia,
eguaglianza: è un second best rispetto a quella perfetta eguaglianza,
perfetta giustizia, perfetta libertà che costituirebbe un’utopia e sarebbe
perciò irrealizzabile.
4. Mercanti e manufatturieri prepotenti e rapaci
16
A. Smith, Storia dell’astronomia, in Saggi filosofici, a cura di P. Berlanda,
Angeli, Milano 1984, II.9; IV.19.
17
J. Locke, A Letter concerning Toleration, being a Translation of the Epistola de
Tolerantia, in The Works of John Locke [1873], 10 voll., Scientia, Aalen 1963, vol. V, p. 4.
51
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
La sociologia della Ricchezza delle nazioni descrive una società
composta di quattro gruppi principali: i proprietari terrieri, i fittavoli e i
contadini, i mercanti e manifatturieri (insieme al clero che condivide
alcune delle loro caratteristiche negative), e infine i lavoratori manuali, il
gruppo più maltrattato e svantaggiato, ridotto in condizioni di benessere
fisico e mentale deplorevoli, peggiori di quelle dei contadini che invece
traggono ancora qualche vantaggio dalla natura complessa del loro lavoro
e dai legami sociali offerti, o imposti, dalla vita del villaggio18 . In
particolare va ricordato come, fra tutte le classi, l’unica ad essere
costantemente risparmiata da critiche e invettive è quella dei labouring
poor. Questi sono ridotti a uno stato di menomazione fisica dall’eccessiva
ripetizione di mansioni manuali debilitanti, ridotti a un grave stato di
mutilazione mentale, soggetti alla tentazione della condotta che Durkheim
avrebbe in seguito chiamata anomica per via della perdita dei legami
sociali della vita di villaggio. Inoltre sono esposti al rischio dello
enthusiasm, cioè del fanatismo, come reazione allo stato di depressione in
cui la mancanza di vita sociale imposta dalla manifattura e
dall’inurbamento li sprofonda, e di conseguenza facili prede dei predicatori
fanatici. Per gli stessi motivi possono diventare massa di manovra dei
politicanti senza scrupoli, portavoce di gruppi monopolistici che tendono a
usare gli strati inferiori come truppa per le loro campagne a favore di
politiche commerciale aggressive nei confronti dei paesi concorrenti e a
favore di rovinose avventure coloniali e di guerre di aggressione. Ciò
nonostante i lavoratori manuali restano il gruppo sociale al quale la società
deve di più e al quale la società dà di meno19 . Nei confronti delle altre classi
Smith ha spesso toni sprezzanti, come avviene con i proprietari terrieri ai
quali rimprovera l’indolenza e la mancanza di comprensione, seppure con
qualche indulgenza nei confronti del loro carattere tendenzialmente aperto
e generoso, e ancor più con due gruppi, i mercanti e manifatturieri e il
clero, nei cui confronti Smith manifesta il massimo della ferocia di cui è
capace.
La società risultante dall’instaurazione di libertà, giustizia,
eguaglianza e dal venir meno delle distorsioni create dallo strapotere dei
mercanti e manifatturieri sarebbe costituita in una misura notevole da
piccoli imprenditori e fittavoli la cui libera iniziativa renderebbe possibile
non solo il loro proprio benessere ma anche un crescita costante della
ricchezza per tutti, in primo luogo per i lavoratori manuali. I monopoli e le
distorsioni sarebbero resi impossibili da un’attività legislativa che sarebbe
sotto costante controllo di una pubblica opinione illuminata costituita
dalle persone che esercitano le libere professioni. Queste hanno le stesse
capacità intellettuali e informazioni dei mercanti e manifatturieri ma non
ne condividono la tendenza e l’interesse a manipolare la pubblica opinione
e il governo. La sorte dei più poveri sarebbe migliorata non solo da alti
salari, che sono comunque il fine che le politiche economiche devono
servire e il criterio in base al quale devono essere valutate, ma anche da
18
Si veda S. Cremaschi, Adam Smith without Homo Economicus, in «Prague
College Research Centre Bulletin», I, 2010, pp. 23-35.
19
Si veda S. Fleischacker, On Adam Smith’s Wealth of Nations. A Philosophical
Companion, Princeton University Press, Princeton 2004, pp. 205-209.
52
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
alcuni interventi attivi da parte dello stato volti a rimediare ai fallimenti
del mercato.
Questi interventi previsti da Smith non sono, per i suoi tempi,
particolarmente limitati. La più nota fra queste misure è la creazione di un
sistema d’istruzione di base generalizzata autogestito ma sovvenzionato
dallo stato, le altre sono il servizio generalizzato in una milizia che avrebbe
fornito educazione fisica e disciplina alle masse dei lavoratori manuali il
cui fisico soffriva per le condizioni di lavoro, degli intrattenimenti pubblici
pensati come occasioni di socialità volte a rimediare agli effetti psichici
dell’inurbamento. Tutte queste misure sarebbero rivolte a migliorare le
condizioni fisiche e mentali degli stati più svantaggiati della popolazione.
È ora possibile spiegare in quale modo la Ricchezza delle nazioni è
opera morale. Lo scopo della teoria è, coerentemente con l’epistemologia
presentata nella Storia dell’astronomia, fornire gli anelli mancanti nella
catena di idee con cui ci rappresentiamo la società in cui viviamo di modo
da far sì che idee apparentemente incompatibili divengano compatibili per
la nostra mente. È a questo punto che i diversi sistemi sofistici, riguardo al
commercio e alle finanze così come riguardo al vizio e alla virtù, rivelano la
loro natura di “sistemi” in senso negativo, sistemi che fanno forza ai
fenomeni per adattarli a uno schema precostituito. Fatto questo, il compito
del filosofo morale è virtualmente terminato. Dimostrato che i sofismi
secondo i quali si dovrebbero tenere bassi i salari in nome della
competitività sui mercati internazionali o si dovrebbero favorire le
esportazioni e combattere le importazioni in nome del pubblico interesse
sono ragionamenti da azzeccagarbugli al servizio di oculati interessi, non
occorre che il filosofo morale ci illumini sui retti valori, sul primato
dell’uomo rispetto all’economia o dei valori spirituali rispetto a quelli
materiali perché è ovvio, sulla base di qualsiasi dottrina etica, che chi nutre
tutta la società deve potersi nutrire. È sufficiente demolire le false evidenze
che rendono strano ciò che invece è del tutto ovvio. Questa funzione di
svelamento dei sofismi della teoria economica come propedeutica al
discorso morale risulta più nitidamente nell’Abbozzo della ricchezza delle
nazioni. Smith scrive a proposito di alti salari e bassi prezzi delle merci
prodotte: «quei due eventi, che i pregiudizi volgari e una riflessione
superficiale tendono a considerare del tutto incompatibili, sulla base
dell’esperienza si rivelano perfettamente compatibili»20 . Smith aggiunge:
«L’alto prezzo del lavoro è da considerare non soltanto una prova della
generale opulenza della società che può permettersi di pagare bene tutti coloro
che impiega; è da considerare come ciò che costituisce l’essenza della pubblica
opulenza, o la stessa cosa con cui si ottiene facilmente l’opulenza, o in cui un
po’ di lavoro [...] è capace di procurare a ognuno una grande abbondanza di
tutti i beni di prima necessità e di quelli superflui» 21.
Smith vuole dimostrare che la ricchezza della nazione non consiste
nelle riserve di metalli preziosi ma, molto più ovviamente, nella facilità
dell’acquisto dei beni di prima necessità per la grande massa della
20
A. Smith, La ricchezza delle nazioni: abbozzo, prefazione di G. Lunghini Editori
Riuniti, Roma 2006, §§ 11-12.
21
Ivi, § 12
53
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
popolazione, perché «l’opulenza nazionale è l’opulenza del popolo nel suo
insieme, che non può essere occasionata da null’altro se non da un’elevata
retribuzione del lavoro, e di conseguenza dall’elevata possibilità di
acquistare»22.
5. I cattivi discepoli e il Laissez Faire
Il destino paradossale di Smith fu di essere elogiato dagli uni e
stigmatizzato dagli altri come portavoce di quei mercanti e manifatturieri
di cui si era invece accanito a denunciare vizi e colpe. Verso la fine degli ani
Novanta, all’apice della repressione antiradicale occasionata dalle guerre
con la Francia, e nel primo decennio dell’Ottocento, quando iniziò la
discussione sulle Corn Laws e poi sulle Poor Laws, i temi della libertà
economica e della difesa del diritto di proprietà vennero alla ribalta e
Smith cominciò a essere citato nel Parlamento britannico da parte di
sostenitori di opinioni divergenti come autorità il cui appoggio si cercava
di accaparrare a favore di tesi fra loro poco compatibili: la libertà
economica, il carattere intangibile della proprietà privata, il carattere
benefico dell’interesse egoistico, l'armonia degli interessi garantita dai
meccanismi del mercato. Nei decenni successivi gli autori della
codificazione della nuova scienza dell'economia politica trasformando nel
nome di una scienza quello che per Smith era ancora un nome che
designava (con una sfumatura di sospetto) i sistemi di politiche
economiche, cioè Malthus, James Mill, Ricardo, McCulloch, iniziarono a
fare riferimento a Smith come la più grande autorità nel campo. Ciò fu
sufficiente perché Smith restasse identificato con l’economia politica
“classica” e di conseguenza con le proposte più controverse emerse nella
discussione ottocentesca: l’abrogazione delle Poor Laws, il libero scambio
incondizionato, e così via. Ciò fu sufficiente anche per i critici
dell'economia politica, dell'etica e della politica utilitaristica per creare
l'immagine di quello che i tedeschi per lo più – e stranamente, come se
l’economia politica fosse stata una creazione degli utilitaristi –
chiamarono “utilitarismo”: una presunta concezione del mondo che
avrebbe esaltato i valori “materiali” rispetto a quelli spirituali e l'individuo
rispetto alla comunità.
Le letture che per due secoli si sono fatte di Smith hanno attribuito
all’autore stesso tesi che egli aveva in realtà menzionato al fine di mostrare
limiti e contraddizioni di concezioni che intendeva confutare o che Smith
aveva menzionato come esempi di punti di vista insostenibili anche se
contenenti qualche granello di verità. In questo modo la scuola storica
tedesca, il marxismo, la Scuola di Francoforte, e più recentemente il MAUSS
hanno sprecato energie per combattere un possibile alleato per le loro
battaglie e hanno indebolito il proprio schieramento regalando un alleato
ad avversari che non si meritavano tale regalo.
22
Ibid.
54
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
6. Liberté, egalité… e qualcosa di meno della fraternité
Ciò che ho detto in questo articolo può essere così riassunto:
1. Smith fu, come è ben noto, un illuminista, un promotore di quello che
Habermas ha chiamato il progetto della modernità, e quindi non
sorprendentemente fu dalla parte dei cittadini contro il potere illegitimo,
dalla parte della libertà d’opinione contro il fanatismo, dalla parte dei più
deboli contro i prepotenti e i rapaci.
2. L’analisi della società commerciale svolta da Smith mette
(coerentemente) in luce gli inconvenienti e le ingiustizie derivanti da
restrizioni e balzelli alla libera iniziativa dei singoli – com’è ben noto alla
volgata liberale e a quella marxista – ma non per favorire la borghesia e
nemmeno per promuovere la liberazione di un capitalismo che era lì già
pronto ad aspettare soltanto l’eliminazione di ingiustificate restrizioni. Al
contrario Smith auspicava l’avvento di una società di artigiani e coltivatori
in cui la proprietà, e soprattutto l’impresa, fossero frazionate in misura
sufficiente a tenere a bada il perenne rischio dello strapotere dei gruppi
monopolistici o oligopolistici. Delle classi sociali che delinea nella sua
analisi socioeconomica l’unica di cui parla sempre con rispetto e simpatia
sono i labouring poor.
3. Queste prese di posizione pro-Poor sono tipiche posizioni liberali nel
senso originario del termine, non posizioni da “liberale” fautore del
Laissez Faire, ma soprattutto sono coerenti giudizi di valore che si
collocano bene in una teoria sociale anticartesiana come quella smithiana
che mira a dimostrare come il giudizio sul singolo caso, ad esempio sulla
retribuzione dovuta al lavoratore, risulti « semplice e ovvio» una volta che
si siano tolti di mezzo i sofismi dei vari “sistemi”, e come sia condivisibile –
mi sia concesso dire – per “consenso per intersezione”, sulla base di
qualsivoglia teoria morale. In altre parole, per Adam Smith l’etica è
politica e la politica è etica, e in entrambe si richiede non di risolvere
insolubili conflitti di principio ma soltanto di smontare i sofismi per porre
un freno alla «follia e ingiustizia degli uomini».
55
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Liberalismo e democrazia in Constant
di Stefano De Luca
«Il rapporto tra liberalismo e democrazia è
sempre stato difficile: nec cum te, nec sine te»
(N. Bobbio, Liberalismo e democrazia, 1984).
Nella vexata quaestio dei rapporti tra liberalismo e democrazia il
riferimento a Benjamin Constant – e, in particolare, al suo Discorso sulla
libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni – rappresenta una
tappa obbligata, in molti casi una vera e propria chiave di lettura.
Per lungo tempo è prevalsa l’interpretazione che vede nel Discorso e
nella celebre critica a Rousseau l’emblema di un liberalismo distinto dalla
democrazia, incentrato sulla libertà come condizione di indipendenza
individuale, critico verso le tendenze egualitaristiche e statalistiche della
democrazia e sempre pronto a denunciare i rischi liberticidi insiti nel
principio della sovranità popolare.
A partire dagli anni Ottanta del Novecento si è invece sviluppata
un’interpretazione che vede in Constant il teorico di un liberalismo
pienamente democratico: un liberalismo nel quale la libertà come
indipendenza individuale è inestricabilmente connessa alla libertà come
partecipazione politica. Alla luce di questa interpretazione il Discorso non
rappresenta più il luogo dove si celebra la distinzione tra liberalismo e
democrazia, ma il luogo dove si coglie la loro necessaria interdipendenza; e
quanto alla critica a Rousseau, essa viene letta come una critica rivolta non
ai principi del Ginevrino, ma agli usi strumentali che ne sono stati fatti (e
che se ne potrebbero fare) da parte di chi detiene il potere.
Poiché ognuna di queste interpretazioni porta con sé una certa
concezione del liberalismo (e la critica ad altre concezioni, ritenute erronee
e fuorvianti), potremmo dire – tanto per restare nell’ambito lessicale della
galassia liberale – che la prima lettura fa di Constant un classical liberal,
la seconda un liberal. Nelle pagine che seguono cercherò, sia pure in modo
sintetico e quindi necessariamente schematico, di illustrare le due diverse
interpretazioni; concluderò quindi con l’analisi dei testi di Constant, per
cercare di individuare ragioni e limiti di entrambe le linee interpretative.
57
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
1. Constant come emblema del liberalismo classico
Se apriamo il primo capitolo di Liberalismo e democrazia di
Norberto Bobbio, che rimane a tutt’oggi una delle sintesi più efficaci di
questo complesso e controverso problema, ci imbattiamo subito in
Constant. In prima approssimazione, Bobbio stabilisce che liberalismo e
democrazia sono concettualmente distinti, giacché il primo è una teoria
dello Stato (lo Stato dai poteri e dalle funzioni limitate, contrapposto allo
Stato assoluto e allo Stato «che oggi chiamiamo sociale») 1, mentre la
seconda è una forma di governo (quella in cui il potere appartiene non a
uno o a pochi, ma alla maggior parte). Ne consegue che «uno stato liberale
non è necessariamente democratico» e che «un governo democratico non
dà necessariamente vita ad uno stato liberale» 2. Le vicende storiche,
osserva Bobbio, sembrano confermare questa deduzione teorica: lo Stato
liberale si è realizzato in passato «in società in cui la partecipazione al
governo era molto ristretta», mentre oggi «lo Stato liberale classico è […]
messo in crisi dal progressivo processo di democratizzazione prodotto dal
graduale allargamento del suffragio sino al suffragio universale» 3. Ciò
premesso, il pensiero di Bobbio corre subito a Constant:
Sotto forma di contrapposizione tra libertà dei moderni e libertà degli
antichi, l’antitesi tra liberalismo e democrazia fu enunciata e sottilmente
argomentata da Benjamin Constant […] nel celebre discorso pronunciato
all’Ateneo reale di Parigi nel 1818, dal quale si può far cominciare la storia dei
difficili e controversi rapporti tra le due esigenze fondamentali da cui sono nati
gli stati contemporanei nei paesi economicamente e socialmente più sviluppati,
l’esigenza da un lato di limitare il potere, dall’altra di distribuirlo. 4
Nel Discorso Constant affermava che la distribuzione del potere fra
tutti i cittadini era il fine degli Antichi e questa distribuzione coincideva
per loro con la libertà; il fine dei Moderni, invece, è la sicurezza nella sfera
privata ed essi chiamano libertà le garanzie che i governi accordano a
questa sfera. Da «schietto liberale – prosegue Bobbio – Constant riteneva
che questi due fini fossero in contrasto tra loro»5: la partecipazione diretta
e collettiva alle decisioni pubbliche finisce infatti con l’assoggettare
l’individuo ad un potere senza limiti e quindi col distruggere
quell’indipendenza individuale che è la più sentita esigenza dei Moderni.
Di qui la conclusione constantiana, citata da Bobbio, secondo cui «noi [i
Moderni] non possiamo più godere della libertà degli antichi, che era
costituita dalla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La
nostra libertà deve invece essere costituita dal godimento pacifico
dell’indipendenza privata»6 . Il vero bersaglio di Constant, conclude
1
N. Bobbio, Liberalismo e democrazia (1984), Franco Angeli, Milano 1988, p. 7.
Ibid.
3
Ibid.
4
Ibid.
5
Ivi, p. 8
6
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei
moderni, in S. De Luca, Il pensiero politico di Constant, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 193.
2
58
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Bobbio, non erano gli Antichi, ma il loro più famoso imitatore moderno,
Jean-Jacques Rousseau.
Dalle (sia pur rapide) considerazioni di Bobbio il Discorso di
Constant esce quindi come l’emblema di un rapporto antitetico tra
liberalismo e democrazia: la libertà dei Moderni, nella versione
constantiana, sembra riguardare soltanto la sfera privata, ossia la sfera
delle libertà civili. Il liberalismo di Constant si configura così come una
teoria politica preoccupata esclusivamente della libertà privata, delle
garanzie da accordare ai singoli contro lo Stato, senza interesse o
preoccupazione alcuna per la dimensione politica della libertà.
A conclusioni simili era giunto, qualche decennio prima, un altro
grande studioso come Isaiah Berlin, il quale, in un saggio dedicato alla
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva 7, aveva definito Constant
il «più eloquente difensore della libertà [negativa] e del privato»8. Sebbene
incentrato su due diversi modi di intendere la libertà, il saggio di Berlin
costituisce anch’esso una riflessione sul tema dei rapporti tra liberalismo e
democrazia, giacché la libertà negativa (intesa come condizione di
indipendenza individuale) viene assunta a ideale regolativo del primo,
mentre la libertà positiva (intesa come autogoverno collettivo) viene
indicata come ideale regolativo della seconda. Ma tra questi due ideali,
afferma Berlin, «non vi è nessuna connessione necessaria […]. La risposta
alla domanda ‘Chi mi governa?’ è logicamente distinta dalla domanda
‘Fino a che punto il governo interferisce con me?’. E’ in questa differenza
che consiste, in ultima analisi, il grande contrasto fra i due concetti di
libertà negativa e libertà positiva». 9 Un contrasto che «nessuno meglio di
Benjamin Constant» ha individuato ed espresso:
egli fece notare che il passaggio dell’autorità illimitata, comunemente
detta sovranità, da una mano all’altra in seguito a una sollevazione coronata
dal successo, non aumenta la libertà, ma sposta semplicemente il fardello della
schiavitù. Molto ragionevolmente egli si chiedeva perché un uomo dovrebbe
prendersela a cuore se viene stritolato da un governo popolare piuttosto che da
un monarca o anche da un insieme di leggi oppressive. Capiva che il problema
principale per coloro che desiderano la libertà individuale “negativa” non è chi
eserciti questa autorità, ma quanta autorità debba essere messa nelle mani di
chicchessia. 10
Di qui l’individuazione di Rousseau, teorico per eccellenza della
libertà positiva nella sfera politica, come del «più pericoloso nemico della
libertà individuale»11, anche perché, a differenza di Hobbes, il Ginevrino
pretendeva di far passare la coercizione per libertà. E di qui la conclusione,
da parte di Berlin, secondo cui «il nesso tra democrazia e libertà
individuale è molto più labile di quanto sia apparso a molti difensori di
entrambe». 12
7
I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), in Id., Quattro saggi sulla libertà,
Feltrinelli, Milano 1989, pp. 185-241.
8
Ivi, p. 193.
9
Ivi, pp. 196-197.
10
Ivi, p. 228.
11
Ivi, p. 229.
12
Ivi, pp. 196-197.
59
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
I saggi di Bobbio e di Berlin, sebbene accomunati da un identico
sforzo di chiarificazione concettuale, sono separati da una differente
ispirazione di fondo. L’analisi di Bobbio, mossa soprattutto da un intento
analitico-descrittivo, mette capo in una mappa concettuale secondo la
quale il rapporto tra liberalismo e democrazia può configurarsi, a seconda
dei significati che si attribuiscono alle due teorie, in termini di
compossibilità, antitesi o necessaria interdipendenza. Lo studioso italiano
non nasconde la sua propensione per il terzo tipo di rapporto, ma precisa
che liberalismo e democrazia possono essere considerati come
reciprocamente interdipendenti soltanto a condizione di assumere il
principio democratico nella sua accezione giuridico-politica (come
eguaglianza formale, come insieme di regole procedurali) e non in quella
etica o economico-sociale (come eguaglianza sostanziale). Berlin, invece,
che scrive il suo saggio in piena ‘guerra fredda’, è mosso soprattutto dalla
preoccupazione che la svalutazione della libertà negativa – tipica della
cultura marxista, diffusa all’interno di alcuni filoni democratici e penetrata
persino in taluni settori del liberalismo – eroda dall’interno la tradizione e
la prassi liberale dei diritti individuali.
Berlin non era certo un pensatore anti-democratico: egli si
riconosceva, come Bobbio, nella democrazia liberale, ma la vedeva
minacciata da un certo modo di intendere (e/o strumentalizzare) il
principio della libertà positiva. Entrambi, in ogni caso, concordano nel
vedere in Constant colui che meglio di ogni altro ha difeso la causa delle
libertà private contro l’invadenza collettiva e nel farne il maggiore e più
lucido critico di Rousseau.
Se facciamo un ulteriore passo indietro ed apriamo un’opera
importante e suggestiva come la Storia del liberalismo europeo di Guido
De Ruggiero, troviamo – pur in presenza di preoccupazioni politiche
diverse, di una differente lettura del rapporto tra liberalismo e democrazia
e di un diverso retroterra filosofico – un’interpretazione per alcuni aspetti
simile. Anche De Ruggiero riconosce che tra liberalismo e democrazia vi è
un rapporto «di continuità e di antitesi»13 , ma limita l’antitesi al piano
della «mentalità politica»14, mentre afferma una piena e completa
continuità sul piano dei principi – anzi, rivendica una «unità originaria del
liberalismo e della democrazia»15.
I principi-base della democrazia sono infatti, secondo De Ruggiero,
l’estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e il
diritto di tale comunità ad autogovernarsi: ma tali principi, per lo studioso
meridionale, «non sono che i due momenti, o meglio i due poli dell’attività
liberale: l’una rappresenta la libertà negativa del garantismo, cioè la
garenzia formale che l’attività dell’individuo non sia turbata nella propria
esplicazione; l’altra la libertà positiva, come espressione dell’effettivo
potere dell’individualità di creare il suo Stato» 16. De Ruggiero riconduce
13
G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo (1925), Laterza, Roma-Bari,
1984, p. 392.
14
Ivi, p. 394.
15
Ivi, p. 402.
16
Ivi, p. 392.
60
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
dunque al liberalismo tanto la libertà negativa quanto quella positiva,
considerandole momenti ideali di un medesimo processo logico (e storico)
di maturazione. La libertà negativa, considerata «nella sua schietta
essenza», appare infatti a De Ruggiero quasi «un niente», giacché «priva
di ogni contenuto» e destinata ad esaurirsi «nell’affermazione formale di
un’astratta capacità, di un’arbitraria indifferenza di fronte a qualunque
determinazione»17. Essa prende consistenza e rilievo storico come
insofferenza ad un’imposizione esterna che impedisce la libera espansione
della volontà individuale: di qui il carattere polemico, distruttivo,
liberatorio che caratterizza il liberalismo del Settecento. Attraverso questo
atto di ‘ribellione’ la libertà dissolve l’irrigidito mondo della consuetudine e
dell’autorità, dando vita ad individualità libere che, attraverso la loro
azione, trasformano la libertà da astratta in concreta. Così «il concetto
negativo e polemico della libertà ne prepara un altro più positivo e
costruttivo», che si svilupperà nell’Ottocento. Secondo tale concetto «la
libertà non è indeterminazione e arbitrio, ma capacità dell’uomo a
determinarsi da sé»18; non è un «dato di natura, ma è il risultato di
un’assidua educazione del carattere, il segno della sua maturità civile»19. E’
un uomo veramente libero, afferma De Ruggiero, non colui che può
scegliere indifferentemente qualunque partito – il che indicherebbe
soltanto un carattere frivolo e abulico – bensì «colui che ha la forza di
scegliere il partito più conforme al suo destino morale, di realizzare nel suo
atto la propria essenza universalmente umana»20. Di qui il ruolo decisivo
che lo studioso italiano riconosce alla filosofia classica tedesca nell’ambito
del liberalismo: Kant (il Kant morale, si badi bene, non quello politico) ha
il «merito immortale» di aver dimostrato che la vera libertà risiede
nell’obbedienza alla legge morale; Hegel, dal canto suo, ha il «merito
immortale» di aver tratto dall’identificazione kantiana tra libertà e spirito
l’idea di uno sviluppo organico, storico-sociale, della libertà. E l’esperienza
storica dell’Ottocento «ha confermato la veduta di Hegel, mostrando che la
libertà ha la forza di un legame, capace di tenere uniti gli uomini in
associazioni tanto più durevoli e feconde quanto più spontanee nella loro
genesi e autonome nella determinazione dei propri fini» 21.
Sulla base di questa concezione del liberalismo – che colloca nella
libertà positiva e nell’idealismo filosofico il suo momento più alto e maturo
– De Ruggiero vede nel Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni
di Constant l’espressione un liberalismo di ‘transizione’, sostanzialmente
immaturo, La libertà antica di cui parla Constant corrisponde infatti,
secondo lo studioso meridionale, «al concetto odierno della democrazia,
nel significato positivo di auto-governo del popolo», mentre la libertà
moderna corrisponde «alla dottrina del garantismo»22 . In tal modo la
distinzione tra liberalismo e democrazia viene
tracciata nel modo più semplice e chiaro e non darebbe luogo a quei
tormentosi problemi che nascono dalla confusione dei due dominii rispettivi.
17
18
19
20
21
22
Ivi, p. 371.
Ibid.
Ivi, p. 372.
Ibid.
Ivi, p. 373.
Ivi, p. 393.
61
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Ma sarebbe anche uno sterile liberalismo quello che si contentasse di
rivendicare i diritti degli individui a guisa di un’entità patrimoniale, senza
nessuna considerazione del loro uso e del loro effettivo potere e che
disconoscesse alla libertà proprio il suo più alto valore, quello di creare uomini
capaci di governarsi da sé. 23
Questo esito del liberalismo constantiano – un esito patrimoniale e
quindi meramente privatistico – sarebbe, secondo De Ruggiero,
l’espressione di una precisa fase storica, quella della transizione dall’antica
monarchia amministrativa al nuovo Stato liberale. Una fase che nel primo
Novecento è pienamente superata, ragion per cui «una divisione di
provincie tra liberalismo e democrazia non è (…) più possibile: il loro
territorio è comune»24. Anche perché nel frattempo la democrazia ha perso
gli elementi socialisti che conteneva nel suo primo apparire, durante la
Rivoluzione francese: essa intende l’eguaglianza, secondo De Ruggiero, in
modo puramente giuridico e vuole il progresso sociale con mezzi ordinati e
legali, rispettando i diritti e riconoscendo i frutti individuali della libertà.
Di qui la sua piena compatibilità, anzi la sua identificazione – in termini di
programma – con il liberalismo ‘maturo’. La conclusione di De Ruggiero,
nonostante i diversi presupposti filosofici, è quindi una versione molto
simile (anche se più radicale) di quella cui giungerà Bobbio: se assumiamo
la democrazia nel suo significato giuridico-politico, essa è pienamente
compatibile con il liberalismo, per Bobbio si dà una reciproca
interdipendenza, per De Ruggiero una identificazione.
Tornando a Constant, l’autore del Discorso appare sin qui come
l’esponente di un liberalismo che, per ragioni storiche, ha un carattere
essenzialmente privatistico. Anche se il termine assume in De Ruggiero
connotazione negativa (quantomeno come segno di ‘immaturità’ storica),
l’esito interpretativo, per quanto riguarda Constant, è sostanzialmente lo
stesso di Bobbio e Berlin: Constant appare come il portavoce di un
liberalismo incentrato sulle libertà negative o private (il che costituisce per
Bobbio il nucleo originario e caratterizzante del liberalismo, per Berlin la
sua essenza, per De Ruggiero solo una fase transitoria). Ma l’analisi di De
Ruggiero non si ferma qui: nella parte in cui egli passa ad illustrare la
‘differenza di mentalità’ tra liberalismo e democrazia, Constant, pur non
venendo mai citato, torna a svolgere un ruolo di primo piano e la sua
posizione, in questo caso, non è affatto superata, bensì conserva un alto
valore teorico e assiologico.
Per comprendere questo ‘sviluppo’ dobbiamo riprendere il filo
dell’analisi di De Ruggiero. del rapporto tra liberalismo e democrazia. Sin
qui egli ha illustrato l’unità originaria e di principio tra liberalismo e
democrazia; ora passa ad illustrare la differenza di mentalità che li separa
e che rende ragione dei seri e durevoli conflitti tra liberali e democratici sul
piano della prassi politica. Anzitutto, secondo De Ruggiero «vi è nella
democrazia una forte accentuazione dell’elemento collettivo, sociale, della
vita politica, a spese di quello individuale»25: tale accentuazione, sulla
quale hanno influito numerosi fattori storici, ha portato a «capovolgere
gradualmente l’originario rapporto che la mentalità liberale aveva istituito
23
24
25
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 394.
62
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
tra l’individuo e la società», ragion per cui non è la cooperazione
spontanea delle energie individuali che crea il carattere e il valore della
società, ma è quest’ultima che determina e foggia gli individui. In secondo
luogo,
la mentalità democratica detesta «tutto ciò che comunque
contrasta col suo sentimento di eguaglianza e con l’uniformità della
massa»26: di qui la tendenza ad un livellamento verso il basso, che finisce
per nuocere al principio stesso dell’autogoverno.
L’arte di suscitare dall’interno un bisogno di elevazione, il quale può dare
esso solo il senso del valore e dell’uso della conquista, è del tutto ignota alla
democrazia, che si appaga di elargire diritti e benefici, la cui gratuità ne
costituisce la preventiva svalutazione e la cui non sentita e non compresa utilità
ne favorisce la dissipazione. Questa pratica è fatta per diseducare il popolo, per
sottrargli in ispirito tutto ciò quel che gli si dà in materia, per dargli la
corruttrice abitudine di confidare nella provvidenza sociale, che gli risparmia la
pena di far da sé. Tutto ciò ha per pratica conseguenza l’effettiva negazione di
quell’autogoverno che pure è, formalmente, iscritto al primo numero del
programma democratico. 27
O per dir meglio, conduce alla negazione dell’autogoverno degli
individui e delle associazioni e, per converso, all’esaltazione dello Stato e a
vedere nel suo intervento dall’alto la soluzione di ogni problema. Ma
questo accrescimento quantitativo dello Stato porta con sé un mutamento
«qualitativo del carattere dello stato liberale»28, di cui si potevano peraltro
già cogliere i segni «nella concezione del Rousseau, che ha dato allo stato
democratico il suo archetipo ideale»29 . Da qui in avanti De Ruggiero
sviluppa una critica a Rousseau che riprende – in modo pressoché letterale
– la celebre critica sviluppata da Constant nei Principes de politique,
mostrando di condividerne pienamente le argomentazioni e la logica di
fondo (cioè la democrazia à la Rousseau, o democrazia pura, come regime
non solo soffoca le libertà individuali, ma che si converte nel peggiore dei
dispotismi, perdipiù esercitato non dalla collettività nel suo complesso o
nelle sue componenti maggioritarie, ma da alcune élites).
Dalle pagine di De Ruggiero esce quindi un Constant scisso: il
Constant del Discorso è l’esponente di un liberalismo privatistico e antidemocratico ormai superato, mentre il critico di Rousseau appare come
l’autore di una critica penetrante e tuttora valida ad una certa mentalità
democratica, che conduce alla negazione della democrazia proprio perché
la separa dai suoi presupposti liberali.
2. Constant come teorico del liberalismo democratico
La tesi secondo cui il liberalismo constantiano, lungi dall’essere
distinto (e distante) dalla democrazia, è inestricabilmente intrecciato con
essa trova la sua prima, più articolata e più chiara espressione in un libro
di Stephen Holmes30 , uno dei più autorevoli studiosi contemporanei del
26
Ivi, p. 395.
Ivi, pp. 395-396.
28
Ivi, p. 397.
29
Ibid.
30
S. Holmes, Benjamin Constant and the Making of modern Liberalism, Yale U.P.,
New Haven and London 1984.
27
63
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
pensiero liberale. Mi servirò quindi del suo testo per illustrare i capisaldi di
questa linea interpretativa, che è condivisa, con sfumature diverse, da altri
studiosi. Va tenuto presente che il libro di Holmes, a differenza dei testi
esaminati sinora, è un lavoro specialistico su Constant. Ma questo non
incide in modo sostanziale sulla comparazione che sto conducendo: se
Bobbio, Berlin e De Ruggiero discutevano di liberalismo, democrazia e
libertà, e nel fare questo delineavano anche una determinata
interpretazione di Constant, Holmes si occupa specificamente di Constant,
ma nel fare questo delinea una certa interpretazione del liberalismo. Del
resto, questo non vale soltanto per Holmes: si potrebbe sostenere che gli
studi dedicati al pensiero politico di Constant dopo il 1980 costituiscono i
‘capitoli’ di un dibattito sulla natura del liberalismo, dibattito nel corso del
quale sono emerse con forza le differenze tra i vari rami della ‘famiglia
liberale’ (al punto che c’è chi sostiene che la famiglia non esiste affatto; o
meglio, che esistono molte e diverse famiglie).
Ma veniamo alle tesi dello studioso americano. Anzitutto, egli
tematizza subito la connessione tra la ‘rilettura’ di Constant da un lato e la
definizione del rapporto liberalismo-democrazia dall’altro:
[…] one of the shibboleths of twenty-century theory is the fundamental
“opposition” between liberalism and democracy. The liberal tradition is said to
have focused one-sidedly on private rights while discouraging popular
participation. In line with this interpretation and because of his intense
concern with drawing boundaries to the political, Constant is conventionally
but mistakenly read as an antidemocratic liberal. Yet his distinction between
ancient and modern liberty did not at all imply that the public should give way
to the private. This interpretation, although common, is erroneous. In fact, an
attentive reading of Constant throws doubt on the myth of an intractable
conflict between liberalism and democracy. 31
Per argomentare la sua tesi Holmes si basa su tre passaggi principali:
la rilettura del Discorso del 1819, l'abbozzo di una teoria del rapporto
liberalismo-democrazia come continuum ed infine la reinterpretazione del
rapporto tra Constant e Rousseau.
Quanto al Discorso, il nucleo teorico di questo celebre testo non sta,
come si è sempre sostenuto, nella distinzione tra libertà civili e libertà
politiche, ma nella relazione che Constant istituisce tra di esse; relazione
che non si configura nei termini della reciproca incompatibilità, ma in
quelli della più stretta interdipendenza. Le libertà civili non possono
durare a lungo se non viene garantita la libertà politica, giacché solo
quest'ultima consente di controllare l'operato del potere; la libertà politica,
dal canto suo, è realmente tale solo se si accompagna alle libertà civili,
perché senza quest'ultime l'individuo è privo di quella indipendenza che
gli consente di formarsi libere convinzioni. Pensare che la libertà possa
sussistere in forma soltanto pubblica (come avvenne con i giacobini, che
schiacciarono le libertà civili) o soltanto privata (come accadde con
Napoleone, che soppresse la libertà politica) è un errore: e Constant ha
compreso, con straordinario anticipo, che «overprivatization and
overpoliticization are symmetrical dangers»32 e che la loro teorizzazione
31
32
Ivi, p. 2.
Ivi, p. 44.
64
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
serve da pretesto al potere (qualsiasi potere) per realizzare le sue
tentazioni abusive. Di qui l’invito con il quale Constant conclude il
discorso: «Lungi, dunque, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due
specie di libertà delle quali vi ho parlato [la libertà-indipendenza e la
libertà-partecipazione], bisogna, come ho dimostrato, imparare a
combinarle l’una con l’altra»33. Un invito che, come tutta la seconda parte
del Discorso, è stato ‘dimenticato’ dagli interpreti à la Berlin e che
dimostra come Constant coniughi consapevolmente le istanze liberali con
quelle democratiche.
Del resto, tra liberalismo e democrazia esiste, secondo Holmes, un
rapporto di sostanziale continuità. Seguiamo il ragionamento dello
studioso americano. Egli si chiede: cosa significava democrazia, in Francia,
tra il 1789 e il 1830? Anzitutto, non poteva significare partecipazione
diretta di tutti al potere, perché le dimensioni dello Stato nazionale la
rendevano impossibile; inoltre non poteva significare concorrenza tra
partiti organizzati, perché i partiti non erano ancora sorti, né si era
affermato il principio di un'opposizione legalizzata. Infine, non poteva
nemmeno significare suffragio universale, giacché quest'ultimo - nel
contesto di una nazione largamente analfabeta e priva delle fondamentali
garanzie di libertà - poteva assumere soltanto le sembianze farsesche del
plebiscito. Ma allora in cosa consisteva, ad esempio, la differenza tra
Giacobini e Girondini? Consisteva nel fatto, che i primi erano pronti – a
differenza dei secondi – a ricorrere alla violenza di piazza per ottenere i
loro scopi; ma tale ruolo intimidatorio, osserva Holmes, non era affatto
democratico. Ne deriva che i Giacobini, normalmente considerati «very
democratic», non lo erano affatto, mentre i liberali, usualmente
considerati «not very democratic», erano i veri democratici dell'epoca.
Tutto questo perché democrazia significa «respect for opposition, a respect
institutionalized in the legal inviolability of deputies»34 . Ecco perché la
fondazione di tale sistema avvenne
nel Parlamento inglese: perché
quest’ultimo, pur essendo poco rappresentativo, istituzionalizzò la prassi
di governare attraverso la discussione e nel rispetto delle diverse opinioni.
