U BRICCHETTU
Letteratura locale a irresponsabilità limitata
(a cura di Luca Mattei, Sergio Pedemonte,
Raffaele Rossetti e Marisa Sciutti)
N. 25, febbraio 2016
La voce del nostro Presidente
TURISMO CULTURA E TERRITORIO
Un legame chiaro ed evidente, imprescindibile. Il patrimonio
paesaggistico ed artistico italiano costituisce una risorsa preziosissima
per lo sviluppo del turismo, un turismo dalle caratteristiche uniche che
a sua volta garantisce la conoscenza e la valorizzazione dei nostri beni
culturali. La visita ad un museo, ad un palazzo storico, ad una parco
naturale non deve essere semplicemente fine a se stessa ma deve
riflettersi positivamente ed integrare, per quanto possibile, le realtà
economiche del territorio. Pensando alle nostre Valli sono ancora più
convinto che la cultura debba essere insieme al turismo anche motivo
di reddito e di sviluppo. Tutti noi, soprattutto in questo periodo di crisi
economica comprendiamo quanto sia importante la sinergia tra realtà
economiche, turismo e territorio, e quanto sia determinante e
necessario il sostegno delle Istituzioni, soprattutto locali.
E' mia convinzione che al turista che si reca in visita al Museo
Archeologico, ad esempio, potrebbe essere fornito un elenco dei
ristoranti Isolesi, come per chi si reca al Castello della Pietra, un
depliant con i nostri prodotti tipici, permettetemi di citare la
mostardella, lo sciroppo di rose, le varie formaggette! Vere e proprie
eccellenze gastronomiche, una combinazione perfetta di tradizioni
centenarie, qualitàe passione. Per il visitatore un’esperienza a 360°
gradi. Tuttavia, una località che abbia come obiettivo lo sviluppo del
turismo culturale dovrà essere pronta a tutelare e valorizzare il proprio
aspetto urbanistico e ambientale, a riorganizzarsi con costanza rispetto
ai bisogni dei propri fruitori. Se oggi la Valle Scrivia è il territorio tra
l’Acquario e l’Outlet come afferma giustamente il cucinosofo Sergio
Rossi, noi dobbiamo impegnarci a ribaltare questa situazione: la nostra
valle, anzi l’Oltregiogo, con le sue emergenze storiche come Libarna, il
Castello di Gavi, quelli della Pietra e di Borgo Fornari, con i suoi Musei
(Archeologico a Isola, paleontologico a Crocefieschi, etnologico in
Valbrevenna), tanto per citare alcune realtà, un domani avrà alla sua
periferia l’Outlet e l’Acquario.
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Tommaso Mattei
AMOR CHE MI COMANDA
Il tema della poesia è il cambiamento nella persona che l’amore causa.
Tutto comincia nel modo più inaspettato e si tratta di un’emozione così
grande che sembra discesa dal cielo. È un fatto, oltre che inaspettato,
inatteso poiché l’autore sembrava essere destinato a non innamorarsi
più ma, come spesso succede, questo imprevedibile sentimento lo
smentisce totalmente. Così ogni cosa cambia volto e il mondo, agli
occhi di chi guarda, da cupo e senza novità, diventa colorato
all'inverosimile: il dolore sparisce e la sofferenza non si sente più.
Quel dì, ciel, non partoristi nubi
ma fragore di vita1 e lunghi
sospiri al tuo comando succubi2.
La sentenza ultima3 rinneghi,
lusingato di occhi cerbiatti4.
La ingrata presenza5 assilla
gli effimeri minuti sfatti6.
Il cuor si accende come stella
vespertina7 e l'animo ottuso
si ridesta dal luminoso sonno.
1
Quel giorno non fu triste ma pieno di vita, una gioia che sembrava venire dal cielo.
Fu un giorno pieno di sospiri, sospiri d’amore.
3
Quella per cui l’autore, dopo l’ultima delusione amorosa, aveva deciso di non voler più soffrire
tanto e, quindi, di non innamorarsi più.
4
Rinneghi quella decisione con un solo sguardo di quegli occhi del colore del manto dei cerbiatti.
5
L’amore.
6
L’amore riempe tutto il tempo senza senso e gli dà essenza.
7
Stella serale e quindi, più luminosa e bella.
2
4
Allor ogni dolore è occluso8,
Spariti l'inverno e l'autunno.
Pena alcuna valido motivo
per corrompere l'estasi grezza9
di ritornare ad essere vivo.
