LA SINODALITà. I FONDAMENTI DOTTRINALI
1. PREMESSA
Il problema della sinodalità è venuto all’ordine del giorno in buona parte per motivi strumentali e puramente funzionali,
determinati dalla diminuzione del numero dei preti.
Vi si aggiunge, indubbiamente, anche la consapevolezza ecclesiale di una missione da attuare in un mondo profondamente cambiato,
nel quale si è affermata una forte coscienza della dignità e della libertà della persona,
che non permette più agli uomini di sentirsi definire “sudditi”.
Francesco nel 50° dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2015)
“Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio.
E nel Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la dottrina della fede (29 gennaio 2016):
“Occorre promuovere, a tutti i livelli della vita ecclesiale, la giusta sinodalità».
In realtà è un problema di attuazione dell’ecclesiologia del Vaticano II:
si tratta infatti di rispettare la natura carismatica della Chiesa, corpo di Cristo, dotato di diverse membra,
sì che ciascuno contribuisca alla sua vitalità con un suo proprio carisma.
Sul problema esiste ormai una letteratura enorme: v. Aldo Moda oltre 100 pagine di titoli prima del 2005.
Non è quindi una problematica passeggera di cui tener poco conto,
né tale che non debba comportare dei cambiamenti importanti nella conduzione della comunità ecclesiale,
sia della Chiesa universale, che delle strutture diocesane e parrocchiali.
Nessuno oggi è in grado di dire in maniera adeguata come si realizzerà la sinodalità,
anche se non manca lo spazio per accrescerne la coscienza e gradualmente aumentarne la pratica.
A questa lezione è chiesto di indicare la base dottrinale sulla quale porre il problema,
prendendo atto delle ampie possibilità di cambiamento che l’impianto dogmatico della struttura gerarchica permette,
come risulta dall’esperienza di ciò che altre volte è avvenuto in questo ambito nella storia,
2. Il necessario superamento di alcuni pre-giudizi
Un certo rigetto dell’idea viene dal giusto rifiuto di quella che sarebbe una rozza pretesa di distribuzione del potere nella Chiesa.
Al contrario, dotando i pastori della Chiesa di più forti istanze sinodali,
se ne accresce l’autorevolezza evitando il pericolo che l’autorità si ritrovi ad operare da incompetente
in ambiti per i quali altri fedeli, e non i pastori, hanno le competenze adeguate.
Si tratta quindi di superare l’attuale impoverimento della dinamica ecclesiale, dovuto alla mancanza di sinodalità
che non permette la confluenza nelle decisioni della Chiesa della ricchezza di “esperienze e competenze” presente nel corpo cristiano
e che non è solo ricchezza umana, ma dovizia della grazia dello Spirito Santo:
parlare di “competenze”, alla luce del NT, vuol dire parlare dei carismi dei fedeli.
Un secondo pre-giudizio da superare è l’idea che la sinodalità trasformerebbe la struttura gerarchica autocratica della Chiesa in una struttura democratica,
In realtà la struttura della Chiesa non è democratica, ma neanche autocratica, perché è comunionale.
Ora, è vero che la struttura della Chiesa non è democratica, perché il potere a chi detiene l’autorità non viene dal popolo,
ma dal sacramento istituito da Gesù Cristo, che costituisce in autorità i pastori della Chiesa.
Ma in quanto alle procedure proprio la Chiesa antica è stata in buona parte la creatrice delle procedure democratiche,
con la conta dei voti e la determinazione dei criteri di definizione di una maggioranza e delle minoranze:
nei concili e nei sinodi si è sempre votato, nel conclave si vota, per la elezione dei vescovi nel diritto orientale anche oggi si vota, nei monasteri e nei capitoli dei religiosi si vota, nelle associazioni laicali si vota, nel presbiterio si vota per eleggere i rappresentanti nel consiglio presbiterale…
E in tutte queste istanze si sono sempre elaborate nella Chiesa procedure diverse per tabilire i criteri della maggioranza e la considerazione da prestare alle minoranze.