Solo realizzandosi dapprima in una specie di club delle classi più agiate e
illuminate, afferma Holmes, tale sistema si è in seguito potuto allargare
all'intera società. E allora – tornando alla Francia post-rivoluzionaria e a
Constant – i veri democratici erano coloro i quali volevano che vi fossero
le elezioni e che queste si svolgessero ‘democraticamente’, ossia all'interno
di un quadro che prevedeva i diritti civili, la libertà di stampa, la legalità
dell'opposizione, il rispetto delle minoranze. Era questo il presupposto
fondamentale che avrebbe permesso, in un mutato contesto storico, di
rendere le elezioni democratiche anche dal punto di vista dell'estensione
del diritto di voto.
Vale la pena, su questo punto, di fermarsi un attimo a considerare le
tesi di Holmes, perché vanno al di là dell’interpretazione del pensiero di
33
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei
moderni, in S. De Luca, Il pensiero politico di Constant, cit., p. 205. D’ora in avanti
questo testo sarà citato con l’abbreviazione DISC.
34
S. Holmes, Benjamin Constant and the Making of modern Liberalism, cit., p.
84.
65
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Constant. Come abbiamo visto, secondo lo studioso americano la
democrazia non è che un prolungamento e un perfezionamento
(quantitativo) del liberalismo: essa non ha fatto che universalizzare,
quando la situazione storica lo ha consentito, quel sistema di autogoverno
fondato sul conflitto pacifico delle opinioni e sul rispetto dei diritti
individuali che inizialmente prevedeva i diritti politici soltanto per i ceti
più avanzati e consapevoli. Tale interpretazione è sicuramente legittima: a
patto, però, di ricordare – come avrebbe fatto Bobbio – che si sta parlando
della democrazia liberale, ossia di uno dei vari modi in cui può essere
intesa la democrazia, modo che peraltro, nell’Europa continentale, ha
incontrato numerosi oppositori e che per lunghi periodi non è stato affatto
egemone. Se invece si pretende di fornire in questo modo l'interpretazione
autentica della democrazia, allora si rischia di perdere di vista tutta la
specificità concettuale e storica del pensiero democratico (e, sia pure in
misura minore, dello stesso pensiero liberale). Si rischia di rendere
inintelligibili, ad esempio, i profondi contrasti politici che hanno diviso per
un secolo liberali e democratici (e che De Ruggiero, invece, spiega
attraverso il ricorso alle diverse ‘mentalità politiche’); si rischia di
cancellare la complessa identità etico-politica di queste due grandi correnti
di pensiero, disconoscendo le diverse posizioni che si vennero articolando
al loro interno, alcune aperte all'integrazione (almeno parziale) con i
princìpi dell'altra, altre convinte che questi ultimi fossero
irrimediabilmente opposti o intimamente inferiori ai propri; si rischia di
perdere di vista, insomma, tutta la ricchezza delle articolazioni interne ai
movimenti politici e alla storia delle idee, riducendo una vicenda
complessa, iniziata nell’Inghilterra del Seicento con i dibattiti di Putney,
ad un modello teoricamente coerente e lineare, dove, per voler spiegare
tutto, si finisce per spiegare ben poco. Si rischia, in poche parole, di
sovrapporre le proprie convinzioni ideali (legittime, beninteso) alle ragioni
della storia.
Ma veniamo al terzo e ultimo tassello dell’interpretazione
holmesiana, ossia alla reinterpretazione del rapporto Constant-Rousseau.
Lo studioso statunitense sostiene anzitutto che l'ampiezza dei contrasti tra
i due grandi pensatori è stata indebitamente accentuata, mentre sono stati
trascurati i motivi di accordo, che sarebbero molti e significativi. Le
posizioni di Constant e Rousseau differiscono «substantially», riconosce
Holmes, sulle questioni riguardanti «representation, civil religion, the
theory of social change, the value of natural inequalities, the structure of
the best governement, the value of commerce, pluralism, civility,
patriotism, cosmopolitanism, and the autonomy of civil society»35; ma a
tali differenze si affiancano una serie di affinità, che vanno dal principio
della sovranità popolare (che Constant condivide, a differenza di liberali
come Royer-Collard e Guizot) alla ripresa dello schema antichi/moderni,
dalla critica radicale dell'Ancien Régime alla convinzione che l'uomo
moderno sia caratterizzato da una profonda scissione. Tutto ciò dimostra,
secondo Holmes, che se per un verso Constant è stato un severo critico di
Rousseau, per un altro verso «Constant's intellectual affinity with
35
Ivi, p. 87.
66
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Rousseau was [...] pervasive»36 e «the parallels and similiraties between
the two theorists are impressive»37 . Per quanto poi riguarda la celebre
critica alla concezione della sovranità in Rousseau, Holmes ritiene che
questa vada addebitata in parte ad una cattiva comprensione del pensiero
del Ginevrino e in parte alla constantiana ‘caccia alle ideologie’, ossia ai
pretesti ideali di cui si serve il potere per realizzare i suoi interessi. In altre
parole, il vero bersaglio della critica constantiana a Rousseau non sarebbe
la teoria del Ginevrino, ma l'uso pretestuoso che giacobini e bonapartisti
hanno fatto del principio della sovranità popolare.
Sulla critica a Rousseau tornerò dopo aver ricostruito il testo di
Constant. Intanto, però, possiamo dire qualcosa sul resto. Holmes, come
abbiamo visto, parla di affinità pervasive e somiglianze impressionanti tra
Constant e Rousseau, mentre afferma che i motivi di contrasto sono stati
esagerati. Tuttavia, se osserviamo la ‘partita-doppia’ dei contrasti e delle
affinità così come lo stesso Holmes li ha elencati, rimaniamo colpiti dalla
sproporzione tra i contrasti (che rimangono maggiori) e le affinità (che
sono minori e anche controverse). Nella colonna dei contrasti troviamo la
quasi totalità degli argomenti che costituiscono l'oggetto di una teoria
politica: dal rapporto tra Stato e società alla forma di governo, dalla
concezione dell'eguaglianza e della libertà al ruolo e allo spazio riservato
alla religione, all'economia, all'etica. Difficile immaginare un contrasto più
radicale.
Quanto alle affinità – tralasciando quella sulla sovranità
popolare – troviamo la ripresa dello schema antichi/moderni e l'idea della
profonda scissione dell'uomo moderno. Quanto al primo punto, è lo stesso
Holmes a spiegare che, nel prendere l'Antichità a punto di riferimento e
contrasto, Constant accetta da Rousseau il problema, ma non la sua
soluzione: anzi, sappiamo che la soluzione constantiana sarà opposta,
giacché essa è impegnata a dimostrare l'impraticabilità e l'indesiderabilità
del modello antico (ossia di un modello basato su una concezione
organicistica e totalizzante della politica). Qualcosa di simile sembrerebbe
essere avvenuto anche sul tema della «terrible bifurcation of modern
man», se è vero, come afferma sempre Holmes, che Constant «was neither
insensitive to nor complacent about self-dividedness [...] but he also
stressed its potential benefits» e comunque «he never imagined that such
a personal desease could be cured by political authority or community»38.
Anche in questo caso, dunque, problema analogo, ma soluzione opposta.
Non rimane, tra gli argomenti holmesiani, che la comune valutazione
negativa espressa da Constant e Rousseau sull'Ancien Régime. Qui lo
studioso statunitense ha indubbiamente ragione. Su questo tema Constant
è più vicino a Rousseau che non a Montesquieu o a Tocqueville: in lui,
infatti, non alligna nostalgia alcuna per il bel sistema gotico o per i corpi
intermedi. Ma sembra un po’ poco per parlare di affinità pervasive e
somiglianze impressionanti.
3. Constant par lui même: l’analisi dei testi
36
37
38
Ivi, p. 86.
Ivi, p. 90.
Ivi, p. 94.
67
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
E veniamo finalmente alle fonti sulle quali si basano le
interpretazioni prese in esame. Iniziamo con il Discorso, che costituisce il
riferimento privilegiato della discussione sui rapporti tra liberalismo e
democrazia. Trattandosi di un testo molto noto, mi limiterò ad una
ricostruzione schematica. Va subito detto che Constant è consapevole della
rilevanza della distinzione che sta per proporre, non solo perché è
«abbastanza nuova» sotto il profilo teorico39 , ma soprattutto perché porta
con sé rilevantissime conseguenze pratiche, ai fini della costruzione/
stabilizzazione di un moderno regime liberale40.
Tale distinzione è quella che passa tra la concezione della libertà che
ha «oggi […] un inglese, un francese o un abitante degli Stati Uniti
d’America»41 e la concezione della libertà che aveva l’abitante di un’antica
polis greca. Per i primi la libertà è
il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né
arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a
causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua
opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua
proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il
permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria
condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire
sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati
preferiscono, sia per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più
conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno
di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei
funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più
o meno obbligata a prendere in considerazione. 42
La libertà dei Moderni si configura quindi come un’ampia sfera di
libertà civili, accompagnate dalla libertà politica. Le prime sono ‘libertà
negative’ (o, se si preferisce, ‘protettive’). L’elenco inizia, non a caso, con le
garanzie giudiziarie, che a rigore non rappresentano una forma di libertà
negativa (intesa come facoltà di agire senza essere impediti o costretti), ma
un dispositivo di protezione che scatta nel momento in cui lo Stato esercita
(al fine di garantire l’ordine interno e quindi legittimamente) il suo potere
coercitivo sulla persona fisica, potere che si presta agli abusi più odiosi.
Alle garanzie giudiziarie seguono le libertà negative vere e proprie, relative
alle sfera della coscienza (liberà di esprimere il proprio pensiero e di
scegliere la propria religione) e dell’azione (libertà di scegliere il proprio
lavoro, piena disposizione della proprietà privata, libertà di movimento,
libertà associative). In tutti questi casi la libertà consiste nella possibilità,
39
«Mi propongo di sottoporvi alcune distinzioni che sono ancora abbastanza nuove
fra due generi di libertà, le cui differenze sono rimaste sinora inavvertite o sono state
almeno troppo poco considerate» (DISC, p. 186).
40
«La confusione tra queste due specie di libertà è stata tra noi, in epoche troppo
celebri della nostra rivoluzione, la causa di molti mali. La Francia si è vista affaticata da
inutili esperimenti i cui autori, irritati dal loro scarso successo, hanno cercato di
costringerla a fruire del bene che essa non voleva e le hanno conteso il bene che
voleva» (DISC, p. 186).
41
Si tratta, si noti bene, degli unici Stati che, all’epoca, avevano una costituzione
intesa come insieme di norme che limitano il potere dello Stato e che riconoscono agli
individui una serie di diritti.
42
DISC, p. 188.
68
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
per l’individuo, di esercitare una piena auto-determinazione, senza che il
potere pubblico possa ostacolarlo con divieti o con obblighi. Alle libertà
come indipendenza dal potere segue infine la libertà come partecipazione
al potere, attraverso il sistema rappresentativo, che permette di scegliere i
governanti, e tramite una serie di misure che consentono di controllarne e
in qualche modo orientarne l’operato.
Nel mondo antico, invece, la libertà consiste
nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della
sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel
concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel
pronunciare giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli
comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli
o assolverli. 43
La libertà degli Antichi è quindi una libertà esclusivamente politica.
Essa consiste nell’esercitare collettivamente e in prima persona quelle che
oggi definiremmo le funzioni della sovranità (legislativo, esecutivo,
giudiziario). Poiché le decisioni che vengono adottate in tal modo vedono
la partecipazione di tutti, gli individui – in quanto cittadini – sono liberi.
Come privati, tuttavia, essi non dispongono di alcuna libertà, perché la
sovranità collettiva non riconosce alcun limite alla propria giurisdizione:
«nulla è accordato – osserva Constant – all’indipendenza individuale, né
sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto
sotto il profilo della religione»44 . Presso gli Antichi, quindi, l’individuo è
quasi sempre sovrano negli affari pubblici, ma «è schiavo in tutti i suoi
rapporti privati»45; presso i Moderni, invece, l’individuo gode di un’ampia
libertà nella sfera privata, mentre negli affari pubblici esercita una
sovranità soltanto indiretta.
Questo differente modo di intendere la libertà viene ricondotto da
Constant, come è noto, ad una serie di ragioni geo-politiche, socioeconomiche e culturali. Anzitutto, la differente estensione degli Stati. Le
repubbliche antiche erano Stati di piccole dimensioni: la più popolosa e
potente di esse, sottolinea Constant, non eguaglia in estensione il più
piccolo degli Stati moderni. Le popolazioni di queste repubbliche si
urtavano incessantemente e quindi la loro sicurezza e la loro prosperità
erano legate alle attitudini militari. La guerra rappresentava «l’interesse
dominante, l’occupazione quasi costante degli Stati liberi dell’antichità»46:
di qui la necessità di affidare i lavori meccanici alle «braccia incatenate»
degli schiavi. Il mondo moderno, invece, presenta una situazione
completamente diversa. La grande estensione degli Stati e il progresso
culturale hanno fatto sì che lo spirito delle nazioni sia essenzialmente
pacifico e che il commercio abbia preso il posto della guerra come mezzo
per possedere ciò che si desidera. Inoltre, «grazie al commercio, alla
religione, ai progressi intellettuali e morali della specie umana non vi sono
più schiavi presso le nazioni europee» 47.
43
44
45
46
47
DISC, p. 188.
DISC, p. 188.
DISC, p, 189.
DISC, p. 190.
DISC, p, 191.
69
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Tutto ciò ha rilevanti conseguenze politiche. In primo luogo, la
maggiore estensione degli Stati riduce proporzionalmente il peso dei
singoli individui, la cui influenza personale diventa un «elemento
impercettibile» all’interno di quella composita «volontà sociale che
imprime la sua direzione al governo» 48. In secondo luogo, l’abolizione
della schiavitù e la distribuzione pressoché generalizzata del lavoro hanno
sottratto gran parte del tempo necessario per dedicarsi agli affari pubblici;
a questa diminuzione di tempo ha contribuito anche lo sviluppo del
commercio, il quale, a differenza della guerra, non lascia intervalli di
inattività e, sempre a differenza della guerra, non spinge alla coesione ma
suscita un intenso amore per la libertà individuale (perché fa sì che
ognuno impari a soddisfare i suoi bisogni senza ricorrere all’autorità).
Tutto ciò fa sì che «noi non possiamo più godere della libertà degli
antichi che si fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere
collettivo. La nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento
dell’indipendenza privata»49 . Ne deriva che i Moderni devono
salvaguardare con la massima cura la loro indipendenza individuale: è
questa, infatti, la forma di libertà che si realizza ‘meglio’ nel mondo
moderno, dal momento che la partecipazione al potere non può più avere
la pienezza di cui godeva nell’antichità.
Il fine degli antichi – conclude Constant – era la divisione del potere
sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo ciò che essi
chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati: ed
essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a quei godimenti. 50
Come si ricorderà, erano proprio questi i passi che Bobbio citava
nella breve ma significativa pagina dedicata a Constant nel suo
Liberalismo e democrazia. Passi che giustificherebbero, almeno in parte,
l’interpretazione bobbiana e berliniana del liberalismo constantiano come
di un liberalismo incentrato esclusivamente sulle libertà private. Ho
scritto ‘almeno in parte’ perché, a dispetto di queste conclusioni,
nell’elenco dei diritti che definiscono la libertà dei Moderni Constant ha
incluso il diritto di influire sulle scelte pubbliche, di scegliersi i governanti
e di controllarli. Fin dall’inizio, quindi, l’ideale del governo limitato è
accompagnato dal principio dell’autogoverno. Ma il problema più
rilevante, ai fini di una corretta interpretazione, è che il Discorso non
termina con la citazione scelta da Bobbio. Dopo aver dimostrato che la
libertà adatta al mondo moderno è la libertà individuale – ragion per cui la
libertà politica modellata sull’esempio antico è tanto irrealizzabile quanto
indesiderabile (come testimonia il drammatico esito dell’esperimento
giacobino) – Constant sviluppa una serie di argomentazioni a sostegno
della libertà politica (beninteso, nella sua forma moderna, cioè attraverso
il ‘governo rappresentativo’).
Egli si serve di due argomentazioni diverse (e tendenzialmente
contraddittorie). La prima è che la libertà politica è l’indispensabile
garanzia delle libertà individuali, perché permette di controllare il potere:
48
49
50
DISC, p. 192.
DISC, p. 193.
DISC, p. 193.
70
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
se rinunciamo alla libertà politica prima o poi perderemo anche le libertà
civili, come insegna l’esperienza del bonapartismo. E’ un rischio
accentuato proprio da quell’amore per l’indipendenza individuale che
caratterizza i Moderni.
Il pericolo della libertà moderna – afferma infatti Constant – è che,
assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel godimento dei
nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al
nostro diritto a partecipare al potere politico. 51
Dopo aver messo a fuoco, nella prima parte, la carica liberticida insita
nel ‘collettivismo’ degli Antichi, Constant individua quindi lucidamente i
rischi insiti nel ‘privatismo’ dei Moderni. Ma il richiamo alla
partecipazione politica rimane sin qui strumentale: la libertàpartecipazione sta alla libertà-indipendenza come il mezzo sta al fine.
Nelle ultime pagine del Discorso, invece, la libertà politica viene invocata
come uno strumento di perfezionamento morale e intellettuale, che si
affianca – e sembra sovra-ordinarsi – alla felicità individuale.
D’altronde, Signori, è dunque vero che la felicità, quale che possa essere,
sia il fine unico del genere umano? In questo caso la nostra carriera sarebbe
assai ristretta e il nostro destino ben poco elevato. Non c’è nessuno di noi che,
se volesse discendere e restringere le sue facoltà morali, abbassare i suoi
desideri, abdicare all’attività, alla gloria, alle emozioni generose e profonde,
potrebbe abbrutirsi ad essere felice. No, Signori, chiamo a testimone la parte
migliore della nostra natura, questa nobile inquietudine che ci perseguita e ci
tormenta, questa brama di estendere le nostre conoscenze e di sviluppare le
nostre facoltà; non alla sola felicità, ma al perfezionamento di chiama il nostro
destino; e la libertà politica è il mezzo più energico e possente di
perfezionamento che il cielo ci abbia dato. La libertà politica, sottoponendo a
tutti i cittadini senza eccezione l’esame e lo studio dei loro interessi più sacri,
allarga il loro spirito, nobilita i loro pensieri, stabilisce tra loro una sorta di
eguaglianza intellettuale che fa la gloria e la potenza di un popolo. 52
Comunque intesa – come mezzo di garanzia per la libertà
individuale o come strumento di perfezionamento morale – la libertà
politica svolge dunque un ruolo decisivo nella visione constantiana della
libertà moderna. Di qui la ‘vera’ conclusione del Discorso, che Holmes
aveva sottolineato: l’invito a non rinunciare a nessuna delle due libertà
(quella individuale e quella politica), ma ad «imparare a combinarle l’una
con l’altra» 53.
Dall’analisi del testo emerge chiaramente come le interpretazioni di
Bobbio e di Berlin (nonché quella di De Ruggiero) pecchino di
unilateralità: esse si concentrano, per dirla in breve, sulla prima parte del
Discorso, ‘dimenticando’ del tutto la seconda. Sotto questo profilo,
l’interpretazione di Holmes appare senz’altro più equilibrata e
51
52
53
DISC, p. 203.
DISC, P. 204.
DISC, p. 205.
71
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
convincente. Anch’essa, tuttavia, incorre in alcune forzature, ovviamente
di segno opposto. Quando ad esempio Holmes afferma che «the crucial
sentence in Ancient and Modern Liberty»54 è il passo in cui Constant
mette in guardia i Moderni contro il loro eccessivo privatismo, oppure
quando sostiene che in Constant «restricted goverment serves the cause of
self-governement» 55, lo studioso americano stabilisce una primazia della
libertà politica sulle libertà civili che è difficile rintracciare nei testi di
Constant (e anche negli obiettivi perseguiti con la sua azione politica). Vi è
un unico passo del Discorso che giustifica questa lettura: ed è il richiamo
alla libertà politica come strumento per il perfezionamento etico e
intellettuale dell’uomo, che costituirebbe un fine più alto della felicità
individuale. Ma è lo stesso Holmes a far rilevare come quel celebre passo
sarebbe soltanto un espediente retorico utilizzato da Constant per scuotere
l’apatia politica di un uditorio pervaso da una mentalità utilitaristica. Ora,
se le cose stanno così, se ne deve dedurre che per Constant la libertà
politica, per quanto importante, rimane comunque il mezzo più
appropriato per garantire le libertà civili, che consentono ad ogni
individuo una piena autodeterminazione. Le libertà civili mantengono
quindi una superiorità assiologica sulla libertà politica: insomma, i due tipi
di libertà devono sì combinarsi, ma questo non significa che stiano sullo
stesso piano. Anche perché per Constant la partecipazione politica non è la
sola via alla dimensione sociale dell’esistenza: la sfera della società civile
offre a ciascun individuo e a ciascun gruppo
un’ampia gamma di
possibilità in tal senso.
La concezione della libertà politica come strumento di garanzia
emerge chiaramente anche dalle celebri pagine che Constant dedica a
Rousseau. Si tratta di un argomento molto delicato, per ricostruire il quale
è bene utilizzare i Principes de politique del 1806, ossia l’opus magnum
della filosofia politica constantiana (rimasto inedito per quasi un secolo e
mezzo, ma che ha fatto da réservoir per le opere edite). La critica a
Rousseau occupa il primo dei diciotto libri di questo grande trattato,
giacchè la definizione della sovranità (che in queste pagine viene in genere
chiamata ‘autorità sociale’) rappresenta, agli occhi di Constant, il problema
preliminare e fondamentale della teoria politica.
La concezione roussoviana dell’autorità ruota, scrive Constant,
intorno a due princìpi: il primo, relativo alla sua origine, stabilisce che
«ogni autorità che governa una nazione deve emanare dalla volontà
generale»56, cioè dall’intero corpo sociale; il secondo, concernente la sua
estensione, prevede che gli individui cedano tutti i loro diritti alla
comunità, che costituisce il corpo sovrano.
Quanto al primo principio Constant dichiara di condividerlo:
l’autorità, per essere legittima, deve fondarsi sul consenso della società,
deve cioè emanare dalla sua «volontà generale». Egli sa bene che questa
espressione richiama alla mente terribili ricordi: molti crimini del periodo
54
S. Holmes, Benjamin Constant and the Making of modern Liberalism, cit., p. 19.
Ivi, p. 241.
56
B. Constant, Principi di politica. Versione del 1806, a cura di S. De Luca,
Rubbettino, Soneria Mannelli 2006, p. 8. Nelle pagine che seguono questo testo verrà
citato con l’abbreviazione PP1806.
55
72
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
rivoluzionario sono stati commessi «con il pretesto di far eseguire la
volontà generale»57 e ciò, oltre a screditare il principio in se stesso, ha
finito per conferire una qualche forza «apparente» alle teorie che
attribuiscono un’altra origine all’autorità. Ma si tratta, per l’appunto, di
una forza apparente, frutto della reazione emotiva innescata dai drammi
rivoluzionari: e infatti Constant non discute nemmeno le tesi teocratiche di
un Maistre o di un Bonald. Posto che il potere sia un fenomeno umano (e
quindi razionalmente indagabile), esso non può che essere l’espressione
della volontà di tutti o di quella di pochi; ma quale sarà allora l’origine
del privilegio esclusivo che voi concedereste a questi pochi? Se è la forza, essa
appartiene a chiunque se ne impadronisca. La forza non costituisce un diritto;
ma se voi la riconoscete come legittima, essa lo è in ogni caso, qualunque sia la
mano che se ne impadronisce, e ognuno vorrà conquistarla a sua volta. Se voi
invece supponete il potere dei pochi sanzionato dal consenso di tutti, questo
potere diventa allora la volontà generale. 58
Tale principio, prosegue Constant, si applica a tutte le forme
istituzionali. Quando la teocrazia, la monarchia, l’aristocrazia dominavano
gli spiriti, tali regimi erano basati sul consenso, ergo sulla volontà
generale; quando non li dominavano più, si basavano soltanto sulla forza.
Nel primo caso erano legittimi, nel secondo illegittimi.
Come si vede, Constant identifica la volontà generale con il consenso,
inteso nel senso largo di approvazione (tacita o espressa) da parte della
società nei confronti della forma di governo esistente. In tal modo, egli per
un verso fa suo il principio della sovranità popolare (poiché riconosce
come titolare del potere il corpo sociale), ma per l’altro ne dà
un’interpretazione genericamente ‘consensuale’ o ‘ascendente’, che non lo
identifica con il regime democratico. Il principio del consenso, infatti,
«non decide nulla contro la legittimità di alcuna forma di governo»59: ad
eccezione del dispotismo e dell’anarchia, tutte le forme di governo possono
essere legittime, a condizione che siano «volute» dalla società. Il principio
di legittimazione del potere, quanto alla sua ‘origine’, sta dunque nel
consenso che proviene dalla società e che Constant indica con l’espressione
‘volontà generale’. In tal senso – e solo in tal senso – egli può quindi
dichiararsi pienamente d’accordo con Rousseau.
Una chiara opposizione si delinea invece sul secondo principio del
Ginevrino: contemplando la cessione totale dei diritti individuali alla
comunità, esso conduce infatti secondo Constant ad una concezione
assolutistica del potere, giacché la volontà generale disporrà di
«un’autorità illimitata» da esercitare «sull’esistenza individuale»60 .
Constant non passa subito alla critica del principio, perché gli preme
anzitutto dimostrare come esso sia largamente egemone nel pensiero
politico pre- e post-rivoluzionario: con un’affermazione a tutta prima
sorprendente, egli sostiene che «i pubblicisti anteriori o posteriori a
Rousseau hanno professato perlopiù la stessa opinione. Nessuno l’ha
57
58
59
60
PP1806, p. 8.
PP1806, p. 8.
PP1806, P. 9.
PP1806, p. 12.
73
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
formalmente rifiutata» 61. Constant precisa, per la verità, che Condorcet fa
eccezione, poiché «ha fissato con molta cura i limiti dell’autorità
sociale»62; e in generale riconosce che l’idea della limitazione del potere
non è nuova, giacché è rintracciabile negli scritti di Franklin, Paine,
Beccaria, Sieyès e altri. Ma ciò non inficia la sua tesi iniziale, per due
ragioni: la prima è che nessuno di questi autori ha sviluppato in modo
adeguato il principio della limitazione del potere, traendone tutte le
conseguenze che ne derivano; la seconda è che la loro concezione, forse
proprio a causa di questa incompletezza, non si è affermata, come
dimostra il fatto che ancora oggi si parla «incessantemente di un potere
senza limiti che risiede nel popolo o nei suoi capi»63 . Ragionamenti del
genere si possono trovare tanto in seguaci dei lumi come D’Holbach e
Mably, quanto in partigiani del dispotismo come Ferrand e Molé: divisi
sulla titolarità del potere, questi autori sono uniti nel concepirlo come
un’entità priva di limiti, dotato di una forza immensa, capace di
comprimere qualsiasi volontà particolare. Esattamente come nel ‘sistema
di Rousseau’ e talvolta con espressioni sorprendentemente simili a quelle
del Ginevrino.
E Montesquieu? L’autore dell’Esprit des lois, per il quale Constant
nutre una profonda ammirazione, non può certo essere considerato un
fautore dell’assolutismo; al contrario, egli è uno dei rari pensatori che
hanno tentato di apportare delle restrizioni a questa dottrina. Ma si tratta
di restrizioni, afferma Constant, «apparenti» e «vaghe», con le quali non si
è mai riusciti a «tracciare limiti stabili all’autorità sociale»64. E c’è di più.
Montesquieu ha elaborato una definizione di libertà che di fatto disconosce
ogni limitazione del potere. Egli ha scritto che la libertà è il «diritto di fare
tutto ciò che le leggi permettono»65 . Ora, se è indubbio che «non vi è certo
nessuna libertà, quando i cittadini non possono fare tutto ciò che le leggi
non proibiscono», è anche vero che «le leggi potrebbero proibire talmente
tante cose» da soffocare del tutto la libertà 66. Montesquieu avrebbe dovuto
spiegare cosa le leggi non hanno il diritto di proibire, perché è proprio là
che risiede la libertà: «la libertà non è altro che ciò che gli individui hanno
il diritto di fare e che la società non ha il diritto di proibire»67. Il fatto è che
l’autore dell’Esprit del lois ha confuso, come la maggior parte degli
scrittori politici francesi, la libertà con la garanzia.
I diritti individuali sono la libertà; i diritti sociali sono la garanzia.
L’assioma della sovranità del popolo è stato considerato un principio di libertà,
ma in realtà è un principio di garanzia. Esso è destinato a impedire che un
individuo si impadronisca dell’autorità che appartiene soltanto alla società
intera; ma non decide nulla sulla natura di questa autorità. Esso dunque non
aumenta in nulla la somma delle libertà individuali; e se non si ricorre ad altri
princìpi per determinare l’estensione di questa sovranità, la libertà può essere
61
62
63
64
65
66
67
PP1806, p. 12.
PP1806, p. 12, nota 2.
PP1806, P. 15.
PP1806, p. 13.
PP1806, p. 14.
PP1806, p. 14.
PP1806, p. 14.
74
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
perduta, malgrado il principio della sovranità del popolo o proprio a causa
sua. 68
In poche righe Constant scrive cose di capitale importanza sul
concetto di libertà e su quello di sovranità popolare. La sua visione della
scena politica contempla soltanto due attori: gli individui e la società, che
si fronteggiano senza la presenza di corpi intermedi e disponendo di
distinti diritti. La libertà si colloca nella sfera individuale ed ha un profilo
eminentemente ‘negativo’: essa consiste in una condizione di indipendenza
dal potere, che conferisce al singolo la facoltà di fare o non fare alcunché
senza che l’autorità possa legittimamente impedirlo. La libertà è quindi
una condizione di non-impedimento o di autodeterminazione individuale:
come tale essa coincide con (ed è resa possibile dai) diritti individuali,
ossia dall’esistenza di una sfera nella quale non possono arrivare né i
comandi né i divieti dell’autorità. Di fronte ai diritti individuali stanno i
diritti sociali: se i primi appartengono agli individui e sono uno strumento
di libera affermazione di sé, i secondi appartengono alla società e sono uno
strumento di difesa, che impedisce a chiunque di impadronirsi del potere
senza il consenso del corpo sociale. In questo senso la sovranità popolare è
un principio di garanzia e non di libertà: limitandosi a stabilire ‘chi’ sia il
legittimo sovrano (problema dell’origine e quindi della titolarità del
potere), ma non ‘cosa’ possa fare o non fare (problema dell’estensione e
quindi dei limiti del potere), tale principio ci garantisce dalla presenza di
autorità illegittime, ma non ci dice nulla sul grado di libertà che vige nel
sistema politico.
Anche in Montesquieu, dunque, non esiste un’autentica dottrina
della limitazione del potere; ecco perché, conclude Constant, si può
guardare alla concezione roussoviana dell’autorità come alla «sola adottata
fino ad oggi»69. L’affermazione, nel suo significato letterale, è senza dubbio
eccessiva 70, ma il suo significato polemico è chiaro: la dottrina del
Ginevrino rappresenta, agli occhi di Constant, l’archetipo delle concezioni
correnti dell’autorità, tutte contrassegnate dalla convinzione che il
sovrano, chiunque esso sia, disponga di un potere illimitato. Oltretutto,
per un teorico della puissance des ideés come Constant, le dottrine
politiche non sono vuote astrazioni da discutere nei ridotti delle scuole, ma
forze vive che penetrano e informano di sé la realtà storica e che di
conseguenza debbono ‘rispondere’ dei propri effetti. Da questo punto di
vista, Constant attribuisce alla dottrina di Rousseau gravissime
responsabilità: dalle difficoltà incontrate dai popoli che hanno tentato di
darsi libere istituzioni alla maggior parte degli abusi che si nascondono
sotto tutte le forme di governo, dai crimini che accompagnano i disordini
68
PP1806, p. 14.
PP1806, p. 16.
70
Qui si fa stridente l’assenza di riferimenti a Locke. Tale assenza può essere
spiegata con il fatto che Cosntant considera Locke legato alle problematiche storicopolitiche del ‘600 inglese, lontano dal pensiero che ha preceduto e ‘preparato’ la
Rivoluzione francese. Inoltre, il suo apparato giusnaturalistico gli appare superato. Locke
ha senz’altro elaborato una teoria dei limiti del potere; ma la Rivoluzione francese ha
cambiato tutti i dati del problema politico, determinando la genesi convulsiva della
democrazia e inedite forme di dispotismo. Nuovi e più complessi problemi devono essere
affrontati con una nuova e più articolata teoria.
69
75
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
civili e politici agli «orrori della nostra Rivoluzione, quegli orrori di cui la
libertà è stata al tempo stesso il pretesto e la vittima»71. E’ vero che i
crimini rivoluzionari hanno avuto per causa immediata gli interessi
particolari dei depositari del potere; ma la teoria di Rousseau è stato il velo
con il quale quegli interessi sono stati coperti. «E’ quindi utile confutare
questa teoria. E’ utile in generale rettificare le opinioni, per quanto
metafisiche e astratte ci sembrino, perché è nelle opinioni che gli interessi
cercano le loro armi»72. Compare, in questo passo, l’esplicita teorizzazione
di quella ‘caccia delle ideologie’ che giustamente Holmes considera uno
degli aspetti più originali e fecondi del pensiero di Constant: il tentativo
sistematico di snidare i pretesti ideali di cui si serve (o si potrebbe servire)
il potere per giustificare la sue tendenze abusive.
Ma torniamo all’esame della dottrina di Rousseau. Il secondo
principio sulla sovranità prevede l’alienazione totale di tutti i diritti
individuali alla comunità: ma non c’è nulla da temere, secondo Rousseau,
sia perché la condizione (cioè la cessione dei diritti) è eguale per tutti, e
quindi nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri, sia perché ha
come destinatario la comunità, ragion per cui quei diritti che gli individui
cedono in quanto ‘privati’ li riprendono in quanto ‘cittadini’, ossia in
quanto membri perfettamente eguali di quel corpo collettivo che è il
sovrano. E poiché il sovrano coincide con il corpo sociale, è evidente che
esso non potrà nuocere né all'insieme dei suoi membri, né a qualcuno in
particolare.
A queste argomentazioni Constant rivolge una formidabile obiezione
‘pratica’: Rousseau dimentica che tutte le garanzie offerte da quell'essere
astratto che egli chiama il ‘sovrano’ sono dovute esclusivamente al fatto
che esso si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma non
appena il sovrano dovrà esercitare praticamente il suo potere, esso – dal
momento che non potrà farlo in prima persona – dovrà delegarlo a vari
organi e quindi tutte le garanzie cadranno. Il potere esercitato nel nome di
tutti sarà in realtà nelle mani di pochi: dunque non è vero che la
condizione rimarrà eguale per tutti; e, di conseguenza, non è vero che
nessuno avrà interesse a renderla più onerosa per gli altri, dal momento
che vi saranno cittadini i quali, di fatto, avranno più potere degli altri.
Secondo Constant, Rousseau non avrebbe visto tali evidenti
conseguenze perché tratto in inganno dalla distinzione tra società e
governo, in virtù della quale soltanto la prima sarebbe depositaria del
potere derivante dalla cessione dei diritti individuali, mentre il secondo
sarebbe un mero esecutore. Ma si tratta di una distinzione illusoria, perché
la società, non potendo esercitare direttamente il suo potere, deve
inevitabilmente affidarlo a delle istituzioni politiche, ossia a ciò che
comunemente viene definito un ‘governo’. Dal momento in cui sorge il
governo (inteso come insieme dei poteri costituiti, e quindi, in sostanza,
come Stato) ogni distinzione tra i suoi diritti e quelli della società diviene
«una vana astrazione» 73: o la società riuscirà a non delegare alcuni diritti
ai governanti, ma allora tali diritti, non potendo essere esercitati, saranno
71
72
73
PP1806, p. 16.
PP1806, p. 16.
PP1806, p. 22.
76
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
come inesistenti; oppure, ed è il caso più probabile, i governanti
riusciranno prima o poi a farsi delegare anche quei diritti. E’ impossibile,
insomma, riconoscere determinati diritti alla società come corpo collettivo
e pretendere che le istituzioni politiche non ne dispongano. La sovranità di
tutti, ribadisce Constant, è la «cosa astratta»; ma la «cosa reale» è il suo
esercizio, vale a dire il governo, il quale – comunque sia organizzato – è
sempre nelle mani di pochi individui, soggetti a passioni ed interessi: ecco
perché è necessario «prendere delle precauzioni contro il potere
sovrano»74, anche quando esso appartiene teoricamente a tutti.
Se tali precauzioni non vengono prese, l’applicazione del sistema
roussoviano determina due conseguenze. Da un lato, l’esistenza
individuale si trova sottomessa senza riserve alle decisioni della volontà
generale; dall’altro lato, la volontà generale si trova rappresentata senza
appello dalla volontà dei governanti. Si verifica così una doppia
espropriazione di libertà: gli individui vengono espropriati di qualsiasi
libertà a vantaggio della società; la società, a sua volta, viene espropriata
della sua libertà a vantaggio dei governanti. E questa seconda
espropriazione è perdipiù nascosta: i governanti, infatti, diranno di essere
soltanto i «docili strumenti» della volontà generale, ma in realtà
disporranno dei «mezzi di forza o di persuasione necessari per far sì che
essa si manifesti nel senso che conviene loro»75. Ciò rende le democrazie
moderne, ispirate alla dottrina di Rousseau, più pericolose dei dispotismi
pre-rivoluzionari, perché qualsiasi atto del potere si ammanta della
legittimazione popolare:
ciò che nessun tiranno oserebbe fare a suo nome, costoro [i
rappresentanti della volontà generale] lo legittimano con l’estensione illimitata
dell’autorità sociale. I maggiori poteri di cui hanno bisogno li richiedono
direttamente al proprietario dell’autorità sociale, cioè al popolo, la cui
onnipotenza esiste proprio per giustificare le loro usurpazioni. Le leggi più
ingiuste, le istituzioni più oppressive diventano obbligatorie, in quanto
espressioni della volontà generale 76.
Ma Constant non si limita a sviluppare una penetrante analisi critica.
Egli vede nella fase giacobina la controprova storica delle sue
argomentazioni. Le conseguenze del sistema roussoviano, egli afferma, si
sono sviluppate in tutta la loro spaventosa latitudine» durante «la nostra
Rivoluzione»:
Esse hanno inferto ferite forse incurabili a princìpi sacri. Più il governo
che si voleva dare alla Francia era popolare, più queste ferite sono state
profonde. […] Sarebbe facile dimostrare, attraverso innumerevoli citazioni,
che i sofismi più grossolani dei più focosi apostoli del Terrore, nelle
circostanze più rivoltanti, non erano che conseguenze perfettamente giuste
dei princìpi di Rousseau. Il popolo che può tutto è altrettanto pericoloso –
anzi, più pericoloso – di un tiranno. Il piccolo numero dei governanti non
costituisce una tirannia: il loro grande numero non garantisce la libertà. E’
solo il grado di potere sociale, in qualsiasi mano sia collocato, che fa una
74
75
76
PP1806, P. 24.