8
9
Allora ogni dolore svanisce.
Una gioia già enorme, ma che è solo l’inizio.
5
Franca Oberti
SULLE TRACCE DELLE DONNE MEDICINA
Sono una donna-medicina, una guaritrice, una che “segna”, una strega,
si sarebbe detto in altri tempi. Posso affermarlo oggi, non perché me ne
sento investita, ma per le conferme avute da altri, soprattutto da chi ha
trovato benefici nelle mie cure. Tra le mie antenate, e nel mio codice
biologico, sono annoverate generazioni di levatrici, guaritrici, magi o
maghi, se preferite.
Ho un sacro timore del fuoco, ma anche mi affascina, forse il mio DNA
comprende Inquisitori e Streghe bruciate sul rogo. Ognuno di noi si
porta appresso un bagaglio genetico che crediamo di avere svelato con
quei sentierini elicoidali che la scienza moderna ci propina. Terzani,
che tutti conosciamo per profondamente ateo, ha dovuto arrendersi,
alla fine dei suoi giorni affermando che forse, dietro l’ultima porta che
non aveva aperto, c’era il codice di Dio.
Parlare di questi argomenti nell’era informatica fa sorridere. Eppure,
mai come in questa epoca, il divario e la necessità dell’esistenza di
questi due poli, è indispensabile. Il giusto equilibrio tra ciò che è
tecnologicamente più recente e ciò che “naturalmente” proviene dalla
notte dei tempi.
Potrei definirmi una curandera, ed essere qui oggi, e ammetterlo a tante
persone di ogni fede politica e religiosa, di grande cultura e con la
matrice comune della cristianità, non è facile. Nella velocizzazione dei
nostri tempi, tante persone come me, stanno vivendo questa realtà
nuova, questa recente riscoperta di talenti soffocati, ignorati, per
troppo tempo. Nel mio caso, da quasi 60 anni il Signore sta tentando di
forgiarmi, affidandomi a genitori con caratteristiche ben precise,
mettendomi vicino parenti comodi e scomodi. Forse perché ero troppo
ribelle, mi ha fatto passare per lunghi e oscuri periodi di ospedale e di
malattia, tutto questo per modellarmi, anche se questa statua di argilla
non è riuscita proprio perfetta. Ma chi è perfetto? Chi si può arrogare il
diritto di dire “IO so”?
Un particolare programma informatico, sta creando questi strani file,
un misto di concretezza e mistero; una serie binaria di senso e
controsenso.
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In questo nostro millennio dove c’è desiderio irrefrenabile di
onnipotenza e il potere economico e politico sta raggiungendo l’apice,
si dovrà ricominciare a mediare, pena una rovinosa e imprevedibile
caduta. Toccherà a qualcuno di raccogliere i cocci della società
dell’illusione, soprattutto quelli che hanno puntato tutto sul tangibile,
sulla concretezza e certezza materiale. Tanti si sentiranno bastonati,
delusi, illusi e traditi. Ma chi sta col Signore non avrà paura. E chi avrà
avuto il coraggio di accettare che è il vuoto che fa del vaso un vaso, non
dovrà temere nulla. Non è stato facile, per me, figlia di questa epoca,
arrivare a questa consapevolezza,. Una madre atea e un padre che si
nascondeva per pregare e gli era consentito accendere un lumino solo il
2 di novembre, davanti alle foto dei suoi cari. Da mio padre ho
imparato a inoltrarmi in questa giungla di credenze, di ipocrisie e di
falsi dei. Ho imparato a cercare il mio sentiero tra le tante lusinghe e
promesse di certezze future.
Segno le storte.
Il “segno”, la “signatura”, ho imparato a farla solo a 30 anni, grazie a
un’altra donna-medicina che aveva visto in me qualcosa che non saprei
spiegare; e chissà quante altre cose avrei potuto fare per aiutare gli
altri, io, come tutti noi, esseri umani, cellule di un unico organismo
vivente che è la nostra Terra, se soltanto da piccoli fossimo stati aiutati
a sviluppare le nostre doti, anziché spinti e convinti a soffocarle con
futili giustificazioni che odoravano di timore per l’ignoto, di invidia e
gelosia e se solo ci avessero insegnato a rimanere uniti, invece di
inculcarci il senso della prevaricazione. Tanti piccoli passi che ho
percorso per caso... per caso? Tanti tasselli, lentamente che si sono
posizionati al loro posto e hanno formato quel mosaico ancora
incompleto che è la mia vita.