Si veda come lungo la storia della chiesa si siano trattate le diverse declinazioni della decisione per rivelazione divina, per l’unanimità del consenso, per il principio della major pars e quello della sanior pars, ecc., fino alla decisione del Tridentino di usare il criterio della maggioranza a voto segreto, quindi al di là di ogni possibilità di distinguere la sanior dalla major pars. (E.Ruffini, Il principio maggioritario del 1926, ora Adelphi 1087, p.30).
Un terzo pre-giudizio da superare è che non si possano definire i limiti dell’autorità gerarchica,
quasi si trattasse di una “auctoritas ad omnia”.
L’ordinamento canonico attuale in verità ne determina i limiti nei confronti delle istanze superiori
e in maniera più debole nei confronti delle istanze inferiori,
nella determinazione dei diritti dei fedeli in genere e dei fedeli laici (cann.208-231).
Vedi il diritto di ricevere la parola di Dio e i sacramenti (Can. 213)
il diritto di evangelizzare (Can. 211),
di fondare associazioni (Can. 215),
di promuovere proprie iniziative di apostolato (Can. 216),
di manifestare ai pastori e di rendere pubblico il proprio parere sui problemi della Chiesa, ecc.
Una prima ed elementare promozione della sinodalità consisterebbe già nel rispettare davvero questi diritti
e col favorire nei fedeli la coscienza di questi loro diritti, che poi sono anche loro doveri.
3. I fondamenti della sinodalità della Chiesa
3.1. La Chiesa è il popolo di Dio
L’ecclesiologia più fresca e innovativa, prima del concilio,
leggeva il valore misterico della Chiesa attraverso la figura del corpo mistico,
che permetteva allo stesso tempo la sua traduzione nella struttura visibile di carattere gerarchico (capo e membra, “societas inaequalis” Pio X, Vehementer nos 1906).
LG 6, dopo avere esposto diverse immagini della Chiesa,
nel n. 7 dedicava un lungo testo al corpo mistico.
Fu chiesto, poi (Suenens) di preferire come figura centrale la categoria biblica di popolo di Dio
che permetteva di parlare della Chiesa anche come soggetto storico operante nel mondo.
Su questo punto poi il concilio ha operato una svolta importante,
ponendo il capitolo sul popolo Dio prima e non dopo quello sulla gerarchia,
perché l’unità del soggetto responsabile della missione venisse prima della distinzione di soggetti diversi per diverse funzioni dentro l’unico soggetto:
AA2: “C'è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione”
Atti 15 mostra come nell’affrontare la gravissima questione dell’ammissione dei pagani, dalla cui soluzione è dipeso tutto il futuro del cristianesimo,
6 “si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema”.
ma non lo fecero senza la partecipazione di tutta la Chiesa: infatti i messaggeri di Antiochia
4 “Giunti a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani”
e, pervenuti alla conclusione, i partecipanti all’assemblea scrissero nel decreto:
22Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene di …
Il fatto è che la missione è responsabilità propria di tutto il popolo di Dio, non di alcuni:
LG 9 chiama la Chiesa “popolo messianico”
“Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo”.
Il CIC tradurrà il concilio nel Can. 781
“ Dal momento che tutta quanta la Chiesa è per sua natura missionaria e che l'opera di evangelizzazione è da ritenere dovere fondamentale del popolo di Dio, tutti i fedeli, consci della loro responsabilità, assumano la propria parte nell'opera missionaria.
Già nella determinazione dei diritti e doveri dei fedeli laici si sosteneva che
Can. 225 - §1. I laici, … sono tenuti all'obbligo e hanno il diritto di impegnarsi, sia come singoli sia riuniti in associazioni, perché l'annuncio divino della salvezza venga conosciuto e accolto da ogni uomo in ogni luogo”.
Se ora tutti i fedeli hanno il dovere, oltre che il diritto, di attuare quello che è il compito fondamentale di tutta la missione della Chiesa
non può non sorgere la questione del ruolo dei fedeli in tutte le decisioni che di volta in volta si devono prendere nell’attuazione concreta della missione stessa.
E’ nota la tradizione antica:
428 Celestino I “nullus invitis detur episcopus”
445 Leone Magno: “Qui praefuturus est omnibus ab omnibus eligatur”.
Ma anche nella grande tradizione canonistica medievale il principio “quod omnes tangit ab omnibus approbari debet” spesso viene invocato.