PP1806, p. 25.
PP1806, p. 25.
77
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
costituzione libera o un governo oppressivo; e quando la tirannia è costituita,
essa è tanto più terribile quanto più numerosi sono i tiranni 77.
Il flagello del dispotismo, in altre parole, non può essere affrontato
– come ha fatto Rousseau – guardando soltanto alla titolarità del potere, e
quindi rimanendo all’interno della problematica delle forme di governo.
Rimanendo in questa prospettiva, sul banco degli accusati vengono
chiamati – di volta in volta e a seconda dei punti di vista – i depositari del
potere («la monarchia, l’aristocrazia, la democrazia, i governi misti, il
sistema rappresentativo»78) e mai il potere in se stesso. Ma si tratta di un
formidabile errore, perché «è il grado della forza e non i depositari di
questa forza che bisogna accusare. E’ l’arma e non il braccio che bisogna
colpire»79 . Questo l’errore nel quale è incorso Rousseau, e con lui tutti quei
pensatori che, pur dichiarandosi amici della libertà, hanno teorizzato un
potere illimitato. Avendo visto quanto male aveva fatto il potere nelle mani
di un uomo solo o di pochi, questi autori hanno diretto il loro sdegno
contro i «possessori del potere e non contro il potere stesso. Invece di
distruggerlo hanno pensato soltanto a spostarlo. Era un flagello, ma essi
l’hanno considerato una conquista e ne hanno dotato la società intera» 80.
Rousseau e i suoi seguaci sono rimasti, sotto questo punto di vista,
all’interno della tradizione assolutistica: infatti, pur contrapponendosi ad
alcuni suoi princìpi, non ne hanno criticato il cuore concettuale – la
nozione di souveraineté – ma si sono limitati a spostarne la titolarità dal
monarca al popolo, nella convinzione che la distribuzione egualitaria del
potere fosse di per sé garanzia e strumento di libertà.
Come valutare, alla luce di questa ricostruzione, la tesi secondo cui
tra il pensiero di Rousseau e quello di Constant il dissidio sarebbe minore
di quel che si è sempre ritenuto, vista la decisiva convergenza sul principio
della sovranità popolare? E come valutare la tesi secondo cui il dissidio
sarebbe soltanto ‘apparente’, dal momento che Constant non avrebbe
inteso criticare la dottrina di Rousseau (avente natura e scopi diversi dalla
sua), bensì utilizzarla come ‘bersaglio’ per colpire le strumentalizzazioni
che ne avevano fatto giacobini e bonapartisti?
Va detto anzitutto che nello sforzo di argomentare tali tesi gli
interpreti hanno avanzato osservazioni acute e fondate. E’ vero, ad
esempio, che Constant sottolinea gli usi pretestuosi di cui è stata ‘vittima’
la teoria di Rousseau: egli afferma, come si ricorderà, che i giacobini se ne
sono serviti per realizzare i loro interessi, per soddisfare la loro sete di
potere e così via. Ed è anche vero che Constant riconosce, per converso, le
‘intenzioni liberali’ del Ginevrino, sostenendo che egli «è stato il primo a
rendere popolare il sentimento dei nostri diritti» 81. Ma queste affermazioni
non esauriscono la riflessione contenuta nei primi libri dei Principes. E’
fuori di dubbio che la critica a Rousseau abbia, tra i suoi bersagli, coloro i
quali hanno strumentalizzato (o si apprestano a strumentalizzare) i
77
78
79
80
81
PP1806, pp. 25-26. Il corsivo è mio.
PP1806, p. 26.
PP1806, p. 26.
PP1806, p. 27.
PP1806, p. 33.
78
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
princìpi del Ginevrino; sotto questo profilo, essa rientra senz’altro in
quella critica delle ideologie di cui si è detto e ha quindi come bersaglio
alcuni gruppi di potere (giacobini e bonapartisti). E tuttavia non va
dimenticato che è lo stesso Constant a tenere ben ferma la distinzione tra
critica ideologica (rivolta contro le strumentalizzazioni dei princìpi) e
critica teorica (rivolta contro i princìpi stessi). Come si ricorderà, egli
afferma che gli atti e i ragionamenti dei giacobini, per quanto pretestuosi
nelle loro motivazioni soggettive, erano «conseguenze perfettamente
giuste dei princìpi di Rousseau», i quali, conferendo al popolo un potere
illimitato, creavano i presupposti di un regime dispotico (anzi, del peggiore
dei regimi dispotici). Dunque, nella più benevola delle ipotesi, Constant
attribuisce a Rousseau l’incapacità di valutare le conseguenze della sua
teoria.
Quanto alle ‘intenzioni liberali’ di Rousseau, va tenuto presente il
contesto in cui viene pronunciato l’elogio del Ginevrino e soprattutto le
considerazioni successive. Anzitutto, Constant ci tiene – e lo dice
espressamente – a non unirsi al coro dei «detrattori»82 di Rousseau,
perché all’epoca costoro erano i nemici per eccellenza della Rivoluzione e
della philosophie. In secondo luogo, subito dopo aver riconosciuto a
Rousseau di aver sentito con forza la tematica dei diritti, Constant lo
accusa di non essere stato capace di definirla con precisione. Di qui la
presenza, nella sua dottrina, di concetti ambigui e pericolosi: che
significano, si chiede Constant, «dei diritti di cui si gode tanto più quanto
più li si aliena completamente? Che cos’è una libertà in virtù della quale si
è tanto più liberi quanto più si fa implicitamente quello che è contrario alla
nostra volontà?»83. Queste «funeste sottigliezze teologiche»84 sono per
Constant veri e propri «errori» che non verranno confutati mai
abbastanza, perché «costituiscono ostacoli invincibili allo stabilirsi di ogni
costituzione libera o moderata e perché rappresentano il banale pretesto
per ogni attentato politico»85 . Dunque, Constant riconosce a Rousseau il
sentimento della libertà, ma non la paternità di una teoria liberale: anzi,
la sua teoria gli appare oggettivamente illiberale. E ciò non soltanto a
causa del linguaggio ‘teologico’, per cui le sue tesi sarebbe soggette a
misinterpretazioni e strumentalizzazioni, ma a causa di un errore di fondo,
avente natura eminentemente concettuale, e sul quale Constant torna più
volte: l’identificazione tra libertà e potere sociale (cioè la ripresa del
modello antico). Cosa ha fatto Rousseau? Contro il flagello del dispotismo
(e dunque in vista della libertà) egli non ha attaccato il potere in se stesso
(elaborando una teoria dei suoi limiti), ma si è limitato a mutarne la
titolarità, affidandolo a tutti (elaborando una teoria della distribuzione
eguale del potere). In tal modo egli ha formulato non una teoria liberale,
bensì una teoria democratica pura, in virtù della quale gli individui si
trovano sottomessi senza riserve alla volontà della società. Tale soluzione è
di per sé dispotica ed infatti costituisce un «ostacolo invincibile» allo
stabilirsi di una «costituzione libera o moderata». Inoltre essa si presta ad
essere strumentalizzata da parte di quelle minoranze che, nelle grandi
82
83
84
85
PP1806, P. 32.
PP1806, p. 33.
PP1806, pp. 33.
PP1806, p. 33.
79
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
società moderne, esercitano il potere nel nome del popolo: ragion per cui
essa produrrà, di fatto, non il dominio assoluto di tutti (la collettività) sui
singoli, bensì quello di pochi (i governanti) sulla società e sui suoi membri.
Ma il perseguimento strumentale di questo esito è possibile solo perché in
origine è stato commesso l’errore di teorizzare una sovranità illimitata.
Rimane da esaminare l’accordo tra Rousseau e Constant sul principio
della sovranità popolare. Come abbiamo visto, il principio di
legittimazione delle due teorie politiche, quanto alla fonte della sovranità,
è il medesimo: potere legittimo è quello che deriva dalla volontà generale.
Si tratta di un aspetto senza dubbio qualificante e bene ha fatto Holmes – e
altri dopo di lui – a sottolinearlo. Basti pensare, per fare una
comparazione, alla posizione di liberali come Guizot, che in quegli stessi
anni teorizzano una sorta di ‘terza via’ tra sovranità popolare e
legittimismo monarchico, parlando di ‘sovranità della ragione’ o ‘della
costituzione’. Ciò detto, non bisogna dimenticare due cose. La prima è che
quando Constant parla di sovranità popolare pensa ad un sistema
rappresentativo su base censitaria (e ciò – come è stato osservato ormai
innumerevoli volte – era del tutto normale, in un’epoca in cui il suffragio
universale era stato utilizzato da Napoleone per i suoi plebisciti). La
seconda cosa, assai più importante, è che la volontà generale di cui parla
Constant è toto caelo diversa dalla volontà generale di Rousseau: la prima
è la somma algebrica delle volontà particolari e può scaturire solo dalla
loro libera espressione; la seconda è quella volontà organica e comunitaria
che si produce solo grazie all’annullamento delle volontà particolari. La
prima concide con il principio del consenso e implica un sistema di
autogoverno che non coincide necessariamente con il regime democratico
(al massimo, tende ad un progressivo allargamento del suffragio); la
seconda coincide con un regime democratico che non riconosce alcun
limite alla sovranità del popolo.
La critica di Constant a Rousseau conserva quindi, a mio avviso, tutta
la sua autonoma rilevanza teorica. Dalle pagine dei Principes emerge
infatti per la prima volta, in forma pressoché ideal-tipica, la distinzione tra
liberalismo e democrazia pura, con le connesse istanze critiche del primo
verso la seconda. Le osservazioni che Constant rivolge a Rousseau
costituiscono l’archetipo delle critiche liberali al principio democratico
puro, prima che questo diventasse una forza storico-politica di prima
grandezza. Esse non implicano affatto l’incompatibilità tra liberalismo e
democrazia, ma distinguono con chiarezza natura e obiettivi delle due
prospettive politiche e soprattutto contengono l’acutissima percezione dei
rischi insiti nel principio democratico e nella sua prassi, quando questo
non si integri con i princìpi liberali.
80
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Tocqueville’s contribution to the American
reconciliation of greatness and justice in a true
understanding of human liberty
!
di Peter A. Lawler
According to John Courtney Murray in We Hold These Truths (1960),
the task of American Catholics is to supply a theory adequate to the
greatness of our Founders’ practical accomplishment. The dominant theory
of our nation is Lockeanism, the theory of a middle-class country. We
Americans, so the thinking goes, are basically beings with “interests” and so
beings with “rights.” We are free beings who work and demand that
everyone work for him- or herself. We are middle-class insofar as we’re
free, like aristocrats, to work like slaves, and we’re enlightened enough to
know we risk being suckered if we rely on the love or the trust of others
instead of ourselves. So we pride ourselves in methodically resisting social
instinct with selfish calculation. Each of us is compelled to sustain his or
her being in freedom, and so we work hard to push back our dependence on
nature –including our dependence on the instincts we’re given as social
animals. That understanding of the “abstract” individual, everyone knows,
doesn’t do justice to the experience of free persons who love and die. It
doesn’t do justice to us as either relational or properly proud beings, as
beings personally privileged by the longings and capacities that distinguish
each human soul.
According to the American Catholic novelist/philosopher Walker
Percy in Lost in the Cosmos (1983) and elsewhere, there are two
indigenously American ways of criticizing or elevating the middle-class way
of life. The first is the experience of the southern aristocrat — more
specifically, the stoic or philosophic consciousness of the best of those
aristocrats. The other is Christianity. Percy was raised by perhaps the most
remarkable and penetrating of those Stoics. From his “Uncle Will” (the poet
William Alexander Percy), he learned to appreciate the place of the
aristocratic virtues of generosity and magnanimity in the formation of the
character of a properly proud human being. And he learned what’s true
!
81
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
about the aristocratic criticism of the petty, calculating materialism of the
American middle-class. This criticism is of people without “class,” without
a social, rooted orientation in habit and thought that would tell them who
they are and what they’re supposed to be as ladies and gentlemen in the
world — and as beings open to the genuine, moral responsibilities they’ve
been given by their natures and by their place in the world.
By turning to Christianity, Percy also learned the limits of such
Stoicism: its denial of human equality, of justice, of rights, of what we owe
in love to our fellow creatures. For Percy, American Thomism is what
comes from an honest, Christian correction to what’s true about the Stoic
criticism of middle-class life. That correction results in a very partial, but
very real, appreciation of the gains achieved by ordinary people — such as
African-Americans — under the influence of the middle-class conception of
justice. Rights can be understood as not merely or even mainly the
possession of self-interested individuals in competition with each other for
scarce resources, the possession of producers and consumers. They can also
be understood as what’s given to free, loving, truthful, lying, wondering,
wandering, irreducibly mysterious, unique and irreplaceable beings under
God. They can be understood to be rooted in the full, natural truth about
the ontological difference that privileges members of our species.
Because the South is now both the most aristocratic and the most
Christian part of our country, Percy makes it clear that American Thomism
could originate nowhere else. But American Christianity hardly originated
in the South, and the southern, Stoic aristocracy was not really Christian at
all. And we can turn to our friendly French observer, Alexis de Tocqueville,
for evidence that Percy’s Thomistic insight about America is hardly new.
For Tocqueville, too, reconciling human greatness or the full truth about
human individuality with the egalitarian justice that has its source in our
Creator depends upon both Christian and aristocratic corrections to the
middle-class American’s self-understanding about what human liberty is.
Tocqueville, like Percy, occupied a kind a privileged position as a person
with an genuinely aristocratic social and intellectual inheritance living in a
democracy, and both men saw, finally, that Catholic Christianity, purged of
aristocratic prejudices (but not aristocratic wisdom), is both the religion
and the philosophy or metaphysics (Thomism) most suited to defend the
truth about human liberty.
My purpose here is to show the similarity between Tocqueville’s and
Percy’s analysis of American disorientation, of a people confused by not
knowing the whole truth about who they are and what they’re supposed to
do. So my purpose is to show that the seeds of American Thomism, at least,
are already in Tocqueville’s two-volume Democracy in America (1835,
1840).
!
82
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
1. The Pop Cartesian Americans
Percy remarks that he especially admires Tocqueville’s remarkable
insight that the Americans are Cartesians without having read a word of
Descartes. The Cartesian method is also the democratic method, and it's
that democratic method that keeps Americans from reading the words of
philosophers — Descartes or anyone else. Democratic intellectual freedom
means thinking for — and finding what one most needs — in oneself.
Modern democracy — based as it is on individual rights — depends upon
skepticism or Cartesian doubt when it comes to being ruled by the words of
others. I see no reason to privilege any opinion over my own, over my own
view of my own interests, of what's best for me. The “I” or the self is
disconnected from other “I’s” in order to be autonomous or selfdetermining. And so the “I” denies that self-consciousness is essentially
knowing with or for others. The “I” — in truth, an abstraction from the
whole social being — confuses the experience of “selfish” disconnection
with the whole truth about who he is. He does so to maximize his freedom,
but in such a way as to make the real exercise of freedom, of conscious,
responsible choice, impossible.
For Tocqueville, some shared dogma or shared certainty about who
we are is a “salutary bondage” that makes free thought and action possible.
Having to invent oneself out of nothing is an impossible task, one not even
shared by God himself. The result of experiencing oneself as being stuck
with that task is anxious, paralyzing disorientation, what Percy describes as
the hell of unguided or pure possibility. I know I'm not nothing, but I might
be anything. So I find it impossible to choose to be anything in particular. I
can't simply choose to be who I am. To live well, I must somehow know
who I am and what I'm supposed to do, and I can't do that all by myself.
So Percy and Tocqueville agree that the pop Cartesian “I” lacks the
resources to separate himself from what Percy (following Heidegger) calls
the “they” and what Tocqueville calls anonymous public opinion — opinion
determined by no one in particular. So the Cartesian self, untethered from
others, turns out to have no content beyond the ineradicable experience of
its “leftover” existence. I refuse to be ruled by other persons—to be
suckered out of love. But public opinion, being an anonymous, unerotic
force that envelopes us all equally, doesn't involve the same sort of
undemocratic submission. The “I,” by rejecting all personal authority—the
authority of beings with names—ends up submitting to anonymous selfsurrender. My particular being becomes filled up with opinions that come
from no one in particular. The individual, by regarding the social passions
of love and hate as dangerous threats to his own self-sufficiency, becomes
unerotically locked up in his petty self, unable to be moved to thought or
action on his own.
The isolated or abstracted “I” has no intellectual or emotional point of
view — no spirit of resistance — to display the unique and irreplaceable
!
83
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
individuality characteristic of real or whole human persons. Doubt that
animates resistance to personal rule by others is turned on oneself and
eradicates the possibility of proud self-rule. The good modern, egalitarian
news, Tocqueville observes, is that I can say nobody is better than me. The
corresponding bad news is that I have no reason to say I’m better than
anyone else. And so I — in particular — can’t say why I shouldn't submit to
public opinion, just like everyone else. Public opinion provides ready-made
answers to the questions anyone needs answered in order to live well,
answers I'm in no position to discover for myself.
That’s why, Percy and Tocqueville agree, the modern tendency is to
replace the egalitarian and personal religion of Christianity with the
egalitarian and impersonal religion of pantheism. There’s no better relief
for the anxiety of being an isolated “I,” it would seem, than the thought that
we’re all alike — everything is alike — and we’re all God — or lacking in
nothing. Percy and Tocqueville both show that pantheism — in forms such
as Western Buddhism — should be attacked (as an enemy of human
freedom or real individuality. Pantheism is a diversion from what we really
know fueled by the isolated “I's” impulse toward self-surrender. It's a
seductive lullaby that pushes individuals away from truthful thought and
effective action.
The individual aims to lose himself in a whole in which he is a
perfectly indistinct part by drawing upon the mind's desire for a unified
vision that admits of no irrational or accidental exceptions. So the
movement from personal to impersonal religion today is the surrender of
any attempt to understand or defend one's own particular existence. Percy
makes it clear that pantheistic self-surrender is finally impossible, but
that's not to say we aren't personally diminished by the effort. Percy does
worry a good deal about the possibility of the chemical suppression of the
anxiety that accompanies self-consciousness. Drug-based psychiatry
promises quick relief without any need for self-understanding. But even
here, Percy is more worried about what such efforts will do to us than any
real chance of ultimate success.
Tocqueville agrees that the reason poetry will never fade away, even in
the seemingly most unidealistic or unadorned of democratic times, is that
our most truth or deluded experience is of the particular, contingent
individual existing for a moment between two abysses, stuck, as it were,
mysteriously between ignorance and knowledge when it comes to himself.
Tocqueville sometimes echoes the Christian Pascal in describing the
greatness and misery characteristic of particular members of our species
alone, which will always be fit subjects for the poetic imagination.
Tocqueville and Percy agree that Christianity, as Pascal says, knows
man, or sees each of us as the “who” — not just the “what” — each of us
really is. And that is why they defend personal religion — religion that
distinguishes between Creator and creature and sees each and every
!
84
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
particular creature in his or her uniqueness — against every alternative,
ancient or modern, superstitious or seemingly scientific. That's not to say
that for either Tocqueville or Percy Pascal's unadorned Christianity
expresses the whole truth, maybe even about Christianity. Pascal is too
much about anxious misery — about the absence of God and the experience
of personal contingency — to account for the joy that we're given as beings
who can know something, if not everything, about ourselves, each other,
and the world we share in common. The truth is that we necessarily
wander, as the beings who are self-conscious and wonder in the cosmos,
and that the being who knows is necessarily somewhat of a mystery to
himself. So our anxiety and joy are inseparable, and we're much more than
miserable accidents.
Tocqueville and Percy also agree that the Cartesian self also too
readily defers to the impersonal or materialistic authority of modern
science. To say you should do what I think is my attempt to rule you. So you
— the Cartesian “I” — won't defer to allegedly reasonable words of
intrusively personal philosophers like Socrates, especially if I display my
personal wisdom by recommending them to you. But if I recommend that
you do what “studies show,” we both defer to the impersonal, objective
authority of science. Science becomes objective by abstracting from the “I,”
by displaying material or “objective” or impersonal reality as the whole of
reality. The scientist can't help but detach himself as scientist from the
reality his study displays, but the status of the scientist is not the topic of
his study. He doesn't hesitate to explain that the “I” that I think I am is an
illusion, that he can explain what I am and what I do. The self-help he
offers me is explaining that my experience of being a leftover can be
alleviated by embracing scientific truth and living according to the insight
that my desires can be satisfied in the way those of the other social animals
can.
Tocqueville says that what offends him about materialistic
theoreticians is that they proudly turn themselves into gods by reducing
those they study to brutes. Percy says that they understand themselves as
pure minds orbiting a cosmos of pure bodies. They describe people as
organisms-in-an-environment and then exempt the experience of
themselves as minds — meaning their intellectual, social experience of the
joy of shared discovery — from that description. The experience of being
pure mind isn't that of the Cartesian “I.” For the scientist, consciousness is
consciousness with other scientists, and truthful discovery that's not selfdiscovery is a social experience not shared with other social animals. But
when the ordinary pop Cartesian turns to the scientific expert for help, he
finds only what the scientific studies show without the experience of the
scientist.
The scientists are surely right to show that there's no place in the
cosmos for an isolated, pointless “I,” just as they’re surely wrong in
!
85
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
implicitly understanding themselves as a community of pure minds wholly
detached from ordinary human concerns. The scientists, as more or less
than minds, are stuck with re-entering the social world of parents, children,
friends, and so forth, and so they can't do so as scientists. They can't help
but find ordinary lives dreary, and so it's not so surprising that nothing
they say can make us non-scientists as happy as they think we should be
with the way they think we live. The scientist — by thinking in terms of
minds and bodies — offers no insight into the connection between mind
and body, and he thinks of both himself and non-scientists too simply.
That's why Tocqueville says that “aristocratic science” — which is all
about the pleasures of the mind — is too proud and “democratic science” —
which is all about satisfying the pleasures of the body (i.e., technology) — is
too humble. And that's why Percy is so clear that people are neither minds
nor bodies nor even some mixture of the two. To be human, to be selfconscious as we are, is to be born to trouble in many senses, but one is to be
full of longings that can't be attributed to either minds or bodies, which
elude theoretical articulation, simple satisfaction, and scientific
measurement. The aristocrat Leo Strauss rightly said that the world is the
home of the human mind, but Strauss himself was more or less than simply
mind. The world described by the physicist, as Percy adds, has no room for
the physicist. And Tocqueville experienced a kind of dizzying disorientation
when thinking too purely or apolitically, because the reality he experienced
had no room for Tocqueville or any great defender of human liberty as
something more than mere philosophy.
What the allegedly pure minds offer the isolated, displaced “I” is the
relief from anxious, dislocated human misery that accompanies
experiencing oneself as other than a body or an organism in an
environment. That program of self-help through self-denial, Percy and
Tocqueville agree, mainly makes at least lots of people more anxious and
restless than ever. They try, as Tocqueville emphasizes and Percy observes,
to lose themselves in materialistic or consumerist diversions, sometimes, as
Tocqueville says, with an insane ardor. The seemingly decent American
materialists, Percy and Tocqueville observe, are actually loony; they don't
know why they're doing or what they're doing. Their material calculation
only diverts them quite imperfectly from what they think they really know.
As the great anti-communist dissident Aleksandr Solzhenitsyn put it, it's
easy to find just under the surface of their methodical pragmatism the howl
of existentialism.
Tocqueville says only their religion keeps their self-destructiveness
from literally becoming suicidal. When they lose their religion or some
other limiting explanation for their experiences of displacement, Percy
agrees, the more thoughtful or insistently self-conscious or undiverted
among them do become suicidal. Despite our best efforts, we're unable to
find in public opinion or scientific expertise the guidance we need in
!
86
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
knowing who we are or what we're supposed to do. Not knowing how to
live, we either lose ourselves with uneven success in diversions, or decide
not to live at all.
Both Tocqueville and Percy seem to class Americans as either shallow
and easily diverted — those Tocqueville calls decent materialists — or deep
and self-destructive, at least when their individualism isn't countered by
religion or the pleasures of political life. For Percy, the struggle of our time
is to come to terms with the possibility of suicide and reject it. That
struggle, in other words, is rediscover the goodness and gratuitousness of
creation being, including one’s own being. For Tocqueville, much of the
goodness of being human can also be discovered through the proud
pleasures of political responsibility. Percy, of course, was aware of that
possibility through the southern Stoics, and he understood the proud
rational man ruling himself and others, with Tocqueville, as a form of
natural human perfection. But it was not, he thought, given to him or as a
real possibility for most prosperous Americans today.
Tocqueville seemed to worry that unerotic individualism would make
American materialists so decent or herd-like that they would surrender any
thought about their futures (including, of course, about their mortality) to a
providential soft despotism of meddlesome, schoolmarmish bureaucrats.
But he also said that religious madness was the inevitable result of the
attempt to divert oneself from the needs of the soul. And Percy seems to
agree that both the religious madness and the secular ideologies of the 20th
century — especially ideological wars or, in a way, huge wars over nothing
— were natural reactions to the emptiness of pop Cartesianism. Some Brave
New World or therapeutic despotism might come, Percy was able to see,
but probably not. He, as a believing Christian, may have had a bit more
faith in the resilience of the human soul or distinctively human nature than
did Tocqueville. He seemed pretty certain, at least, that we would remained
ensouled creatures until the end of time.
!
2. Tocqueville and the Egalitarian Idealism of the Puritans
We can also turn to Tocqueville to flesh out Percy's insight that the
American “countercultures” are Calvinist, Protestant Christianity and
southern Stoicism. Americans aren't Cartesian to the extent that they're
either Christian or aristocratic. The first Americans, he reminds us, showed
up in New England and Virginia. The New Englanders were the pilgrims;
they left their homeland in the service of an idea that’s both religious and
political. They were enlightened family men and women, out to found an
egalitarian city in accord with Christian, Biblical principles. And so they
did. New England was the most democratic place in the world since ancient
Athens. It was, more precisely, the most democratic place ever. The Puritan
“idea” wasn't like the Platonic “city in speech.” It was intended to and did
!
87
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
become real, and it was based on an “idea” that extended equally to all
human beings. The Puritans' idea of justice was far more universal or nonexclusionary than the one found either in Athenian practice or Socratic
theory, but it still remained political or embodied in a real place in this
world.
The ancient democracy, of course, was composed only of citizens and
depended on slaves; equality was merely political or conventional and
didn’t extend beyond the gates of the city or to all people living within those
gates. So even ancient democracies, Tocqueville observes, were really
aristocracies, and even their best thought was distorted by aristocratic
prejudices. But the Puritan city included, in principle, all human beings,
and it was based on the Biblical principle that all human beings are equally
ensouled creatures under God. On that faith-based idea the Puritans built,
in this world, in the direction of universal civic participation and universal
education. No creature rules another by right, and every such creature, to
avoid being seduced by vain or satanic frauds, has to read the world of God
for himself. On that egalitarian insight, the Puritans' political theory,
Tocqueville observes, was amazingly free from prejudice.
In middle-class America, universal literacy was caused by the
requirements of earning a living for oneself. For the Cartesian,
individualistic, egalitarian American, nobody is above — and nobody is
below — having interests. The Puritan agrees that everyone has a duty to
work for himself and in service to others, and so education, contrary to
what aristocrats believe, isn't all about the cultivation of some leisure class.
But, not sharing the Cartesian skepticism about the spiritual dimension of
our existences, the Puritan adds that each of us is more than a being with
interests — and so universal education is about much more than technoutility. The Puritan finds content and so social duties and an eternal destiny
in the irreducible, irreplaceable “I” each of us knows ourselves to be. So for
the Puritan, egalitarian education is also liberal education or “higher”
education.
Tocqueville, it’s true, didn’t call the Puritans Calvinists, but he
describes them as much like the idealistic citizens of Calvin’s Geneva, about
whom Tocqueville knew much at least through his reading of Rousseau.
The downside of the Puritans, in his eyes, was their ridiculous and
tyrannical legislation, their attempt to draw their law from the Old
Testament books of Exodus, Leviticus, and Deuteronomy, their attempt to
criminalize every sin. Tocqueville himself didn’t regard such legislation as
properly Christian, but peculiarly Puritanical or Calvinist.
Tocqueville explains that the Gospels themselves don’t contain any
specific political teaching and so are compatible with a variety of political
orders, including easygoing liberal modern democracy. Tocqueville
emphatically distinguishes Christianity from Islam insofar as Christianity
isn’t about the “law” in the sense of political legislation. It's Christianity, by
!
88
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
teaching the equal freedom of all human beings from enslavement by any
particular political “cave” and its degrading civil theology, that freed every
particular individual from political domination. That's what Tocqueville
means when he says that Jesus Christ had to come to earth to show us the
ways in which all human beings are equal. What Jesus shows us, he
believes, is true—even if what Jesus claims about being God isn't. (There's
no evidence at all that Tocqueville thought Jesus was God, that the
Resurrection actually occurred, that the Trinity is credible, etc.) The
aristocratic philosophers, Tocqueville does say, were blinded by their class
insofar as they accepted slavery as inevitable.
The Christian teaching concerning equality differs from Cartesian
skepticism in not being focused on the isolated individual. It is, as
Tocqueville explains, the main antidote to American self-obsession.
Christianity, like every religion, teaches creatures that they have duties they
share in common. They have such common duties because their souls have
some shared content, a foundation in their Creator through which they can
know and love one another. Christianity teaches Americans that they are
more than empty or self-contained “I’s” — psychologically self-sufficient yet
dependent for their very beings on their contingent and ephemeral bodies.
American preachers, Tocqueville explains, speak about humility, and so
officially are against pride. But by telling people each of their lives has a
unique and irreplaceable immortal destiny, and that there are pleasures far
higher than the pleasures of the body, just as there are duties that go far
beyond mere material utility or deference to the rights of others. Christian
preaching actually inspires the pride connected with any form of
irreducible individuality or moral responsibility or experience of soul.
Tocqueville does find what can be called secular justifications for
some residually Puritanical American legislation — which has to be taken
as evidence that he sees Christianity's personal “anthropology” as true even
in the absence of revelation. He praises how seriously the Americans take
the virtues of chastity and marital fidelity, as well as the ways in which they
exempt women from rigors of middle-class productivity. The American
women calculate that religion serves their true interests as beings born to
be wives and mothers, and they, in a seemingly Christian way, surrender
many of their claims for justice to sustain personal love. Tocqueville
displays the alliance of American priests and American wives and moms
against the ridiculous claims for the unerotic self-sufficiency of American
men.
3. Christianity and the Greatness of Human Individuality
!
89
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Tocqueville's final discussion (volume 2, part 2, chapter 15) of religion
in America moves away from any concern about political utility toward
sustaining the sublime qualities that distinguish human individuality from
all else that exists, from being absorbed into some homogeneous,
materialistic account of the world. There, he calls the American religion
their most precious inheritance from aristocratic times, and the way they
have known the aristocratic truth, found in the philosophic doctrine of
Socrates and Plato, that we are beings capable of transcending our
biological limitations in the direction of immortality. Tocqueville praises
the rest commanded by American law and belief on what might be called
the Puritans' Sunday. That leisure is for beings who know their longings to
be more than mere bodies can be satisfied, for reflection on who they are in
light of their true destiny. Without Sunday, the Americans could easily lose
themselves in the frenzy of restless diversion. They could easily, by thinking
of themselves as less than they really are, become less than they are meant
to be.
Christians believe, against the pretensions of the materialistic experts,
they are more than material beings, and so they're inspired to have
thoughts and perform deeds that stand the test of time. Christianity also
curbs their restless materialism by giving them a view of humanly worthy
leisure (which they enjoy on Sunday), by keeping them from believing that
they need to be constantly diverted from the ephemeral insignificance of
the isolated “I.” Tocqueville, in evaluating Christianity's effect on the
individual, divides the philosophers into pre-Socratic and Epicurean
materialists and the Platonists serious about the soul's immortality.
Christianity originally emerged, he explained, as part of the soul's rebellion
against the Epicurean excesses of the Romans. The pre-Socratic claim
about the transience of everything human was a kind of self-fulfilling
prophecy. None of the pre-Socratics' writings were preserved intact over
time. Meanwhile, the works of Plato, attuned as they are to the true
longings of the souls, remain with us as wholes.
Tocqueville pointedly says that Christianity expresses, for Americans,
what's always true about the aristocrat's proud view of the high purposes of
particular individuals. According to Tocqueville, Christianity functions for
the Americans as a kind of Platonism for the people, a kind of aristocracy
that includes everyone—the egalitarian aristocracy of the Puritans. For
Nietzsche, Platonism for the people suggests that Christianity is a religion
for slaves being diverted from living well now by illusions about their true
home in some other world. Christianity is a diversion or opiate for the
weak. For Tocqueville, the suggestion is that only if people believe that
they're more than the biological beings scientists describe or the empty
leftovers the Cartesians describe can they live well — or achieve their true
greatness — in this world. As Percy puts it, only if we have some credible
explanation for our experiences of homelessness can we be as home as well
as can be with the good things of this world. Christianity is the antidote to
!
90
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
materialism, which is what Tocqueville calls the probably untrue and
certainly pernicious theoretical diversion that makes the weak — the
displaced “I” — weaker. Materialism can't extinguish but it can intensify the
experience of the “I” as pointless leftover in a world otherwise perfectly
comprehensible by impersonal theory. Materialism can have the effect of
turning the sublimity of human longings — and the great thoughts and
accomplishments — into nothing but dizzying, paralyzing disorientation.
No materialist can explain the hopes and longings of the being
capable of experiencing himself as existing for a moment between two
abysses. And Tocqueville agrees with the Socratic Christian Percy that
there's nothing more mysterious and wonderful than the particular human
being, the being who knows but who can't be fully known to himself.
Tocqueville, by connecting magnanimity and humility or pride and the
anxious experience of personal insignificance, comes close, in his own way,
to Thomism — meaning a way of showing that aristocratic Christianity or
classical Christianity or philosophic Christianity aren't oxymorons. His
Platonic or aristocratic affirmation of the truth about the soul or the
sublimity of the highest forms of human thought and action isn't meant to
negate the distinctive contribution of Christianity to the whole truth about
who we are. We can say that Tocqueville offers a Platonic criticism of Pascal
on behalf of the thought that our true greatness includes some justifiable
pride in who we are, but he also offers a Pascalian criticism of the
absolutely self-sufficient pretensions of classical magnanimity and Socratic
philosophy. We can see, in fact, that Tocqueville's talking up of both the
aristocratic and the egalitarian Christianity corresponds to the measured
approach he takes to more pure or complete displays of aristocracy in
America.
4. Tocqueville and American Aristocrats
Tocqueville, in the last chapter of Democracy's volume 1, reports that
he found aristocrats in America both among the Indians and the southern
slaveholders. In each case, men prided themselves on not working, and
they regarded their leisure as noble. They ranked their own beautiful and
useless activity over the productive lives of most men. They regarded
themselves as more free than those whose lives were dominated by work,
material desires, and slavish fear. Both the Indians and the southerners
regarded the tasks worthy of men as hunting, fighting, and giving speeches
about hunting and fighting (political life). Tocqueville rightly regarded the
Indian way of life as defeated by its own vanity and the greedy technopower of the American middle-class. The southern aristocracy — although
based on the monstrous institution of race-based slavery — was still in
some ways a worthy alternative to the middle-class, democratic way of life
of most Americans. Each alternative, Tocqueville makes clear, has its
distinctive virtues and vices, and the southerners basically had the virtues
!
91
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
and vices of any aristocracy. They were both more spontaneous and more
spiritual than the northerners, and so they had a better sense of how to
enjoy life. They found joy in leisurely self-contemplation, and they didn't
work themselves to death in a futile attempt to transform themselves or
their world. They were distinguished by their proud senses of who they are
and what they're supposed to do in ruling themselves and others as
members of a particular class in a particular time and place. But they were
also lazy, selfish in the sense of privileging their class over humanity in
general, and so unjust.
In some ways, Tocqueville presents the southern aristocracy as the
result of an impulse opposite to that which animated the Puritans. New
England was founded on selfless, egalitarian idealism. Its Puritanical vice
was taking the idealistic formation of every human soul through political
legislation far too seriously—or at the expense of individual liberty. Virginia
Tocqueville presents as founded in pure selfishness. The first Virginians
were “classless” in the precise sense: They lacked the manners and morals
— the decency — that come from being formed according to moral code.
They were solitary adventurers — coming to America without family or
friends — in search of easy money. They lacked the self-discipline that came
either from being a Christian or being productive members of the middle
class. They unjustly wanted to have plenty of everything with very little
work. They were pretty much pirates. It's hardly surprising that slavery so
readily took root in Virginia and the rest of the South.
That founding selfishness was transformed into an aristocracy
through generations of experience with slavery. The Virginians began to
take pride in their noble leisure, and they began to take on the habits and
opinions of cultivated gentlemen. They began to think of themselves as
members of an aristocratic class, and they developed both the virtues and
vices of any such class. They were both better and worse than the Puritans.
They were better insofar as they displayed a kind of intellectual and
political greatness not characteristic of either Puritanical or later middleclass America. But that really meant that their selfishness was sublimated
or elevated, and it continued to depend on the monstrous, increasingly
spiritualized despotism of race-based slavery. They attempted to degrade a
whole class of human beings to subhuman servitude, to reduced beings
without the longings that flow from their freedom. The Puritans
idealistically devoted themselves to displaying the qualities of soul of
everyone through political and religious life, and they thought that no
creature was above working both for himself and for the service of others.
The Virginians, in the name of a certain vanity about their own souls,
worked harder and harder to deprive other men of their souls, to turn them
to beings fit for nothing more than working for others.
The Virginians' criticism of the Puritan is their repressive moralism.
They regarded “abolitionism” as one example of many of the fanatical
tendency to both criminalize every sin and to judge the diverse choices of
!
92
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
others as sins. Aristocratic manners and morals, there are — there's class!
But it can't be required by law. The Virginians weren't about outlawing sin,
and they had a sophisticated tolerance when it came to diverse displays of
individuality. So it was a Virginian who wrote the unforgettable words
about the inalienable rights of individuals and established in our country
the principle of pure religious liberty. When the classical or Epicurean (or
basically Greek and Roman) Jefferson thought about a free display of one's
individuality, he wasn't thinking at all about the decent “bourgeois”
materialism of members of the middle class. For him, religious liberty was
primarily about protecting the cultivated gentleman and his refined
skepticism from those who would use popular piety as a political tool.
Tocqueville rightly never describes the leading men — the aristocratic class
— of the South as fundamentally Christian. When he says that it was a lucky
accident that our Framers — the men who came up with the Constitution —
were basically aristocrats, he was thinking in some large part about
southerners.
5. Education for Civilization
The Puritan and the American aristocrat are, when it comes to justice
and moral legislation, opposite extremes. But they unite in opposing the
materialism of the solitary “I” or self-obsessed individual that is the purely
middle-class American. They were clear on who they are and what they're
supposed to do as members of a class or community. And they agreed that
education is, most of all, about the soul — for the cultivation of a being not
determined by the impersonal forces that surround him or defined merely
by the requirements of earning a living. The Puritans and the Southerners
were about, in different ways, civilization. Restlessly opposed to civilizing
influences, Tocqueville shows, were middle-class Americans who thought
of education as merely indispensable for acquiring technical skills, and who
identified philosophy and science with technology or the transformation of
nature with bodily need in mind. The American individualist is constantly
running from civilization to some solitary place on the frontier. The
individualistic or emotionally self-absorbed American, on his own, resists
having his heart and soul enlarged by a particular “city” or political and
religious society.