La vita è un viaggio verso l’ignoto e non un videogioco che si può far
ripartire in qualsiasi momento. Più che un viaggio, sono tanti viaggi;
ad ogni evento particolare, lutto, malattia, matrimonio, nascite, ecco
che comincia un nuovo viaggio.
Il mio secondo viaggio è iniziato a 40 anni, quando mi sono “rivoltata
come un calzino”, gettando nello sconcerto tutta la famiglia, marito
compreso. Tanti sono stati gli eventi, i momenti preparatori, ma io non
li vedevo ancora, ero ancora infarcita di consuetudini imposte da altri.
Ma poi è arrivato un segno e quello è stato il momento in cui ho
cominciato a “vedere”, come il cieco nella piscina di Siloe.
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Da “L’alloggio”, PREGHIERE, Michel Quoist:
Signore, non potevo dormire e per pregarti meglio mi sono rialzato.
Fuori è notte, soffia il vento e cade la pioggia,
e rompendo l’oscurità le luci della città annunciano viventi.
Mi danno fastidio quelle luci, Signore;
perché averle accese ai miei occhi?
Mi hanno chiamato ed ora mi tengono prigioniero, mentre furtivamente le
sofferenze della città
mormorano il loro tragico lamento;
e non posso sfuggirle Signore, le conosco troppo quelle sofferenze.
Le vedo apparirmi,
le odo parlarmi,
le sento schiaffeggiarmi,
perché le conosco, Signore,
le so mentre stavo per addormentarmi.(...)
Ora che anch’io riesco a vedere devo lentamente portare alla luce una
mia identità e i talenti che mi sono stati donati. Sto lottando dentro e
fuori di me, per ricavare uno spazio che mi auguro verrà facile a chi
arriverà dopo di me. Mi sono preparata e sono diventata quello che
oggi si definisce una “terapeuta olistica”. L’informatizzazione non
perdona, l’elasticità umana non esiste tra chip e circuiti stampati:
occorre essere “configurati” e “schedati”. Non utilizzo strumenti
informatici per diagnosticare le malattie, né per intervenire sulle
persone ed aiutarle a guarire: uso me stessa; metto in gioco tutta la mia
persona. Non sono un medico tradizionale, non una psicologa, né un
sacerdote; curo il vaso d’argilla del corpo senza caricarlo ancora di
bagagli inutili, utilizzando ciò che la madre terra mi offre. Forse è lo
Spirito che mi suggerisce; non saprei dire con precisione; questo è
l’imprevedibile nella quotidianità, di certo so che annullo me stessa e
mi pongo al servizio. Suggerisco piccoli accorgimenti naturali che in
questi ultimi secoli, dopo devastanti distruzioni ad opera dei tanti
poteri mondiali, della chimica e dell’economia, qualcuno ha saputo
riscoprire e conservare. Credo di aver capito che il mio compito è
nell’aiutare ad affrontare le paure, le tante paure che invece la società ci
impone, per meglio controllarci. Soprattutto propongo di guardare alla
vita come a un arco in un cerchio e non un segmento nascita-morte. E’
un’epoca in cui non si può più trattenere nulla: emozioni, sentimenti,
sapere, vanno condivisi e io sto lavorando per questo. Ognuno è ricco e
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unico e ha in sé già tutte le risposte; ascolto le persone che con la voce e
la mente sempre accesa, tentano di raccontare i loro malesseri.
Lentamente le conduco un po’ più in profondità e le pongo di fronte
alla loro parte nascosta; insieme, lasciamo che l’anima si esprima e ci
racconti ciò che desidera essere; andiamo oltre quello che siamo o che
gli altri vorrebbero che fossimo. Uso strumenti empirici, ma io lo so che
non hanno senso per quello che rappresentano nella loro materialità,
che sono le mie mani che li guidano, e una grande fede per chi opera
dall’alto e le conduce, queste mani; so anche che a volte la gente, carica
di pregiudizi, non sa, non vuole comprendere e non si informa, esclude
e basta. Difficile spiegare che in quei momenti, semplicemente, sono un
canale, annullo la mia personalità, zittisco l’ego e cerco di entrare nello
stato di umile servizio che ricordava Madre Teresa: “sono una matita
nelle mani di Dio”. So anche che non è facile per un terapeuta olistico
trovare l’equilibrio tra l’essere e l’avere. Ai nostri giorni, con tutta la
smania di volere e possedere, il potere è una tentazione infinita. Ma
non è nostro, come non è nostro tutto ciò che ci circonda, nemmeno il
corpo, quello apparterrà alla terra.
