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Narrative dell'XI secolo

PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2-40128 Bologna ISBN 978-884676717-2 Questo volume è stato stampato con un contributo dell'Università di Pisa I volumi della nuova serie sono sottoposti a revisori anonimi esterni al Comitato scientifico

O Studi Medioevali Collana fondata da Cinzio Violante nuova serie Comitato scientifico Paolo Cammarosano, Giorgio Chittolini †, Simone M. Collavini, Alberto Cotza (segreteria editoriale), François Menant †, Giuseppe Petralia, Mauro Ronzani, Chris Wickham Cecilia Iannella Chiesa e civitas nell’Italia medievale Studi per Mauro Ronzani a cura di Alberto Cotza e Alma Poloni Edizioni ETS www.edizioniets.com I volumi della nuova serie sono sottoposti a revisori anonimi esterni al Comitato scientifico Questo volume è stato stampato con un contributo dell’Università di Pisa © Copyright 2023 Edizioni ETS Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884676717-2 NARRATIVE DELL’XI SECOLO Glauco Maria Cantarella Alzi la mano chi fra noi, storici e lettori di storia, non ha mai lamentato di non avere a disposizione abbastanza fonti. Eppure non è così: per il famoso episodio di Canossa, ad esempio, siamo in grado di poter ricostruire le vicende praticamente in tempo reale tra cronache, lettere, documenti1. Magari potessimo disporre di altrettante fonti per riuscire a capire o almeno intravedere che cosa succede nel mondo in cui viviamo… Cronache, lettere, documenti, tre diverse tipologie di narrative, ognuna con le sue specificità, ognuna con i propri sottotesti, ognuna con la possibilità di essere posta a confronto con le altre disponibili per tentare un’interpretazione. Qui cercherò di mostrare alcuni esempi di diverse tipologie e che costituiscono ognuno a suo modo una narrativa specifica; si tratterà di temi che in tutto o in parte ho già toccato, perciò chiedo subito scusa se farò frequenti richiami a miei lavori precedenti. Le città. Le città sono sempre state turbolente, si sa. Tra il 1024 e il 1027 Corrado II ebbe a che fare con Pavia e Ravenna, due casi famosi, soprattutto il primo che nel secolo scorso è stato oggetto, fra l’altro, delle osservazioni, seppur rapide, del Kantorowicz2. La narrativa ufficiale è opera di Wipone, che come si sa scrisse di Corrado II per suo figlio e successore, Enrico III, perché «veteres […] philosophi diverso modo rei publicae consuluerunt» e gli antichi «acta […] rei publicae mori simul cum eius rectoribus arbitrati sunt, nisi quod accidit notaretur», in modo che l’imperatore apprendesse dall’esempio del padre l’arte del governo non tanto come insegnamento astratto quanto piuttosto nelle situazioni concrete, in maniera utile ma anche gradevole ad ascoltarsi e quindi a ritenere3. 1 Rimando al mio Gregorio VII, Roma 2018, pp. 173-181. E. H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teolgia politica medievale, trad. italiana Torino 1989, pp. 162 n. 306, 272. 3 Wiponis Gesta Chuonradi imperatoris, in Wiponis Opera, a c. di H. Bresslau, MGH. Scriptores Rerum Germanicarum in usus scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim recusi 61, Prologus, p. 5: «Veteres enim philosophi diverso modo 2 14 Glauco Maria Cantarella Wipone fa un dettagliato racconto della grande Dieta che elegge Corrado; il re incomincia subito a percorrere il regno: un giro necessario, l’aveva fatto anche Enrico II4. Per cominciare indice un’assemblea a Costanza per il 6 giugno 1024. Convengono a rendergli omaggio e fedeltà da tutto il regno, anche dalla Lombardia: ma i cittadini di Pavia mandano negoziatori, perché l’avevano fatta grossa: C’era nella città di Pavia un palazzo costruito in antico dal re Teodorico in modo mirabile, e poi meravigliosamente adornato dall’imperatore Ottone