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La stabilzzazione del paradigma sinodale

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LA STABILIZZAZIONE DEL PARADIGMA SINODALE Vito Sibilio Quando da queste colonne, azzardai la previsione che il perimetro sinodale, tracciato dal Papa, sarebbe stato tutt’altro che rivoluzionario, il primo Sinodo sulla Sinodalità si stava per avviare. Al concetto di sinodalità avevo dedicato, qui e in altra sede, alcuni pezzi piuttosto corrosivi, affermando tuttavia che, se tale concetto fosse stato declinato diversamente da come faceva allora una certa maggioranza ecclesiale, esso poteva perdere qualunque valenza dissolvitrice e anzi persino trasmutarsi in qualcosa di buono. Oggi che il secondo Sinodo si è chiuso e ha consegnato alla stampa persino la sua Relazione finale, mi sembra di aver azzeccato. Vediamo perché. Innanzitutto va detto che il documento finale non è firmato dal Papa, che quindi non ne fa un atto di magistero proprio, anche se ha ordinato di inserirlo nella collezione dei documenti ufficiali della Chiesa. Il fatto è che il Sinodo è un organismo consultivo, il cui potere deriva dal Pontefice, che quindi è il solo a poter dare vigore magisteriale alle decisioni dell’assemblea. Non firmandolo, ossia non adottandolo come testo proprio, Francesco lo ha di fatto declassato. Certo, è un testo alla cui redazione ufficialmente hanno partecipato delegati di tutto l’Episcopato mondiale, ma il Sinodo non è un Concilio Generale né Ecumenico e inoltre ad esso, con diritto di voto, hanno partecipato anche i laici, per cui il documento finale non è un atto di magistero episcopale. E’ a tutti gli effetti un documento nuovo, ma essenzialmente consultivo, orientativo e nulla più. Il Papa della Sinodalità ha voluto mantenere le mani libere e ha conservato intatta la plenitudo potestatis dei suoi predecessori, così solenne e così gerarchica. Inoltre, il documento, a parte la tradizionale prolissità dei testi ecclesiastici, specie negli ultimi tempi, non contiene nessuna dottrina specifica – ne’ potrebbe con le premesse di cui sopra – e di fatto ribadisce una idea di Sinodalità che altro non è che una forma estesa di partecipazione, di condivisione, anche se i processi decisionali rimangono, come da Tradizione con la maiuscola, nelle mani del clero. Non è assolutamente vero che la Chiesa rimane in una sinodalità permanente come in una rivoluzione maoista, anzi, esattamente come quest’ultima, essa sembra essersi cristallizzata, esaurita nelle sue forme più impressionanti, imbrigliata dallo stesso uomo che l’aveva evocata dalle nebbie del recente passato della Chiesa latinoamericana segnata dalle esperienze delle comunità di base, ossia Papa Francesco. D’altro canto, il testo contiene auspici interessanti, molti dei quali erano stati caldeggiati più volte da molti, compreso il sottoscritto; auspici che non sovvertono nulla, ma in compenso rinnovano e vivificano. La proposta di rinvigorire l’antica prassi dei Concili provinciali e di quelli locali è tutt’altro che nuova – risale al Primo Millennio – ma è perfettamente congruente con la necessità di una Chiesa oramai mastodontica di delegare scelte e orientamenti pastorali e disciplinari in loco. Con il Primato petrino diventato dogma, un tale processo di decentramento non minerebbe l’unità, ma favorirebbe la pluralità. Ha funzionato per mille anni, non si capisce perché non potrebbe funzionare ora. Il suggerimento di un organismo di raccordo tra il Papa e i Patriarchi mi sembra poi un modo per evidenziare da un lato la dignità paritetica delle giurisdizioni apostoliche e dall’altra la preminenza su di esse di quella petrina. Non vi è invece alcuna traccia di quelle innovazioni che molti auspicavano e ancor di più paventavano, perché in palese discontinuità con la dottrina di una Chiesa che pretende di essere infallibile. Anzi tutte le questioni controverse sono state mirabilmente insabbiate dal Papa in persona, che le ha riservate alle Commissioni di studio che dipendono da lui. Una di esse, forse la più scabrosa perché riguardante il dogma, ossia il Diaconato femminile –inteso come clone di quello maschile – è stato già derubricato come impossibile al momento dal Pontefice stesso. Il che, nel linguaggio peronista della Sinodalità, significa che non accadrà mai. E questo a dispetto del tenore letterale del documento finale del Sinodo che affronta il tema, ma con un linguaggio così generico da poter fare il paio sia con la situazione vigente che con una ipotetica diversa. Tutto sta nel capire cosa si intenda per Diaconato, che letteralmente indica un ministero di servizio. Anche il passaggio del testo sul conferimento di maggior potere alle Conferenze Episcopali, persino in campo dottrinale, non contiene niente di definitivo e, soprattutto, di irrealizzabile. Sempre nel Primo Millennio, le controversie dottrinali iniziavano in loco e finivano a Roma. Nulla vieterebbe ai Vescovi in seduta plenaria di pronunziarsi, nell’ambito della propria competenza, su questioni dibattute. Sulla stessa scia si muove l’auspicio di una procedura più snella nell’approvazione degli atti conciliari locali. Tuttavia credo che nulla cambierà su tali questioni nel sistema burocratico romano. Suggestivo e fumoso il passaggio su una liturgia sinodale, perché così com’è può significare ancora una volta tutto e il suo contrario: una partecipazione consapevole alla celebrazione e un suo cambiamento. Ma il processo decisionale, ancora una volta, rimane nelle mani del Pontefice, al quale si chiede solo un gruppo di studio. Inoltre, è significativo che il potere del singolo Vescovo venga ribadito, mentre il riferimento ad una formazione sinodale del clero sembra più orientato allo stile di vita e di pastorale che ai contenuti della funzione ecclesiastica. Non un clero delegato del popolo ma un clero meno separato da esso. Nulla di nuovo. E molto di saggio. Alla base del testo vi è, evidentemente, ancora una volta una teologia sfumata, volutamente imprecisa, necessaria per quel superamento delle tensioni polari che tanto è caro a Bergoglio nella sua lettura personale di Romano Guardini. Vi è qualcosa come sempre di ambiguo, che permette al suo peronismo ecclesiastico di non far sentire sconfitto nessuno. Ma vi è anche un dato di fatto, ossia che questa conduzione soft non è un fatto casuale. Papa Francesco si è rivelato un timoniere abile e accorto. La sua idea di Chiesa, che è quella della Teologia del Pueblo, non ha concesso nulla al neomodernismo, anche se è molto diversa da quella a cui l’Europa è abituata. Facendo confluire nel cammino sinodale mondiale i percorsi, spesso erratici se non eterodossi delle comunità occidentali allo sbando, a partire dalla Chiesa tedesca, Francesco ha mantenuto l’unità della Cattolicità decantando le tensioni. In poche parole, il Papa ha tenuto fede alla sua parola: non ci sarebbero state trasformazioni – nonostante molti le volessero – e non ci sarebbero state censure – nonostante molti le sperassero. La Chiesa Cattolica, in piena crisi sistemica, mantiene la sua forza attraverso l’unità e questo è, ad oggi e chiaramente, un merito di quel Gesuita atipico che è diventato Papa col nome di Francesco e che, senza dubbio, pur rimanendo discusso e in alcune cose discutibile, sarà ricordato come un importante Vescovo di Roma.