“Francesco ripara la mia chiesa” fu chiesto a Frate Francesco, dal
Crocifisso, nella chiesa di San Damiano. Dov’è oggi un altro Francesco?
Sono in continua lotta, ma come dice Don Gallo sorridendo, “nella
chiesa ci sto bene”. Sento che è questo il luogo dell’anima e sto
sgomitando per rimanerci, anche se ammiro e accetto chi prova una
fede simile alla mia, e a quella di tanti altri cristiani, per un Dio che ha
un nome diverso dal nostro. Mi dispiace sentire il giudizio di certi
sacerdoti che predicano contro chi opera come me. Non accetto la
distorsione della realtà con l’utilizzo di parole che hanno, praticamente,
lo stesso significato (es. carismatici, locuzioni interiori), ma che
generano ambiguità e dividono le coscienze di chi non ragiona con la
propria testa. Sento il demonio dentro e ogni giorno gioco le mie partite
per tenerlo a bada - San Pio ci insegna - lasciando che la sua presenza,
mi stimoli a continuare e perfezionare la ricerca della luce. Le
tentazioni arrivano da ogni lato e spesso mi sento schiacciare, ma è
sufficiente fermarmi, raccogliermi nella pustinia e meditare, oppure
svuotare la mente, come suggerisce San Giovanni della Croce, recitare
qualche preghiera, camminare nella natura; poi, piano piano mi sento
riempire di nuova pace, di assoluto e sono pronta a ricominciare. Certo
tutto questo non dà guadagno; non consente di vivere nel lusso, anzi,
spesso si rinuncia a qualcosa per continuare in quello in cui si crede.
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Vorrei che la chiesa fosse più attenta ai bisogni dell’uomo piuttosto che
a ciò che possiede, come purtroppo sembra accadere in quest’epoca
così conflittuale, e che fosse la prima a dare l’esempio, ma gli esempi
oggi sono cambiati, manipolati, ribaltati. Anche la chiesa si è adeguata
e questo mi addolora. Ma rimango qui e ancora cerco e ancora mi
muovo per aiutare e per esserci, nonostante gli anni, i tanti acciacchi, le
bastonate della vita e gli stessi familiari che tentano sempre di
mettermi alla prova, continuando a dubitare dei talenti che ho avuto la
fortuna di riconoscere. Siamo discepoli di Gesù e in quanto tali, siamo
tenuti a continuare la sua opera, ma smettiamola di dividere gli
uomini dalle donne e di definire guaritori o carismatici gli uomini,
mentre le donne sono solo streghe e fattucchiere. L’anima non ha
sesso ed è con questa e per questa che lavoriamo. Nella sua vita
terrena, Gesù, spesso cercava le donne, quante donne nel Vangelo sono
state esaltate! Lui aveva capito quale tesoro si cela nella creatura
femmina, a partire dall’intuizione, dalla sensibilità, dalla capacità di
accogliere, fino al mistero della vita e per noi cristiani, quale esempio
migliore della Madonna? Perché poi ci si è dimenticati di questo
insegnamento? Quando abbiamo cominciato a distorcere questa
semplice verità? Occorre riscoprire l’importanza del femminile per
tanti aspetti, lasciando più spazio all’intuizione e consentendo alle
donne di esprimere i loro talenti nella giusta parità, evitando di
danneggiare ulteriormente il femminile della nostra società, che ha già
subito tanti, troppi danni, come le tante famiglie allo sbando. E poi c’è
l’energia, si parla di energia, qualcuno sorride, tra la diffidenza e il
timore di qualcosa che non si può vedere, né capire; ma che cos’è? Chi
può dire che cosa è il vento, che cosa sono le radiazioni nucleari?
Nessuno le vede, ma i danni che fanno sono ben visibili. Ma abbiamo la
speranza di quest’altra energia, che in realtà si può scomporre in tre
tipi (che strano, ancora un TRE); è qualcosa che non vediamo, ma che il
nostro corpo, come un’antenna va a pescare nell’universo e la
trasmette, oppure la assorbe dalle radici, materiali e immateriali, e la
passa ad altri, o la assume dalla natura che continuamente ci sostiene e
che non siamo ancora capaci di rispettare, credendo sia un diritto
sfruttarla. Qualcuno la percepisce l’energia, altri la subiscono, altri
ancora hanno imparato a conoscerla e la usano per il bene, anche se
qualcuno la sfrutta mettendola al servizio del male, ma non per questo
si deve dubitare di tutti quelli che ne parlano e la palesano.