The aristocrat, in Tocqueville's eyes, is about reading the Greek and Roman
authors to learn how to govern himself and others, and to learn the proud
truth about what it means to be a rational man born to use his leisure to
take pleasure in discovering the truth for its own sake. Aristocratic science,
Tocqueville observes, is about pleasures of the soul, democratic science
about pleasures of the body. The truth, the aristocrat believes, is
pleasurable because it enhances his self-conscious pride in his soulful
human greatness; the democrat is too skeptical about the soul or
immaterial being to believe that he can know anything more than what he
can use to sustain his biological being. About himself, the democratic “I”
!
93
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
only knows that he's not nothing, and he's stuck with sustaining his
characterless and so anxiously displaced being on his own. But the
aristocrat, as they say, knows that he's somebody, a being with the
significance of both individuality and being securely located in a particular
place or class. So he has confidence in his personal capabilities, that he, as a
moral and political being, can have a real effect on the world.
Tocqueville recommends that, in democracy, those following literary
careers should read the Greek and Roman authors in their original
languages. We can easily say, after reading Percy, that Tocqueville
recommends for democratic writers a kind a Stoic education. That way our
writers will acquire aristocratic habits of mind, and they'll learn how to
read books written with care for a small audience that has the leisure to
read closely. The danger is that metaphysics and theology will lose ground
in democratic language, and words will become more exclusively technical,
commercial, and administrative. A corresponding danger is that people will
lose confidence in being able to rule themselves and others, and so the very
words they use will suggest their passive, fatalistic dependency. One
antidote to this abstract and shallow impoverishment of democratic
language is elevated by the best aristocratic books. They can be expected to
infuse democratic language with words that express the distinctions and
longings democracy can't help but neglect. Democratic prejudices or partial
truths will be countered by aristocratic prejudices or partial truths. The
truth is, Tocqueville says, that aristocrats unrealistically exaggerate, for
example, the effect of great men on historical change, just as democrats—
with their impersonal theories all about “forces” — unrealistically or
dogmatically deny that effect.
Tocqueville doesn't recommend close study of the Greek and Roman
authors for most Americans. It will arouse in them longings that can't be
satisfied in the routine of middle-class life, making them more restless and
more dangerous than they need be. In most cases, it appears, Tocqueville
is, in democratic times, for technical education supplemented by religion
and some involvement in local politics. He's with the Puritans insofar as he
notices that everyone has the needs of the soul, which get distorted and
disoriented when they're ignored. That doesn't mean that, on education, he
was as idealistically egalitarian as a Puritan. Because the Puritan idea was
radically Christian, it couldn't distinguish between a class suited for what
we call liberal education and a class suited for work in the ordinary or
technical sense of the term. Both liberal education and work — truth and
justice or leisure in the aristocratic sense and productivity in the middleclass sense — are for everyone. From Tocqueville's view, the Puritans
expected too much of ordinary people.
Tocqueville, insofar as he criticizes the Americans for the lack of great
literature and free thought, is for the development of some higher
education in America. He seems to be close to the suggestion that American
!
94
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
higher education, outside of the sciences, should be some combination of
aristocratic and Christian books. What's best about the greatness of proud,
aristocratic individuality should be tempered by Puritanical devotion to
egalitarian justice, and vice versa. Surely American education, in his eyes,
wouldn't be merely some combination of aristocratic prejudices and
democratic technology. The Christian element, surely, would have to be
somehow more than mere dogma; otherwise the educated American would
only embrace Christianity for its political utility, with no sense of why he or
she should be devoted to the proposition that all men are created equality.
Surely he makes it abundantly clear that the Lockean/Cartesian defense of
that proposition is inadequate.
So Tocqueville seems, from this view, most attracted to a kind of
Catholicism purged of any connection with the prejudices of aristocratic
injustice, which wouldn't be so different from the Puritanism he described
purged of a kind of un-Christian political fanaticism, a Puritanism
transformed by a criticism based on both the purely Christian and
aristocratic views of freedom. Tocqueville would be most for a religion that
corrected classical magnanimity — with its devaluing of the lives or
freedom of most human beings — without obliterating it. He's for
preserving the real truth it teaches about human greatness and the real — if
quite imperfect and finally ambivalent — pleasures of political life.
The dialectic between pride and anxiety or magnanimity and
something like humility — between overvaluing one's personal significance
and experiences of utter personal contingency or insignificant emptiness —
is what animated Tocqueville’s own life. It's the one that expresses what's
true about both the aristocratic and too radically Christian (in his eyes,
Pascalian) experiences of the human soul. In Tocqueville's most truthful
reflections about himself, he found his pride in personal, political
significance and virtue to be genuine, but his anxiety about his real
significance equally so. He presents the most characteristic human
experiences as the pride or greatness of statesmanship (purely aristocratic
truth) and the anxiety in the face of the truth about the personal
contingency of us all (purely democratic truth). For anyone who really tells
the truth to himself about himself — as Tocqueville says he does in his
Souvenirs, self-confidence never exists without self-doubt, and no
confident display of human greatness is completely free from diversion.
6. The Delayed Contribution of the South
!
95
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
We have to remember Tocqueville doesn't highlight the ways the
southern aristocracy could contribute to a more general American
understanding of who we are. He doesn't describe the southerners as
particularly attached to Greek and Roman literature (although they were)
or elevating the general quality of American language. He says there's no
American literature worth talking about, and he doesn't, as anyone would
today, talk about the distinctiveness of southern literature. That's probably
because, as Percy observes, the southerners expended all their literary
energy in the decades immediately prior to the Civil War defending racebased slavery, a singularly indefensible cause for any decent man.
Tocqueville saw the South as doomed — and rightly so — and as making no
contribution to our country's or the world's increasingly modern future. He
really can't explain why the study of the Greek and Roman authors won't
just wither away in America or why American education became more
purely technical or utilitarian. From Percy's perspective, Tocqueville's
American seems to need a more literary version of the aristocratic South
than he could actually find.
The thought that the South might make an enduring contribution to
curbing American pop Cartesianism, it seems, couldn't be taken seriously
until after the Civil War. The South, we might say, is liberated to make that
contribution by being freed of the monstrous task of defending slavery in
thought and deed. Orestes Brownson, in the unjustly neglected The
American Republic (1865), said, immediately after the war, that the true
interpretation of the American Constitution, the one that does justice to the
whole truth about the material, political, and spiritual dimensions of being
human, combines southern particularity with northern universality. The
South is all about the assertion of the particular individual — by itself a
tyrannical assertion — but an assertion that displays emphatically part of
the greatness of who each of us is. The South is, in this sense, too personal.
The North — both in its materialism and in the fanaticism of
Puritanical abolitionism — is too universal or general or destructive of
human distinctiveness. The particular individual is dissolved into a kind of
abstract humanitarianism — a seductive doctrine that preys upon the
weakness of the displaced “I” in an anonymous world. Northern
abolitionism, in Brownson's expansive understanding, culminates in the
homogeneity of both materialism and pantheism. But the North, of course,
is also strong on the universal principles of justice, on not exempting proud
individuals from the social and political responsibilities we are all share.
So Brownson suggests, thinking along lines remarkably similar to
Tocqueville, that the proper combination of southern particularity — or its
concern for particular persons and places — combined with northern
universality — especially at its highest levels of coming to terms with our
shared embodiment and equality under God — is pretty much the real truth
about who we are as whole human beings. So it turns out, Brownson
concludes, that America is the most Catholic of nations. I say this only in
!
96
© Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
passing because his admirably subtle philosophic and poetic attempt to
convince Americans of that fact didn't catch on anywhere. I do say it in
passing to show that a strongly anti-slavery, Yankee, very deep and fairly
astute thinker could say that the aristocratic South was partly right in its
criticism of the emptiness of American Cartesianism. Surely Tocqueville
writing later would have done the same.
We know, of course, that the Southern aristocrats returned to power
for a while after the Civil War. They lost the war but through what
amounted to a successful terrorist movement forced the Union troops out
of their states and restored “white rule”. The southern Stoics viewed
themselves as ruling the blacks and ordinary whites paternalistically, as
gentlemen who by nature and education deserved to rule. Their class was
displaced in the early 20th century by more “populist” or angrily racist and
vulgarly democratic political leaders, and the stoic self-consciousness
morphed into being members of an honorable class that had ruled
responsibly, fought nobly against overwhelming force in a great war, and
had been involved in a futile effort to resist its inevitable decline and fall in
a democratized world where there would be no place for them. Freed up
from having to defend slavery, their literary efforts turned to the
articulation of the experience of sustaining oneself in a world where one
had been morally and politically dispossessed. It became a criticism of a
world in which those in charge were incapable of recognizing who they are.
On another occasion, I will show how Percy employed proud, literary,
philosophic southern aristocratic thought to provide what must be
regarded as a missing element in Tocqueville's attempt to display the
partial truths of both aristocracy and Calvinist Christianity in America in
the service of his general project to reconcile aristocratic greatness with
egalitarian justice.
!
!
97
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Siamo liberi perché fallibili
di Dario Antiseri
1. Il ricercatore scientifico:
un realista critico senza certezze assolute
Notevoli sono i meriti dell’antropologia culturale con l’attenzione
prestata alla “logica” delle culture “altre”, per lo sforzo teso alla
comprensione dei “diversi”, e per il conseguente atteggiamento di
rispetto generato da questa più diffusa comprensione. In ogni caso, resta
tuttavia irrisolto il problema più impellente: un problema di natura
filosofica. Di fronte alla pluralità di visioni del mondo e dell’uomo
filosofiche e religiose, di fronte a concezioni etiche differenti e non di
rado in irriducibile contrasto, si erge un interrogativo non evitabile:
abbiamo un criterio – un criterio razionale – per scegliere un’etica
invece che un’altra, una fede religiosa piuttosto che un’altra?
Va da sé che nella ricerca scientifica scegliamo di volta in volta la
teoria, se c’è, che resiste ai controlli più severi. Siamo ben consapevoli,
per ragioni logiche e argomenti epistemologici, che nulla vi è di certo
nella scienza, né gli asserti universali né gli asserti singolari (proposizioni
di osservazione). Non c’è, dunque, assolutismo nella scienza, in quanto
non abbiamo un criterio in grado di stabilire se una teoria è
assolutamente vera: ogni teoria, anche la meglio consolidata (in fisica e
in biologia, in economia come in chimica, in storiografia e in filologia),
resta sempre sotto assedio. Avanziamo per tentativi ed errori: l’errore
commesso, individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci
permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. Il ricercatore
scientifico, in altri termini, ha abbandonato il mito della certezza ed ha
abbracciato l’ideale del progresso conoscitivo. Non è un dogmatico
assolutista, ma non è nemmeno un relativista nel senso che per lui vada
bene qualsiasi teoria; che, per esempio, la danza dello stregone abbia lo
stesso valore della teoria della penicillina o che la teoria tolemaica valga
quanto quella copernicana. Il “relativismo epistemologico”, stando al
quale – in alcune sue formulazioni – il paradigma della scienza
occidentale non sia superiore ad altri paradigmi, non regge.
99
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Indubbiamente, non esiste una fonte privilegiata di verità, le idee buone e
feconde possono avere le fonti più disparate, ma sta il fatto che le teorie
con le quali si intendono descrivere, spiegare e prevedere pezzi o aspetti
della realtà devono essere controllabili sulle loro conseguenze fattuali; e,
sebbene i “fatti” non costituiscano una corte di sentenze inappellabili,
sono però il miglior tribunale a nostra disposizione: i “fatti” – quelli che
di volta in volta reputiamo essere i fatti – possono dire sì o no alle
domande poste dalla teoria. Dunque: il ricercatore scientifico non è né un
dogmatico né un relativista. Semplicemente, non è un assolutista. È un
razionalista critico. Con Popper: «La scienza è fallibile perché la scienza è
umana». Ma è falso che “everything goes”.
2. Filosofi tra teorie criticabili e teorie indecidibili
Una volta assunta la falsificabilità di una teoria quale criterio di
demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non è scientifico, segue
che le teorie filosofiche sono tali esattamente per la ragione che esse non
sono fattualmente falsificabili. Difatti, se fossero falsificabili tramite il
ricorso ai fatti, sarebbero scientifiche. Ma così non è. Filosofie asserenti
l’esistenza di Dio o forme diverse di ateismo; antropologie filosofiche
(l’uomo è solo corpo; l’uomo è anima e corpo; l’uomo è libero, l’uomo è
determinato; l’uomo è il suo inconscio, l’uomo si riduce ai suoi
comportamenti osservabili; ecc.); filosofie della storia (la storia è guidata
da ineluttabili leggi – di decadenza, di progresso, cicliche –, la storia non
ha alcun senso); concezioni dello Stato (forme di totalitarismo, forme di
democrazia); filosofie della matematica (platonismo, intuizionismo);
filosofie della scienza (induttivismo, operazionismo, falsificazionismo,
ecc.); gnoseologie (realismo, idealismo, ecc.); e ancora: filosofie della
morale e del diritto, filosofie dell’arte, filosofie della religione sono teorie
filosofiche e, proprio in quanto tali, non scientifiche.
Le idee filosofiche sorgono come risposta a problemi filosofici. E
restano, appunto, filosofiche proprio perché non selezionabili in base al
ricorso ai fatti. Ora, però, queste teorie, a volte decisive, nel bene e nel
male, nella storia umana, non essendo scientifiche sono forse irrazionali?
In altri termini: la razionalità è un attributo delle sole teorie scientifiche
ovvero è possibile dichiarare razionali anche le teorie filosofiche? E in che
senso queste teorie sono razionali, qualora lo siano?
Ebbene, a tale interrogativo la soluzione elaborata all’interno del
razionalismo critico da K.R. Popper, J. Watkins, J. Agassi e soprattutto
da W. Bartley è la seguente: le teorie filosofiche sono tentativi di risposta
a problemi filosofici e quantunque non falsificabili fattualmente, esse
sono razionali se risultano criticabili; e sono criticabili allorché possono
urtare, entrare in collisione con un pezzo di Mondo 3 (un teorema logico,
un risultato matematico, una teoria scientifica, un’idea metafisica, ecc.)
all’epoca ben consolidato e al quale all’epoca non siamo disposti a
100
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
rinunciare.
Di seguito qualche rapidissima esemplificazione della concezione
metafilosofica ora esposta: l’induttivismo – almeno in una sua accezione
– crolla se è vero che non si dà passaggio logico da una n quantunque
elevata di osservazioni analoghe reiterate al quantificatore universale
“tutti”; la concezione dialettica marxista è mitologia, solo che si ponga
attenzione al fatto che una contraddizione logica è tutt’altra cosa che una
contraddizione dialettica, la quale è, invece, un contrasto fattuale (per
esempio, lotta tra classi sociali) da spiegare tramite teorie non
contraddittorie e fattualmente controllabili; il materialismo storico
risulta inconsistente in quanto, assolutizzando l’influsso dell’aspetto
economico sugli eventi storico-sociali, un fatto subisce l’indebita
metamorfosi in una entità metafisica; lo storicismo – inteso come la
pretesa di cogliere le leggi di sviluppo della storia umana nella sua
totalità – è una pura superstizione, se è vero che non è possibile la
costruzione di un autopredittore scientifico (la società dipende in gran
parte dalla tecnologia all’epoca disponibile e, quindi, dalla scienza
all’epoca disponibile; ma la scienza di oggi non prevede la scienza di
domani e, quindi, la tecnologia di domani; ragion per cui non è
prevedibile l’assetto della società nel suo futuro); la psicoanalisi non è
scientifica, come presume di essere, se le sue teorie nascono e si
preservano immuni dalle falsificazioni fattuali; il principio di
verificazione, nucleo centrale della prospettiva neopositivistica viennese,
non è accettabile, se non altro a motivo del fatto che è
autocontraddittorio (il principio sostiene che una proposizione per aver
significato deve essere empiricamente verificabile; ma il principio è una
proposizione che non è verificabile e, dunque, è un puro e semplice nonsenso); la teoria nella quale si sostiene che esisterebbe un metodo per le
scienze naturali e un diverso metodo per le discipline umanistiche mostra
la sua infondatezza qualora si riesca a far vedere che il metodo per trial
and error è lo stesso procedimento posto in atto nel “circolo
ermeneutica” teorizzato da H.-G. Gadamer. Si potrebbe seguitare con
tantissimi altri esempi di critiche a teorie filosofiche effettuate sulla base
di pezzi di Mondo 3 di volta in volta accettati per validi. Dunque: le teorie
filosofiche sono razionali se criticabili e, nel corso delle argomentazioni
critiche che intessono la storia del pensiero filosofico, vengono via via
assunte per valide quelle teorie che resistono agli attacchi della critica. È
in questo modo che la vita delle teorie filosofiche è una disputatio
continua, in un “ambiente” creativo e critico: creativo di ardite
prospettive, e critico sulla base di argomenti che possono favorire per un
certo tempo una teoria o scalzarne un’altra. E può anche accadere che, se
si accettano certi determinati presupposti, cioè pezzi di Mondo 3
considerati validi, allora alcune teorie filosofiche diventano indecidibili.
Così, per esempio, se si accetta l’idea kantiana, stando alla quale la
categoria della causalità non può avere un uso trascendente, allora il
problema dell’esistenza di Dio diventa un problema razionalmente
101
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
indecidibile. Di conseguenza, le “classiche” vie per l’esistenza di Dio
proposte da san Tommaso potrebbero mostrare il loro valore solo a patto
che si sia in grado di distruggere il presupposto kantiano relativo
all’impossibilità di un uso trascendente della categoria di causa.
3.
Problemi politici generati dall’“ostinato
ed irriducibile”pluralismo di sistemi etici e di visioni
del mondo filosofiche e religiose
A ben vedere, dunque, la nostra ansia di poggiare su fundamenta
inconcussa non viene soddisfatta dalla ricerca senza fine della scienza e
della filosofia. Non tutte le teorie filosofiche sono razionali. Ne esistono,
come abbiamo visto, anche di indecidibili: visioni del mondo filosofiche
indecidibili. E questa è una conquista razionale che dovrebbe renderci
cauti nel proclamarne l’indiscussa verità. E razionalmente indecidibili
sono le fedi religiose, prospettive di senso globale la cui pluralità, proprio
perché razionalmente indecidibili, resta ineliminabile. In realtà, se una
fede religiosa venisse ingabbiata nella morsa della ragione scomparirebbe
come fede. E non è da pensare che l’ateismo, nelle sue varie forme ed
espressioni, sia una prospettiva scientifica: è una fede filosofica. Il
pluralismo delle fedi (comprese, appunto, le varie forme di fedi atee) è un
fatto. Un fatto è il pluralismo di sistemi etici. E se la scienza crea, se non
altro attraverso la tecnologia, un mondo unico, le scelte etiche, le fedi
filosofiche e le fedi religiose, lo lasciano diviso, quando non lo dilaniano.
Se si ha paura di parlare di relativismo, parliamo pure di pluralismo.
Tale pluralismo è un dato di fatto e volerlo negare equivarrebbe a negare
l’esistenza della Luna e del Colosseo. Ora, come atteggiarci di fronte a
questo “ostinato e irriducibile” dato di fatto? Esistono argomenti
razionali convincenti in grado di scardinare la pluralità di princìpi etici
diversi e magari contrastanti e la diversità di fedi filosofiche e religiose, e
simultaneamente in grado di offrire un indiscusso e certo fondamento
razionale di un unico sistema etico, di un’unica filosofia, di un’unica fede
religiosa? E se questo non è possibile, cosa può fare la ragione sul piano
politico, in modo da garantire una civile convivenza tra uomini portatori
di valori differenti e di fedi diverse? Indifferenza, convivenza e più spesso
conflitti e talvolta tragedie hanno segnato nel passato e segnano tuttora i
rapporti storici e sociali tra culture, civiltà, tra i diversi gruppi umani:
diversi innanzitutto e sopratutto per concezioni etiche e per prospettive
filosofiche o religiose della vita. Certo, non sono mancati,
fortunatamente, anche casi di felici contaminazioni. Ad ogni modo, non
si può dar torto a Pascal quando scrive che «il furto, l’incesto, l’uccisione
dei figli e dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose»,
«singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei
Pirenei, errore di là». Partendo dalla pura esperienza – ripete Max Weber
con John Stuart Mill – si giunge al politeismo dei valori. «Chi vive nel
102
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
mondo – annotava Weber ne La scienza come professione (1917) – non
può non sperimentare in sé una lotta tra una pluralità di valori, valori dei
quali ciascuno, preso per sé, appare impegnativo: dovrà scegliere quale di
questi dèi vuole servire, ma sempre si troverà in conflitto con qualcuno
degli altri dèi del mondo».
Dinanzi ad un pluralismo etico e religioso, che ai nostri giorni è già
realtà anche nelle nostre contrade più isolate e sperdute, sta montando
una marea antirelativistica, predicata da disparati “minareti”, alcuni
addirittura insospettabili. E sorprende che non pochi (anche se non sono
i soli) di coloro che fino a ieri vedevano il Male assoluto dell’Occidente
nella proprietà privata e nel capitalismo, oggi individuino – con
immutata sicurezza e arroganza – il Male dell’Occidente nel Relativismo.
Quando per relativismo si dovesse semplicemente intendere il
pluralismo di concezioni etiche, non ci sarebbe affatto problema. La
questione si complica allorché, di fronte al pluralismo delle concezioni
etiche o anche religiose, si dice che ognuna di queste concezioni vale
l’altra, che tutte sono uguali e tutte valgono zero. È questa una posizione
“ideologica”, non scientifica. La realtà è che i sistemi etici non sono
affatto tutti uguali – anzi, essi sono diversi l’uno dall’altro. E non li
rende uguali la loro non fondabilità razionale. Non si dovrebbe mai
dimenticare che i differenti sistemi etici rappresentano una sfida per la
coscienza di ogni individuo: principi etici differenti comportano
conseguenze pratiche differenti, ed essi resistono finché resiste la scelta
di queste conseguenze. Dunque, per dirla con Wittgenstein: «La credenza
fondata si basa sulla credenza infondata». E per essere ancora più chiari:
c’è un criterio in grado di offrire un fondamento razionale, ultimo e
definitivo, valido per tutti di questo o quel principio etico, cioè di questo
o quel valore? Per quanto si possa vedere, sia sul piano storico che su
quello teorico, simile criterio non esiste. Infatti, in ambito etico, non è
possibile il conseguimento di un fundamentum rationale inconcussum. E
ciò per la ragione – chiara in logica deontica – che una norma si fonda,
all’interno di una argomentazione, presupponendone almeno un’altra, e
questa la si accetta perché ne viene presupposta ancora un’altra. E così in
avanti fino a che si giunge a quella norma (o a quell’insieme di norme)
che fonda (o fondano) il sistema, ma che, da parte sua (loro), non si
fonda (o non si fondano) su nulla. Esse non derivano logicamente da
altro. Sono norme poste, pre-poste all’intero sistema: sono proposte
etiche. E queste non si fondano né si confutano. Si accettano o si
respingono. Si potrebbe dire che l’inderivabilità logica delle norme dai
fatti (e cioè la cosiddetta “legge di Hume”) è la base logica della libertà di
coscienza. I valori supremi sono oggetto di scelte di coscienza: non sono
né teoremi “dimostrati” né assiomi “autoevidenti” e “autofondantisi”.
Certo, non è escluso che le conseguenze di una scelta etica possano
rivelarsi “insoddisfacenti”; e allora il principio potrà venir messo in
discussione e magari abbandonato. Ma in questo caso si saranno scelti
altri valori – quelli incarnati nelle conseguenze diverse da quelle
103
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
“insoddisfacenti”. La scelta rimane inevitabile. Inevitabile, quindi, il
relativismo in etica, o, se si ha paura di questa espressione, il pluralismo
in etica. Il pluralismo non rende i sistemi etici uno uguale all’altro – ogni
sistema etico è diverso dall’altro. Abbracciarne uno invece di un altro
dipende dalla nostra intelligenza e accettazione delle conseguenze che ne
derivano e dal nostro coraggio ovvero dalla nostra stupidità o
vigliaccheria. “Ama il prossimo tuo come te stesso” non è la stessa cosa
dell’“occhio per occhio, dente per dente”.
4. La “legge di Hume”: una legge di morte per il diritto naturale
Nel terzo libro del Treatise of Human Nature (1739-1740) David
Hume scrive: «In ogni sistema di morale con cui ho avuto finora a che
fare, ho sempre notato che l’autore procede per un po’ nel modo
ordinario di ragionare, e stabilisce l’esistenza di un bene, oppure fa delle
osservazioni circa le faccende umane; quando all’improvviso mi
sorprendo a scoprire che, invece di trovare delle proposizioni, rette come
di consueto dai verbi è e non è, non incontro che proposizioni connesse
con dovrebbe e non dovrebbe. Questo mutamento è impercettibile, ma è
della massima importanza. Poiché questi dovrebbe e non dovrebbe
esprimono una relazione o affermazione nuova, è necessario che si
adduca una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, cioè del
modo in cui questa nuova relazione può essere dedotta dalle altre, che
sono totalmente diverse da essa».
In realtà, questa ragione non può essere addotta, giacché da
proposizioni descrittive possono venir logicamente dedotte unicamente
proposizioni descrittive: l’informazione non produce imperativi. E,
dunque, non si passa dall’essere al dover essere. Questa, in breve, è la
“legge di Hume”, la grande divisione tra asserzioni indicative e asserzioni
prescrittive, tra fatti e valori. E tale legge è, per dirla con Norberto
Bobbio, una legge di morte per il diritto naturale.
Che esistano, che sia possibile individuare ed enunciare, e poi
razionalmente fondare valori etici universalmente validi: è questa la
pretesa centrale della tradizione giusnaturalistica. E si tratta di una
pretesa fondazionista, frutto di una ragione che si reputa forte. Scrive
Cicerone nel De re publica (III, 22): «Vi è una legge vera, ragione retta
conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, tale da
richiamare con i suoi comandi al dovere, e da distogliere con i suoi divieti
dall’agir male. A questa legge non è possibile che si tolga valore né è
lecito che in qualche caso si deroghi, né essa può essere abrogata: da
questa legge non possiamo essere sciolti a opera del senato o del popolo
[...]. Essa non è diversa a Roma o ad Atene, non è diversa ora o in futuro;
tutti i popoli, invece, in ogni tempo, saranno retti da quest’unica legge
eterna e immutabile; e unico comune maestro, per così dire, e sovrano di
tutti, sarà Dio; di questa legge egli solo è l’autore, l’interprete e il
104
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
legislatore, e chi non gli ubbidirà rinnegherà se stesso, e rifiutando la sua
natura di uomo per ciò medesimo incorrerà nelle massime pene, anche se
potrà essere sfuggito ad altre punizioni».
Dinanzi a siffatta definizione che Cicerone offre del diritto naturale,
viene spontaneo chiedersi: esiste davvero questa «legge vera, ragione
retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna»? Qual è?
Come può essere fondata? E tale eventuale (e, in ogni caso, più volte
tentata) fondazione che valore ha? Benedetto Croce racconta che,
quand’era ancora studente all’Università di Roma, gli fu assegnata
un’esercitazione sui diritti innati dell’uomo. Ebbene, scrive Croce
(Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, 1916),
«dopo avervi lavorato intorno alcune settimane, mi presentai infine al
professore a dichiarare, assai confuso e umiliato, che nel corso dello
studio ero stato tratto a ridurre quei diritti a numero via via sempre
minore, e che me n’era rimasto tra le mani uno solo, e quel solo
anch’esso, in ultimo, non so come, era sfumato». Ed ecco cosa la sapienza
storica faceva dire al Muratori: «La sperienza ci fa conoscere essere la
ragione naturale un tal nome che si torce in varie maniere; e se voi
dimandate a due avvocati contrari e a due giudici di contraria opinione,
ognuno di essi sosterrà, stare la ragione naturale dal canto suo» (Dei
difetti della giurisprudenza, III). Ma, a parte tutto ciò, è chiaro – afferma
N. Bobbio (in Giusnaturalismo e positivismo, 1965) – che, «anche se
l’accordo su ciò che è naturale fosse massimo, non ne deriverebbe
necessariamente l’accordo unanime su ciò che è giusto e ingiusto».
5. La scienza sa; l’etica valuta
Nella realtà della vita si giunge al politeismo dei valori perché dalla
prospettiva logica i valori e le norme etiche sono proposte (di “ideali di
vita”, di azioni “corrette”, di leggi “giuste”, di istituzioni “valide”, ecc.) e
non proposizioni indicative. L’etica non de-scrive; essa pre-scrive. L’etica
non spiega e non prevede; l’etica valuta. Difatti, non esistono spiegazioni
etiche. Esistono soltanto spiegazioni scientifiche; e valutazioni etiche. Né
si danno previsioni etiche (o estetiche). L’etica non sa. L’etica non è
scienza. L’etica, per usare un’espressione di Uberto Scarpelli, è senza
verità.
Se l’esser vero (o falso) è un predicato delle proposizioni indicative,
se dunque la verità è un attributo della scienza (e di altre proposizioni
indicative), questa scienza – tutta la scienza e qualsiasi altra teoria
descrittiva, magari metafisica – non può logicamente produrre etica. E
non lo può – vale la pena insistervi – per la ragione che da proposizioni
descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi.
Conseguentemente, dall’intera scienza non è possibile spremere un
grammo di morale. Tutto il sapere concepibile non produce valori, né
può smentirli. Si chiede Max Weber: «Chi vorrà provarsi a “confutare
scientificamente” l’etica del Sermone della Montagna, per esempio la
105
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
massima: “non far resistenza al male” oppure l’immagine del “porgere
l’altra guancia”? ».
La scienza sa (sempre parzialmente e in modo congetturale); l’etica
valuta. L’etica non sa; la scienza non valuta. Le norme (etiche e
giuridiche) non sono logicamente derivabili da asserti descrittivi. Per
questo era nel giusto Wittgenstein allorché, verso la fine del Tractatus
logico-philosophicus, asseriva che «noi sentiamo che se pure tutte le
possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della
nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati». E, ancora Weber, sempre
in una pagina de La scienza come professione, si chiede quale sia il
significato della scienza come “vocazione”. Ed ecco – scrive Weber – che
«la risposta più semplice è stata data dal Tolstoj con queste parole: “La
scienza è assurda, perché non risponde alla sola domanda importante per
noi: che dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?”». Nella scia di Kant,
dunque, Wittgenstein e Weber insistono sull’esistenza di interrogativi (i
più importanti per noi) ai quali la scienza non può rispondere per
principio. E con loro è d’accordo Edmund Husserl. Costui, proprio
all’inizio della Crisi delle scienze europee, scriverà che: «Nella miseria
della nostra vita [...] questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude
di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il
quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i
problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo
complesso».
Quando rifletto su questi argomenti, si affacciano alla mia mente i
volti di amici cattolici sostenitori convinti del giusnaturalismo, e ricordo
le tante discussioni avute con loro nel corso ormai di decenni: loro con i
loro argomenti, io con i miei. E a tutti questi miei amici, “gran
dimostratori al cospetto del Signore” (l’espressione è di G.E. Moore),
voglio confessare che sempre più convincente mi appare la seguente idea
di Pascal: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dall’inutile ricerca del vero
bene, al fine di tendere le braccia al liberatore».
6. Chi ha ragione: il “relativista” Kelsen o il “fondazionista” Brecht?
Nel campo delle scienze empiriche «chiunque tenti di fare il
magistrato viene travolto dalle risate degli dèi», questo affermava
Einstein; e per Tarski «noi non conosciamo e abbiamo molto poche
probabilità di scoprire un criterio di verità – che ci consenta di
dimostrare che nessun enunciato di una teoria empirica è falso». Le
teorie scientifiche, dunque, non poggiano sulla roccia, ma sulle palafitte.
E ora ci si vorrebbe far creder che è l’etica a poggiare sulla roccia di una
razionalità incontrovertibile e fondazionista, piuttosto che sulla scelta di
coscienza di ogni uomo e di ogni donna.
Il 17 maggio del 1951 Hans Kelsen tenne la sua ultima lezione a
Berkeley e, in quell’occasione, confessò apertamente di non aver risposto
106
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
alla cruciale domanda su che cosa sia la giustizia: «La mia unica scusa è
che, a questo riguardo, sono in ottima compagnia: sarebbe stato più che
presuntuoso far credere [...] che io sarei potuto riuscire là dove erano
falliti i pensatori più illustri. Di conseguenza, non so, né posso dire, che
cosa è la giustizia, quella giustizia assoluta di cui l’umanità va in cerca.
Devo accontentarmi di una giustizia relativa e posso soltanto dire che
cosa è per me la giustizia. Poiché la scienza è la mia professione, e quindi
la cosa più importante della mia vita, la giustizia è per me
quell’ordinamento sociale sotto la cui protezione può prosperare la
ricerca della verità. La “mia” giustizia, dunque, è la giustizia della libertà,
la giustizia della democrazia, in breve, la giustizia della tolleranza». E qui
va chiesto agli antirelativisti: tolleranza e democrazia sono possibili tra
quanti si sentono padroni di verità assolute e in possesso di valori
esclusivi? Costoro non si sentiranno piuttosto in diritto e in dovere di
imporre ad ogni costo, a costo anche delle più orribili sofferenze, il
“Vero” e il “Bene” di cui si propongono quali possessori o interpreti ed
esecutori legittimati? E allora ha torto Kelsen ad affermare che «il
relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica
suppone»? E quale è mai l’immediata conseguenza del rifiuto del
pluralismo dei valori, e cioè del relativismo, se non una politica totalitaria
e non di rado sanguinaria? In Out of step Sidney Hook narra di una
conversazione con Bertolt Brecht – conversazione che ebbe come oggetto
i vecchi bolscevichi fucilati nel periodo dei processi di Mosca: «E fu a
quel punto che pronunciò una frase che non ho più dimenticato, scrive
Hook. Egli disse: “Quelli là, più sono innocenti più meritano di essere
fucilati”. Io rimasi talmente stupito che credevo di aver sentito male.
“Come dice?”, gli chiesi. Egli ripeté calmo: “Più sono innocenti più
meritano di essere fucilati”. Le sue parole mi lasciarono di stucco.
“Perché, perché?”, esclamai. Si limitò a lanciarmi una sorta di nervoso
sorriso. Aspettai, ma non disse nulla, anche dopo che io ebbi ripetuto la
mia domanda. Mi alzai, andai nella stanza accanto e gli presi il cappotto e
il cappello. Quando tornai da lui, era ancora seduto in poltrona col
bicchiere in mano. Vedendomi con cappotto e cappello parve sorpreso.
Posò il bicchiere, si alzò, prese il cappotto e il cappello e con un accenno
di sorriso partì. Nessuno di noi aveva detto parola. Non lo rividi mai
più».
Certamente, Brecht è stato un grande artista. Ma, come tanti altri
intellettuali, era caduto nel baratro della presunzione fatale di esser
venuto in possesso della verità assoluta. Brecht non era un relativista,
non fu un nichilista. E, dunque, in ambito etico e politico, rappresenta
egli il meglio o il peggio dell’Occidente? E’ un caso di fisiologia o di
patologia dell’Occidente? Nazisti, fascisti, comunisti non erano né
relativisti né nichilisti, così come non lo furono e non lo sono tutte le orde
dei fondamentalisti di ieri e di oggi. Le atrocità di Auschwitz come quelle
della Kolyma sono l’orrendo frutto maturo della presunzione fatale di
107
© LO SGUARDO– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
essere in possesso di verità assolute: “assoluti terrestri” a giustificazione
dei Lager e del Gulag.
108
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Elogio del romanticismo: Isaiah Berlin
di Francesco Saverio Trincia
Il romanticismo, che costituisce nel pensiero di Isaiah Berlin il
rifermento storico dalle valenze assiologiche elevate a modello di quella
che solo impropriamente si potrebbe definire una filosofia politica, e che
meglio degli altri suoi temi (il liberalismo, il pluralismo e il pensiero russo
dell’Ottocento, cui ha fatto riferimento Henry Hardy nell’introdurre la
parziale traduzione italiana dell’epistolario1) ne definisce l’antropologia
politica, o la visione politica e l’interpretazione della storia moderna che
discendono dall’opzione per una certa antropologia e per una certa
configurazione culturale, merita appunto di essere elogiato, e non
semplicemente descritto e magari accademicamente apprezzato. Per
quanto sia comunque, e indipendentemente dai suoi limiti eventuali,
scientificamente rilevante, lo scopo di uno studio dedicato a Berlin non è
quello di definire, altrettanto neutralmente, la fisionomia complessiva del
grande pensatore russo-inglese. Cadere nell’equivoco su questo snodo
assolutamente primario significa né più né meno che sottrarsi alla presa
di Berlin, fuoriuscire dalla modalità specifica con cui Berlin stesso ha letto
la storia delle idee moderne e delle “figure storiche” della modernità da
Belinskij a Roosvelt passando per Vico e Marx. 2
Non può in alcun modo essere presa come una svalutazione della
rilevanza del pensiero berliniano il ricordare anche in questa sede, sulla
soglia del suo “elogio del romanticismo”, l’esergo posto da Henry Hardy
alla già citata antologia epistolare. Il modo in cui Berlin si definisce, e la
centralità che in tale modo gioca l’”interesse” anche micrologico per le
vicende umane, non ne identifica soltanto le doti di scrittore di epistole,
ma l’intera personalità. «Ho», scrive nel corso di una conversazione con
Michael Ignatieff, «una tendenza naturale al pettegolezzo, a descrivere le
cose e ad annotarle, a interessarmi degli esseri umani e dei loro caratteri, e
dei rapporti incrociati tra gli esseri umani: una tendenza del tutto
indipendente dalle mie occupazioni intellettuali». Accanto all’interesse per
le relazioni intrecciate tra gli esseri umani, ossia per la forma che
assumono gli incontri e gli scontri tra le persone e le loro culture mediate
dalle loro idee o ideologie, ossia niente di meno che per il nucleo
1
Cfr. I. Berlin, A gonfie vele. Lettere 1928-1946, a cura di H. Hardy, Adelphy,
Milano 2008, p. 19.
2
Ivi, p. 22.
109
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
generativo del tessuto culturale e sociale in certo momento storico, e al
gusto della descrizione e dell’annotazione, che precede l’elaborazione
intellettuale e in certo senso la condiziona, è rilevante un terzo elemento.
Si tratta dell’operazione con cui Berlin isola e circoscrive il ruolo
dell’intelletto indagante, in quanto la fa precedere dall’interesse
partecipante, dal vitale, quotidiano agire e creare o concreare realizzante
idee e sapere nel rapporto con gli altri, contemporanei o figure storiche.
Nella rilevanza assegnata al suo nobile “pettegolezzo”, emerge la
consapevolezza ironica della primarietà di uno strato antropologico non
ancora risolta in sapere. In tutti i sensi dell’espressione, la filosofia politica
e il suo accademico argomentare non sono il primum per Berlin, perché
sono anticipati da una sorta di “con-essere” interessato.