III. Venuti a conoscenza della morte dell’imperatore Enrico, predecessore del re Corrado, come sempre è costume degli uomini di portarsi in modo intemperante nelle novità, subito i Pavesi insorsero senza consiglio contro il regio palazzo indifeso, e spingendosi oltre nell’illecito ruppero le mura del re e stavano diroccando tutto il palazzo fino alle fondazioni, così che nessun re più decidesse di porre il suo palazzo all’interno della città […] I Pavesi dicevano: «chi abbiamo offeso? Abbiamo serbato fedeltà e onore al nostro imperatore fino al termine della sua vita; morto lui, non avevamo nessun re, dunque ingiustamente ci si accusa di aver distrutto la casa del nostro re». Il re ribatté: «so che non avete distrutto la casa del vostro re, perché a quel tempo non ne avevate nessuno; ma non potete inficiare il fatto che avete squarciato la casa regale. Se il re perisce, il regno rimane, così come rimane la nave il cui timoniere cade. Erano edifici pubblici, non privati; di giurisdizione altrui, non vostra. Gli invasori delle proprietà altrui sono colpevoli nei confronti del re, dunque voi siete stati invasori di proprietà altrui, di conseguenza siete colpevoli nei confronti del re»5. rei publicae consuluerunt»; p. 6: «Acta vero rei publicae mori simul cum eius rectoribus arbitrati sunt, nisi quod accidit notaretur»; p. 7: «scribere volui, quod ad communem utilitatem legentium, quod audientibus esse iucundum» 4 Cfr. il mio Riforme e riforma. La storia ecclesiastica del sec. XI, in Orientamenti e tematiche della storiografia di Ovidio Capitani, Atti del Convegno di studio (Bologna 15-17 marzo 2013), a. c. di M. C. De Matteis, B. Pio, Spoleto 2013, p. 53. 5 Gesta, cit., VIII, pp. 29-30: «Erat in civitate Papiensi palatium a Theoderico rege quondam miro opere conditum ac postea ab imperatore Ottone III nimis adornatum. Cognito autem obitu imperatoris Heinrici, antecessoris Chuonradi regis, ut mos est hominum semper in novis rebus intemperanter se habere, statim Papienses inconsulto ad imbellem aulam ruentes, ausibus inlicitis fregerunt moenia regis totumque palatium ad imum fundamenti lapidem eruebant, ne quisquam regum ulterius infra civitatem illam palatium ponere decrevisset […] Dicebant Papienses: “Quem offendimus? Imperatori nostro fidem et honorem usque ad terminum vitae suae servavimus; quo defuncto cum nullul regem haberemus, regis nostri domum destruxisse non iure accusabimur”. E contrario rex: “Scio”, inquit, “quod domum regis vestri non destruxistis, cum eo tempore nullum haberetis; sed domum regalem scidisse, non valetis inficiare. Si rex periit, regnum remansit, sicut navis remanet, cuius gubernator cadit. Aedes publicae fuerant, non privatae; iuris erant alieni, non vestri. Alienarum autem rerum invasores regi sunt obnoxii. Ergo vos alienae rei invasores fuistis, igitur regi obnoxii estis”». Narrative dell’XI secolo 15 In punta di diritto i Pavesi si sentono minacciare che possono essere dichiarati nemici pubblici. L’impero non è personale, ma prescinde dalla testa che cinge la corona imperiale. Il re muore, ma non muore mai il regno; chi attacca il regno è un eversore. Diritto, logica e retorica, l’arte della discussione: Wipone appartiene a una cultura articolata e formale e mette in scena una mescolanza di giudizio formale e di sillogismo. I Pavesi sono sottili, perché distinguono fra presenza e assenza del re-persona: un morto, in quanto tale, non è più presente e non possiede più nulla, per cui non si può dire che se si abbatte qualcosa che gli apparteneva si abbatte qualcosa che è in suo possesso. Corrado replica in tono altrettanto sottile: in primo luogo, il regno non finisce mai con la morte del re, e quanto è regio continua ad essere regio; in secondo luogo, quello che avevano distrutto non era di loro proprietà e dunque