La mia esposizione non vuole ignorare che stiamo vivendo nell’era
informatica, ma che anche oggi è necessario trovare un equilibrio tra il
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concreto e l’invisibile. È una sfida che si può accettare, se solo
cominciamo ad essere sinceri con noi stessi e verso gli altri.
Non possiamo più fingere di non capire quanto lo spirito stia
lavorando in noi, in questi tempi ultimi; per chi studia certe filosofie,
abbiamo raggiunto il kaliuga, l’era dell’acquario, e cioè dell’aria; sono
dunque giunti i tempi dove tutto si sta vaporizzando, anche le certezze
materiali. Per quanto possibile, abbiamo il dovere di elevarci; per
quanto gravati dal corpo, siamo tenuti a rispettare di più l’anima e
ascoltarla, per poi agire secondo quello che suggerisce alla nostra
coscienza. Non può esistere la scienza senza la coscienza e ricordiamoci
sempre che la mente mente, spudoratamente e continuamente.
Concludo con una mio pensiero poetico, la preghiera del terapeuta:
PREGHIERA DEL TERAPEUTA
Signore, Tu che stai lì
dentro di me,
aiutami a cercarTi
nel mio cuore
affinché possa aiutare
tutte le persone
che mi vengono a cercare
per ricevere parole
che le possano scaldare
come raggi di sole.
Vorrei mostrare
a chi è disperato
come è grande e celeste
tutto il Creato
e regalare sogni e colori
perché ogni malanno migliori.
E quando riusciranno
di nuovo a vedere
lo spettacolo della natura,
saprò che hai compiuto
ancora un miracolo
e che insieme
abbiamo completato
la cura.
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Fiore di campo
A MIO PADRE
Il volto scolpito sul marmo bianco
Il sorriso enigmatico
Lo sguardo pensieroso
Lo osservo:
Quel volto
Quel sorriso
Quello sguardo
Sono miei
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Giovanni Sangiacomo
IL RITORNO DI GIUSTÌN
La guerra era già da qualche mese praticamente finita, ma ancora parecchie
famiglie dalle nostre parti aspettavano con ansia e timore il ritorno di qualche
loro congiunto, disperso in lontani conflitti, o prigioniero in paesi ex nemici, o
deportato in Germania in campi di lavoro e di prigionia.
Soprattutto per questi ultimi grande era la penosa attesa, data l’assoluta
mancanza di notizie, e accresciuta da quanto si sentiva dai racconti dei primi
reduci, in genere ex militari, che lasciavano immaginare sofferenze e patimenti
inauditi. Allo stesso tempo però il fatto che fossero ritornati rinvigoriva la
speranza per quelli che ancora mancavano all’appello, ed erano diversi nei
borghi delle nostre contrade. E finalmente tornò anche Giustìn di Caprieto. Lo
riconoscemmo, mio padre ed io, mentre in un tardo pomeriggio di prima
estate, stavamo lavorando a sistemare una catasta di legna, sulla strada per
Vobbia. Lo riconoscemmo in quella magra figura vestita di uno sbiadito
grigioverde che avanzava di buon passo verso di noi, uno zainetto sulle spalle
ingobbite e un cappello alpino senza penna. “Ma sì, è Giustìn” gridò con
eccitata sorpresa mio padre che ben lo conosceva, e gli si fece incontro in atto
di festosa accoglienza, per felicitarsi con lui, per domandargli, per sapere.
“Allora, sei tu Giustìn, finalmente! Come va, come stai?” Ma Giustìn non
pareva tanto entusiasmato. “Mah… così” rispose alzando la destra come in un
stanco saluto, “Anche questa è passata…” aggiunse, condensando in una breve
frase il racconto di quei lunghissimi mesi passati lontano dalla sua casa e dalla
sua gente, tra continui pericoli e inenarrabili sofferenze. Alla domanda da
quale parte della Germania venisse, precisò: “Bremen…” e quel nome in
tedesco dovette sembrargli più che sufficiente come indicazione geografica.
“Ah sì, Brema, proprio in cima alla Germania, fin da lì sei venuto” disse mio
padre, quasi come a fargli un complimento, “E chissà quante ne hai passate…
ma ora, se Dio vuole, è tutto finito”.