1215 Innocenzo III invita i sovrani al concilio Lateranense IV perché
“in hoc generali concilio multa tractanda sunt quae ad statum vestri ordinis pertinent”.
Era giudizio dei canonisti infatti che, quando emergono problemi difficili che riguardano tutti
“convocandi sunt illi quos haec tangunt, quia sicut dicit ius, quod omnes tangit ab omnibus approbari debet” (Umberto di Romans).
Per Bernardo da Parma i laici non partecipano ai concili, selvo che ci siano invitati, ma se vi si tratta del matrimonio i fedeli coniugati vi possono partecipare.
In realtà bisognerebbe procedere dall’idea che il soggetto responsabile sono tutti i fedeli
e che bisogna addurre le ragioni per sottrarre a tutti i fedeli alcune funzioni riservate ad alcuni e non viceversa.
Naturalmente, l’evocazione storica non offre modelli da riprodurre tali e quali
ma dimostra l’ampiezza di possibilità di adozione di molte forme diverse
e quindi di riforme dell’ordinamento attuale.
3.2. La Chiesa è un popolo sacerdotale
LG 10. “Per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10)”.
Il testo richiama Rom 12,1
“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”
dove “spirituale” non si contrappone a corporale (offrite i corpi!), ma dice l’animazione dello Spirito Santo
che dà vita e valore sacerdotale, di mediazione fra il mondo e Dio, “a tutte le attività del cristiano”.
Per LG 10 la differenza tra il sacerdozio dei fedeli laici e quello dei ministri ordinati
non è una differenza di grado, come dire che questi sono più sacerdoti degli altri,
ma una differenza essenziale, nel senso che si tratta di due compiti sacerdotali diversi.
Infatti LG 35 osserva che l’evangelizzazione operata dai laici
LG 35 “acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo”
mentre i ministri ordinati nel nostro ordinamento non sono coniugati, non hanno funzioni politiche, abitualmente non esercitano un’altra professione,
per cui non si può pensare che preti e vescovi
GS 43. “siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione”.
E’ così che l’unico sacerdozio di Cristo è operoso nella vita quotidiana degli uomini attraverso ambedue queste diverse funzioni sacerdotali.
3.3. Il carattere carismatico della Chiesa
San Paolo ci dà l’immagine della Chiesa corpo di Cristo
ed enumera le attività più diverse dei cristiani come dotate del dono dello Spirito per il quale tutti i fedeli lo compongono e ne realizzano la vitalità
Rom 12 4Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, 5così anche noi, … 6 … chi ha il dono della profezia…7chi ha un ministero … chi insegna … 8chi esorta … chi dona… chi presiede… chi fa opere di misericordia”.
e in 1Cor 12 sostiene che nel corpo di Cristo che è la Chiesa nessuno può presumere di non avere bisogno degli altri
21Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi. 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto,
Leggendo questi passi fondanti il carattere carismatico della Chiesa
risulta chiaro che non ci sono cristiani carismatici e cristiani non carismatici
e che i carismi dello Spirito non producono di per sé fenomeni eccezionali di vita cristiana,
ma operano nella vita comune dei cristiani.
San Tommaso non considera affatto i doni dello Spirito (carismi), come grazie particolari o straordinarie:
«In tutte le energie da cui derivano gli atti umani, come si danno le virtù, così anche i doni».
1a 2ae q. 68 a. 4 c.: «In omnibus viribus hominis quae possunt esse principia humanorum actuum, sicut sunt virtutes, ita etiam sunt dona».
E’ la vita cristiana in quanto tale che si svolge sotto il presidio delle virtù e dei carismi dello Spirito Santo.
Nel commento al capitolo 12 della Lettera ai Romani egli afferma che
l’unità del corpo di Cristo si realizza ogni volta che
«un fedele si mette al servizio dell’altro secondo la grazia che gli è stata data»,
non solo nelle “res divinae”, ma anche nei problemi propri pertinenti
«alle cose umane, nelle quali egli può essere di aiuto a qualcuno».