avevano danneggiato la proprietà altrui: e dato che il re è il garante del diritto di proprietà chi offende questo diritto offende il re stesso, dunque sono colpevoli e meritano la punizione del re. Non lo si dice esplicitamente, ma è evidente la condizione in cui si sono posti da soli, di nemici pubblici: e anche questo ricade sotto il delitto di lesa maestà, con tutte le conseguenze che ciò comporta… Non c’è bisogno di evocarlo direttamente; i Pavesi non sono stupidi, capiscono benissimo e compiono l’atto di penitenza e di sottomissione. Ma quel che è notevole è proprio questo, la res publica prescinde dai rectores, è un’astrazione, ma è reale quanto e anzi più delle persone che la governano: questa è l’eredità che l’azione di Corrado trasmette a Enrico III ed è l’insegnamento che Wipone, alla maniera dei filosofi antichi, gli impartisce e per cui può essergli utile. «Nonostante i suoi fiori retorici», come ha scritto uno studioso eminente, quasi che la scrittura elegante sia da guardare con sospetto e non sia una forma efficace, forse la più efficace se si pensa al pubblico cui è destinata, di comunicazione…6 La narrativa coniuga l’arte del ragionamento con la scienza giuridica, Enrico III che può desiderare di meglio? Lo tenga bene in mente, solo la mancanza della trasmissione di memoria è in grado di obliterare la res publica… Per essere utile al suo imperatore Wipone racconta di quante insurrezioni Corrado dové affrontare nelle città italiane e di come le domò tutte. Le città italiane: inaffidabili, spesso ribelli, sempre incomprensi6 H. Wolfram, Conrad II 990-1039, Emperor of Three Kingdoms, english transl., University Park, PS, 2006, pp. 43 (edizione aggiornata rispetto all’originale, München 2000: cfr. pp. xi-xx), 63-64. Cfr. G. M. Cantarella, Manuale della fine del mondo. Il travaglio dell’Europa medievale, Torino 2015, pp. 16-18. 16 Glauco Maria Cantarella bili… ma troppo importanti. Pronte a rivoltarsi alla minima occasione, al minimo pretesto. Ingrate: contro il «re pacifico […] il cui volto desidera l’universa terra». Come a Ravenna, nel 1027. I Ravennati «confidando nella loro moltitudine» si ribellarono proditoriamente, insorsero contro l’esercito regio, «alcuni aggredirono i loro ospiti nelle case, altri combattevano nelle piazze», altri ancora cercarono di impedire l’ingresso in città agli imperiali che si trovavano fuori dalle mura; insomma, fra l’altro non apprezzavano l’assai dubbio privilegio di dover acquartierare i cavalieri nelle loro case. Gli imperiali, dopo un primo disorientamento, riuscirono a disporsi in ordine di combattimento, trasformarono l’iniziale svantaggio in una morsa, i ravennati si trovarono presi fra i guerrieri che erano già dentro la città e quelli che erano riusciti ad entrarvi; gli imperiali «lasciarono morti o feriti o in fuga quelli che erano in mezzo», furono vincitori. Anche i Pavesi erano stati duramente puniti, erano stati colpiti anche i castelli vicini alla città, non erano state risparmiate le chiese, «il popolo che vi si era rifugiato morì col fuoco e col ferro; i campi furono devastati, le vigne troncate»: violenze e morte, non era altro che la guerra, diremmo noi che abbiamo avuto il privilegio di non doverla vivere ma possiamo osservarla tanto vicina a noi; ma per Wipone no, era l’inevitabile e implacabile punizione imperiale (oltretutto i pavesi erano recidivi, perché vent’anni prima, il 14 maggio 1004, avevano affrontato Enrico II la sera stessa della sua incoronazione come re d’Italia, avevano attaccato il palazzo, costretto il nuovo re a lasciare la città, avevano ammazzato Giselberto, fratello della regina Cunegonda; il controllo della situazione era stato ripreso a fatica). I Pavesi dovettero chiedere prostrati il perdono regale. La città venne risparmiata non tanto