Farne le lodi significa in primo luogo esplicitare la genialità con la
quale il romanticismo europeo, prevalentemente tedesco e comunque
postilluministico e non francese, se non proprio esplicitamente
antifrancese e antilluministico in quanto essenzialmente antirazionalistico,
letteralmente vive nell’analisi di un pensatore del tutto alieno dalle
sistemazioni teoriche o delle fredde ricostruzioni storiografiche di questo o
quel pensatore del passato o contemporaneo (si pensi per fare un esempio
del primo caso, allo stile del tutto peculiare del libro su Marx, e, per fare un
esempio del secondo caso, si pensi invece alla netta presa distanza da John
Rawls nell’intervista-fiume rilasciata a Steven Lukes e pubblicata su
“Itinerari”). Lodare l’approccio berliniano al romanticismo significa
dunque, anzitutto, entrare nello spirito, nello stile mentale di un pensatore
che realizza il massimo di chiarezza concettuale e mostra al massimo grado
di chiarezza il motivo delle proprie scelte di storia delle idee e della cultura,
nell’atto stesso di conferire alla sua scrittura il più esplicito atteggiamento
di positiva partecipazione all’oggetto storico e teorico che viene ricostruito:
in certo senso mostrando il romanticismo come l’ambito stesso della
propria appartenenza, l’oggetto della propria più convinta identificazione,
allo scopo di dirsi romantico, di essere come i romantici, di riattivare lo
spirito romantico apertamente e con il vigore di colui che crede con Fichte
alla prevalenza dell’agire e del creare sull’oggettivo sistemare, dell’io
rispetto al non-io, all’io che si fa creatore o ricreatore di valori, non loro
semplice scopritore.
Nell’aderire al romanticismo come forma di vita tra altre, scelta
tuttavia da Berlin e quindi elogiata come la migliore perché capace di fare
vivere in sé l’opzione per quel «pluralismo» che non è «relativismo»,
Berlin stesso dà quindi corpo ad una opzione metodologica di fondo,
quella che trova espressione nel primo dei saggi de Il legno storto
dell’umanità dove si comprende bene che la differenza e il conflitto tra
valori spesso incompatibili tra loro e quindi bisognosi di un aggiustamento
reciproco ma mai tale che uno di essi possa richiedere e pretendere
l’annullamento di un altro, non cancella affatto ma esalta il loro essere
valori diversi, né sminuisce la possibilità che una comprensione reciproca
tra i valori e i loro portatori sia realizzabile. Nel Berlin romantico vive
questa convinzione essenziale: romanticismo è la parola che dice – ben al
di là della correttezza storiografica che ne circoscrive il significato
‘oggettivo’ -, che la scelta di un valore o di un sistema di valori, o di un
modo della valorizzazione del valori (qui quello romantico), non ha nulla a
110
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
che vedere con il capriccio soggettivistico che fa preferire di bere un caffè
piuttosto che uno champagne. E’ vero invece che nella scelta di un valore, e
nella consapevolezza del grado di tragicità che tale scelta comunque
comporta, è in gioco il nesso che stringe l’umanità a se stessa nel nome di
valori distinti e perfino incompatibili, ma non per questo non comunicabili
e non condivisibili, e anzi radicalmente comunicabili e unificanti ma non
coercitivamente omologanti, proprio in quanto riconosciuti come valori. I
valori dunque, agli occhi di Berlin conducono l’umanità al riconoscimento
reciproco degli individui e dei gruppi che la compongono, proprio perché,
e nella misura in cui, individui e gruppi si distinguono in base alla scelta di
valori. Scegliere, anche attraversando il deserto della tragedia spalancato
dall’eventuale opzione radicale tra incompatibili, è l’unico modo per
evitare il relativismo da un lato e il nichilismo tragico e senza salvezza di
una situazione del tutto priva di alternative. Si danno alternative, perché
tra di esse domina comunque un comune denominatore di riconoscimento
reciproco. “Pluralismo” e democrazia pluralistica, implicano esattamente
questo. «Le democrazie possono essere intolleranti. La democrazia non è
ipso facto pluralistica. Io credo in una democrazia specificamente
pluralistica, che richieda consultazione e compromesso, che riconosce la
richieste – i diritti – di gruppi e individui, a cui, eccetto che in situazioni di
crisi estrema, non è permesso di respingere le decisioni democratiche». 3
A questa democrazia del compromesso e della permeabilità tra valori
diversi, più che solo tollerante fa da presupposto quella sorta di
‘supervalore’ del pluralismo che secondo Berlin consiste nella convinzione
che vi sono molti fini differenti che gli esseri umani possono ricercare, e
rimanere ciononostante pienamente razionali, pienamente uomini,
«capaci di reciproca comprensione e simpatia, e di darsi luce l’un l’altro»4,
per quanto siano l’uno dall’altro lontani. Dunque, molti fini, diversi gusti
vitali e diverse forme dell’esistenza, ma anche – e senza che alcun richiamo
alla solidarietà, al cristiano dovere di amarsi si renda necessario – comune
razionalità dell’intendersi, comune umanità razionale dell’essere uomini.
In un linguaggio molto diretto, Berlin esibisce la fattualità etica, per
quanto ossimorica possa suonare questa espressione che non implica una
qualche doverosità etica. Tale fattualità vale pure in presenza della
durezza talvolta tragica della scelta, della possibilità e della storica realtà
del reciproco compenetrarsi di ‘mondi di idee’ diversi, e in questo stesso
atto mostra il tratto essenziale del suo metodo di pensiero, quello che in
gran parte coincide con lo scegliere di farsi e di essere romantici. Il
romanticismo non evoca l’intervento della doverosità che mette ordine
nella vita e quindi non suppone che una qualche soggettività etica o
giuridica sia chiamata a creare l’ordine politico, neanche quell’ordine che
trae dalla instaurazione della giustizia la propria giustificazione. Un nesso
molto stretto lega questa immagine del romanticismo con l’immagine della
libera molteplicità dei fini vitali che sono, non devono essere resi
compatibili e lo sono perché questo e non un altro è il rapporto tra valori.
3
R. Jahanbegloo, Converastions with I. Berlin. Recollections of an historian of
ideas, Orion House, london 1993, p. 144.
4
I. Berlin, The crooked timber of humanity. Chapters in the history of ideas, ed.
by H. Hardy, John Murray, London 1990, p. 11.
111
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
E’ questo quel che accade nella storia, così è configurata la nostra struttura
antropologica. Se non avessimo qualcosa in comune con le figure storiche
più lontane da noi, come i dialoghi di Platone o le novelle medievali
giapponesi, ogni civiltà sarebbe chiusa nella sua cerchia impenetrabile e
noi non potremmo capirle, secondo le tesi di Spengler. «La comunicazione
reciproca tra le culture nel tempo e nello spazio è possibile solo perché ciò
che rende gli uomini umani è comune a loro e agisce come un ponte tra di
essi». Un ponte, dunque, c’è, non deve esserci, come mezzo di
collegamento di valori e culture. Ma un ponte è insostituibile, perché valori
e culture differiscono.
«Ma i nostri valori sono i nostri, i loro sono i loro. Siamo liberi di
criticare i valori di altre culture, di condannarli, ma non possiamo
pretendere di non capirli affatto, o di considerarli puramente soggettivi,
come i prodotti di creature in differenti circostanze, con gusti diversi dai
nostri, che non ci parlano affatto»5. Anche questa convinzione è in sé
«romanticismo», perché l’esistenza di un «mondo di valori obiettivi» è
indiscutibile, e lo è come evento vitale, come sorgivo raccogliersi della
forme di vita intorno a poli culturali che sono ciascuno, come è ogni
singola cosa, «quel che è», coglibile e descrivibile per quel che è,
originariamente sottratta alla domanda sul suo perché. E’ ben nota la
convinzione di Berlin, per molti aspetti un vero truismo, secondo cui «ogni
cosa è quella che è». Ora si comprende bene quel che sottostà ad una tesi
che per molti aspetti appare ovvia, e si tratta di nuovo di un tratto
romantico, se non addirittura della premessa attiva sul fondo di tutto,
metafisica si direbbe, se la parola non fosse quanto di più estraneo al
linguaggio berliniano. Ogni cosa è quella che è, come ogni valore obiettivo
è quel che è, ed è tale appunto perché è obiettivo come una cosa.
L’assolutezza della cosa, come del valore, questa specie di ‘supercosa’, sta
nella circostanza che i valori sono fini perseguiti per sé stessi, fini rispetto
a cui si dà una serie di mezzi. Ma la differenza non comporta interminabile
indifferenza (tra le cose come tra i valori). «Le forme di vita differiscono.
Molti sono i fini e i principi morali. Ma non sono infinitamente molti:
devono restare entro l’orizzonte umano. Se non lo fanno, allora restano
fuori della sfera umana». 6 L’esistenza di un mondo di valori, fini, forme di
vita tra loro diversi implica di per sé che tra di essi possa darsi
comprensione, sebbene la loro diversità autorizzi la certezza del loro
reciproco conflitto, che può prodursi anzitutto nell’anima di ogni singolo
uomo. Questo punto capitale consente a Berlin di affermare quel che più è
rilevante: il conflitto non contrappone valori veri e valori falsi. Non è sulla
nota della contrapposizione vero-falso che si gioca il contrasto insanabile
tra le ragioni della giustizia e quelle altrettanto forti della pietà (“mercy”),
per fare l’esempio cui Berlin ricorre allo scopo di indicare che sono due
positività assiologiche, due beni, quelli che si contrappongono.
La vita spirituale degli esseri umani procede lungo le vie della propria
molteplice creatività, dalla ricca intenzionalità. E se noi isoliamo nella
scena che stiamo allestendo l’esistenza del male, o dei mali, che pure ci
sono, quel che ci resta è una situazione alquanto paradossale in cui, in
5
6
Ibidem.
Ibidem.
112
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
assenza di mali, il conflitto tra beni assiologicamente pari e parimenti
voluti e valutati perché espressioni di esigenze assolute e non
reciprocamente sostituibili, diventa il supremo ‘bene di sfondo’, poiché
funge da base di una scelta cui non possiamo rinunciare. Il male, pur non
nominato da Berlin, coincide allora con la nozione di un “tutto perfetto”, di
una “soluzione ultima”: il male è l’illusione che si possa, infine, non
scegliere perché tutto sarebbe con tutto compatibile. L’umanità unificata
dalla compresenza in lei dei valori e dei fini diversi è allora il luogo di una
positiva tragicità, di una tragicità produttiva che ci salva dal gorgo
dell’illusione dell’armonia. «La nozione del tutto perfetto, della soluzione
ultima in cui tutti i beni coesistono, sembra non solo non è raggiungibile –
questo è un trismo – ma è concettualmente incoerente…Siamo destinati a
scegliere e ogni scelta può implicare una perdita irreparabile». 7
Si alludeva all’inizio alla circostanza che vi è anche un secondo senso
dell’”elogio” del romanticismo da cui abbiamo preso le mosse come tema
ispiratore della ricostruzione del pensiero (pensiero, si badi, prima e più
che pensiero politico: Berlin, sia detto una volta per tutte, non è ascrivibile
alla categoria professionale accademica dei pensatori politici). Ora, alla
luce di quel che si è detto, questo secondo senso può essere esplicitato e
l’’avvicinamento’ a Berlin può compiere un passo in avanti. Si tratta di
quell’elogio in cui intende trovare espressione la piena adesione di chi
scrive al romanticismo che Berlin fa proprio mentre ne tratteggia le
caratteristiche. In tale elogio vive la convinzione che si debba pensare la
trama delle idee su cui gli esseri umani nei vari momenti della propria
storia hanno a loro volta definito i criteri della propria convivenza politica
e sociale, nello stesso stile di Berlin, e dunque in un certo senso molto
preciso, divenendo romantici (filosoficamente romantici) come lo è
divenuto lui. Si tratta, come ben si comprende di un punto di metodo che
si rovescia immediatamente in un punto di merito, poiché consente di
evidenziare l’impossibilità di una presa di posizione sulle questioni
pratiche e suoi loro modelli non normativi (i valori, appunto, come guide
delle scelte pubbliche degli esseri umani), che non implichi di per sé una
partecipazione e una condivisione, dunque ancora una volta una scelta,
una opzione, un dire, osservando la scena storica delle ‘offerte di idee’:
questa piuttosto che quella, perché questa è, o diviene mia, ed io dunque
mi ci identifico, la elevo a mio valore, sebbene sappia che altri accanto a
me desiderano e difendono valori diversi, che io stesso riconosco come tali.
La posizione antiarmonicistica e antitotalitaria dell’ebreo Berlin, da
questo punto di vista, non è molto lontana dalla polemica dell’ebreo Leo
Strauss contro la filosofia politica storicizzata, relativizzata, neutralizzata,
sterilizzata rispetto alle scelte di valore che essa implica e impone. Ossia,
rispetto a quella filosofia che in Strauss viene apertamente rivendicata
contro la sua declinazione politica, e in Berlin non lo è, sebbene chi è in
grado di farlo, la senta vibrare nel fondo del suo stile.
La fisionomia del romanticismo è intrinsecamente paradossale, ossia
intrinsecamente complessa. Nel romanticismo infatti (in questo modello di
cui non si potrebbe dire che è solo storico e culturale o invece solo teorico e
tipizzato) l’arte del compromesso e la scelta tra fini vitali, più che tra
7
Ivi, p. 13.
113
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
semplici valori, è l’esito necessario del multiforme scatenamento della
creatività dell’io, che deve costringersi, per evitare di estinguersi
nell’autodistruzione, all’accordo con l’imperfezione e con la complessità
della vita. La vita, luogo della creatività, è al tempo stesso il luogo in cui la
creatività stessa si compone (in certo senso, è costretta a comporsi) in un
qualche ordine che è sempre e comunque successivo alla sua libera, eslege,
prerazionale espressione. Dunque, il romanticismo, che esalta la libertà del
vivere e del creare ottiene il risultato (apparentemente) opposto, valido
come modello cui è chiamata ad attenersi l’umanità moderna e
contemporanea e come modello dell’antropologia politica di Berlin stesso,
di generare il liberalismo della tolleranza e del compromesso, della
accettata non compatibilità tra tutti i valori, dell’imperfezione della vita
oltre che dei sempre variabili fini dei singoli esseri umani. E’ legittimo dire
che il romanticismo precipita il trionfo bacchico della vita dello spirito
nella quiete di un ordine e che questo è solo apparentemente il passaggio
da un opposto al suo opposto, perché il trionfo bacchico è la precondizione
essenziale affinché la quiete non sia morte, ma ordinamento e
sistemazione sempre provvisori di un disordine creativo. Né lo
spumeggiare della vita dello spirito, né la sua quieta ordinata pacificazione
possono stare ciascuno per sé, ma sono in realtà l’uno per l’altro.
L’hegeliano “risultato calmo” è ciò in cui precipita la hegeliana suprema
inquietudine.
Berlin ha intuito che il liberalismo del compromesso e
dell’«equilibrio imperfetto delle cose umane» può essere il frutto (è stato il
frutto, doveva essere il frutto) dell’entusiasmo sregolato dei romantici.
L’«apoteosi della volontà romantica» rappresenta il successo di una
prospettiva dell’agire storico non dominata da sogni utopistici di
perfezione. Il massimo che gli esseri umani sembrano poter
legittimamente desiderare è «un mondo migliore» dipendente dal
mantenimento di un qualche «instabile equilibrio» bisognoso di costante
aggiustamento. Ma sembra altresì che gli esseri umani non possano
«fronteggiare troppa realtà, o un futuro aperto» senza una qualche
garanzia di un happy ending. Le dottrine politiche e sociali che hanno
avuto più successo nei tempi della recente modernità non hanno potuto
fare a meno del ricorso a una qualche provvidenza. Ma «l’attacco
romantico contro i costruttori di sistemi – gli autori dei grandi ‘libretti’
storici – non è restato del tutto privo di influenza». Non v’è immagine di
una perfezione finale in Tolstoj, Turgenev, Balzac, Flaubert o Baudelaire.
«La scuola romantica e coloro che ne sono stati influenzati direttamente o
indirettamente, Shopenhauer, Nietzsche, Wagner, Ibsen, Joyce, Kafka,
Becket, gli esistenzialisti, […] non abbracciano il mito di un mondo
ideale». Se si prende nel suo pieno valore di segnale di una scelta culturale
a favore del romanticismo dai confini assai ampi e radicalmente non
coincidenti con una precisa e puntuale determinazione storica di autori e
correnti, e si accetta con Berlin l’osservazione peraltro del tutto corretta,
che anche Freud appartiene alla schiera ‘romantica’ di coloro che non
riconoscono il valore di un mondo ideale, si comprende bene quel che più
volte si è osservato: quanto sia rilevante il significato paradigmatico del
romanticismo di Berlin, la sua assoluta e incomparabile unicità. Questo
dunque insegna il romanticismo: che se i fini delle azioni umane sono al
114
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
tempo stesso riconosciuti come tutti pienamente umani e come
incompatibili in linea di principio, l’immagine di una età perfetta e di una
età dell’oro in cui si sintetizzano tutte le soluzioni ai principali problemi
dell’umanità «è incoerente il linea di principio». «Questo dunque è il
servizio reso dal romanticismo e dalla sua dottrina centrale, quella
secondo cui la moralità è plasmata dalla volontà e che i fini sono creati,
non scoperti». 8
E’ appena il caso di sottolineare che il romanticismo di Berlin è
radicalmente antinormativo nella sua concezione della moralità. D’altra
parte, è proprio da questo netto antinormativismo che discende la tesi
secondo cui, se un ordine deve comunque imporsi e una norma valere, essi
devono essere sempre parziali, rivedibili e comunque ricavati dal caos e dal
disordine. Si danno compromessi vitali, come si è detto, solo perché alle
loro spalle agisce una vita senza compromessi, una vita come
autocreazione, da cui è esclusa l’idea di una struttura metafisica delle cose.
Dopo aver ricordato I masnadieri di Schiller, Berlin osserva che nel
personaggio di Karl Moor, «il fellone-eroe», viene messa in scena «una
collisione, forse un’inevitabile collisione, tra insiemi di valori
incomponibili. Le precedenti generazioni supponevano che tutte le cose
buone potessero essere conciliate. Questo non è più vero». 9 Anche nella
Morte di Danton di Büchner «c’è una collisione del ‘bene col bene’, come
avrebbe più tardi detto Hegel». Ciò accade non perché siano stati
commessi degli errori, ma come conseguenza di «un qualche conflitto
ineluttabile di elementi che errano senza legge sulla terra, di valori che non
possono essere conciliati». Ma alle spalle del conflitto tra valori c’è la
dedizione assoluta ad uno di essi. I valori confliggono soltanto come
conseguenza dello slancio vitale di cui essi sono investiti, valori diversi di
esseri umani diversi: «Ciò che conta è che l’uomo si dedichi a questi valori
con tutto se stesso. Se lo fa, è un eroe adatto alla tragedia. Se non lo fa, è
un filisteo, è un membro della borghesia, non vale nulla e non mette conto
che se ne scriva».
L’antropologia romantica di Berlin è a tutti gli effetti l’antropologia
dell’eroe. Il suo liberalismo ne discende direttamente non perché sia
ossimoricamente un liberalismo eroico, ma perché il motore costituito
dall’eroismo si decanta e si risolve, ma non si sublima in un ordine liberale
vivente, non risultato della semplice trama delle istituzioni di una
liberaldemocrazia. L’«arruffato Beethoven» è l’immagine di sfondo del
liberalismo romantico berliniano. Egli fa «ciò che è dentro di lui. E’povero,
è ignorante, è rozzo […] non è un personaggio molto interessante, se si
eccettua l’ispirazione che lo anima. Ma non si è venduto […] Crea in
armonia con la luce che è dentro di lui, e non c’è altro che un uomo debba
fare; è questo che fa di un uomo un eroe». Che cosa è dunque che
dobbiamo al romanticismo? Gli dobbiamo anzitutto il rifiuto di ogni
razionalistica ipersemplificazione della realtà umana, o come forse si
potrebbe anche dire, di ogni garanzia cercata in un perfetto ordinamento
teoretico della materia politica, che a sua base ha una certa antropologia.
8
9
Ivi, pp. 235-237.
I. Berlin, Le radici del romanticismo, a c. di H. Hardy, Adelphi, Milano 2001, pp.
38-39.
115
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Una antropologia perfetta e compiuta presa come base di una filosofia
politica, segna il destino falsificato di quest’ultima. Dobbiamo quindi al
romanticismo «la nozione che nelle faccende umane una risposta unitaria
è verosimilmente destinata a rivelarsi rovinosa, che se crediamo
veramente che esista un’unica soluzione di tutti i mali umani, e che
dobbiamo imporla senza badare ai costi, finiremo probabilmente col
divenire, in nome della nostra soluzione, tiranni violenti e dispotici, perché
il nostro desiderio di rimuovere tutti gli ostacoli sul suo cammino sfocerà
nella distruzione delle creature per il cui vantaggio la soluzione è stata
offerta». 10
Ecco dunque come si presenta il romanticismo paradigmatico di
Berlin: «La nozione che esistono molti valori, e che sono incompatibili;
l’intera nozione della pluralità, dell’inesauribilità, del carattere imperfetto
di tutte le risposte e ordinamenti umani; la nozione che, nell’arte come
nella vita, nessuna risposta unica che si pretenda perfetta e vera può, per
motivi di principio, essere perfetta e vera: tutto questo lo dobbiamo ai
romantici». 11 E’ appena il caso di mettere il lettore attento sull’avviso che
proprio in questo passaggio, Berlin gioca la sua carta più forte. E’ per
ragioni di principio, dunque per ragioni che hanno a che fare con
l’assolutezza della verità che ha come suo contenuto l’inaccettabilità di
ogni risposta che pretenda perfetta, è dunque sulla base di una certezza
non discutibile, di un punto epistemicamente ferreo (che nel linguaggio del
tutto estraneo a Berlin si definirebbe “trascendentale”) che viene affermata
l’universalità dell’imperfezione di ogni logos e di ogni azione umana. Sul
punto dell’indiscutibilità della discutibilità di tutto non si può appunto
accettare discussione – per non riaprire lo spazio in cui s’insinua la pretesa
della perfezione e della ultimitività di una qualche risposta. Berlin ha forse
chiaro il senso del proprio ricorso a una posizione di tipo cartesiano, anche
se, rispetto a Cartesio, il suo fine è quello di mettere in salvo l’universale
dubitosità e discutibilità di ogni tesi, piuttosto che la certezza soggettiva
della prospettiva che rende possibili la creativa incertezza, il rischioso
confliggere dei punti di vista, che gli stanno a cuore.
E’ per questo motivo che l’esito che discende da tale tesi, e che si
riassume nella lode del compromesso derivato dall’entusiasmo romantico,
assume una tonalità nobile se non si voglia dire addirittura grave, come si
conviene nei casi e solo nei casi in cui non di qualcosa di soltanto
opportuno e vantaggioso per l’umana convivenza si parla, ma di qualcosa
che pretende di essere vero epistemicamente e giusto praticamente. Il
romanticismo, si è più volte detto, mette in primo piano l’incompatibilità
degli ideali umani. Se questi ideali sono incompatibili, «allora prima o poi
gli esseri umani si renderanno conto che debbono fare buon viso a cattivo
gioco, che devono scendere a compromessi, perché se cercano di
distruggere gli altri, questi cercheranno di distruggere loro; e così, grazie a
questa dottrina appassionata, fanatica e semifolle arriviamo a capire la
necessità di tollerare gli altri, la necessità di salvaguardare un equilibrio
imperfetto nelle cose umane […] Il risultato del romanticismo è dunque il
liberalismo, la tolleranza, la decenza e la consapevolezza delle imperfezioni
10
11
Ivi, p. 222.
Ibidem.
116
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
della vita; in una certa misura, un accrescimento dell’autocomprensione
razionale». 12
Romanticismo è, sul piano filosofico, quel riconoscimento della
potenza dell’irrazionale, che Berlin ha descritto a Steven Lukes nella già
ricordata intervista su “Itinerari”. Non è un caso che questa presa di
posizione per l’irrazionale avvenga in un contesto esplicitamente rivolto a
criticare il pensiero politico di Rawls. Si è sulla via sbagliata se si ritiene
che la “posizione originaria” o l’“overlapping consensus” possano fornire
la base di un accordo definitivo e insuperabile tra le persone, perché è
sbagliata la pretesa di fondare un governo politico solo sulla base di quel
che è razionale, dato che esistono e sono molto forti impulsi irrazionali
nell’uomo, che una mitica “psicoanalisi universale” non potrebbe mai
annullare. Essi sono, infatti, parte talmente fondamentale della natura
umana da rendere del tutto incomprensibili, in loro assenza, religione,
arte, amore. Il sottinteso essenzialmente antirawlsiano è, naturalmente,
che una qualsiasi teoria politica della convivenza politica non possa
prescindere dal fare in qualche misura e modo i conti con l’irrazionale. Con
questa considerazione si passa a quel punto di Due concetti di libertà del
1958,13 dove l’ipotesi, che abbiamo appena avanzato, di una sorta di
residualità “trascendentale” attiva nel pensiero di Berlin, affinché sia
assicurata e garantita l’indiscutibilità dell’imperfezione delle soluzioni
umane, viene a cadere o si ridimensiona molto seriamente. Ciò evidenzia,
com’è evidente, una qualche tensione interna nella coerenza del pensiero
berliniano. Di essa si deve dar conto, avvertendo tuttavia che l’incoerenza è
tale agli occhi dell’interprete, ma non s’insinua nella consapevolezza di
Berlin, che non concede alcuno spazio al trascendentale. Se di un’”aporia”
in Berlin si può parlare, è solo entro questi precisi e invalicabili limiti. Se la
libertà è un principio sacro, d’altra parte essa può e deve essere sacrificato
nella sua presunta assolutezza: l’esigenza e il vantaggio che ne derivano
nella pratica travolgono ogni dubbio teorico circa la sacrificabilità del sacro
principio.
Siamo nel punto centrale del pensiero di Berlin. Sebbene, in quanto
principio ordinatore dei rapporti umani, la libertà sia sacra, il sacrificio
che la desacralizza in determinate condizioni pratiche è non solo legittimo,
ma necessario. Esso infatti serve a sciogliere nodi conflittuali (quello che
oppone libertà ed eguaglianza è costantemente evocato da Berlin) che la
permanenza sul terreno dei principi renderebbe insolubili. Coerentemente,
in base a quel che si è osservato sopra, l’assolutezza e la sacralità servono il
criterio dei criteri: quello che fa della necessità di giungere ad un
compromesso imperfetto il primo e principale dovere, pratico bensì e
desacralizzato, ma non per questo paradossalmente negato nella sua
peculiarissima sacralità. Il richiamo alle esigenze della pratica non uccide
la sacralità, ma ne impone una declinazione imprevista, e altrettanto
cogente. La mia libertà può essere sacrificata nella pratica, la sua sacralità
violata, ma solo a patto di accrescere con ciò quella libertà altrui che,
nell’ambito del compromesso raggiunto, conferma indirettamente il
12
Ivi, p. 223.
I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, tr. it. Di M. Santambrogio, Feltrinelli,
Milano 1989, pp. 192-193.
13
117
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
principio la cui assolutezza si è dovuto limitare, ma in nome dello stesso
valore. Una linea di uscita dalla tensione teorica, o dalla oscillazione che
stiamo rilevando può essere trovata con l’osservare – e di nuovo si tratta di
una movenza romantica – che solo perché vi sono valori e lotta tra di essi,
questi possono, e devono, essere nella pratica limitati. Si perde una parte
reale del valore, ma non si sacrifica il valore come tale, sebbene in altro
senso si faccia proprio questo, perché il valore vive nella realtà e qui, solo
qui il suo eventuale sacrificio è effettivo. Ciò richiede il divieto di
compromessi circa la non sostituibilità e la non intercambiabilità dei valori
e inoltre che si accetti invece l’eventuale, ma molto probabile tragedia del
compromesso quantitativo, piuttosto che l’autoinganno della sostituibilità
qualitativa.
«Per evitare l’evidente diseguaglianza o la miseria diffusa sono
pronto a sacrificare parte della mia libertà o addirittura tutta: posso farlo
volentieri e liberamente: ma è la libertà a cui sto rinunciando per amore
della giustizia o dell’eguaglianza». Dato che «ogni cosa è quello che è» e
ciò vale per la libertà come per l’uguaglianza, per la giustizia, per la
cultura, «un sacrificio non incrementa ciò che viene sacrificato, per quanto
grande sia la sua necessità morale o il compenso per esso». Come ben si
vede, domina questo punto delicato del pensiero di Berlin un sottile e non
scioglibile impasto di assolutezza (il valore, ogni valore è quello che è e se
viene sacrificato viene leso senza rimedio) e di compromesso (esso può e
deve essere sacrificato talvolta, ma senza pretendere di essere compensato
in qualche modo). Ha luogo una «perdita assoluta di libertà» se e quando
la limito per ridurre la «vergogna» di una diseguaglianza, «senza con ciò
aumentare la libertà materiale degli altri». La compensazione della perdita
della libertà in termini di giustizia, di felicità e di pace non annulla la
perdita e (si tratta di un passaggio essenziale) «è solo una confusione di
valori dire che, anche se la mia libertà ‘liberale’ e individuale è spazzata
via, qualche altro tipo di libertà – ‘sociale’ o ‘economica’ è invece
aumentata». Resta la necessità, talvolta, della limitazione della libertà di
alcuni per assicurare quella degli altri. Qui emerge il punto difficile,
l’equilibrio precario del discorso di Berlin, una sorta di compromesso
stilistico sul tema del compromesso. Quale “principio” regola la
limitazione della libertà? «Se la libertà è un valore sacro e intoccabile, un
tal principio non può esistere». Qui risuona la nota dell’assolutezza.
«L’una o l’altra di queste regole e principi conflittuali deve per forza venire
meno, almeno in pratica: non sempre per ragioni che possano essere
chiaramente stabilite e tanto meno generalizzate in forma di regole e
massime universali». Qui risuona, e quasi con le stesse parole, la nota
tragica del conflitto che spegne uno dei valori in lotta, nel deserto
insuperabile della giustificazione razionale. «Eppure, un compromesso
pratico lo si deve trovare». Qui infine si avverte la nota dolente della
necessità del compromesso imposto dalla necessità del conflitto. 14
14
Cfr. F.S. Trincia, Il governo della distanza. Etca sociale e diritti umani, Franco
Angeli, Milano 1994, cap. I.
118
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Si giunge così alla conclusione. Nel saggio dal titolo spinoziano Da
speranza e paura liberati15 viene fatta entrare in gioco criticamente la
questione dell’autodeterminazione e il problema se la libertà non implichi
essenzialmente la possibilità e il dovere rischioso della scelta. Qui il
pensiero di Berlin torna sul tema del pluralismo esistenziale ed
antropologico, come premessa di ogni definizione morale della libertà.
Libertà morale significa certamente anche autodeterminazione, sebbene il
concetto sia assai poco chiaro a causa dell’assenza di una qualsiasi
“psicologia morale”. La libertà distingue l’uomo da tutto ciò che non è
umano e certamente rientra nell’analisi della libertà il rilievo degli ostacoli
che si frappongono alla libertà dell’agire. Tra questi non pochi sono i
fattori irrazionali dell’impedimento che si esercita sulla libertà. «La libertà
morale, il controllo razionale di sé, il conoscere la posta in gioco e i motivi
per cui si agisce come si agisce; il non dipendere dall’influenza, non
percepita, di altre persone o del proprio passato, […] la distruzione di
speranza, paure, desideri, amori, odi, ideali che una volta osservati da
vicino ed esaminati razionalmente appaiono infondati – tutte queste cose
ci liberano effettivamente da ostacoli». La psicoanalisi e le sue implicazioni
filosofiche ha dato un contributo importante all’affermarsi di questo
concetto di libertà come riduzione degli ostacoli che le si frappongono. Ma
insistere su questo aspetto della libertà significa equiparare libertà ed
autodeterminazione.
In realtà, «essere libero è essere in grado di compiere una scelta non
coatta», ma il punto delicato consiste nel comprendere che la scelta libera
non è quella che elimina gli ineliminabili ostacoli, ma quella che avviene
tra «più possibilità rivali». Valori molteplici in lotta, da un lato e scelta
dall’altro, di nuovo. «Quando parliamo di estensione della libertà goduta
da un uomo o da una società abbiamo in mente […] l’ampiezza o
l’estensione dei sentieri che essi hanno davanti a sé, il numero per così dire
delle porte aperte e anche la misura in cui sono aperte». Con una presa di
posizione in cui risuona tutta la potenza del suo romanticismo, Berlin
esibisce quello che è l’obiettivo teorico e pratico dell’elogio del
romanticismo che scorre in tutte le sue pagine: «Resta sempre vero che la
misura della libertà di un uomo o di un gruppo è determinata, in ampia
misura, dalla gamma delle possibilità tra cui può scegliere».
15
I, Berlin, Libertà, a c. di H. Hardy, ed. ital. di Mario Ricciardi, Feltrinelli, Milano
2005, pp. 276-279, da cui cito.
119
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Fra natura e storia
L’eredità di Bobbio per il futuro del
liberalismo. Una ipotesi di lavoro.
di Corrado Ocone
In questo saggio proverò a ragionare, con riflessioni sparse che ancora
attendono di essere sistemate in una visione compiuta, su una suggestione
che, mi sembra, se adeguatamente sviluppata, possa aiutarci a
comprendere meglio la figura di Norberto Bobbio, facendocela collocare in
modo consono nella storia intellettuale e politico-culturale del nostro
Paese. D’altronde, Bobbio stesso ha cercato, a un certo punto della sua vita
e attività di pensiero, di riflettere su se stesso, cercando di dare un senso
generale, complessivo, storicizzandola, a una traiettoria intellettuale che,
iniziata prima della seconda guerra mondiale, si è chiusa agli albori del
nuovo millennio, in pratica con la sua morte fisica (avvenuta nel 2004 a
Torino, la città dove era nato novantacinque anni prima e ove era sempre
vissuto)1.
Questo processo di autocomprensione era iniziato prima dell’uscita, nel
1997, della sua Autobiografia, pubblicata da Laterza a cura di Alberto
1
L’idea centrale di questo saggio è stata già da me espressa in un articolo del 1997
(Qual è il vero Bobbio?, in «Critica liberale», vol. IV, n. 35, novembre 1997) e poi nel
capitolo dedicato a Norberto Bobbio dei miei Profili riformisti (Rubbettino, Soveria
Mannelli 2009, pp. 71-76). Alcuni passi di questi due testi sono opportunamente
rielaborati e ampliati in questa nuova stesura. A proposito del primo articolo, che era una
sorta di recensione all’Autobiografia e ad altri testi bobbiani, va rilevato che il filosofo
torinese lo citò e commentò nella prefazione alla seconda edizione dell’Elogio della
mitezza: egli affermò nell’occasione, sostanzialmente glissando sulle mie obiezioni, che
nel suo pensiero non c’era stata nel tempo alcuna significativa evoluzione. Ammetto poi
che un problema alla mia interpretazione che vede il Bobbio ultimo come il maggiore,
oltre che il meno scontato e il più interessante, lo porta senza dubbio il volumetto del
1994 su Destra e sinistra (1994). Esso si fonda, infatti, su una distinzione rigida e tutto
sommato arbitraria fra le presunte caratteristiche che contraddistinguerebbero l’una e
l’altra di quelle che sono, soprattutto da un punto di vista liberale, null’altro che due
categorie empiriche e strumentali del discorso politico. Il libro, tuttavia, pur essendo stato
un successo editoriale internazionale, può essere considerato un “residuo” della fase
precedente del pensiero politico del nostro autore solo se si pensi al fatto che egli non lo
sentiva del tutto proprio al momento della pubblicazione: ancora necessitante di una
riflessione più profonda, e in qualche modo “estorto” dall’editore”.
121
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Papuzzi. Illuminanti, seppur parziali, squarci autobiografici, “prove”
generali di un lavoro più vasto, sono sicuramente già i saggi raccolti in De
senectute (1996). Anzi, nella breve e importante introduzione intitolata A
me stesso, Bobbio aveva anche provato a periodizzare la sua attività,
facendo coincidere il periodo successivo al 1979, anno in cui aveva lasciato
l’insegnamento avendo compiuto i settanta anni, con la terza e ultima fase
della sua vita: quella della “riflessione” e del “bilancio”. E non a caso,
aggiungeva a dimostrazione della sua tesi, proprio a quell’ anno datava il
primo degli scritti autobiografici raccolti nel volume che ora pubblicava.
Prima di essa ce n’erano state, secondo il pensatore torinese, altre due: la
prima, che egli definisce degli “anni di prova” e che va dal 1940 al 1948; la
seconda, compresa appunto nel periodo fra il ’49 e il ’79, centrale in tutti i
sensi, che è la «lunga trentennale monotona età della routine
accademica»2.
Gianfranco Pasquino, che di Bobbio è stato allievo a Torino, in un
importante e polemico saggio su Il culto di Bobbio, uscito su «La rivista dei
libri» nel settembre 1997, contestò subito la periodizzazione bobbiana,
osservando che in realtà «le tre fasi si sovrappongono e, in qualche modo,
si alimentano vicendevolmente». In effetti - aggiunse Pasquino - «Bobbio
è diventato quello che è, con tutta probabilità il più autorevole degli
intellettuali italiani, perché ha avuto una vita ricca di interessi, densa di
attività, piena di relazioni, proiettata al di fuori di quella che definisce la
‘routine accademica’»3 .
Il che è senza dubbio incontestabile. Altrettanto vero è però a mio
avviso, ed è qui il punto centrale del discorso che voglio fare, che in
Bobbio, proprio nel periodo che egli chiama della “riflessione”, qualcosa
effettivamente cambia. E non sempre, secondo me, ad un livello
meramente esteriore. Cambia nel profondo e nella sostanza. È come se,
dalle ceneri di quello che era stato il Bobbio precedente, uomo pubblico e
intellettuale non monastico, oltre che illustre accademico certamente,
emergesse gradualmente un altro e diverso Bobbio. Un Bobbio, sia
beninteso, che non ha necessità di mettere in crisi o sconfessare il se stesso
precedente, ma che nei fatti gradualmente integra e corregge in una
visione dal respiro più ampio molte posizioni o idee fino allora sostenute,
rendendole per ciò stesso meno statiche ma anche più universalmente
umane. In estrema sintesi, si può dire che il passaggio che si consuma nel
suo pensiero a un certo punto fa sì che, accanto alla dimensione empirica o
“istituzionale” degli accadimenti politici, accanto e oltre l’attenzione per gli
elementi procedurali della democrazia e in genere delle istituzioni, egli
cominci a considerare con più attenzione anche la dimensione
antropologica e psicologica degli stessi. Facendosi di conseguenza
“moralista” nel preciso senso che individua nelle “forze morali” o umane la
scaturigine prima o effettiva di quelle entità in lato senso politiche che, nel
loro funzionamento, i suoi libri, con la proverbiale chiarezza e lucidità
2
Norberto Bobbio, A me stesso, in De Sencetute, Einaudi, Torino 1996, p.
L’introduzione è, insieme a quello che apre il volume e che gli dà il titolo, l’unico inedito
del volume.