In Rom 12, lectio 2: «Frustra enim esset membrorum diversitas, nisi ad diversos actus ordinarentur. … Membrum enim quodlibet proprium actum habet et virtutem; inquantum ergo unum membrum sua virtute et actu alteri prodest, dicitur membrum alterius, … Unde dum unusquisque fidelis secundum gratiam sibi datam alteri servit, efficitur alterius membrum. … Secundo docet diversarum gratiarum usum, et, primo, in rebus divinis, … secundo tangit ea quae pertinent ad res humanas, in quibus potest aliquis alteri subvenire.
Sono i carismi che oggi chiameremmo della secolarità e ai quali pensiamo soprattutto quando riflettiamo sulla condizione di vita dei fedeli laici.
A Tommaso appare del tutto ovvio considerare sotto la luce dei carismi l’uomo che ogni mattina esce di casa per andare al lavoro: egli cita il
Sal 104,22s «Sorge il sole…Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera».
In 1Cor 12 (reportatio vulgata), lectio 1: «Omnes tamen uni domino serviunt. … Deinde ponit distinctionem operationum, dicens et divisiones operationum sunt, quibus aliquis in seipso bonum operatur, sicut per ministrationes ad proximum. Ps. CIII, 23: exibit homo ad opus suum, scilicet sibi proprium».
Sarebbe un errore, infatti, attribuire a Dio «solamente una sua provvidenza di carattere generale»
e pensare che le «distinzioni fra le cose particolari siano frutto solamente delle cause seconde».
In 1Cor 12, lectio 2: «Circa quod tres errores excludit. … Secundo errorem eorum qui Deo attribuebant solum universalem providentiam rerum, ponentes quod distinctiones particularium fiunt solum per causas secundas. Contra quod subditur dividens singulis prout vult. Eccli. c. XXXIII, 11: in multitudine disciplinae domini separavit eos».
Una vera perla, infine, è l’osservazione, da invidiare anche oggi per il senso di realismo che la sostiene, che
“nella Chiesa senza il contributo di alcune persone di basso rango sociale, come i contadini e altre persone simili, la vita quotidiana non potrebbe proseguire, mentre questo potrebbe avvenire anche senza le persone più ragguardevoli dedite alla contemplazione e allo studio” (1Cor 12, lectio 3).
In 1Cor 12, lectio 3. «In Ecclesia sine officio aliquarum abiectarum personarum, puta agricultorum et aliorum huiusmodi, praesens vita transiri non posset; quae tamen posset duci sine aliquibus excellentioribus personis contemplationi et sapientiae deputatis, quae Ecclesiae deserviunt ad hoc quod sit ornatior et melius se habens».
Quanto basta per poter parlare di competenze ed esperienze specifiche nella Chiesa
non solo e non tanto come dati puramente sociologici,
ma come luoghi eminenti in cui si rivelano i carismi dello Spirito.
La conclusione di Tommaso riguardo alla gerarchia è che se i “praelati” sono raffigurati nel capo del corpo mistico e i sudditi nei piedi,
come non può l'occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”,
“così non può dire il capo ai piedi, cioè ai sudditi: ”Non ho bisogno di voi”, giacché, come dice Prov 14,28 “Nella moltitudine del popolo sta la dignità del re”.
4. I diversi soggetti della sinodalità
L’ambito vitale della missione per ogni fedele o gruppo di fedeli è determinato dai diversi carismi che lo Spirito gli dona loro
e che si manifestano nelle sue attitudini esplicate nella vita quotidiana.
La teologia scolastica parlava di “grazia di stato”.
La pluralità diversificata dei carismi ha la sua radice nel battesimo
che è fonte di innumerevoli e diversi carismi nell’articolarsi del corpo ecclesiale.
Fra questi poi spiccano due forme di vita carismatica particolari
in quanto derivanti da due specifici sacramenti,, l’Ordine e il Matrimonio,
che non sono destinati alla santificazione delle persone,
ma abilitano a due determinati ministeri da esercitare nella Chiesa.
Già a suo tempo lo riconosceva il Catechismo del Concilio di Trento, come fa oggi il Catechismo della Chiesa cattolica: “Due altri sacramenti, l'Ordine e il Matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all'edificazione del popolo di Dio (1534)”..