perché sede del «mirabile» palazzo reale, ma perché era troppo strategica per poterla radere al suolo. Lo stesso varrà per Ravenna, altrettanto se non più strategica. I Ravennati furono risparmiati, il misericordioso Corrado ebbe pietà di loro visto che alla fin dei conti «da una parte e dall’altra erano suoi», e furono costretti al rito dell’umiliazione collettiva7. Si presentarono di fronte all’augusta persona scalzi, in cilicio, tenendo nelle loro mani le spade nude; Wipone non dice se erano tenute alla rovescio, con la punta rivolta a 7 Gesta, XII, p. 33; XIII, pp. 34-35 (le cit. alle pp. 33 e 34). Conradi II Diplomata, a c. di H. Bresslau, MGH, Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae tomus IV., n° 106 (1027), p. 149: «rex pacificus magnificatus est, cuius vultum desiderat universa terra». S. Weinfurter, Heinrich II.(1002-1024), Herrscher am Ende der Zeiten, Regensburg 20023, p. 231. Narrative dell’XI secolo 17 terra (minaccia negata, lo strumento di guerra trasformato in una croce) o invece correttamente, con la lama verso l’alto, ad indicare che i cittadini sconfitti salvavano comunque la loro dignità dichiarandosi interamente al servizio del vincitore; non lo sappiamo, e basta. In Castiglia novant’anni più tardi i borghigiani di Sahagún saranno costretti allo stesso rito, ma dovranno accettare un trattamento più umiliante: si presenteranno scalzi, a torso nudo, terranno in mano non le spade ma bacchette di vimini: hanno accettato di essere ridotti all’impotenza; accettano di farsi umiliare, riconoscono la superiorità di chi ha il potere di costringerli ad umiliarsi; ma, come per i Ravennati, il loro atto imporrà la concessione del perdono… anche Sahagún si trovava in una posizione strategica8. Dieci anni dopo (1037) fu la volta di Cremona e di Parma. Ma per Cremona abbiamo un diverso tipo di narrativa, sempre ufficiale anzi ufficiale al massimo livello, non di scrittura della storia ma in forma di diplomi emanati da Corrado II (cioè in suo nome, come è superfluo ripetere dopo le ricerche dell’ultimo quarto di secolo). Sono tre documenti non datati ma che potrebbero risalire all’autunno. È una situazione talmente grave che verrebbe da chiedersi se non è per questo che Wipone evita di rappresentarla. Abbiamo saputo che i cittadini di Cremona hanno a tal punto cospirato e congiurato contro la loro santa madre e signora Chiesa cremonese e contro il suo vescovo Landolfo, di buona memoria, a tal punto da averlo scacciato dalla città con grave ignominia e disdoro, e da averlo spogliato dei suoi beni e avere abbattuto dalle fondamenta una torre circondata da un muro doppio e da sette torri, e aver preteso un riscatto dai famigli che erano dentro e da alcuni canonici fedeli per riuscire a sfuggire alla morte, e da avergli tolto tutto ciò che avevano, aver distrutto le loro ottime case e aver abbattuto dalle fondamenta la città vecchia ed averne costruita una più grande contro lo stato del nostro honor come resistenza a noi, benché non solo le leggi divine ma anche quelle umane condannino quelli che congiurano e cospirano e ordinino di privarli non solo dei beni ma della loro stessa vita. E poiché ora continuano nella stessa coniuratio e la mantengono con ostinazione e perseguono Umbaldo, vescovo della predetta Chiesa di Cremona, fino a togliergli il suo districtus nonché l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case, che essi trattengono senza la sua investitura, e […] a trattenere la terra di proprietà della Chiesa ed assaltare i suoi ministeriali per ucciderli, e il loro stesso signore e i suoi monaci e chierici strappandoglieli dalle mani, e diboscare alle radici le selve senza permettergli di avere nessuna potestas al di fuori della porta della sua casa, la 8 p. 44. Rimando al mio Una sera dell’anno Mille. Scene