“Sapete niente di mia madre?”, chiese a bassa voce Giustìn, in tono fra
l’ansioso e il preoccupato. “sì, sì” volle rassicurarlo mio padre, “L’abbiamo
proprio vista a Sant’Antonio… sta bene… e ti aspetta”.
Cosa poteva dire d’altro, la mamma di Giustìn era una vecchietta che viveva
sola in una casupola sulla strada per la chiesa. “Sì, sì, grazie”, mormorò
Giustìn piano. Sembrava smarrito in un aggrovigliarsi di ricordi di cui
faticasse a liberarsi. Fece ancora un cenno con la mano, un breve gesto di
saluto o di commiato. Capimmo che aveva bisogno di riprendere il suo
cammino di solitudine e di incerta speranza. “E’ giusto che vada” disse mio
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padre, “Tra l’altro il sole è quasi al tramonto e gli rimane parecchia strada da
fare tra i boschi. Ma almeno stavolta la salita gli sembrerà leggera”. “Non mi
pareva però tanto allegro” commentai io. “Sarà che ha già fatto un lungo
viaggio, e forse si sentirà stanco”. “Si vede…” cercò di spiegarmi mio padre
“Che anche per lui, come per quasi tutti i reduci, la gioia di aver scampato
tanti pericoli non riesca ancora a vincerne il ricordo: ci vuole un po’ di tempo
per riadattarsi alla nuova situazione, pure incomparabilmente migliorata. Ma
stasera sarà a casa, e finalmente tutto gli sembrerà diverso”.
Già, Giustìn, dovrai nell’abbraccio di tua madre sforzarti di ritrovare il senso e
il valore della tua resistenza. E il sole che domattina vedrai spuntare dall’Alpe
sarà un altro un altro sole per te, non più quello della Germania: speriamo che
riesca pian piano a dissipare le ombre della tua lunga notte.
Coraggio, Giustìn.
Alpe di Buffalora (anni ’80)
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Sergio Pedemonte
DIFFICILE GIUSTIFICAZIONE
PER UN PRESUNTO POETA
Ho ceduto anch’io alla tentazione di scrivere poesie: oltre alle due che ho
pubblicato, anonimamente ma non troppo, in Come una volta la sera il mio
volumetto del 2010, ho dato sfoggio della mia vena in modo anonimo più
volte sul Bricchettu, pretenzioso riportatore di futuri successi letterari.
Le ho fatte emergere durante le notti in trasferta per lavoro che mi portavano
nei cantieri del Nord Italia o in Sardegna. A volte succedeva in una cuccetta
del Wagon Lits, in cui molto banalmente e, orribile luogo comune, il rumore
del treno mi favoriva lo scrivere.
Forse era la malinconia di casa, che ho sempre patito, a sorteggiare
casualmente le frasi in quel mulino dove finivano lampi di stupore, ricordi
appassiti, gesti banali.
Ne ho buttate via parecchie prima di accontentarmi e le scenografie su cui si
svolgevano erano sempre le stesse: quel maledetto paese tra rilievi che non
sono colline ma neanche monti.
Come tutti i dilettanti mi scuso con il lettore per quello che gli ho propinato,
ma, visto che ho aperto i miei cassetti, come tutti i dilettanti sono quasi
convinto che siano gradevoli o almeno accettabili.
Consapevole che la mia è una cantonata devo però spiegare che la poesia è
fatica, coraggio, determinazione. I primi cento fogli finiscono sempre nella
stufa insieme a rime baciate, unite a scorrevolezze lessicali da carta vetro, poi
si prende coscienza dei propri limiti, ci si arrovella su una parola, si finisce in
un labirinto di frasi: l’importante però è sentire il soggetto, ciò che provoca in
noi, quale speranza ci promette.
Alla fine la nostra poesia non darà un contributo alla letteratura italiana,
probabilmente sarà mille volte iniziata e altrettante interrotta da chi, quasi
sempre per caso, ha sotto gli occhi il componimento.
Non vuol dire: una goccia si è aggiunta a quel mare delle nostre chimere che
confina e si sovrappone all’esperienza vissuta.
Sulle lapidi non ci sono frasi da antologia ma esse rappresentano, in genere,
pur se retoriche, uno degli aspetti in vita del celebrato: prendetele così le mie
poesie e poi dimenticatele.
Non cambieranno la vostra vita ma certamente hanno cambiato, un poco, la
mia.
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