4.1. I carismi del Battesimo
La loro visibilità spicca soprattutto nei fedeli laici, non perché siano propri dei laici,
ma perché nei fedeli laici i carismi battesimali non vengono sovrastrutturati da carismi ulteriori fondanti particolari istituzioni ecclesiastiche,
come accade a chi riceve il sacramento dell’Ordine e del Matrimonio e a coloro la cui vita sarà sovradeterminata dai voti della vita consacrata.
Se la missione della Chiesa vissuta dai fedeli laici è caratterizzara dal loro impegno nelle “opere propriamente secolari” LG 36 riconosce che
“nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, ecc. … Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua luce che salva.
Benedetto XVI riprenderà, pur sommessamente, l’argomento della necessaria assunzione da parte del magistero delle competenze e delle esperienze dei fedeli laici,
affermando che a proposito dei problemi della vita sociale e politica,
i laici dovrebbero essere non solo esecutori degli insegnamenti del magistero, ma
«collaboratori preziosi dei pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze».
Discorso nel 50° anniversario dell’enciclica «Mater et Magistra», 16 maggio 2011.
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Ne deriva che i fedeli nella loro particolare condizione laicale
devono essere considerati come i primi soggetti atti a discernere le forme che la missione della chiesa assume nell’ambito secolare.
GS 43 invita i laici (dice a nuora perché suocera intenda?) a non ritenere che
“i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero”. V. anche LG 30
L’impostazione, quindi, di pratiche sinodali dovrebbe giovarsi
non solo di valutazioni di carattere globale di tutta la comunità,
ma anche della valorizzazione delle competenze specifiche necessarie in base all’oggetto in questione (questioni di politica, della scuola, della sanità, di economia, ecc.).
Su questo piano soprattutto risalta evidente l’impoverimento che subisce la Chiesa se ogni e qualsiasi decisione resta responsabilità esclusiva dei pastori.
4.2. I carismi del Matrimonio
Se nell’insieme del corpo cristiano i carismi sono individuabili dalle condizioni di vita e le competenze che vi vengono ad operare
il particolare stato di vita dei fedeli coniugati e genitori
attinge il suo carisma da un sacramento, come accade per i ministri ordinati.
Il concilio definisce, infatti, “eminente missione” quella dei coniugi e dei genitori (GS 47), come testimonanza di amore fra di loro, nell’impegno della educazione dei figli e nell’esercizio della loro
“responsabilità nel necessario rinnovamento culturale, psicologico e sociale a favore del matrimonio e della famiglia” (GS 49).
I fedeli che sono coniugi e genitori, secondo GS 50, hanno un loro peculiare carisma, grazie al quale sui problemi della famiglia
GS 50: “di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio… tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa. … i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina stessa; e siano docili al magistero della Chiesa”.
Nel magistero più recente vedi AL 120 e 121.
Si pone quindi il problema del necessario bilanciamento fra il “retto giudizio” che gli sposi si formeranno “di comune accordo e con sforzo comune”
e quello del magistero “che interpreta in modo autentico la legge di Dio alla luce del Vangelo”.
E’ ciò che ispirava i canonisti medievali nel ritenere fosse doveroso invitare ai concili dei fedeli laici coniugati,
quando vi si dovessero affrontare questioni riguardanti il matrimonio.
Orazio CONDORELLI, Quod omnes tangit debet ab omnibus approbari. Note sull’origine e sull’utilizzazione del principio tra medioevo e prima età moderna, in Ius Canonicum 53,13,101-127.
Soprattutto nell’ambito del servizio da rendere alla società con la promozione dei valori cristiani della famiglia,
una gerarchia di soli uomini e celibi, senza una convergenza sinodale tra pastori e fedeli coniugati e genitori,
appare di giorno in giorno sempre più improponibile come unico soggetto ecclesiale autorevole.
4.3. I carismi del sacramento dell’Ordine
Nella teologia postridentina il sacramento dell’Ordine dava agli ordinati il potere di celebrare i sacramenti e perdonare i peccati.
La missio canonica dava poi il potere di governo con l’annessa autorità.
La Lumen gentium vede invece scaturire dall’ordinazione tutti i tria munera
per i quali gli ordinati diventano «maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (LG 20).
I tria munera poi non sono esclusivi dei ministri ordinati, poiché anche gli altri fedeli sono
LG 31 “partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.