di Medioevo, Milano 20042 , 18 Glauco Maria Cantarella nostra imperiale potestas rifuta di sopportare tutto questo. Perciò vogliamo che sia noto a tutti i fedeli della santa Chiesa di Dio, presenti e futuri, per reprimere la loro contumacia ed estirpare la consuetudo di tanto male e risollevare con misericordia la miseria della Chiesa, che in forza della pagina di questo nostro preceptum tutti i beni dei cittadini Cremonesi liberi che congiurano e cospirano, che essi possiedono tanto in città quanto nel sobborgo della città e nello spazio di cinque miglia tutt’intorno alla città, concediamo a titolo di proprietà alla predetta Chiesa di Cremona, e li trasferiamo al dominio della sunnominata Chiesa in forza della nostra autorità imperiale, in ragione che tanto il predetto vescovo Umbaldo quanto i suoi successori facciano dei beni di tutti i congiurati l’uso che meglio parrà loro per l’utilità della Chiesa, in perpetuo9. Dunque i cittadini (cives: coloro che detenevano il diritto di chiamarsi così, i liberi e dotati di beni) avevano compiuto una coniuratio (giuramento comune) e in seguito ad essa si erano sbarazzati del vesco9 «Comperimus quod Cremonenses cives contra sanctam Cremonensem ecclesiam eorum spiritualem matrem et dominam ac contra Landulfum bone memorie eiusdem sedis episcopum eorum spiritualem patronum et dominum ita conspirassent ac coniurassent, ut eum cum gravi ignominia ac dedecore de civitate eiecissent et bonis suis expoliassent et turrim unam castro cum duplici muro et turribus septem circumdatam funditus eruissent et famulos qui intus erant, ut mortem evadere possent, cum quibusdam fidelibus canonicis venales fecissent et omnia quę habebant eis tulissent, eorum domus optimas destruxissent et civitatem veterem a fundamentis obruissent et aliam maiorem contra nostri honoris statum edificassent, ut nobis resisterent, cum non solum divinę, sed etiam mundanę leges ita coniurantes et conspirantes dampnent, quatinus non tantum exterioris bonis, sed etiam ipsa vita eos privari iubeant. Quia vero nunc in ipsa coniuratione manentes eamque obstinato animo observantes Hubaldum predictę sanctę Cremonensis ecclesie episcopum ita insequuntur, ut ei districtum suum tollant, et fictum de molendinis ac de navibus censum solitum et pensionem de domibus, quas sine eius investitura retentant et terram ecclesie propriam, et quam eorum parentes in placito per noticias refutaverat et per aliquas inscriptiones ipsi aut eorum parentes ecclesię dederant, invasam retineant [et super] ministeriales suos, ut eos occidant, et super ipsum seniorem suum et monachos et clericos suos de manibus tollendo assaltum faciant et et silvas radicitus evellant et nullam potestatem extra portam suę domum eum habere consentiant nostra imperialis maiestas sufferre recusat. Quapropter omnibus sancti dei ecclesię fidelibus presentibus scilicet ac futuris notum esse volumus, quod ad eorum comprimendam contumatiam et tanti mali consuetudinem extirpandam et ad miseriam ecclesie misercorditer sublevandam omnia predia civium Cremonensium liberorum coniuratorum et conspirantium, quę habere videntur tam in civitate seu in ipsius civitatis suburbio quam in circuitu pretaxatę civitatis per quinque miliariorum spatia, prelibatę sanctę Cremonensi ecclesię per huius nostri precepti paginam proprietario iure habenda et detinenda concedimus et in ius ac dominium prenominatę ecclesię nostra imperiali auctoritate tranfundimus, ea videlicet ratione ut tam prefatus Hubaldus episcopus quam successores sui de coniuratorum omnium prediis, quicquid ei recte visum fuerit, ad utilitatem ecclesię perpetualiter faciant»: Conradi II Diplomata, cit., n° 251, p. 347; cfr. nn° 252, 253, ivi, pp. 348-349. Narrative dell’XI secolo 19 vo precedente fino a spogliarlo di tutto e a costringerlo a