3
Gianfranco Pasquino, Il culto di Bobbio, in «Rivista dei libri», ottobre 1997, pp.
7-9.
122
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
analitica, avevano contribuito a far comprendere a più generazioni di
studenti e di studiosi.
«Il fondamento di una buona repubblica - scrive in un significativo passo
dell’Autobiografia - prima ancora delle buone leggi, è la virtù dei cittadini. Sia
ben chiaro, non avverso per principio la riforma della costituzione. Combatto
l’illusione costituzionalistica seconda la quale, una volta cancellata la vecchia
Costituzione e dato vita a una Costituzione nuova di zecca, gli italiani vivranno
finalmente felici e contenti»4.
Ove il termine virtù, che ho sottolineato, sta a dimostrare il senso etico e
morale, la nuova curvatura, che, oltre ogni positivismo avalutativo, il
nostro dà ora alla sua riflessione sulla politica.
Ovviamente, questa “conversione” verso nuovi orizzonti, se non proprio
“svolta” del suo pensiero, non è affatto indolore dal punto di vista della
cultura politica, o meglio dell’idea che del liberalismo e della democrazia
(di quella liberale e di quella non) Bobbio ha (indipendentemente dalle
dispute un po’ scolastiche, che pure hanno tenuto impegnati gli interpreti,
sul fatto se egli possa considerarsi un liberale o non piuttosto un
democratico o ancora un socialista). Ma prima di accennare a queste
conseguenze non irrilevanti, vorrei osservare che la vera e propria cartina
di tornasole per comprendere il riposizionamento del suo pensiero, ce lo
offre il mutato atteggiamento, e anche giudizio, che Bobbio, uomo del
dubbio per eccellenza, sempre pronto a mettersi in discussione, comincia
ad avere gradualmente nei confronti di Benedetto Croce. Non si tratta
affatto dell’ammirazione, che in verità egli ha sempre avuto, per
l’antifascismo morale del filosofo napoletano. O per la sua idea di filosofia
legata ai fatti concreti e alla storia. Si tratta, anche in questo caso, di
qualcosa di più sostanziale e significativo, sol che si consideri il fatto che
Croce è stato un liberale non di maniera, e quindi un liberale vero,
ammesso e non concesso che così sia possibile dire, gioco forza la pietra di
paragone non solo del liberalismo italiano ma di un liberalismo storicistico
e in senso lato non giusnaturalistico o metafisico che è proprio di molta
parte della contemporaneità, a partire almeno da quella vera e propria
“frattura epistemologica”, che in questo preciso e storicistico senso,
rappresenta nella storia della dottrina il marchese de Tocqueville5. Un
liberalismo che, nelle intenzioni dei suoi esponenti maggiori, non è
impegnato a costruire una compiuta teoria o dottrina (meno che mai
procedurale) della libertà, ma prima di tutto a individuare e promuovere,
con senso storico e del reale, e con la consapevolezza della complessità
dialettica delle forze umane, quei sempre nuovi e non preventivabili (e non
garantiti) spazi di libertà che l’agire concreto ci pone innanzi come
possibili.
Dati i presupposti empiristici e la logica meccanicistica e naturalistica,
hobbesiana, del suo pensiero (di qui l’Individuo-Sostanza, il Soggetto, di là
4
Norberto Bobbio, Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 257.
Ho affrontato questo specifico punto nella videointervista La democrazia in
America di Tocqueville spiegata da Corrado Ocone.
5
123
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
lo Stato, a sua volta concepito in modo sostanzialistico, quasi un Super
Individuo), non può meravigliare, anzi è preciso e lineare, il giudizio che
Bobbio dà nel 1955 del pensiero crociano in un celebre passo di Politica e
cultura Nell’opera, che, come in qualche modo le coeve Cronache di
filosofia italiana di Eugenio Garin, è più in generale di confronto teoretico
e politico con l’eredità del filosofo napoletano, appena scomparso (nel
1952 per la precisione), Bobbio quasi ammonisce:
«Chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da
Croce. Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi monarcomaci e Locke e
Montesquieu e Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più
Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso Silvio Spaventa; e gli
metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come
pensiero e come azione (che pur fu il libro certamente più importante dei
movimenti di opposizione). Oppure, sì, gli direi di andare a scuola da Croce,
ma non dal Croce filosofo della politica, ma da quel Croce che non si stancò
mai dall’insegnare che il filosofo puro è un perdigiorno e che la filosofia non
nascente dal gusto e dallo studio dei problemi concreti è vaniloquio se non
addirittura sproloquio» 6.
Eppure, passato svariato tempo, precisamente nel 1991, Bobbio cambia
idea e scrive che Croce è non solo uno dei suoi dieci autori di riferimento,
come aveva già affermato qualche anno prima 7, ma di tutti quello «cui ho
dedicato il maggior numero di scritti e con maggiore continuità». E
aggiunge che Croce è stato, soprattutto, un grande moralista. E come tale
va letto e giudicato. «Questo è stato sopra ogni altro il ‘mio’ Croce». Quel
Croce che credeva, «per intima convinzione che in ultima istanza siano le
forze morali che guidano la storia: sono le forze che in diverse guise e in
diverse circostanze, e quindi anche con diversi nessi secondo le occasioni,
promuovono la libertà»8.
E, per rinforzare ancora di più il suo assunto, non è un caso che, come
osserva Michelangelo Bovero, egli riporti in conclusione del suo saggio la
crociana definizione della libertà che si trova nella Storia come pensiero e
come azione: «la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e
vivrà sempre nella storia, vita pericolosa e combattente»9.
Dobbiamo allora chiederci: è accaduto qualcosa in Bobbio fra il 1955 e il
1991? Come può quel filosofo, al quale un tempo venivano contrapposti e
anteposti tanti altri nomi, essere divenuto addirittura il principale punto di
riferimento? E nel definire Croce prima di tutto un “moralista”, Bobbio
non si rispecchia ora, in qualche modo, in lui, vedendosi anch’egli tale?
L’ultima fase del pensiero di Bobbio, quella che si apre appunto nel
1979, non può perciò essere considerata di secondo ordine, sottostimata
come sembra fare egli stesso. Dopo quella data, egli non può considerarsi
6
Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 265-266.
Cfr. Norberto Bobbio, Per una bibliografia, in De senectute, cit., pp. 85-87. Gli
altri autori di Bobbio sono: Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, Cattaneo, Kelsen,
Pareto e Weber.
8
Norberto Bobbio, Benedetto Croce (1991), in Dal fascismo alla democrazia. I
regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, a cura di Michelangelo Bovero, pp.
71-76.
9
Michelangelo Bovero, Introduzione a Norberto Bobbio, Dal fascismo alla
democrazia, cit., p. 7-34. Qui p. 34.
7
124
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
un vecchio e stanco filosofo che cerca di salvare qualcosa di un mondo
ideale, coincidente quasi con uno spazio geografico (la vecchia Torino
sabauda pilastro fondamentale della solida cultura dell’Italia postunitaria),
che, come intuisce con sempre maggiore chiarezza, tende a scomparire
quasi evaporando. Egli non è dedito semplicemente a fare bilanci, ma,
stante questa mia interpretazione, ha il coraggio al contrario di rivedere
tante sue posizioni precedenti. E se partecipa sempre meno a convegni
accademici, d’altra parte la sua attività pubblicistica ed editoriale cresce in
modo esponenziale. Sono opere che, nella forma, possono ingannare:
sembrano quasi saggi di circostanza, ma si presentano come tali perché la
nuova visione del mondo e delle cose trova più adeguata espressione in
essi che non nei tomi sistematici delle vecchie impalcature metafisiche. La
storia poi vuole che, a partire dai primi anni Novanta, in Italia ci sia una
rinascita del liberalismo che nei suoi esponenti, spesso neoconvertiti alla
dottrina ma provenienti da altre sponde culturali, in primis e addirittura
da quelle marxiste, assume spesso i tratti del vecchio liberalismo
giusnaturalistico delle origini. Bobbio, spesso involontariamente, viene
così a trovarsi al centro di aspre polemiche. I nuovi intellettuali emergenti,
soprattutto da destra, lo accusano, insieme a tutto il milieu culturale
dell’azionismo torinese, di “doppiopesismo”: partendo dal dogma
dell’antifascismo, nel giudizio dato da Bobbio sui totalitarismi del secolo
scorso ci sarebbe stata una evidente asimmetria a favore dei comunisti. Le
cose, in verità, non stanno propriamente così. E, se non altre, andrebbero
molto ben distinte le fasi storiche in cui si collocavano le posizioni
crociane, nonché il lato teorico da quello pratico della questione.
Giustamente, Dahrendorf, quando si è trattato di stilare un “catalogo”
ragionato degli intellettuali che nel Novecento non hanno ceduto alle
sirene né dell’uno né dell’altro totalitarismo, non ha avuto dubbi
nell’inserire il nostro fra costoro, fra quelli che con efficacia ha chiamato
«uomini erasmiani»10 . Ma il punto interessante, nel mio discorso, è
soprattutto un altro. I neoliberali italiani, per accreditare la loro critica a
Bobbio, hanno ripreso pari pari quelle a mio avviso insufficienti categorie
del liberalismo giusnaturalistico che erano state del primo Bobbio e che il
filosofo torinese, come si è visto, era andato progressivamente slargando e
superando. È un processo evidente, questo, in Giuseppe Bedeschi, ad
esempio. Nella sua Storia del liberalismo non c’è posto né per Gobetti e
nemmeno, se non con molti, tanti, distinguo, per Croce, ma ciò avviene
con un movimento di pensiero del tutto simile a quello che era stato
proprio del Bobbio di Politica e cultura. Lo stesso pensiero liberale di
Bobbio, che paradossalmente veniva ora criticato per non essere fino in
fondo o non essere del tutto liberale, serviva come metro giudizio assunto
nella vecchia versione giusnaturalistica e sostanzialistica 11.
Venendo invece ai peculiari punti di riconversione teoretica, vorrei poi
prima di tutto osservare che l’elemento interessante è che, nella fase
ultima o della maturità della sua attività, Bobbio riprende la trattazione di
10
Ralf Dahrendorf, Erasmiani, gli intellettuali alla prova del totalitarismo,
Laterza, Roma-Bari 2007. Il volume era stato pubblicato in originale un anno prima col
titolo Versuchungen der Unfreiheit. Die Intellektuellen in Zeiten der Prüfung, Beck
Verlag, Munchen 2006.
11
Cfr. Giuseppe Bedeschi, Storia del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 1990.
125
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
concetti e temi classici dell’illuminismo, verso i quali era stato sempre
simpatetico, rivedendoli però e trasvalutandoli a partire dalla nuova
sensibilità. Non li sconfessa e nemmeno accantona, ma li riconferma,
riconfermando se stesso come grande pensatore neoilluminista,
rendendoli però meno rigidi e meccanici, corroborandoli di sensibilità
storica e di concretezza umana. Il che in buona sostanza viene a significare,
nella nuova ottica raggiunta, che quei concetti, che si era prima tentato di
chiarire e fondare a livello teorico, sono ora riconquistati e considerati a
livello pratico. L’illuminismo, detto in altre parole, diventa innanzitutto
un’esigenza morale, un compito per l’azione o un dovere, che in quanto
tale non ha necessariamente bisogno di “fondazioni” teoriche forti o
incontrovertibili, al di fuori dell’immanenza del processo storico. E’ noto
che l’ultimo Bobbio amava dire che i diritti umani non vanno fondati ma
promossi:
«Il problema che ci sta innanzi, infatti, non è filosofico ma giuridico, e in più
largo senso politico. Non si tratta tanto di sapere quali e quanti sono questi
diritti, quale sia la loro natura e il fondo fondamento, se siano diritti naturali o
storici, assoluti o relativi, ma quale sia il modo più sicuro per garantirli, per
impedire che nonostante le dichiarazioni solenni vengano continuamente
violati»12.
Questa posizione ultima di Bobbio è indicativa del fatto che tutto il
discorso che lo aveva per tanti anni tenuto impegnato sulla “naturalità” dei
diritti umani non viene certo ignorato, ma quasi passa in secondo piano
rispetto ad un’esigenza più impellente, morale e politica al tempo stesso, di
promozione e diffusione di una cultura in lato senso liberale nel mondo
globalizzato. Lo stesso processo non si ferma però, in questo ultimo
Bobbio, al concetto di “diritti umani”, ma si allarga a quelli di democrazia,
cosmopolitismo, pacifismo, ed altri ancora: tutta questa fase è dedicata a
questo tipo di revisione e rielaborazione13. Lo stesso processo investe poi il
concetto di laicità, che diventa quasi, a mio avviso, il nodo teorico centrale
per capire fino in fondo l’ultimo Bobbio, la cifra o la chiave di volta per
misurarne il senso e il peso specifico. Se dare, infatti, una curvatura etica o
moralistica al suo pensiero ha significato insistere sulle virtù, queste
ultime sono in prima istanze le virtù laiche. «Le virtù del laico - scrive in
De senectute - sono il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il
non prevaricare, la tolleranza, il rispetto delle idee altrui, virtù mondane e
civili»14.
La laicità è non solo e non tanto una procedura, o un attributo delle
istituzioni e in primis dello Stato. Essa è, in prima istanza, un insieme di
virtù o di moventi valoriali positivi per l’azione di ogni singolo individuo.
12
Norberto Bobbio, Presente e avvenire dei diritti umani, in L’età dei diritti,
Einaudi, Torino 1990, pp. 17-18.
13
Cfr. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino
1979; Id., Il futuro della democrazia, Torino 1984; Id., Il terzo assente. Saggi e discorsi
sulla pace e la guerra, a cura di Pietro Polito, Sonda, Torino 1999.
14
Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche, Milano
1994. La seconda edizione, con la nuova prefazione di cui si parla in seguito, è del 1998.
Oggi il volume è nel catalogo de Il saggiatore, sempre di Milano.
126
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Virtù dell’uomo laico è poi quella mitezza, a cui Bobbio dedica un
appassionato Elogio, definendola la virtù per eccellenza non politica:
«opposte alla mitezza, come la intendo io, sono l’arroganza, la protervia, la
prepotenza, che sono virtù o vizi, secondo le diverse interpretazioni, del’uomo
politico. La mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù.
In un’accezione forte della politica, nell’accezione machiavelliana, o, per essere
aggiornati, schmittiana, la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica.
Proprio per questo (sarà una deformazione professionale) mi interessa in
modo particolare. Non si può coltivare la filosofia politica senza cercare di
capire quello che c’è al di là della politica, senza addentrarsi, appunto, nella
sfera del non-politico, senza stabilire i limiti fra il politico e il non politico. La
politica non è tutto. L’idea che tutto sia politica è semplicemente mostruosa» 15.
Anche per il concetto di laicità il movimento di pensiero di Bobbio è
quello descritto: la rivisitazione e la riscrittura significa che quel concetto
viene ora assunto tendenzialmente in senso formale e non materiale,
tenendosi lontano da ogni ipostatizzazione contenutistica (come poteva
essere la versione “anticlericale” ottocentesca) e conseguente applicazione
meccanicistica. Un’applicazione che finirebbe fatalmente per contraddirla
trasformandola in una metafisica o un’ideologia uguale e contraria a quella
che intende combattere. La laicità è concretamente spirito, un metodo e un
sistema di idee già bello e compiuto. Lo spirito della laicità non può essere
imbrigliato in contenuti particolari, ma va soppesato di volta in volta nel
concreto della vita storica. La laicità che si “de-spiritualizza” e diventa
materia è laicismo. Bobbio da ultimo accetta la distinzione introdotta dai
cattolici fra laicità e laicismo proprio per questi motivi, perché ritiene che
abbia un valore euristico nonostante non sia supportata storicamente
essendo da sempre stati usati i due termini in modo interscambiabile o
sovrapponibile. La prospettiva del laicismo è affine a quella dei clericali
che combatte: pur col segno cambiato, in modo speculare, essa è
altrettanto ideologica, dogmatica, integralista e fondamentalista 16.
Nell’importante saggio che si trova come postazione al Manifesto laico
pubblicato come libro da Laterza nel 1999, ma che era stato prima un
appello firmato da un nutrito stuolo di uomini di cultura o della società
civile, un Bobbio lucidissimo e con uno sguardo forse più penetrante e
lungimirante di quello dei suoi mancati sodali (fra cui allora, ahimé!,
anche chi scrive), illustra con indubbia efficacia le motivazioni:
«Ciò che non mi è piaciuto nel Manifesto laico - scrive - è stato il tono
battagliero usato dagli estensori del testo per difendere la propria tesi. Un
linguaggio insolente, da vecchio anticlericalismo, irrispettoso, posso dirlo in
una parola?, non laico, emotivo e umorale, che non si esprime attraverso
argomenti e quindi sembra voler rifiutare ogni forma di dialogo […]:
‘repugnante’ la tesi avversaria, ‘sfacciato’ il volerla rivendicare. Se la differenza
fra credenti e non credenti si risolve, come io penso, nella distinzione tra
15
Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 39 (il corsivo è mio).
Al laicismo di cui parla Bobbio può essere assimilato il recente New Ateism di
autori come Richard Dawkins, Christopher Hitchens o Daniel Dennett. Una critica
liberale dello stesso la si trova in John Gray, il grande allievo di Isaiah Berlin a Oxford:
cfr., da ultimo, The Immortalization Commission. Science and the Strange Quest to
Cheat Devil, Allan Lane – Penguin Books, London-New York 2011.
16
127
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
l’uomo di ragione e l’uomo di fede per il quale la ragione è sottoposta alla fede,
come è stato ancora recentemente e autorevolmente affermato nella enciclica
Ratio et fides, il non credente deve dare al credente il buon esempio di usare
esclusivamente argomenti razionali. Lasciamo gli anatemi a coloro che si
ritengono ispirati da Dio». 17
E ancora:
«Per laicismo s’intende un atteggiamento di intransigente difesa dei pretesi
valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le
istituzioni religiose…Il laicismo, che ha bisogno di armarsi e di organizzarsi,
rischia di diventare una Chiesa contrapposta ad altre Chiese» 18.
In conclusione, ribadisco: nell’ultimo Bobbio il liberalismo classico,
politico e attento alla sfera istituzionale e giuridica, il positivismo di Locke
dei giusnaturalisti, si slarga sempre più in una sorta di liberalismo etico e
filosofico, fondato sullo spirito critico e il dubbio metodico, che non è nella
sostanza lontano dal prima criticato liberalismo crociano. O, quanto meno,
è un liberalismo che tiene in tensione costante i due approcci, etico e
politico, o meglio li integra in una visione non conciliata e non armonica,
conflittuale anche in senso epistemologico, che sembra più consona a una
dottrina che voglia essere, finché, non ideologica e non metafisica. Dopo il
tempo delle false certezze neoliberali e dell’ideologia liberista o del
pensiero unico, recuperare la dimensione del dubbio e della pluralità
conflittuale e non definitivamente ricomponibile delle entità e delle visioni
del mondo, stando attenti a non sciogliere mai il filo della tensione che
compone la dialettica storica (umana, vitale), credo che debba essere il
compito prioritario dell’uomo liberale. E Bobbio, uomo del dubbio per
eccellenza e non dispensatore per onestà intellettuale di false certezze a
buon mercato, lascia in questo senso una forte eredità da far pesare nel
dibattito e nel pensiero attuali.
17
18
Manifesto laico, a cura di Enzo Marzo e Corrado Ocone, 1999, p. 123.
Ivi, p. 127
128
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Religione e liberalismo:
ragione pubblica, sfera pubblica e pluralismo
culturale 1
di Sebastiano Maffettone 2
1. Prologo
Nel discorso d’apertura alla recente conferenza ‘Rebuilding the
Dialogue with the Arab world’ (Roma, dicembre 2008), il poeta sirianolibanese Adonis si è concentrato su due punti: il primo riguardava la
relazione tra il sé e l’altro, il secondo l’idea di verità. Le religioni, e in
particolare le religioni monoteistiche, compromettono una sana relazione
sé-altro e rendono pericoloso l’appello alla verità. Ciò è vero in quanto le
religioni (monoteistiche) sono incapaci – ad avviso di Adonis – di
comprendere le ragioni dei non credenti e affermano di possedere il
monopolio della verità. La questione araba degli ultimi anni è in qualche
modo legata a questa liaison dangereuse con la religione. Questo fatto
dipende da un corto-circuito paradossale: l’Homo religiosus, piuttosto che
l’Homo oeconomicus o l’Homo politicus, è l’unico a esprimere
propriamente la situazione spirituale dell’odierno mondo arabo, secondo
quella che i tedeschi chiamano la Geistige Situation der Zeit. Allo stesso
tempo, l’Homo religiosus incorre nei problemi appena menzionati: egli/
ella è incapace di valutare l’altro in modo imparziale e crede, ed è convinto
di vivere, in una visione monopolistica della verità. Le conseguenze
principali di questo corto-circuito paradossale sono facili da afferrare: il
progresso socio-economico e scientifico sono pesantemente minacciate
dall’Homo religiosus.
In Occidente, un problema di questo genere è stato al cuore del
liberalismo classico. Da Bayle a Locke e John Stuart Mill, il liberalismo
classico ha aspirato a realizzare la tolleranza tra persone con differenti
credenze religiose. I liberali tradizionali non attaccano la religione
direttamente, perfino quando vedono la religione come una minaccia per
la pace. Distinguono invece tra uso privato e uso pubblico della religione.
1
Questo articolo è stato redatto per la conferenza «Religion and Democracy»,
Budapest 15-16 dicembre 2008. Debbo ringraziare Aakash Singh e Peter L. per l’invito e
gli utili commenti. L’atmosfera della conferenza fu particolarmente piacevole e il dibattito
tra i partecipanti molto fruttuoso.
2
Traduzione a cura di Federico Morganti.
129
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
La religione opera liberamente all’interno del dominio privato, mentre nel
dominio pubblico deve vigere una neutralità tra le religioni. È questo,
sebbene in modi differenti, il nucleo del generale tentativo del liberalismo
classico di risolvere il problema della coesistenza pacifica tra persone
appartenenti a diverse confessioni religiose. È il dominio pubblico, qui, a
essere protetto; o, volendo, sono i cittadini a essere difesi da qualsiasi
forma di coercizione da parte dello stato in nome della religione.
Nel liberalismo contemporaneo3 la relazione tra politica e religione è
posta in modo differente rispetto al liberalismo tradizionale. I liberali
tradizionali vedono la relazione tra politica e religione in termini di
conflitto potenziale. Per ragioni storiche, essi percepiscono la religione
come una minaccia alla stabilità e ritengono che il liberalismo sia
l’antidoto appropriato a tale rischio. Da questa ermeneutica del sospetto
deriva l’idea di porre dei vincoli alla religione. È per questo che la religione
– per un liberale tradizionale – è e dev’essere mantenuta privata. Una tale
etica del vincolo è essenzialmente differente da un’etica liberale del
rispetto reciproco, com’è quella di Rawls. Per l’odierna etica liberale del
rispetto, il problema non è la minaccia della religione alla stabilità, ma
piuttosto il bisogno di un cemento sociale basato su di un consenso
universale – vale a dire, che valga per le persone religiose e non religiose –
in una società pluralista. Per essere universale e preservare il pluralismo,
l’etica liberale del rispetto deve basarsi su premesse istituzionali condivise.
La ragione pubblica di Rawls incorpora in tal modo la moralità
istituzionale di un’ideale meta-comunità. Si tratta, con le sue parole, della
più significativa «parte del capitale politico della società» (PL, trad. it.
141).
Debbo dire che l’uso che faccio del termine ‘religioso’ nel titolo
dell’articolo è in qualche modo improprio. È piuttosto ambizioso, in
generale, parlare di politica e religione, in quanto presuppone una certa
interpretazione della relazione tra una teoria della giustizia politica e
diverse teologie della giustizia. Il mio scopo in questo articolo è più
modesto, riferendomi, in ciò che segue, al pluralismo culturale, ossia il
pluralismo delle dottrine comprensive, piuttosto che al pluralismo delle
religioni. Per ‘dottrine comprensive’ intendo, come di consueto, delle
complete e profonde visioni del mondo ispirate a verità fondamentali. La
nozione di dottrina comprensiva è culturale più che religiosa, in quanto
include le prospettive religiose ma non è esaurita da esse. Ritengo che
parlare di dottrine comprensive abbia il merito di porre sullo stesso piano
visioni religiose e secolari. Così facendo, sia l’una che l’altra vengono a
contare non già per il loro contenuto ma piuttosto per il loro
atteggiamento verso la tolleranza. Da ultimo, un regime liberaldemocratico è presupposto sullo sfondo del mio resoconto del pluralismo
culturale.
3
L’idea di ‘liberalismo contemporaneo’ è qui ispirata all’approccio politico di
Rawls, in particolare al suo A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli,
Milano 1982, e Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993 e 1996,
trad. it. Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano 1994. D’ora
in avanti, questi libri saranno citati come TJ e PL.
130
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
In quello che segue, discuterò criticamente una versione del
pluralismo culturale all’interno del liberalismo contemporaneo, vale a dire
la versione di Rawls. Analizzerò inoltre alcune critiche che gli sono state
rivolte, in particolare quelle di Habermas, con l’intenzione di presentare
l’abbozzo di un’altra versione di tale relazione (la mia), che è una
derivazione di quella rawlsiana. Quest’ultima si basa sulla nozione di
‘ragione pubblica’, mentre quella di Habermas sulla nozione di ‘sfera
pubblica’. Tali nozioni non sono identiche, ma condividono l’intenzione
generale di risultare aperti e simpatetici nei confronti della religione,
ereditando al contempo dal liberalismo tradizionale un atteggiamento
prudente riguardo il ruolo pubblico di quest’ultima.
L’articolo è rivolto a un’esplorazione critica della ‘ragione pubblica’ e
della ‘sfera pubblica’ che prepari la via per una versione più generale del
pluralismo delle dottrine comprensive. La visione rawlsiana del consenso
per intersezione (overlapping consensus) e della ragione pubblica è, in
questo articolo, centrale, mentre la visione habermasiana della fera
pubblica è, piuttosto, strumentale. Naturalmente, questa differenza non ha
nulla a che fare con il valore comparativo della due posizioni, ma dipende
semplicemente dall’economia dell’articolo. Più precisamente, nella sezione
2 presenterò, come premessa, le idee rawlsiane di ‘consenso per
intersezione’ e ‘ragione pubblica’. Nella sezione 3, dopo aver presentato
alcune critiche religiose a Rawls, esaminerò la nozione di ‘sfera pubblica’
alla luce della critica di Habermas a Rawls. Qui, sia le critiche religiose che
quelle di Habermas sono principalmente usate per riformulare la
posizione di Rawls. La quarta e ultima sezione presenta in nuce la mia
personale visione del pluralismo culturale, che nasce come
reinterpretazione di Rawls.
È quasi superfluo ripetere che quest’articolo non tratta direttamente
di religione e politica, ma soltanto di alcune strategie filosofico-politiche
che diano senso al pluralismo morale, metafisico e religioso all’interno di
una cornice liberal-democratica in senso ampio. Nella parte conclusiva
dell’articolo, tale cornice sarà trasferito dalla scenario politico nazionale a
quello globale.
2. Consenso per intersezione e ragione pubblica
2.1. Consenso per intersezione
Il problema principale posto in Liberalismo politico (PL, Political
Liberalism) è la presenza simultanea, nell’odierna società liberaldemocratica, di differenti dottrine comprensive. Tale pluralismo genera
delle difficoltà nella prospettiva della stabilità. Nella seconda parte di PL
Rawls tenta di risolvere il problema che ha posto nella prima. Lo
strumento-chiave per ottenere tale risultato consiste precisamente nella
creazione di ciò che egli chiama ‘consenso per intersezione’.
Il consenso per intersezione di Rawls riguarda una situazione in cui,
in una società ben ordinata, i cittadini che aderiscono a differenti dottrine
comprensive tendono ad accettare la stessa visione politica liberale. Il
processo non afferma se stesso dal di fuori, ma ha luogo per ciascun
cittadino «dalla propria visione comprensiva», traendo vantaggio delle
«motivazioni religiose, filosofiche e morali che esso fornisce» (PL, trad. it.
131
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
134). Ciascun cittadino, a prescindere dal fatto che la sua dottrina
comprensiva fondamentale sia Musulmana o Cattolica, Secolare o
Buddista, utilitarista o kantiana, scettica o pluralista, dovrebbe
raggiungere un accordo sui principi giustizia politica liberale ed
egualitaria, trovando alcune delle ragioni per far ciò proprio all’interno
della sua dottrina comprensiva. Il consenso risultante, secondo Rawls, non
è un consenso superficiale o prudenziale, ma è piuttosto di natura morale.
Non ci accordiamo su un semplice compromesso, non basta ciò che Rawls
definisce un mero «modus vivendi».
L’intenzione fondamentale consiste nello spezzare la moralità degli
individui in due parti. Da un lato, c’è la moralità delle persone vista come
un tutto, che riposa su fondamenti etici o religiosi profondi; dall’altro lato,
c’è una più limitata moralità istituzionale, che concerne i cittadini
piuttosto che le persone e non è radicata nelle convinzioni etiche o
religione profonde di ciascuno, ma piuttosto nella lealtà di tutti al sistema
politico e costituzionale in cui essi vivono le loro vite pubbliche. La
concezione politica basata sulla moralità istituzionale rende possibile
governare il pluralismo delle concezioni del bene. Ciò si verifica proprio
attraverso la formazione di un consenso per intersezione tra i cittadini, i
quali – sebbene rimangano radicati nelle loro convinzioni ultime e, in
effetti, si nutrano di esse – nella sfera pubblica (o meglio, in certi aspetti di
essa) sono nondimeno in grado di metterle da parte e accettare una
moralità istituzionale comune e predominante.
Qui l’idea centrale è la creazione di una moralità istituzionale. Essa
ribadisce la rawlsiana «priorità del giusto». In una società ben ordinata il
pluralismo regna supremo. Differenti visioni estetiche, etiche e religiose si
incontrano e confrontano tra loro. Ma il pluralismo non può avere a che
fare con l’intero ordine istituzionale e le strutture politiche fondamentali.
Qui, al contrario, abbiamo tutti bisogno di un certo grado di unità, la
quale, tuttavia, non può fondarsi su di una singola teoria etica e politica. In
questo caso, perciò, abbiamo bisogno di un consenso meno profondo e più
ampio, il cui oggetto primario è precisamente una concezione politica della
giustizia che ammetta una struttura fondamentale che possa assicurare,
entro certi limiti, il pluralismo.
Anche per Rawls, il modello di tale consenso si ispira alla nascita del
liberalismo classico e dipende dalla difficile conquista della tolleranza
religiosa. Dopo i numerosi scontri dei secoli precedenti, la civiltà europea
scoprì, per dirla con Rawls, «una nuova possibilità sociale: quella di una
società pluralistica ragionevolmente armonica e stabile» (PL, trad. it. 12).
Prima di quel momento era possibile credere soltanto che «l’unità e la
concordia sociali richiedessero il consenso intorno a una dottrina,
religiosa, filosofica o morale, generale e comprensiva» (ibid.). Dopo quel
momento gli europei si convinsero che «è difficile, se non impossibile,
credere nella dannazione di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo,
in fiducia e sicurezza, per la conservazione di una società giusta» (PL, trad.
it. 13).
Secondo questo punto di vista tradizionale, non possiamo separare il
liberalismo dalla tolleranza, e la tolleranza, a sua volta, dalla rinuncia alla
certezza che vi sia un’unica verità. Se il liberalismo della tradizione
europea, che è quello che Rawls ha in mente, appariva come il risultato
132
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
della rinuncia a un’ortodossia, allora la teoria politica liberale dovrebbe
oggi essere ancora caratterizzata da una perdita di fede. Non è insolita la
credenza che questa separazione tra liberalismo e certezza (per non dire
verità) sia stata traumatica e abbia richiesto un lungo processo, con vari
stadi intermedi, prima che fosse raggiunta la maturità che Rawls
attribuisce alla propria posizione. Perciò, era in un certo senso naturale
che il primo tipo di liberalismo fondasse tutte le sue certezze proprio sulla
perdita della fede e fosse, come nel caso di Voltaire, di natura
fondamentalmente scettica. O che un secondo tipo di liberalismo operasse
alla luce della convinzione ultima di poter ricercare una fondazione
alternativa, sebbene altrettanto profonda, delle fedi religiose – come nel
caso dei liberalismi comprensivi di Kant e Mill. Al contrario, il liberalismo
politico di Rawls respinge questi due percorsi e sceglie una via intermedia,
che è quella del consenso per intersezione.
Molti studiosi sono perplessi dalla soluzione rawlsiana del consenso
per intersezione. La ragione di tale sfiducia nella soluzione di Rawls risiede
nel doppio standard con cui egli giudica i disaccordi concernenti le
concezioni del bene e i disaccordi concernenti le concezioni della giustizia.
È proprio questa distinzione a porre il problema più ovvio; per la ragione
che, così facendo, Rawls sembra immunizzare la nozione di giustizia da
qualsiasi conflitto. L’elogio del pluralismo, persino la sua insistenza sul
peso dei giudizi, che troviamo in PL, sembra limitata ai disaccordi sul
bene. Ma allora le «convinzioni condivise», le «idee fondamentali», le
«concezioni politiche» e, soprattutto, il «consenso per intersezione»,
sembrano confermare l’impressione che, di fronte a profondi disaccordi
sul bene, sussista una visione unitaria quantomeno dei caratteri generali
della giustizia. Da qui le reazioni dei critici: è possibile concepire un
mondo, come quello in cui viviamo, senza pensarlo alla luce dei forti
conflitti di natura politica e morale sulla giustizia?
La risposta negativa a questo tipo di domanda è la ragione per cui i
sostenitori delle tipiche obiezioni a Rawls propongono le due opzioni
critiche principali: o l’immunizzazione della politica avviene attraverso un
compromesso de facto, quello che Rawls chiama un modus vivendi,
oppure Rawls reintroduce in PL la concezione della stabilità presente in
TJ, che aveva cominciato a criticare in PL, e formula, in altre parole,
un’ulteriore versione della ‘dottrina comprensiva’ liberale.
A mio parere per rispondere a queste obiezioni è anzi tutto necessario
assumere che Rawls utilizzi simultaneamente due differenti
interpretazioni del liberalismo. Nella prima, il liberalismo è visto come una
dottrina comprensiva, che può essere positivamente identificata con la
teoria della giustizia come equità – o una sua interpretazione –, ma anche
con una concezione kantiana basata sull’autonomia o con qualcos’altro
ancora. Questa interpretazione del liberalismo, tuttavia, concerne
unicamente il livello della ‘giustificazione’, che è fondato sulla dottrina
comprensiva di ciascuno. Questo livello è esposto ad attacchi a partire
dall’«esistenza del pluralismo», tipica delle società contemporanee. Se ci
muovessimo soltanto su questo livello, sarebbe impossibile raggiungere
una convergenza in merito alla giustizia. Da questa consapevolezza, deriva
la possibilità di adoperare il secondo significato di ‘liberalismo’, basato sul
principio di ‘legittimazione’. In breve, questa seconda idea suggerisce che
133
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
vi siano istituzioni e pratiche liberal-democratiche di cui nessuna persona
‘ragionevole’ farebbe a meno. Esse sono poche e fondamentali e
riguardano gli elementi essenziali di una costituzione liberale e alcune
questioni minimali di giustizia. La mia tesi è che il consenso per
intersezione possa esistere solo nella misura in cui esso unisce le due
concezioni del liberalismo, l’una basata sulla giustificazione e l’altra basata
sulla legittimazione.
La legittimazione dà conto del fatto che Rawls provi a includere nella
sua teoria elementi dell’esperienza storica in grado, per così dire, di
qualificare il consenso con il supporto di fattori esterni in qualche modo
indipendenti dall’approccio teorico privilegiato. Secondo questa
prospettiva, la via d’uscita dal dilemma sopra menzionato può essere
unicamente ispirato dall’esperienza effettiva, che, nel pubblico dominio, è
costituita dal modo in cui la struttura fondamentale funziona nell’ambito
di un sistema liberal-democratico. E questo, esaminato da vicino, è il
punto di vista privilegiato da cui Rawls guarda alla religione entro una
teoria della tolleranza, in confronto ai suoi precursori moderni, come
Locke e Bayle, i quali dopo tutto, e diversamente da lui, non potevano
affidarsi a esempi concreti.
2.2. Ragione pubblica
Nella sesta lezione di PL (1993), intitolata ‘L’idea di ragione
pubblica’, Rawls propone – ed è l’unica volta nel libro – un argomento mai
avanzato in scritti precedenti, tratto dalle Melden Lectures del 1990. Sullo
stesso argomento ritornerà nella seconda edizione di PL (1996) e nel suo
ultimo articolo, intitolato ‘The Idea of Public Reason Revisited’.
La ragione pubblica di Rawls non concerne un oggetto determinato,
ma piuttosto i limiti del dibattito pubblico nel momento in cui sono in
ballo questioni fondamentali. Da questo punto di vista, la ragione pubblica
è la ragione dei cittadini, essendo pubblica in tre modi: (i) in quanto
ragione dei cittadini, è anche la ragione del pubblico; (ii) il suo oggetto è il
bene pubblico quando sono in questione elementi costituzionali essenziali
e questioni di giustizia fondamentale; (iii) la sua natura e il suo contenuto
sono pubblici nella misura in cui sono forniti dalla concezione politica (PL,
trad. it. 183).
Rawls discute la ragione pubblica mantenendosi nei limiti di una
concezione politica liberal-democratica. Da questo punto di vista, il primo
vincolo imposto alla ragione pubblica è di tipo istituzionale: per parlare
propriamente di ragione pubblica abbiamo bisogno di confrontarci con
elementi costituzionali essenziali e questioni di giustizia fondamentale. Vi
sono, in altre parole, molti argomenti di politica che non rientrano in
questo dominio. La ragione pubblica non si applica, ad esempio, a tutti i
dibattiti che, sebbene politicamente significativi, hanno luogo al di fuori
dei vincoli istituzionali, come quelli che hanno luogo nelle chiese, nella
famiglie, nelle università e in altre associazioni. Tutti questi dibattiti nonpubblici appartengono a ciò che Rawls chiama ‘cultura di
sfondo’ (background culture). I criteri della ragione pubblica si applicano,
al contrario, nel caso delle deliberazioni politiche nei forum pubblici e, in
modo più controverso, nelle discussioni tra i cittadini sul voto (PL, trad. it.
185).
134
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Certamente non è facile afferrare la distinzione tra ‘cultura di sfondo’
e ‘cultura pubblica’, specialmente se consideriamo il ruolo giocato dalla
coercizione statale nella definizione dei limiti della ragione pubblica. Su
tale questione Rawls sembra in alcuni casi oscuro: non è del tutto chiaro se
i limiti della ragione pubblica si applichino semplicemente quando sono in
ballo elementi costituzionali essenziali e questioni di giustizia
fondamentale (contenuto), o piuttosto quando è implicata anche la
coercizione statale. I vincoli richiesti dal contenuto sembrano a ogni modo
più importanti di quelli dipendenti dall’uso della coercizione statale.