Per cui la differenza dei ministri ordinati rispetto agli altri fedeli
sta nel fatto che gli ordinati li esercitano in alcuni casi in maniera esclusiva e con autorità.
Il carattere di autorità implica il dovere dell’obbedienza là dove il munus è esclusivo,
come la determinazione della dottrina e il governo dei sacramenti,
mentre implica il bisogno della sinodalità là dove il ministero pastorale si intreccia con quello dei fedeli laici, ai quali
LG 31 “spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore”.
Solo l’assunnzione nel governo della comunità della pratica dei carismi con cui i fedeli vivono la loro missione nel mondo
potrà permettere alla comunità stessa di impostare la propria vita interna in maniera adeguata alla missione da esercitare nel mondo
e di non rinchiudersi nella propria autoreferenzialità.
Si pensi alla necessaria elaborazione di criteri e metodi, linguaggi e forme dell’evangelizzazione che,
se dovesse essere condotta solo dal pastore della comunità,
non potrebbe che ricalcare metodi e linguaggi propri della vita interna della comunità
e non illuminati dall’esperienza dei carismi sperimentati dai fedeli laici nelle loro attività secolari, famigliari, professionali, sociali e politiche,
cioè là dove propriamente la missione della comunità dovrà svolgersi.
5. Per un recupero della sinodalità nella chiesa.
Sinodalità non è ciò che è sempre avvenuto e avviene nell’ovvio scambio di pareri che un pastore di Chiesa ha con i fedeli.
E’ essenzialmente un processo decisionale del pastore in dialogo con la comunità
il cui giudizio sarà espresso abitualmente da un consiglio di rappresentanti.
La composizione dei consigli e le loro procedure,
dovrebbero essere tali da dar voce ai diversi carismi esistenti nella comunità
e, di volta in volta, in particolar modo a quelli che esprimono una competenza nella res de qua agitur.
Non è esercizio di sinodalità una consultazione nella quale ciascuno dei convocati dice il suo parere individuale,
senza che si pervenga ad alcuna conclusione che esprima il giudizio del consiglio in quanto tale sulla questione posta.
E’ qui che l’atto del dare un voto appare essenziale ad una vera pratica sinodale,
perché così si perviene alla determinazione di un giudizio della maggioranza che,
accompagnato ai giudizi delle minoranze,
può essere qualificato come il giudizio del consiglio e, in fine, della comunità intera che il consiglio rappresenta.
Infatti, sia il suo potere consultivo o sia deliberativo è necessario che il consiglio si esprima in quanto tale,
in modo che il vescovo o il parroco conoscano quale sia il giudizio della loro comunità e,
se spetta solo a lui la responsabilità della decisione
possa essere consapevole delle conseguenze che questa avrà nella necessaria recezione da parte della comunità.
In conclusione penso che il problema di uno sviluppo della sinodalità
esiga prima di tutto un cambiamento di mentalità sia nei pastori che nei fedeli
e poi che la prima cosa da fare sia l’attuazione seria dei consigli già attualmente previsti,
con un’ampia disponibilità a prenderne sul serio i giudizi quando non sono identici a quelli del pastore.
Poi sarà compito dei canonisti l’elaborazione di proposte di riforma del Codice
per la creazione di nuove e più adeguate istanze di esercizio della sinodalità,
la cui creazione spetta alla fine all’autorità dei vescovi e del papa
Nessuno dovrebbe temere che ne risulti mortificato il ministero del sacramento dell’Ordine.
E’ proprio da un più profondo inserimento del vescovo e del parroco dentro il popolo di Dio di cui è parte,
e da una maggiore condivisione da parte della comunità delle preoccupazioni e delle responsabilità del ministero
può derivare un alleggerimento del peso da portare dal vescovo e dal parroco, non più da soli ma con il conforto della comunità
e in ultima analisi una crescita dell’autorevolezza e dell’influenza sulla comunità da parte di chi ne porta la responsabilità pastorale:
resta sempre sommamente vero che
“non può dire il capo ai piedi, cioè ai sudditi: ”Non ho bisogno di voi”, giacché, come dice la Scrittura (Prov 14,28) “Nella moltitudine del popolo sta la dignità del re”.
Aggiornammento Preti Pisa – Sinodalità. I fondamenti dottrinali – gen 2018 9