fuggire dalla città, e quel ch’è peggio, avevano abbattuto la sua rocca e distrutto la sua città (quella vecchia) per costruirne una nuova e più vasta in lampante resistenza contro l’honor del re (anzi: contro lo stato dell’honor del re: in questa formula, com’è noto, sta l’origine del concetto di Stato moderno)10: e quindi si erano resi passibili delle pene previste dal delitto di lesa maestà, che neppure in questo caso c’è bisogno di evocare formalmente, la privazione della vita e dei beni. Con il nuovo vescovo addirittura avevano alzato il tiro perché ne avevano usurpato i diritti pubblici (districtus, la facoltà di esercitare la districtio, l’esercizio effettivo del potere) e tutte le entrate collegate con essi, stavano abbattendo i boschi, non gli permettevano di esercitare il potere pubblico (potestas) fuori dalla porta di casa sua: dopo l’abbattimento delle mura era un’ulteriore dichiarazione che i cittadini intendevano attribuirsi e detenere il publicum. Questo non poteva essere tollerato dal legittimo potere pubblico, la potestas imperiale, che quindi interveniva con tutto il peso della sua autorità esprimendosi al più alto grado con un preceptum. Che avrebbe punito la loro contumacia e cancellato la consuetudo di tanto grande male11. Dopodiché, non è inimmaginabile che i cives potessero contare sull’appoggio di buona parte dei canonici: è un tipo di situazione che si può riscontrare anche altrove, a Mantova una ventina d’anni dopo per esempio, e in quel caso verrà preso di mira il papa stesso. E si rivedrà a Lucca alla fine degli anni ’70: «preferiscono essere i poveri del diavolo piuttosto che i ricchi di Cristo», scrisse con disprezzo e rancore (pauperes, gli ultimi nella scala sociale) la Vita dello spodestato vescovo Anselmo12. E non possiamo escludere che si riscontri anche a Parma, come vedremo subito. 10 K. F. Werner, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, trad. italiana Torino 2000, p. 124. 11 Cfr. il mio Alle origini delle autonomie politiche cittadine in Europa. Qualche appunto su un paio di casi, in Sperimentazioni di governo nell’Italia centro settentrionale nel processo storico dal primo Comune alla Signoria, Atti del Convegno di Studio (Bologna 3-4 settembre 2010), a. c. di M. C. De Matteis, B. Pio, Bologna 2011, pp. 249-252. Cfr. F. Ménant, Cremona in età precomunale: il secolo XI, in Storia di Cremona. Dall’alto medioevo all’età comunale, a. c. di G. Andenna, Azzano San Paolo 2004, pp. 111-125. 12 Cfr. R. Capuzzo, Leone IX, Mantova e il Prezioso Sangue tra storia e storiografia, in La Reliquia del Sangue di Cristo: Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX (Mantova 23-26 novembre 2011), a c. A. Calzona, G. M. Cantarella, Verona 2012, pp. 212 ss.; A. Puglia, «Beata filia Petri». Matilde di Canossa e le città della Toscana nord-occidentale tra XI e XII secolo, Pisa 2013, pp. 6 ss. (la citazione a p. 7 n. 9: «optant pauperes potius esse diaboli quam divites Christi»). 20 Glauco Maria Cantarella Ma, a parte la situazione specifica, in quel documento c’è qualcosa di infinitamente più interessante: c’è tutto il vocabolario tecnico che ritroveremo sul finire del secolo quando si osservano i primi esperimenti comunali. Vale a dire, si capisce meglio perché quegli esperimenti vengono definiti con quel vocabolario, e anche perché il Barbarossa finirà per farne la causa del suo regno: certo, per le ricche rendite delle opulenti città di Lombardia, ma soprattutto perché si trattava di stroncare una situazione di lesa maestà. Mi si permetterà di ricordare una cosa nota: il diritto romano è lo strumento principe, anzi la griglia interpretativa del XII secolo, ma non era mai andato perduto (malgrado certa storiografia non sembri ricordarsene) ed era stata ri-evocato con gli Ottoni, da Hroswitha di