Rispetto ai requisiti della ragione pubblica, possiamo immaginare quattro
differenti situazioni:
Vincoli richiesti dal contenuto
(elementi costituzionali
essenziali, giustizia fond.)
Vincoli
Richiesti
coercizione
(1) nei forum appropriati
(2) altrove (p. es. discussioni private)
d a l l a(3) nel legislativo
(4) altrove (amministrazione, polizia)
I requisiti della ragione pubblica si applicano certamente in (1),
mediamente si applicano in (2), mentre probabilmente non si applicano in
(3) e (4).
Una difficoltà, in un certo qual modo implicita nella nozione di
ragione pubblica, risiede nel fatto che tale concetto imponga una sorta di
doppio standard. Nei dibattiti politici più rilevanti, si dovrebbe evitare di
fare appello a verità e dottrine comprensive generali, e si dovrebbe invece
prendere sul serio esclusivamente quella parte di esse che risulti coerente
con i vincoli della ragione pubblica (PL, lezione VI, § 3).
Rawls introduce l’idea di ragione pubblica a partire dalla sua teoria
della giustizia come equità, da cui prende due tipi di valori costituenti la
ragione pubblica. Tali valori sono: in primo luogo, i valori della giustizia
politica, connessi con i principi di giustizia; in secondo luogo, alcuni valori
provenienti da «regole di orientamento all’indagine […] che rend[a]no
libera e pubblica tale indagine» (PL, trad. it. 192). Rawls ammette che i
principi di giustizia e le regole di orientamento all’indagine abbiano in TJ,
ma non in PL, «fondamenti sostanzialmente uguali» (PL, trad. it. 193).
Il requisito fondamentale, su cui si basa l’idea di ragione pubblica, è
un requisito di «legittimità politica». Secondo il principio di legittimità
politica:
«l’esercizio politico è corretto, e quindi giustificabile, solo quando si accorda
con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente attendere che tutti i
cittadini accolgano i suoi elementi essenziali alla luce di principi e ideali
accettabili per loro in quanto persone ragionevoli e razionali» (PL, trad. it.
186).
Da questo principio, deriva un’obbligazione morale chiamata ‘dovere di
civiltà’, ossia il dovere che tutti i cittadini hanno di giustificare gli uno con
gli altri i principi politici che essi adottano alla luce della ragione pubblica.
135
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
È la stessa democrazia liberale che impone un legame speciale, basato sul
rispetto reciproco, tra i cittadini.
La legittimità liberale, in PL, eccede la giustizia in due modi tra loro
contrapposti. Da un lato, affinché un atto sia giusto non è sufficiente che
sia anche legittimato. Dall’altro lato, vi sono leggi e regole legittime che
non possiamo pensare come giuste. I cittadini, tuttavia, sono obbligati a
rispettare le norme legittimate, sebbene ingiuste. La ragione è che:
«Le decisioni e le leggi democratiche sono legittime non perché giuste ma
perché legittimamente promulgate attraverso una legittima procedura
democratica approvata» (PL, 2a ediz., p. 428).
Da questa prospettiva, persino i principi di giustizia di Rawls –
anche assumendo la loro correttezza – non sono legittimati. La legittimità
liberale dipende dal consenso, ed è difficile immaginare che tutti i cittadini
(Rawls incluso) possano credere nella stessa dottrina comprensiva.
Si può comprendere meglio la natura della ragione pubblica
confrontandola con le ragioni non-pubbliche (PL, lezione VI, § 3). Le
ragioni non-pubbliche sono parte della cultura di sfondo, e i loro standard
di correttezza e criteri giustificativi derivano dall’argomento di cui trattano
e dal tipo di associazione in cui sono inserite. Al contrario, il contenuto
della ragione pubblica dipende dalla concezione politica e presuppone
l’autorità dello stato. Com’è stato notato, non bisogna confondere la
ragione pubblica con la sfera pubblica. È la sfera pubblica – e non la
ragione pubblica – a includere la cultura di sfondo. E i vincoli della ragione
pubblica non possono essere applicati nel dominio della cultura di sfondo.
Un concezione politica liberal-democratica fornisce «regole di
orientamento all’indagine» che specificano le modalità di ragionamento
accettabili e le tipologie di informazione rilevanti (PL, trad. it. 199). Queste
regole di orientamento non dipendono direttamente da alcuna dottrina
comprensiva. Di conseguenza, la ragione pubblica, quando si discute nei
forum pubblici sugli elementi costituzionali essenziali e le questioni di
giustizia fondamentale, non permette alcun appello diretto a dottrine
(comprensive) filosofiche o religiose. È possibile, invece, fare affidamento
sulle teorie scientifiche più rilevanti, quando sono generalmente approvate
dalla comunità degli studiosi.
In TJ, queste regole di orientamento all’indagine traggono la loro
base dai principi di giustizia sostantiva. In PL, al contrario, esse sono
relativamente indipendenti: differenti concezioni liberal-democratiche non
necessariamente condividono i principi di giustizia sostantiva (PL, trad. it.
194). Accettare il principio liberale di legittimità e l’idea di ragione
pubblica non significa condividere la stessa dottrina politica comprensiva:
«È cruciale che la ragione pubblica non sia specificata da alcuna concezione
politica della giustizia, certamente non dalla sola giustizia come equità.
Piuttosto, il suo contenuto – i principi, gli ideali e gli standard cui fare appello
– provengono da una famiglia di concezioni politiche ragionevoli» (PL, 2a
ediz., p. 451).
In tale famiglia sono raggruppate una serie di posizioni liberaldemocratiche. È un’idea dalle implicazioni delicate: in PL, ogni ipotesi
136
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
politica che selezioniamo dev’essere compatibile con una visione liberaldemocratica.
3.1 Obiezioni di carattere religioso alla ragione pubblica
Quando si parla di ragione pubblica, generalmente vi sono le seguenti
domande di rito: in che modo la ragione pubblica vincola i nostri
argomenti? È accettabile che tali vincoli esistano e che, di conseguenza,
all’interno del dibattito pubblico alcuni tipi di argomenti siano da evitare?
È corretto il modo in cui Rawls in particolare formula tali vincoli? Si tratta
di questioni che possono riguardare (possibili) vincoli alla ragione
pubblica in relazione a razza, etnicità o genere. Sono diventate, in ogni
caso, frequenti e talvolta persino calde per via di una prolungata serie di
critiche di matrice religiosa alla ragione pubblica.
Per porre la discussione nel giusto solco, occorre una premessa: è
opportuno cominciare a sbrogliare l’idea di ragione pubblica dalla nozione
di ragione secolare4.
La religione secolare ambisce a escludere gli argomenti religiosi dal
dibattito politico; la ragione pubblica no. Secondo gli standard della
ragione pubblica, l’appello ai valori religiosi è ammesso, sebbene debba
presentarsi in una certa forma ed essere sottoposto ad alcuni vincoli, il cui
obiettivo è il rispetto degli altri cittadini. Inoltre, mentre la ragione
secolare è solitamente supposta come autosufficiente nell’espressione delle
motivazioni delle persone nei dibattiti politici, la ragione pubblica di Rawls
richiede una sorta di complementarità tra il background religioso e il
discorso politico. In sostanza, la ragione pubblica richiede sì un sacrificio
dei sentimenti e dei valori religiosi, ma in misura senz’altro minore di
quello richiesto dalla ragione secolare. Il credente rawlsiano non è visto
come un fondamentalista. Al contrario, è possibile che un background
religioso risulti di aiuto nella soluzione di dilemmi politici. Rawls ritiene
soltanto che un cittadino religioso non possa essere certo che gli altri
cittadini comprendano le sue motivazioni basate sulla fede. Ma ciò non
implica alcuna negazione di quelle motivazioni. Piuttosto, in casi specifici e
limitati, il cittadino religioso è obbligato a rendere il suo credo
compatibile, almeno da un punto di vista comunicativo, con le opinioni
politiche degli altri cittadini. Parlare, nel caso di Rawls, di
«fondamentalismo secolare» è semplicemente fuorviante 5.
Rawls stesso fu senza dubbio una persona religiosa, sebbene il suo
rapporto con la religione divenne sempre più problematico nel corso degli
anni6. È inoltre probabile che una delle ragioni più profonde dietro la
pubblicazione di PL sia consistita proprio nel concedere alle persone
religiose il massimo spazio compatibile con una politica liberal4
R. Audi, The Place of Religious Argument in a Free and Democratic Society, in
«San Diego Law Review», vol. 30, autunno 1993, p. 677. Per Rawls la ragione secolare
corre il rischio di diventare una dottrina comprensiva.
5
P. F. Campos, Secular Fundamentalism, in «Columbia Law Review», vol. 94, n.
6, ottobre 1994, pp. 1814-27.
6
Il rapporto di Rawls con la religione è da lui stesso discusso nell’onesto e a volte
toccante saggio inedito ‘On My Religion’. Tra le altre cose, Rawls menziona tre eventi, due
di essi legati alla sua esperienza militare e il terzo non essendo altro che l’Olocausto, che
resero la sua fede più problematica.
137
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
democratica. È per questo che, in PL, il nesso tra ragione pubblica e
dottrine comprensive religiose non è mai negato ed è generalmente
considerato con rispetto.
Eppure, vi sono state numerose obiezioni religiose all’idea rawlsiana
di ragione pubblica 7. Tali obiezioni possono essere raggruppate in diverse
classi, come ad esempio le seguenti: (i) la ragione pubblica di Rawls
presenta alcuni vantaggi, ma a un prezzo troppo alto8 ; (ii) i liberali
pongono sulla religione un eccessivo fardello epistemologico ed etico, che
il liberalismo stesso non è in grado di sostenere9; (iii) soltanto gli
argomenti religiosi possono sostenere adeguatamente le richieste
pubbliche.
(i) Secondo alcuni critici religiosi, la supposta esclusione degli
argomenti religiosi dalla politica attraverso la ragione pubblica è la
conseguenza di una «ipersemplificazione», dipendente a sua volta da una
visione riduzionistica della politica. La politica, secondo una visione
riduzionistica, si identificherebbe con le decisioni politiche aventi come
proprio esito una coercizione. Tuttavia la politica – sostengono questi
critici – è molto più di questo, in quanto possiede una dimensione sociale
che non può essere ignorata. All’interno di tale dimensione, il ruolo della
religione sarebbe significativo e ineliminabile. Non c’è alcun bisogno, in
ogni caso, di negare questo ruolo, se teniamo a mente l’importanza
assegnata da Rawls alla cultura di sfondo, che è indipendente dalla ragione
pubblica. Come ho già detto, la ragione pubblica è soltanto un minuscolo
sottoinsieme della sfera pubblica. E naturalmente si può fare politica
all’interno della sfera pubblica, dove gli argomenti politici su base religiosa
hanno, per Rawls, tutto lo spazio che meritano. In conclusione, su questo
punto Rawls non sembra in sostanziale contrasto con i suoi critici.
All’interno di tale dibattito10, si può anche sostenere – come ha fatto
Paul J. Weithman 11 – che l’auspicata esclusione degli argomenti religiosi
dalla politica attraverso la ragione pubblica comporti una perdita enorme
per la comunità, in termini di energia civile e politica. Questa tesi, tuttavia,
non sembra in conflitto con il pensiero di Rawls. La tesi di Rawls, in
particolare la sua visione inclusiva, non esclude dalla politica gli argomenti
religiosi. Al contrario, questi ultimi, come nel caso di Lincoln e King, sono
tenuti in grande considerazione.
(ii) Questa critica può essere suddivisa in due parti. (1) Rawls intende
limitare l’uso pubblico degli argomenti religiosi a un dominio molto
7
Un dibattito significativo su tale questione è svolto in R. Audi & N. Wolterstorff,
Religion in the Public Sphere, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 1997. Una
interessante difesa di Rawls da un punto di vista Cattolico si trova in L. C. Griffin, Good
Catholics Should Be Rawlsian Liberal, in «Southern California Interdisciplinary Law
Journal», vol. 5, n. 3, estate 1997.
8
P. J. Weithman (a cura di), Religion and Contemporary Liberalism, University
of Notre Dame Press, Notre Dame (IN.) 1997, p. 16.
9
Cfr. J. L. A. Garcia, Liberal Theory, Human Freedom and the Politics of Sexual
Morality, in Weithman (a cura di), op, cit., pp. 218-52.
10
Un’ottima introduzione a tale dibattito si trova in J. Waldron, Religious
Contributions in Public Deliberation, in «San Diego Law Review», vol. 30, 1993, pp.
817-848. In quella sede, Waldron muove dalla ‘National Conference of Catholic Bishops’ e
dalla sua Lettera Pastorale del 1986 dal titolo Economic Justice for All.
11
Si veda l’introduzione a P. J. Weithman (a cura di), op. cit.
138
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
ristretto, attraverso un proviso: è possibile, in politica, fare affidamento su
argomenti religiosi a patto che vi sia la possibilità di riformularli in modo
coerente con la ragione pubblica. I critici religiosi possono obiettare 12 che
tale clausola crea un’asimmetria iniqua tra persone laiche e persone
religiose13: i primi non sarebbero obbligati a ricorrervi, i secondi sì.
Tuttavia questa tesi, a un’attenta lettura di Rawls, non è difendibile. La
clausola infatti non si applica soltanto alle dottrine religiose, ma a tutte le
dottrine comprensive. Il problema, in altre parole, non è soltanto di tipo
religioso14 . Esso si applica anche ai laici, come i kantiani, gli utilitaristi e –
perché no? – i rawlsiani. La ragione pubblica così interpretata non implica
alcuna iniqua asimmetria tra laici e religiosi. La ragione pubblica di Rawls
è contro ogni forma di interpretazione settaria della vita politica di una
democrazia liberale. Le interpretazioni settarie si basano sulle dottrine
comprensive, siano esse secolari o religiose.
(2) V’è un ulteriore modo possibile di concepire un’asimmetria
dell’onere della prova per le persone religiose. Si può riconoscere la
necessità di un onesto sforzo giustificatorio del tipo inteso da Rawls in PL,
negando al contempo l’opportunità di collocare gli argomenti religiosi tra
gli argomenti incapaci di svolgere questo compito giustificatorio15 .
Tacciare di irragionevolezza chiunque opti per una soluzione diversa da
una di tipo contrattualista, equivarrebbe in un certo senso a dare per
scontata la tesi liberale. Inoltre, sarebbe offensivo imporre alle persone
religiose l’esclusione dal dibattito in virtù di premesse che derivano
direttamente dalla loro fede. Così facendo, Rawls sottovaluterebbe i
«collateral commitments»16 delle persone religiose nel nome del diritto
della comunità liberal-democratica di proteggere se stessa. La proposta
rawlsiana – secondo Stout – implicherebbe un eccessivo «pensiero di
gruppo», perché i singoli individui sarebbero pronti a discutere
criticamente questioni di politica basati su premesse religiose 17.
Si può replicare a tale critica in due modi. In primo luogo, è
controverso sostenere che Rawls voglia semplicemente porre dei limiti a
coloro che si affidano alle dottrine comprensive. Forse sta offrendo loro,
piuttosto che una scelta drammatica, un’opportunità aggiuntiva:
mantenere la propria fede puntando allo stesso tempo, nella discussione di
argomenti di dominio pubblico, su una moralità istituzionale. In secondo
luogo, seguendo la mia ipotesi teorica iniziale (cfr. § 1), si può riconoscere
lo sforzo giustificatorio delle persone religiose accettando allo stesso
12
C. J. Eberle, Religious Convictions in Liberal Politics, Cambridge University
Press, Cambridge 2002, propende per un uso diretto delle argomentazioni religiose nella
vita pubblica.
13
Un’argomentazione simile è adoperata da J. Habermas, ‘Religion in the Public
Sphere’, in Between Naturalism and Religion, Polity Press, Cambridge 2008. Per la
critica di Habermas a Rawls cfr. infra, § 3.2.1.
14
Cfr. C. Larmore, Political Liberalism, in «Political Theory», vol. 18, n. 3 (ago.
1990), pp. 339-60.
15
Non tutti gli argomenti religiosi sono da considerare ‘irragionevoli’. Cfr. J.
Spinner-Halev, Surviving Diversity: Religion and Democratic Citizenship, The John
Hopkins University Press, Baltimore-London 2000, pp. 99-100.
16
L’espressione si trova in J. Stout, Democracy and Tradition, Princeton
University Press, Princeton 2005, p. 70.
17
Ivi, pp. 71-72.
139
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
tempo l’ideale di ragione pubblica secondo cui è necessaria una certa
uniformità in termini di legittimazione.
(iii) Questa critica sostiene che un fondamento religioso sia spesso
sufficiente a sostenere le rivendicazioni pubbliche fondamentali, anche
perché a lungo andare la strategia argomentativa religiosa non è differente
da quella liberale.
Per cominciare con la seconda parte dell’argomento, i liberali non
sono in grado – secondo alcuni critici religiosi – di mantenere i pretenziosi
standard della ragione pubblica. Il liberalismo non sarebbe cioè in grado di
auto-sostenersi. In un regime di autentico pluralismo, i liberali non
potrebbero supporre l’esistenza di visioni ‘condivise’, in sintonia con la
pubblica autorità, indipendentemente da virtù particolari, come quelle
coltivate dalle persone religiose 18. Le virtù civiche derivano dalla
tradizione, e le tradizioni includono le religioni. La meta-comunità
istituzionale ideale che i liberali hanno in mente semplicemente non esiste
se fondata su una base volontaristica (come nel contrattualismo). Più
radicalmente: il liberalismo, così descritto, è solo un’altra forma di
«teologia politica»19.
Se, d’altro canto, la sostanza etica ed epistemica degli argomenti
liberali non è così differente da quella degli argomenti religiosi, allora
dovrebbe essere possibile fare affidamento su questi ultimi. Inoltre, virtù
quali l’autonomia personale o la lealtà istituzionale possono avere
un’origine e un background religioso. In alcuni casi, questo argomento è
rinforzato dalla tesi ‘eccezionalista’. Questo genere di tesi sostiene che i
filosofi liberali, perfino nella forma matura della visione basata sul
rispetto, accettino alcune eccezioni alla strategia della ragione pubblica.
Eccezioni standard – accettate, tra gli altri, da Rawls – sono il sostegno
alla ragione pubblica basato sull’argomento anti-abolizionista prima della
Guerra di Secessione e l’argomento per i diritti civili à la Martin Luther
King. Tuttavia, si possono trovare sul tavolo argomenti altrettanto efficaci,
in termini di ragione pubblica, provenienti dalla religione, come quelli a
favore della famiglia e contro la poligamia, o gli argomenti contro i
duelli20. Inutile dire che questo argomento ha senso. Si può soltanto
obiettare che il problema posto dalla ragione pubblica è di carattere
normativo e non descrittivo21. Ciò implica che, anche accettando il ruolo
positivo della religione nella società civile, non si sia obbligati a sostenere
che la religione possa avere in linea di principio il ruolo della ragione
pubblica.
3.2 Sfera pubblica
18
Questa tesi è difesa, tra gli altri, da D. A. Dombrowski, Rawls and Religion: The
Case for Political Liberalism, State of University of New York Press, Albany (N.Y.) 2001,
in particolare pp. 41 e ss.
19
Su tale concetto cfr. H. de Vries e L. C. Sullivan (a cura di), Political Theologies,
Fordham University Press, New York 2006, in particolare l’Introduzione al volume.
20
Cfr. Eberle, op. cit., pp. 5-7.
21
Sulla distinzione cfr. Eberle, op. cit., e D. Hollenbach, ‘Active Churches: Some
Empirical Prolegomena to a Normative Approach’, in L. Weithman (a cura di), op. cit., pp.
291-306.
140
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Traggo la nozione di ‘sfera pubblica’ dall’opera di Habermas, in
particolare dal suo The Structural Transformation of the Public Sphere
(1962, 1989). Questa versione deriva inoltre dalla teoria politica
occidentale moderna ed è stata spesso accusata di non aver preso le
religioni e le altre tradizioni nella dovuta considerazione. Negli ultimi anni,
Habermas ha compiuto un notevole sforzo per mostrare come la sua
versione sia compatibile con la religione, basandola sull’idea di mutuo
apprendimento tra la visione del mondo laica e quella religiosa. Ha inoltre
esplorato il dibattito sulle ‘modernità multiple’ (Eisenstadt, ecc.) per
mediare tra la sua versione e questo framework alternativo.
La versione di Habermas è notoriamente basata sull’associazione
della sfera pubblica a una visione idealizzata della società civile borghese
dell’Illuminismo europeo. Nel corso degli anni, Habermas ha tentato di
qualificare la sfera pubblica alla luce della sua teoria generale: (i) come
istanza di azione comunicativa; (ii) facendone lo spazio ideale dove un
etica discorsiva della reciprocità possa aver luogo; (iii) infine, facendone
derivare la produzione standard di norme entro un regime liberaldemocratico idealizzato.
Sebbene la sfera pubblica condivida le stesse origini kantiane della
ragione pubblica di Rawls, differisce da quest’ultima nei seguenti modi:
- la nozione di sfera pubblica è più ampia della ragione pubblica di
Rawls;
- la realizzazione di una sfera pubblica normativa significativa è
strettamente connessa con la pratica democratica;
- è possibile concepire l’idea di sfera pubblica à la Habermas come la
conseguenza concettuale di una dottrina comprensiva, in quanto tale
in contrasto con il liberalismo; assumendo la plausibilità dei punti (iiii), si potrebbe dire che la sfera pubblica è al contempo più aperta e
più chiusa nei confronti della religione.
3.2.1. HRE
Lo scambio Habermas-Rawls (HRE, Habermas-Rawls Exchange) fu
pubblicato la prima volta nel 1995 sul Journal of Philosophy. In HRE,
Rawls discute pubblicamente Habermas per la prima volta. Al contrario,
Habermas aveva già a lungo discusso Rawls almeno in due occasioni, e
anche in seguito avrebbe proseguito con la sua argomentazione critica. Mi
riferisco in particolare ai capitoli 2 e 3 di Between Facts and Norms e alle
pagine 25-28 di ‘Remarks on Discourse Ethics’, scritto prima di HRE,
‘Reasonable versus True, or the Morality of Worldviews’, scritto prima e
pubblicato dopo HRE (in The Inclusion of the Other) e ‘Religion in the
Public Sphere’, scritto dopo (ma vi sarebbero ulteriori passaggi in diversi
altri articoli).
Questi scritti sono di grande aiuto nel chiarire le intenzioni di
Habermas come interprete di Rawls. Habermas concorda con Rawls
nell’adottare una filosofia sociale pluralista ma normativa (‘Reasonable
versus True’, p. 79) e nell’optare per Kant contro Hobbes da un punto di
vista fondazionale (‘Remarks on Discourse Ethics’). In particolare,
Habermas è favorevole all’intento di Rawls di incorporare uno schema
kantiano all’interno del «mondo sociale» (ivi, p. 26). Allo stesso tempo,
141
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
condanna il contrattualismo di Rawls per via del suo background
volontaristico.
In seguito a HRE, Habermas si interessa maggiormente del dibattito
politica-religione. A tal proposito, attacca la ragione pubblica di Rawls, rea
di trasformare la necessaria separazione stato-religione in un eccessivo
fardello mentale e psicologico per le persone religiose. Il nucleo
dell’argomentazione di Habermas risiede nella critica del concetto
rawlsiano di freestanding neutrality.
In ‘Reasonable versus True’ – pubblicato dopo HRE – Habermas si
concentra sulla natura del ‘politico’ in Rawls, in quanto opposto al
‘metafisico’. Habermas ritiene che l’uso rawlsiano della distinzione tra
metafisico e politico corrisponda, in primo luogo, a una peculiare visione
della neutralità, come separata da ogni dottrina profonda; e, in secondo
luogo, a uno speciale statuto epistemico che renderebbe possibile la
coesistenza di differenti dottrine comprensive. Qui Habermas sostiene che
Rawls isoli in modo improprio, se non arbitrario, la teoria politica
dall’etica, dalla religione e dalla metafisica.
La critica fondamentale di Habermas consiste nel dire che Rawls
confonde nella propria analisi il livello descrittivo con quello normativo.
Questa confusa sovrapposizione renderebbe l’argomentazione del
liberalismo di Rawls una sorta di ideologia. Da questo punto di vista,
Habermas è convinto che la sua idea di legittimazione democratica
funzioni meglio della visione rawlsiana della giustizia liberale.
Il nucleo delle argomentazioni di Habermas contro Rawls è già
sostanzialmente presente nello scambio del ’95. In HRE, Habermas
presenta una triplice critica a Rawls: (i) la ‘posizione originaria’ non è in
grado di garantire il livello di imparzialità cui ambisce (pp. 111-19); (ii)
Rawls non può distinguere propriamente – specialmente quando parla di
consenso per intersezione – tra accettabilità astratta, cioè giustificazione, e
accettabilità concreta, perdendo così una parte sostanziale del valore
cognitivo e normativo della sua argomentazione (pp. 119-26); (iii) Rawls
non è nelle condizioni di separare nettamente la libertà degli antichi da
quella dei moderni perché la sua visione del liberalismo oscura la
democrazia (pp. 126-conclusione). Tali critiche, considerate
congiuntamente, permettono a Habermas di affermare che la visione
liberale di Rawls risulterebbe modesta da un punto di vista normativo,
sebbene non «nel modo sbagliato» (pp. 110-11).
In questa sede non ci interessa molto la critica (i). La critica (ii)
concerne il consenso per intersezione, la (iii) la ragione pubblica.
La critica (ii) si basa su quella che Habermas vede come una
confusione tra normativo e descrittivo, tra accettabilità ideale e
accettazione de facto. Questa critica si applica in generale alle
argomentazioni di Rawls in PL e in particolare alla sua trattazione del
consenso per intersezione (cfr. PL, cap. 4). Secondo Habermas, Rawls
risponde troppo timidamente alla sfida delle argomentazioni
comunitariste e così facendo oscura, nella sua teoria della giustizia come
equità, alcune fondamentali argomentazioni normative.
Habermas è convinto – e francamente anch’io – che il consenso per
intersezione giochi un ruolo centrale nella teoria di Rawls in LP. È tuttavia
preoccupato dal fatto che, non avendo opportunamente distinto il
142
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
normativo dal positivo, l’intero modello rawlsiano possa perdere il suo
valore cognitivo e normativo. Il rischio per Rawls sarebbe quello di
confondere il consenso per intersezione come dispositivo normativo in
grado di sostenere la stabilità morale con il consenso per intersezione
come fatto empirico in grado di sostenere soltanto la stabilità sociale.
Il problema posto da Habermas è chiaro: o il consenso per
intersezione ha un forza normativa indipendente, oppure non può
risolvere il problema della stabilità. In quest’ultimo caso, esso non sarebbe
la via per l’accettabilità della teoria ma piuttosto uno strumento per
controllare la sua già realizzata accettazione. Naturalmente Habermas
ritiene che Rawls sia assai più vicino a questa seconda versione del
consenso per intersezione.
In altre parole, se Habermas ha ragione non potrebbe esservi alcun
nuovo contributo normativo dal consenso per intersezione. È
effettivamente così? In effetti, la costruzione rawlsiana del consenso per
intersezione in PL ambisce a ottenere un consenso intersoggettivo tra le
posizioni di differenti individui e gruppi, posizioni che si riflettano nelle
dottrine comprensive dei cittadini. A questo riguardo, è in un certo senso
vero che il raggiungimento di un consenso per intersezione sarebbe un
esito fortuito. Non vi sono garanzie a propri che ci si arrivi. Come
Habermas dice correttamente: «Accade e basta…».
Questa conclusione non convince Habermas, il quale – riconoscendo,
all’interno di un milieu post-metafisico, un ineliminabile pluralismo –
preferirebbe che i discorsi reali tra i cittadini democratici possano
convergere su un ulteriore livello imparziale. Com’è ovvio, il problema di
questa visione è che concede troppo poco al pluralismo, perché l’equilibrio
che suppone di ottenere è semplicemente un’altra e più alta forma di
imparzialismo kantiano. Invece la tesi di Rawls, posto che il
raggiungimento di quest’esito fortunato possiamo soltanto sperarlo – dato
che, come Rawls riconosce, il consenso per intersezione «accade e basta…»
– opta per un’altra visione del pluralismo. Secondo questa visione noi
possiamo ottenere una possibile, e certamente non garantita, convergenza
tra i cittadini che sostengono differenti dottrine comprensive assumendo il
consenso su alcune fondamentali questioni istituzionali. Queste ultime
corrispondono ad esempio ad alcune prerogative del regime costituzionale
americano e ai diritti umani come premessa per un’interazione globale
dignitosa (cfr. sez. 4). Da questo punto di vista, l’affermazione di Rawls
secondo cui la teoria habermasiana dell’agire comunicativo è una visione
comprensiva acquista senso, in quanto Habermas pretende – a differenza
di Rawls – che vi sia un livello indipendente e superiore di verità rispetto
alle singole dottrine religiose, metafisiche e morali (PL 378-79)22.
Per Rawls, quando si tratta del consenso per intersezione,
accettabilità e accettazione non possono essere separate con nettezza. Non
esiste alcun punto da cui si possa osservarle da una distanza tale, da poter
osservare le dottrine comprensive come meri elementi del nostro passato.
22
Il saggio intitolato Reply to Habermas apparve per la prima volta sul «Journal of
Philosophy», vol. 92, n. 3, marzo 1995, e fu in seguito incluso nella seconda edizione di
Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1996. Di conseguenza non
compare nella traduzione italiana del ‘94, condotta sulla prima edizione. Per tale ragione,
l’indicazione delle pagine è relativa in questo caso all’edizione originale [N.d.T.].
143
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Le dottrine comprensive, al contrario, sopravvivono all’interno di una
concezione politica generalmente condivisa, in una dialettica permanente
tra due prese di posizione etiche, una più profonda ma meno condivisibile,
l’altra meno superficiale ma più condivisibile.
Habermas vede Rawls in un equilibrio precario tra affermazioni
normative e affermazioni empiriche. Questa difficile coesistenza è rivelata
dal fallimento di Rawls nel presentare il ‘vero’ in tandem con il
‘ragionevole’, dove il vero – secondo Habermas – corrisponderebbe alla
validità cognitiva e il ragionevole alla validità etico-politica. Sempre
secondo Habermas, all’interno della cornice rawlsiana questo parallelo è
impossibile, perché lo spazio logico della verità è occupato dalle dottrine
comprensive. Di conseguenza, l’idea rawlsiana del ragionevole non può
sostenere epistemicamente pretese significative in etica e politica. La
teoria politica di Rawls, in altre parole, non può pretendere di fondare se
stessa su una dottrina vera. Piuttosto, essa assume significato in virtù di un
efficace compromesso tra differenti dottrine comprensive, ciascuna delle
quali con le proprie pretese di verità. Sostanzialmente, questa obiezione
non è diversa da quella precedente e più generale: in un regime
pluralistico, l’equilibro di Rawls – dice Habermas – non può avanzare
pretese normative che siano più forti di quelle avanzate dalle differenti
dottrine comprensive. Habermas, al contrario, opta per un’etica del
discorso in cui un punto di vista imparziale superiore possa essere
raggiunto a partire dalle proprie pretese di verità. Come afferma
esplicitamente: «C’è da chiedersi se i cittadini possano effettivamente
intendere qualcosa come “ragionevole” qualora non sia loro possibile
assumere un terzo punto di vista – al di là di quello dell’osservatore e del
partecipante» 23.
La critica (iii) di Habermas può essere diretta contro l’uso rawlsiano
della ragione pubblica. Essa si appella alla relazione tra libertà degli
antichi e libertà dei moderni. La libertà dei moderni include le classiche
libertà civiche, dove la libertà degli antichi concerne partecipazione e
comunicazione. Sullo sfondo, c’è una distinzione tra autonomia pubblica e
private. Habermas afferma esplicitamente: «Rawls potrebbe soddisfare più
elegantemente l’onere della prova in cui incorre in virtù del suo forte e
presuntivamente neutrale concetto di persona morale se sviluppasse le
assunzioni e i concetti sostantivi al di fuori della procedura dell’uso
pubblico della ragione»24 .
Per Habermas, il modo in cui i principi di giustizia sono derivati dalla
posizione originaria rende i cittadini in «carne e ossa» soggetti a norme già
anticipate da un punto di vista teorico (HRE, p. 128). In tal modo: «essi
non possono riaccendere i radicali tizzoni democratici della posizione
originaria nella vita civica della loro società, perché dalla loro prospettiva
tutti i discorsi di legittimazione essenziali hanno già avuto luogo» (ibid.).
Sotto questo riguardo, essi possono contribuire a quella che Rawls
chiama ‘stabilità politica’, ma al costo di essere deprivati della propria
23
J. Habermas, Ragionevole contro vero: La morale delle visioni del mondo, in
L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano
1998, p. 100, corsivo aggiunto.
24
Id., Reconciliation Through the Public use of Reason: Remarks on John Rawls's
Political Liberalism, in «The Journal of Philosophy», vol. 92, n. 3 (mar., 1995), p. 127.
144
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
autonomia. Nella cornice rawlsiana, sorgerebbe un confine tale da
separare il privato dal pubblico, ignorando così il postulato habermasiano
secondo cui i diritti umani e la sovranità popolare sarebbero co-generati.
Soltanto assumendo la loro co-originarietà, invece, è possibile far
corrispondere l’autonomia privata con quella pubblica. L’idea di Habermas
è che nel liberalismo politico di Rawls i diritti individuali avrebbero la
meglio sulla pratica democratica. La teoria della giustizia di Rawls
esproprierebbe i cittadini dei loro poteri democratici. L’alternativa
habermasiana consiste nel prendere sul serio il processo democratico di
formazione della legge. In tal modo, l’approccio procedurale discorsivo
risulterebbe confermato. Per Habermas, il significato e la forza della legge
non possono dipendere sul ragionamento filosofico. Piuttosto, essi
presuppongono un impegno effettivo della ragione pubblica nelle pratiche
democratiche discorsive.
Curiosamente il punto di vista di Habermas è qui più modesto e al
contempo più ambizioso di quello di Rawls. È più modesto nella misura in
cui l’uso pubblico della ragione è, entro il suo ambito, esclusivamente
procedurale: i filosofi non sono autorizzati a decidere su questioni
sostantive di giustizia, quest’ultime essendo lasciate al dialogo tra i
cittadini. È più ambizioso nella misura in cui Habermas non accetta un
metodo di esclusione, che permetterebbe – nell’ottica di Rawls – di
bypassare alcune controversie fondamentali nell’uso pubblico della
ragione.
È a questo punto che Rawls riprende la sequenza argomentativa in
quattro stadi avanzato in TJ. Habermas – secondo Rawls – non andrebbe
oltre il primo stadio, cioè la posizione originaria, e soltanto per questo
motivo può immaginare che i principi di giustizia siano decisi «una volta
per tutte» (PL, 2a ediz., p. 399). Per Rawls, invece, è opportuno
considerare il passaggio dal primo stadio, la ‘posizione originaria’, al
secondo, la ‘convenzione costituzionale’, per andare quindi al terzo, in cui i
legislatori approvano le leggi, e concludere con il quarto, l’applicazione
delle norme (PL, 2a ediz., p. 397). Un nuovo livello d’informazione è
disponibile in ciascuno di questi stadi, in cui progressivamente i cittadini
si confrontano gli uni con gli altri e con le istituzioni fondamentali. Queste
ultime non derivano la loro autorità dalla “testa di un filosofo”, ma
piuttosto dal «lavoro delle generazioni passate» (PL, 2a ediz., p. 399).
È in tal modo che nel liberalismo politico è garantita l’autonomia
politica dei cittadini. Libertà ed eguaglianza non sono regolate da una
decisione istantanea ma da un continuo processo inter-generazionale. In
ogni caso, i «valori non-pubblici», come Rawls preferisce chiamarli, non
possono essere derivati dal contenuto ontologico determinato da una
dottrina comprensiva. Sono derivati invece dalla «volontà del popolo» (PL,
2a ediz., p. 405).
È a partire da questa prospettiva che Rawls rifiuta la tesi principale di
Habermas in Between Facts and Norms. Secondo tale tesi, il liberalismo à
la Rawls non può mostrare in che modo «l’autonomia pubblica e privata
sono co-originarie e di eguale peso» (PL, 2a ediz., p. 412). Per Rawls,
invece, il rapporto tra la posizione originaria e gli altri tre stadi della
sequenza assicurano un opportuno equilibrio tra autonomia pubblica e
privata. A tal proposito, Rawls è acuto nel negare che il suo liberalismo
145
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
«lasci l’autonomia politica e privata in una irrisolta competizione» (PL, 2a
ediz., p. 416). Il liberalismo politico, secondo Rawls, affronta invece uno
strutturale e inevitabile dilemma della democrazia: le leggi morali non
possono essere imposte alla sovranità popolare e la sovranità popolare non
dovrebbe violare i diritti fondamentali. In sostanza, dice Rawls, nel
liberalismo politico non v’è alcuna «competizione irrisolta» tra autonomia
pubblica e privata.
La differenza in ballo qui è chiara. Per Habermas, i limiti del politico
non possono essere decisi a priori né costituzionalmente né
filosoficamente. Devono invece essere decisi attraverso un effettivo
dibattito tra individui reali. Questi ultimi, e la generalizzazione
proveniente dalla discussione pubblica non distorta, si muoverebbero cioè
su versanti opposti (McCarthy, pp. 331-32). La tesi di Rawls, su questo
punto, è filosoficamente e costituzionalmente più orientata.
4. Come accogliere il pluralismo culturale
In questa sezione conclusiva, sviluppo un argomentazione in due
punti. Nel primo, provo a chiarire cosa intendo per ‘legittimazione’. Questo
tentativo include un resoconto teorico della normatività politica basato su
una distinzione non-standard tra giustificazione e legittimazione. Nel
secondo, estendo la tradizionale interpretazione statalista del consenso per
intersezione fino a coprire alcuni aspetti di politica globale. Tale
movimento presuppone l’ideale politico che ho etichettato come
‘integrazione pluralista’.
4.1. Legittimazione
In questa parte tento di definire – per differentiam specificam,
contrastandolo con altri concetti classici quasi-sinonimi – la nozione di
legittimazione. Per legittimazione intendo un tipo di legittimità attribuita
in modo quasi-generale, o almeno largamente riconosciuta. Così dicendo
sembra tuttavia che l’onera della definizione sia semplicemente trasferito
dalla ‘legittimazione’ alla ‘legittimità’. Per andare oltre, dobbiamo
cominciare distinguendo la legittimità da altre tradizionali nozioni
filosofico-legali, come ‘effettività’, ‘legalità’ e ‘validità’. La distinzione
rispetto all’effettività è piuttosto immediata. Il mero fatto che una regola o
disposizione legale funzioni non dice nulla di speciale sulla sua legittimità,
che presuppone qualcosa di più di una conformità occasionale, come una
sorta di parziale assenso o consenso morale. La stessa distinzione può
grossomodo essere tracciata tra legittimità e legalità, sebbene
probabilmente in una forma più sfumata. La legalità di una regola o
disposizione legale implica l’accettabilità del suo pedigree formale. La
legalità insieme all’effettività, in altre parole la legalità unita a un grado
sostanziale di conformità, implica la validità. La legittimità – a differenza
della validità – presuppone tuttavia che tale potenziale accettazione sia
un’accettazione per le giuste ragioni.
Quest’ultimo punto mi esorta a presentare la mia principale
distinzione all’interno della teoria politica normativa, quella tra
146
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
legittimazione e giustificazione. Posta una definizione iniziale di
legittimazione, come legittimità quasi-generale o estesa, attribuita
pubblicamente, è certo che la legittimazione si sovrapponga in parte alla
giustificazione (essendo entrambi oggetti morali). Il problema della
giustificazione è che essa non può essere pubblica o estesa a causa di
quello che Rawls chiama «pluralismo ragionevole». In un universo legalemorale plausibile, vi sono per così dire molte giustificazioni dietro a una
sola legittimazione. Il fatto che si possano avere – in un regime di vero
pluralismo – molte giustificazioni, in termini di giustezza relativa e forse di
differenti origini culturali, sembra sufficientemente chiaro. Si pensi a ciò
che Rawls intende per «oneri del giudizio»: non si può immaginare,
nemmeno in linea di principio, che giustificazioni etiche e metafisiche
profonde convergano verso il medesimo punto focale.
Al contrario la legittimazione si basa proprio su tale possibile unità.
Ma cosa s’intende qui per ‘unità’? L’idea è che la legittimazione possa
contare sulla generale accettazione di un sistema istituzionale. In tal modo,
essa fornisce l’unica risposta plausibile al quesito hobbesiano di come
l’ordine e la stabilità siano possibili: sono possibili combinando un punto
di vista socio-politico con uno legale-morale. Ed è così – secondo tale
risposta – perché crediamo che alcune regole e disposizioni legali
fondamentali debbano essere generalmente accettate per dar senso all’idea
di un ordine (morale) legale. Tali regole possono concernere, sebbene in
modi diversi, sia l’ordine interno dello stato, i suoi «elementi costituzionali
essenziali», sia l’ordine internazionale tra gli stati. La legittimazione si
concentra sugli aspetti fondamentali della legge, essendo l’unico modo in
cui una possibile convergenza in un regime di pluralismo possa essere
raggiunta. Come vedremo, questa complementarità cooperativa tra
giustificazione e legittimazione funziona, nel mio modello, in virtù di
un’interpretazione di ciò che Rawls chiama «consenso per intersezione».
La mia ipotesi teorica riposa sulla dialettica tra giustificazione e
legittimazione. Sebbene solitamente, nella letteratura politica e teorica, tali
termini si sovrappongano, ritengo sia importante distinguerli
appropriatamente. Secondo la mia distinzione, la giustificazione ricerca il
migliore argomento teorico, è intrinsecamente sostantiva, si muove
dall’alto verso il basso ed è radicata nelle basi morali e metafisiche di una
specifica cultura. La legittimazione, al contrario, è normalmente basata su
una pratica di successo, è procedurale e fattuale, riguarda gli input di un
processo politico, si muove dal basso verso l’alto e non fa appello alle radici
profonde di una cultura. La mia tesi è che giustificazione e legittimazione
debbano essere rese complementari. Se non per altre ragioni, perché noi –
assumendo come un fatto il pluralismo delle odierne società liberaldemocratiche e il conseguente bisogno di stabilità – possiamo avere
differenti giustificazioni plausibili nei conflitti reciproci, ma possiamo
talvolta affidarci alle medesima, unica legittimazione.
4.2. Consenso per intersezione globale
Nella sezione precedente ho presentato l’idea rawlsiana di ‘consenso
per intersezione’. La sua applicazione allo scenario globale è
evidentemente più complicata e inusuale.
147
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Come sappiamo da PL, una strategia basata sul consenso per
intersezione presuppone che vi sia soltanto una e una medesima realtà
istituzionale – cioè lo stato-nazione liberal-democratico – su cui possa
esistere un consenso, sia pur a partire da differenti premessi morali,
religiose e metafisiche. All’interno di questa realtà istituzionale, è
plausibile assumere che differenti dottrine comprensive si fronteggino
reciprocamente in un regime di ragionevole pluralismo e tolleranza.
Chiaramente tale opzione è storicamente collegata all’esistenza dello statonazione. In tal caso, è plausibile supporre che la maggioranza dei conflitti
intellettuali siano per così dire parziali (o ‘ragionevoli’, per usare il termine
standard) e che in altre parole chiunque possa accettare, mantenendo la
propria visione comprensiva profonda, la cornice istituzionale in cui tali
conflitti hanno luogo.
La stessa strategia adottata per lo stato nazione potrebbe non
sembrare prima facie applicabile al dominio internazionale, non essendovi
alcuna cornice istituzionale comune cui attenersi. La mia tesi attacca
questo teorema dell’impossibilità.
Se assumiamo – come sembra normale fare – che i diritti umani non
siano soltanto un insieme di imperativi morali, bensì anche un insieme di
requisiti legali, allora possiamo assumere che tale serie di norme legali
costituisca un formidabile sfondo non facilmente removibile. È
effettivamente difficile pensare di sostituire i diritti umani esistenti con un
diverso insieme di imperativi morali, capaci in linea di principio di
difendere e proteggere la dignità umana, ma privi di un simile sfondo
storico di successo. Questa conclusione implica che differenti morali,
religioni e metafisiche possano ben fondare il medesimo insieme di diritti
umani, ma anche che sia difficile che si possa sostituire il secondo
(l’insieme esistente di diritti umani) con le prime (le religioni del mondo,
ecc.). In altre parole, è meglio accomodare le diverse religioni, morali e
metafisiche all’interno del pacchetto di diritti umani esistenti, piuttosto
che il contrario. L’integrazione di una piattaforma già esistente di diritti
umani e di svariate giustificazioni profonde degli stessi deve nondimeno
essere, a mio avviso, pluralista e critica. Ciò significa che i diritti umani
esistenti – come vedremo – non possono essere dati per scontati e la loro
forza legittimante dev’essere discussa e valutata attraverso un dialogo
interculturale aperto. Se accettiamo tale tesi, allora il modello del consenso
per intersezione può essere applicato al dominio dei diritti umani.
Per capire come, dobbiamo in qualche modo presupporre quell’ideale
politico che chiamo ‘integrazione pluralista’. In base a questa proposta i
diritti umani, come la democrazia politica e lo stato di diritto, non possono
essere difesi al centro per essere successivamente imposti alla periferia del
sistema mondiale. Al contrario, il loro successo dipende dalla possibilità di
diventare patrimonio delle singole culture nazionali. Ritengo non vi siano
dubbi in merito alla ragionevolezza politica di questa proposta. Se è inutile
imporre le certezze occidentali a membri di culture che non le
percepiscono come tali, non ha molto senso nemmeno santificare le
culture locali, astenendosi da una valutazione critica dei loro contenuti. In
ogni caso, la ragionevolezza politica della proposta non ne costituisce la
forza filosofica. Ecco perché in questo articolo la mia proposta è, in
148
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
sostanza, ricercare una sfondo filosofico consistente con la proposta di una
integrazione pluralista.
L’idea filosofica fondamentale che soggiace all’integrazione pluralista
prevede, da parte di ciascuno, un duplice livello di appartenenza e lealtà.
Su un piano etico e metafisico, ciascuno mantiene la sua tradizionale
prospettiva culturale e religiosa ma, allo stesso tempo, su un piano
politico, sceglie una visione che sia convergente con quella degli altri
membri della comunità internazionale, attraverso la progressiva
affermazione di una sorta di consenso per intersezione multiculturale.
Secondo la tesi del consenso per intersezione applicata ai diritti umani,
questi ultimi sono elementi condivisi, di natura legale e politica, coerenti
con svariati fondamenti morali, religiosi e metafisici. Perciò, tale tesi
presuppone l’esistenza di un potenziale critico inerente tutte le culture, che
in ultima istanza consentirà loro di convergere parzialmente verso la
direzione auspicata dai difensori dei diritti umani.
Tale visione ci permette di riconciliare due visioni in disaccordo su
questo tema. Secondo la prima, la sensibilità culturale alle tradizioni locali
dovrebbe avere la precedenza sull’universalità dei diritti umani. In base
alla seconda, è l’universalità dei diritti umani che, al contrario, dovrebbe
avere la meglio sulle tradizioni locali. La tesi basata sull’integrazione
pluralista tenta di riconciliare le due tesi a un livello più alto.
149
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Liberalismo e Democrazia.
Conversazione con Alessandro Ferrara
a cura di Andrea Pinazzi e Federica Buongiorno
Introduzione
Alessandro Ferrara è Professore ordinario di Filosofia Politica
all’Università di Roma Tor Vergata ed è stato Presidente della SIFP. La sua
ricerca si concentra in particolare sui temi della validità normativa e del
giudizio: tra le sue pubblicazioni più recenti, ricordiamo The Force of the
Example. Explorations in the Paradigm of Judgment, New York,
Columbia University Press, 2008; The Uses of Judgment, special issue of
«Philosophy and Social Criticism», Vol. 34, 1-2, 2008. Ricordiamo inoltre,
tra gli studi degli anni ’90: Justice and Judgment. The Rise and the
Prospect of the Judgment Model in Contemporary Political Philosophy,
London, Sage, 1999; Reflective Authenticity. Rethinking the Project of
Modernity, London and New York, Routledge, 1998; Modernity and
Authenticity. A Study of the Social and Ethical Thought of Jean-Jacques
Rousseau, Albany, State University of New York Press, 1993. In questa
conversazione, Ferrara ripercorre i capisaldi del proprio pensiero
filosofico-politico, valorizzando l’inscindibilità, oggi, del nesso liberalismodemocrazia.
Intervista
Prof. Ferrara, può spiegarci brevemente, sulla base dei Suoi
riferimenti classici (non solo Kant, ma anche Arendt, Rawls, Dworkin,
Habermas) come leggere oggi, a Suo avviso, il rapporto tra liberalismo e
democrazia e quale dialettica o quale co-implicazione è riscontrabile tra i
due?
Io sono fra quelli che trovano totalmente privo di senso distinguere
oggi fra liberalismo e democrazia. Il trattino che unisce la liberaldemocrazia non è né posticcio né un orpello ideologico: una democrazia
senza liberalismo è come le "repubbliche democratiche" dell'Est Europa,
per fuggire dalle quali le persone rischiavano la vita a Berlino, e che sono
crollate di schianto nel 1989; oppure è come quella "democrazia" che fino a
ieri teneva in piedi Mubarak e Ben Ali, e per sottrarsi alla quale di nuovo la
gente ha rischiato la vita. Democrazia senza diritti liberali
costituzionalizzati è solo quella che si chiama mob rule o, se vogliamo un
151
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
termine con un pedigree più ricercato, è solo "tirannia della maggioranza".
Per converso, un liberalismo senza democrazia oggi non saprei cosa possa
significare: chi pensa abbia senso separare i due termini mi trovi un solo
esempio contemporaneo di "liberalismo senza democrazia" e sono
disposto a ritrattare.
Da un punto di vista genealogico, invece, la distinzione coglie la
differenza, che è stata pregnante fino a tutto il 18° secolo tra il "consenso
dei governati" e il "governo dei governati" (quest'ultima è un'espressione
di Lincoln, quindi della metà del XIX secolo, ma è assai efficace). Questa
differenza riguarda la risposta che da filosofi politici diamo alla domanda,
da sempre al centro di ogni approccio normativo: che cosa distingue
l'esercizio legittimo del potere dall'uso arbitrario della forza? A partire dal
Secondo trattato del governo civile, pubblicato da John Locke nel 1690, la
risposta che inaugura il paradigma liberale recita: "è il consenso dei
governati a distinguere fra le due cose", e questo consenso si è coniugato,
storicamente, con l'idea di diritti naturali che guidano il nostro giudizio di
governati e fanno sia da argine sia da standard per valutare l'esercizio del
potere. Questo è liberalismo, ma non ancora democrazia.
L'idea democratica è più esigente, va al di là del porre come criterio il
consenso. Il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, del 1762,
propone un patto in cui non si dia cessione di libertà da parte del futuro
cittadino nel passaggio da stato di natura a stato di diritto, neppure quella
cessione sempre revocabile e temperata dai diritti naturali cui pensava
Locke, ma al contrario il cittadino rimanga "libero come era prima" di
stipulare il patto stesso. È questa l'ambizione della democrazia: far sì che
noi come destinatari delle leggi che regolano la nostra convivenza ne siamo
in qualche modo anche gli autori. Il potere legittimo è quello cui non solo
diamo il nostro consenso, ma che emana in ultima analisi da noi stessi.
Rousseau però aborriva l'idea dei diritti naturali come argini che
dall'esterno condizionano la volontà democratica sovrana, e dunque ne
riducono in qualche modo la sovranità. Si affidava, per porre dei limiti non
solo prudenziali ma di principio alla volontà legislatrice, ad altri
meccanismi di garanzia – che avevano a che fare con il carattere generale
dell'oggetto della deliberazione, con una certa eguaglianza di condizione
fra i decisori, con l'atteggiamento mentale dei decisori – ma non alla
nozione liberale di diritti.
Dalla fusione delle due prospettive nel costituzionalismo moderno –
si pensi alla Costituzione votata a Filadelfia nel 1787 o a quella francese del
1791 ad esempio – nasce un embrione di democrazia unita ai diritti, ma
ovviamente ci vorrà più di un secolo perché si arrivi al suffragio universale
e ai moderni istituti di garanzia, alla judicial review e alle forme attuali
della democrazia costituzionale.
Il punto è però che nell'orizzonte in cui ci troviamo la fusione fra
liberalismo e democrazia è ormai avvenuta ed è completata da una ventina
di anni a questa parte, ovvero da quando in Liberalismo politico (del 1993)
John Rawls ha per la prima volta purificato il liberalismo contemporaneo
da ogni residuo di perfezionismo morale che gravava sui liberalismi
"comprensivi" o "pesanti" del passato, con la loro tendenza a
fondamentalizzare l'autonomia individuale, il pluralismo, i diritti stessi,
ecc. Il liberalismo "politico" prende le distanze dal normativismo
152
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
comprensivo di Una teoria della giustizia che forse ancora poteva in
qualche modo essere distinguibile da una posizione che partiva dalla
"democrazia".
Nella vostra domanda citate il nome di Dworkin, che è forse il
rappresentante più illustre di un liberalismo "forte", più simile a quello
perfezionista: non a caso Dworkin parla dell'eguaglianza come "virtù
suprema" e disdegna la ragione pubblica. Eppure quando in Freedom's
Law difende la sua concezione liberale, in realtà liberal, contro una visione
maggioritaria della democrazia, la difende in nome di una concezione
costituzionale della democrazia. Non c'è dunque modo di separare
liberalismo e democrazia nel quadro attuale, se non a prezzo di tradire in
ultima analisi tanto il liberalismo quanto la democrazia. La prova più
evidente di questa necessità concettuale è nel travaglio habermasiano.
Poiché il liberalismo dei politici liberali in Germania assomigliava al
liberalismo italiano – in larga parte, pur con lodevoli eccezioni, elitario,
conservatore, confindustriale, retorico quando non ideologico – è
comprensibile che Habermas abbia sempre evitato di fregiarsi di questa
etichetta e abbia preferito insistere nel definire la sua posizione
"democrazia deliberativa", da Fatti e norme in poi. Il che non toglie che al
cuore del suo impianto ci sia una liberalissima giustificazione discorsiva
dei diritti e una originale tesi della "co-originarietà" di diritti e volontà
democratica sovrana – appunto il sigillare l'unione di liberalismo dei
diritti e democrazia della volontà popolare sovrana.
Dunque, e concludo, oggi non ha alcun senso separare democrazia e
liberalismo, anche perché per un verso nulla più vincola il liberalismo
contemporaneo al giusnaturalismo dei diritti (che un tempo fu parte
essenziale della nascita del liberalismo) o a una specifica concezione
(atomistica) dell'individuo o della libertà, e per l'altro la tragica esperienza
dei totalitarismi nati da elezioni democratiche ci ha resi molto più
sospettosi nei confronti di ogni forma plebiscitaria, populistica o anche
solo maggioritaria di democrazia, basata cioè sull'idea che la legittimità del
potere risieda sul suo rispecchiare sic et simpliciter il volere espresso dalla
maggioranza.
La Sua ricerca ha ruotato attorno alla questione della validità
normativa, riformulata anche in rapporto al contenuto normativo del
kantiano giudizio riflettente: questo tema ci permette di porle due
domande, tra loro connesse. In primo luogo, in che modo è a Suo avviso
possibile articolare la dimensione normativa all’interno dell’orizzonte di
pensiero liberale e dunque anche quali limiti associare al paradigma
liberale? In secondo luogo, in che modo Lei ritiene vada riconsiderato il
formalismo associato alla declinazione tradizionale della validità
normativa?
La risposta alla prima domanda è: nel modo più vario. Il liberalismo
è connesso all'idea che esistano limiti "di principio" e non soltanto, come è
ovvio, prudenziali all'esercizio del potere, nonché all'idea che la legittimità
poggi sul consenso di cittadini "liberi ed eguali" che – nella versione
contemporanea del liberalismo – si indirizza ai "constitutional essentials",
ovvero alla cornice fondamentale della convivenza comune, non ai dettagli
153
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
minuti dell'azione legislativa, esecutiva o giudiziaria. Nella mia opinione, il
punto più alto di 25 secoli di discussione normativa su cosa voglia dire
governo legittimo, da Platone in poi, è racchiuso nel "principio liberale di
legittimità", così enunciato da Rawls a p. 126 di Liberalismo politico.
Permettetemi di citarlo: «noi esercitiamo il potere politico in modo
pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una
costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i
cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e
ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi
essenziali». Questo è il cuore del liberalismo contemporaneo. La
legittimità del potere dipende dal suo essere esercitato non in armonia con
il volere dell'ultima maggioranza regolarmente eletta, non in armonia con
"ciò che la gente pensa", non in armonia con le nostre tradizioni politiche,
non in armonia con un testo canonico, sacro o secolare che sia, ma in
armonia con una costituzione di cui non i dettagli, ma i principi
fondamentali siano accettati da tutti i cittadini – e non soltanto da una
classe, etnia, casta, congregazione, setta, fazione, elite particolare di
cittadini – in piena libertà, e da eguali, e siano infine accettati sulla base di
principi, non sulla base del timore riguardo alle conseguenze del dissenso
o della non accettazione.
Ciò premesso, i modi in cui si può "articolare la dimensione
normativa all’interno dell’orizzonte di pensiero liberale" sono i più svariati,
e storicamente abbiamo visto liberalismi eretti su basi filosofiche le più
diverse. Abbiamo liberalismi che partono dalla premessa giusnaturalistica
che gli uomini sono stati creati eguali, come quello di Locke, liberalismi di
matrice kantiana (oggi in auge grazie anche all'opera del primo Rawls), e
per converso liberalismi più indebitati verso l'utilitarismo (come quello di
John Stuart Mill), e poi liberalismi pragmatisti, come quello di Dewey, né
sono mancati liberalismi impiantati su uno storicismo hegeliano, come
quello di Croce. Dunque non esiste a mio avviso una sola maniera di
articolare la dimensione normativa all'interno del liberalismo. Io prediligo
il minimalismo normativo del secondo Rawls, e nel Capitolo 3 di La forza
dell'esempio ho cercato di mostrare come la normatività del ragionevole –
che è lo standard di riferimento della "ragione pubblica" – debba essere
interpretata in chiave di esemplarità se vogliamo veramente mantenerla
distinta dalla normatività del razionale e da quella della ragione pratica in
senso kantiano. Quindi io non vedo dei limiti intrinseci al paradigma
liberale in quanto tale, a meno di non ridurlo arbitrariamente a una sola
delle sue espressioni storiche (per esempio a meno di non ridurlo
all'individualismo atomistico, ma Dewey e Croce e Rawls dove li
mettiamo?). I limiti, se poniamo la domanda dal punto di vista della
dimensione normativa, sono i limiti della prospettiva kantiana,
dell'utilitarismo, della visione hegeliana della storia, applicate al
liberalismo – limiti che spesso si elidono gli uni rispetto agli altri – non del
liberalismo in quanto tale.
Diverso è il caso del formalismo. Qui io vedo un limite intrinseco a
ogni concezione che faccia proprio il tratto a mio avviso fondamentale del
formalismo, ovvero la separazione di forma e contenuto. Formalismo non
è la priorità del giusto sul bene, senza la quale la pluralità delle idee del
bene conduce ben presto agli eserciti ignoranti che si scontrano di notte.
154
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Formalismo è l'idea che il giusto sia piuttosto una procedura che si
raccomanda a noi separatamente dalle intuizioni etiche che incorpora.
Pensiamo alla regola procedurale per cui chi taglia le porzioni di una torta
sceglierà per ultimo. Formalismo è separare la validità di questa procedura
dal contenuto, dimenticando che la procedura ha senso solo nella misura
in cui desideriamo parti eguali come esito. Se per un motivo qualsiasi –
ad esempio, alcuni dei destinatari della torta sono bambini e altri adulti
che non hanno bisogno di calorie extra, oppure alcuni sono degli stranieri
cui vogliamo far gustare una specialità locale a noi ben nota – non dessimo
valore all'esito "parti eguali", ecco che la cogenza della procedura
evaporerebbe d'incanto. In positivo, credo che il criterio di validità vada
riformulato nel senso in cui Rawls condensa la validità normativa della sua
"giustizia come equità" non agganciandola a un qualche ordine
dell'universo che sarebbe meglio rispecchiato da essa rispetto alle
concezioni concorrenti, ma condensandola nella formula per cui questa
visione della giustizia, data la nostra storia, "è la più ragionevole per noi".
Si potrebbe scrivere un trattato filosofico sul significato di questa
espressione. Per farla breve, vuol dire che valido normativamente è ciò che
ci mette, non solo individualmente ma collettivamente, nella posizione
archetipica di Lutero che dice "non posso fare altrimenti", il che vale con
piena necessità per lui, dato chi lui è, non indipendentemente da chi lui è.
Il verbo modale "non posso" esprime un momento di necessità, di
indisponibilità di ciò che è normativo, che rende l'espressione
radicalmente diversa da un soggettivistico "non voglio fare altrimenti".
Egualmente, affermare che la "giustizia come equità" è la più ragionevole
concezione politica della giustizia per noi, non equivale a suggerire che la
scegliamo fra tante in base all'arbitrarietà delle preferenze.
È molto interessante il parallelo che Lei - appoggiandosi
all’aforisma di Th. W. Adorno Non si accettano cambi, contenuto in
Minima moralia - traccia tra politica e dono. Lei ha sostenuto che in ogni
politica attiva ci sia un elemento di gratuità, qualcosa che sfugge, per
dirla con Adorno, al dominio. Significa che la politica, elevandosi dalla
dimensione empirica dell’organizzazione della società, può costituire un
elemento di rottura? Quel terreno su cui puntare i piedi per spezzare un
orizzonte di accecamento?
Sì, ho sempre provato meraviglia filosofica di fronte a questo aspetto
paradossalmente "donativo" della politica. Anche il più incallito
sostenitore della Realpolitik o geopolitica, come si chiama oggi, dovrà
concedere che almeno a qualcuno si deve donare fiducia, altrimenti c'è
solo il fatto del conflitto, l'anarchia, non la politica. E a uno sguardo più
attento si vedrà che questo qualcuno non è mai una sola figura, ma un
insieme di figure: l'alleato, il rappresentante, il leader, anche il seguace.
Quello che Socrate fa valere contro Trasimaco con riferimento alla
giustizia – il fatto che persino una banda di ladroni deve praticare un
minimo di giustizia al proprio interno, altrimenti non potrebbe nemmeno
coordinare l'azione criminale dei suoi membri – vale anche per il dono
della fiducia. Non si può strictu sensu non donare fiducia a nessuno e
pretendere al tempo stesso di stare dentro la pratica chiamata politica.
155
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Persino un seguace di Carl Schmitt dovrà ammettere che se all'amico si
nega fiducia quanto al nemico, la distinzione fondativa della politica perde
ogni senso.
Un discorso simile, mutatis mutandis, vale anche per il dono del
riconoscimento – non quel riconoscimento trascendentalizzato (tu hai una
mente, proprio come me) senza il quale non c'è azione sociale, men che
mai politica, ma il riconoscimento come attribuzione volontaria di stima.
Risponderei positivamente perciò anche alla seconda parte della
domanda: diceva Platone che non c'è polis in cui almeno come flebile
fiammella non sia viva l'idea di giustizia, e penso che si possa egualmente
dire che se non si dà polis senza fiducia e riconoscimento. Allora lì c'è un
punto di appoggio positivo per spezzare gli orizzonti di accecamento.
In La forza dell’esempio Lei afferma che la sorgente di ogni
liberalismo va ricercata nel repubblicanesimo, intendendo questo
secondo termine come esercizio della ragione pubblica. Nell’orizzonte
politico contemporaneo che, pur autoproclamandosi liberale, lascia
spesso sorgere il sospetto di un trionfo della ragione privata, è ancora
valida quest’affermazione? E in che misura?
Ho scritto che il liberalismo è l'erede e continuatore della tradizione
repubblicana nel senso che ad essa è debitore di una serie importantissima
di elementi: l'idea di limiti "di principio" e non solo prudenziali
all'esercizio del potere, l'idea che i fini della koinonia politica devono
essere neutrali e non controversi fra i cittadini, l'avversione verso le
concezioni utopistico-armonicistiche della comunità politica e la
valorizzazione del conflitto come aspetto fertile e positivo, l'intuizione
della divisione dei poteri. Ma il liberalismo è anche il portatore di un
elemento di innovazione fondamentale: l'idea di diritti individuali
inalienabili e inviolabili. Quando la parte di Dante perde la sua battaglia
nella città, a lui tocca assaggiare "come sa di sale lo pane altrui". E il
Principe di Machiavelli lo dobbiamo al confino del suo autore a San
Casciano a seguito del ritorno dei Medici. La differenza specifica del
liberalismo è nella nozione che perdere in politica, anche perdere
radicalmente, su tutti i fronti, non può significare perdere i propri diritti.
Quindi il liberalismo introduce qualcosa che non era mai esistito prima, se
non molto embrionalmente, per esempio nell'idea aristotelica per cui non
è dato agli ordini della polis interferire con gli ordini naturali dell'oikos o
nell'idea hobbesiana per cui il sovrano non può legittimamente obbligare il
suddito a mettere a rischio la propria vita (tranne che per la salvezza della
patria).
La ragione pubblica, invece, è qualcosa che interviene molto dopo, se
usiamo il termine rigorosamente. Non esiste ragione pubblica nei
liberalismi perfezionisti, né tantomeno esiste nei repubblicanesimi preliberali: esiste solo la ragione pratica. Ed esiste poi un uso pubblico della
ragione pratica, come applicazione in politica dei "giusti principi" scoperti
altrove, o da un testo sacro, o dalla natura, o dalla ragione autonoma e
secolare. La ragione pubblica comincia a esistere quando si dà per scontato
il "fatto del pluralismo ragionevole", ovvero l'idea che la pluralità di
orientamenti di valore è l'esito di default, da attendersi, quando la ragione
156
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
degli uomini operi in condizioni di libertà, senza un potere oppressivo che
la incanali con incentivi e disincentivi, e quando si comincia a pensare che
le istituzioni politiche fondamentali devono assumere questa pluralità
come un elemento inevitabile e intrascendibile, non esorcizzarla sulla base
di principi "presunti" giusti.
Nella seconda parte della domanda scorgo uno spostamento di
significato. Ciò che viene chiamato il "sospetto di un trionfo della ragione
privata" mi sembra qualcosa collocato su un altro piano, il quale attiene
non tanto al contrasto fra ragione pubblica e ragione assolutizzante,
quanto piuttosto al contrasto fra orientamento al bene pubblico versus
orientamento all'interesse privato. Fatta la tara per questo spostamento di
senso, risponderei che sicuramente rimane valida, oggi più che mai,
l'aspirazione a prendere ad oggetto il bene comune, non foss'altro perché
non si può sapere quale dei beni privati meriti priorità se non in
riferimento alla sua ricaduta sul "bene comune", e aggiungerei che la
ragione pubblica è quell'organo che ci aiuta a discernere quale sia il bene
"veramente comune" fra i tanti che si mascherano da bene comune solo
per meglio conquistare un vantaggio competitivo rispetto agli altri beni
particolari. Quale sia il bene veramente comune può esser detto solo da
una ragione anch'essa comune, ossia pubblica.
La via da Lei indicata (ne La forza dell’esempio) per rendere conto
della specificità dei contesti reali e politici, dunque per garantire una
visione pluralista, senza con ciò scadere in una contrapposizione radicale
con la visione universalista, consiste nell’universalismo esemplare del
giudizio: l’esemplarità è elemento che Lei trae dal dominio dell’estetica,
con particolare riferimento alla III Critica kantiana, ma in che consiste
esattamente la sua traduzione politica e in che modo essa riesce nel suo
trascendere i singoli contesti senza far loro violenza? Non vi è il rischio di
incappare in una casistica generalizzata?
Ricorre l'anno prossimo il tricentenario della nascita di Rousseau e
alla sua opera è dedicato l'appuntamento che la mia disciplina, la filosofia
politica, dedica ogni tre anni alla discussione di un classico. Nella relazione
che farò identifico nella autocongruenza esemplare di un oggetto simbolico
con se stesso (l’autenticità se guardiamo a questa autocongruenza in senso
morale, come per la prima volta fa Rousseau) una delle fonti moderne
della normatività. L’esemplarità come autocongruenza, essere legge a se
stesso, suscita ammirazione – pensiamo al “Qui io sto. Non posso fare
altrimenti” di Lutero – e certamente sollecita emulazione, che è qualcosa
di diverso dall’imitazione. Infatti, emulare vuol dire riprodurre il nocciolo
di qualcosa, (l’autocongruenza esemplare o autenticità nel campo morale),
all’interno di coordinate altre. Questo ha il suo posto “nel mondo dell’arte”.
Gli scrittori leggono gli scrittori precedenti con avidità, Proust legge
Flaubert, i pittori visitano le opere dei predecessori, e così i musicisti, per
non parlare dei registi, che costantemente si ispirano e citano
predecessori. Cosa cercano? Non certo “modelli da imitare”, bensì cercano
come si dice nel linguaggio ordinario “ispirazione” per il proprio lavoro
artistico, ossia cercano di capire in che modo i grandi che li hanno
preceduti hanno generato esemplarità entro le loro coordinate, al fine di
157
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
trarne insegnamento su come poter generare soluzioni artistiche esemplari
all’interno di coordinate diverse che sono le proprie.
I principi generali, in questo quadro di riferimento, sono
ricostruzioni ex-post che sintetizzano il nocciolo normativo di esperienze
esemplari, nel tentativo di renderle “riproducibili”. Quando scriviamo un
regolamento per un corso di studi o per un condominio, facciamo una
costituzione bonsai. Cerchiamo di fissare principi di condotta che
traducono e rendono riproducibile “da chiunque” ciò che immaginiamo lo
studente esemplare o il condomino esemplare farebbe. Ciò è possibile
perché la condotta in questione è sufficientemente semplice nella sua
struttura e anche immaginabile in astratto. Non si può fare la stessa
operazione e scrivere regole prescrittive per un buon romanziere o per un
buon politico. Sembra che Il principe faccia proprio questo: fornire regole
di comportamento politico a governanti che si vogliano mantenere al
potere. In realtà è un’apparenza ingannevole: nessuno può imparare a fare
il principe leggendo Il principe. Ad un primo livello di lettura Il principe è
una ricostruzione delle regole implicite seguite da principi eccellenti, però
ad un secondo livello Il principe addita al principe-lettore esempi a cui
rifarsi, ma che andranno studiati come uno scrittore legge un altro
scrittore, assorbendolo avidamente dall’interno della logica della sua
operazione artistica, capendo cosa avrebbe fatto lui ad un certo punto, per
poterlo riprodurre nel proprio contesto diverso.
Anche la democrazia ateniese è inesportabile nel contesto del
moderno Stato-nazione, dove non c’è modo di riunire i cittadini in
un’agorà ma bisogna ricorrere agli istituti della rappresentanza. Però
l’esemplarità di quel momento della polis rivive, ed è costantemente
rivisitata, da democratici che in condizioni diverse tentano di farne rivivere
il nucleo esemplare. Oggi siamo testimoni di un altro passaggio, dalla
democrazia entro lo Stato-nazione alla democrazia in un contesto postnazionale quale è l’Unione Europea. Molti si stracciano le vesti perché
leggono la non-riproducibilità di quella esemplare fusione di una nazione,
una cultura ancorata a una lingua con una grande letteratura, un mercato
integrato, una memoria storica comune, una sfera pubblica unificata e un
sistema di partiti che fu la democrazia su scala nazionale come un deficit
democratico e in ciò non si sforzano abbastanza di cogliere l’esemplarità
del nuovo, una forma di democrazia non più collegata a quelle circostanze,
come la democrazia moderna è pur sempre democrazia ma non più
collegata alla consultabilità del popolo nell’agorà. Lo sforzo anche qui non
va indirizzato a individuare regole e principi: questi verranno, in fase
ricostruttiva, quando avremo identificato esperienze esemplari per noi di
democrazia post-nazionale.
Nella esemplarità è contenuto qualcosa che può germogliare altrove:
a differenza dell’esperienza estetica, dove l’unicità è “irriproducibile” – se
riscriviamo tale e quale l'Ulysses di Joyce, esso perde il suo valore – in
politica possiamo trapiantare un germoglio e vederlo crescere egualmente
in un contesto diverso. L’ethos democratico sopravvive anche senza
un’agorà dove riunire fisicamente il popolo, il capitalismo può svilupparsi
anche senza etica protestante, la vie verso la modernità possono essere
multiple, la forma Stato si è radicata in ogni angolo del mondo. Ciò che è
esemplare nel suo momento aurorale in un luogo può attecchire altrove.
158
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Quindi la capacità di trascendere il contesto di origine, da parte di ciò
che è artisticamente, moralmente, o politicamente esemplare consiste
nell'ispirare altri a prenderlo come riferimento entro le proprie diverse
coordinate. Questa capacità ispiratrice, che è una forza normativa di
prim'ordine e che ho chiamato forza dell'esempio, poggia a sua volta su un
sensus communis, che possiamo ricostruire non come uno stock di giudizi
depositati e trasversali alle culture, ma come una sensibilità alle stesse
matrici di rilevanza o dimensioni dell'esistenza, che ogni cultura mette in
forma diversamente ma con cui non può non venire alle prese: in tutte le
culture si ha un corpo, si muore, si avverte il limite di ciò che è e il
trascendere della trascendenza, si codifica la differenza di genere, si
tematizza il confine fra sé e altro. Non sono le stesse note che risuonano
nelle diverse culture, ovviamente, ma noi siamo esposti a un certo numero
di corde che fanno vibrare note diverse. Non c'è rischio di rifluire in una
casistica quando ci situiamo a questo livello di analisi. La casistica viene
dopo, quando l'esemplarità si consuma nel diventare illustrazione di
qualcosa che già conosciamo, come quando perdiamo cognizione della
metaforicità della gamba del tavolo: è allora, solo in questo successivo
momento di cristallizzazione culturale, che Achille diventa l'esempio del
coraggio, Francesco di Assisi della bontà, Tayllerand della furbizia, Lutero
dell'integrità, Luigi XIV dell'assolutismo, e così via.
Lei ha notato come, a partire dagli anni ottanta, il recupero della
nozione di comunità abbia sostanzialmente modificato quella di
liberalismo. Quali sono le implicazioni e le conseguenze di questo
mutamento per il rapporto tra liberalismo da un lato e democrazia
dall’altro?
È una domanda apparentemente semplice, ma nasconde un paio di
insidie. La prima è che ci sia stato un "recupero della nozione di
comunità", quasi un ritorno della Gemeinschaft contro la Gesellschaft
liberale. Se prescindiamo dai tribalismi di cui è piena la cronaca, ovvero
dallo scontro di etnie in tanti contesti post-1989, in quanto fenomeni forse
interessanti per la scienza politica ma di nullo interesse per la filosofia
politica – allora dobbiamo chiarire che i termini sono un po' diversi.
Partiamo da una frase famosa: «La Grande Società ha invaso e
parzialmente disintegrato le piccole comunità [locali] senza creare una
Grande Comunità». È una frase scritta da un grande liberale, John Dewey,
a p. 127 del suo The Public and Its Problems, ed è stata scritta nel 1927. La
distinzione fra le "piccole comunità", cui ho aggiunto fra parentesi quadre
"locali", per meglio intenderci, e il termine "Grande Comunità" dissipa
ogni dubbio riguardo al fatto che il "recupero della nozione di comunità"
abbia a che fare col recupero della "Gemeinschaft" toennesiana e riguardo
al fatto che questo recupero avvenga soltanto a partire dagli anni ottanta.
In realtà è dal primo novecento che avviene un ripensamento radicale della
nozione di individuo, con l'interazionismo simbolico di George Herbert
Mead, immerso nello stesso humus filosofico pragmatista di Dewey. Per
entrambi l'individuo si costituisce all'intersezione di reti di interlocuzione
sociale, non è più in alcun modo la monade autosufficiente, possessivoproprietaria e massimizzatrice di utilità tipica del liberalismo classico – e
159
©
Lo Sguardo– RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 7, 2011 (III) – LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Dewey e Mead sono fior di liberali, non certo anti-liberali. Quindi
dobbiamo guardarci, a mio avviso, dal pensare che ci sia una contesa fra
comunità e liberalismo, e dobbiamo piuttosto vedere il dibattito sul
liberalismo come attraversato dalla domanda intorno a come pensare
l'individuo. Non a caso i grandi autori della cosiddetta critica comunitaria
al liberalismo degli anni ottanta – Michael Sandel, Alasdair MacIntyre,
Charles Taylor – hanno tutti centrato la loro critica sull'idea liberale
classica del sé, e hanno con ciò dato occasione a John Rawls di recidere
definitivamente ogni legame filosofico tra la "concezione politica della
persona" esposta in Liberalismo politico e l'atomismo dei liberalismi
perfezionisti. Persino all'interno di un liberalismo perfezionistico, ma
sofisticato, quale è quello di Ronald Dworkin, troviamo lo spazio
concettuale per parlare di "Comunità liberale", come recita il titolo di un
suo famoso saggio del 1989. In questo senso concordo con l'assunto,
presente nella domanda, per cui la critica comunitaria avrebbe mutato il
liberalismo, ma conducendolo a mutare la sua nozione di individuo in
senso quanto meno neutrale, se non intersoggettivo.
La seconda insidia, presente nella domanda, è già stata discussa
sopra, e consiste nel presupporre che abbia oggi senso la distinzione fra
liberalismo e democrazia, come se si potesse chiamare democrazia un
regime in cui si vota, vige il principio di maggioranza, i cittadini sono
autori delle leggi ma le fanno senza riguardo alcuno ai diritti soggettivi
della persona, ovvero come se si potesse chiamare liberalismo un regime in
cui chi governa non è democraticamente eletto. Tuttavia va sottolineato
come il mutamento della concezione dell'individuo propria di una certa
parte del liberalismo novecentesco – trasversalmente alla divisione tra
liberalismi perfezionisti e “politici” – certamente ha contribuito a
rafforzare il collegamento, divenuto inscindibile, fra liberalismo e
democrazia.
160