Gandersheim in poi; i documenti di Ottone III conoscono la lesa maestà13. I cittadini di Cremona rivendicavano per sé tutto il publicum? Tagliavano i boschi, cioè facevano un uso diverso della terra? Per metterla a coltivo, ad esempio, o anche per ricavarne legna da costruzione? Avevano una mala consuetudo? Giacché l’espressione tanti mali consuetudinem sembra evocare distintamente (anche se solo sfiorandola) la categoria della mala consuetudo: che non è l’abitudine a commettere il male o la cattiva abitudine, ma, per esempio, nel secolo XI il complesso di diritti signorili esercitati senza legittimità; e con quel nome si indicheranno gli usi delle comunità messi per iscritto: insomma, le leggi delle città. L’indicazione del taglio dei boschi è significativa. Non si tratta tanto del fatto che i boschi fossero stati o no sottratti agli usi comunitari, come pure era avvenuto già a partire dall’età carolingia e come si vedrà sempre più di frequente, quanto del fatto che erano riconosciuti parte dell’area di competenza del publicum e di chi lo esercitava: dunque il vescovo, dunque i cittadini volevano comparteciparne. Vale a dire, e mi scuso per il fatto di ripeterlo, non gli indistinti abitanti della città ma coloro che godevano della condizione giuridica di libertà 13 Rinvio alle rapide osservazioni che ho fatto in Otton III et la «Renovatio Imperii Romanorum», in «Przegląd Historyczny», CV (2014), pp. 1-20. Cfr. M. Lauwers, L’Église dans l’Occident médiéval : histoire religieuse ou histoire de la société ? Quelques jalons pour un panorama de la recherche en France et en Italie au XXe siècle, in Mélanges de l’École française de Rome, Moyen Age, 121, Rome 2009: «l’Église joua un rôle moteur dans la genèse de l’État moderne, en favorisant notamment la “renaissance” et surtout la transformation du droit et de la procédure judiciaire, ainsi que l’atteste, par exemple, la mise en place au début du XIIIe siècle de l’Inquisition, dont les principes permirent entre autres de fonder la toute-puissance de l’État» (pp. 289-290): non ha mai letto nulla sulla formazione del diritto e sulle sue applicazioni pratiche nell’Impero a partire dagli Ottoni e sull’importanza della cultura giuridica nelle autonomie politiche italiane? Evidentemente no. Narrative dell’XI secolo 21 e che, magari, potevano anche replicare all’interno della cattedrale, con qualche canonico, le dinamiche delle concorrenzialità cittadine: insomma, l’élite della città, chi essa riusciva a coagulare e chi mirava a farne parte. Seguiamo Corrado II e spostiamoci a breve distanza da Cremona: Parma, Natale 1037. In questo caso la narrativa è fatta di narrazione storiografica, è plurima ed è assai meno lineare, abbiamo versioni parzialmente o totalmente diverse che si riflettono anche nella storiografia contemporanea. Prendiamo le mosse proprio dalla storiografia. Roberto Greci: «Donizone […] narra di fatti assai gravi, determinati esclusivamente dai cittadini, non dalla aristocrazia rurale: le porte della città vennero bloccate per impedire che le truppe alloggiate fuori e la vassallità del contado accorressero in aiuto della scorta imperiale. Molte furono le perdite dei Tedeschi, nonostante questi lottassero fino all’ultimo per salvare la propria vita. Corrado, per uscire da questa imprevista situazione, ordinò di appiccare il fuoco alla città affinché il suo esercito, accampato fuori le mura, scorgendo le fiamme e il fumo levarsi in cielo, venisse in aiuto; ma anche il marchese Bonifacio, vedendo dalla rocca di Canossa l’incendio, si precipitò rapido con i suoi cavalieri»14. Paolo Golinelli: «Non si trattò di un assedio, ma di una rivolta cittadina, forse antivescovile, repressa nel sangue dalle truppe dell’imperatore Corrado nel 1037. Il racconto di Donizone si diffonde su particolari che, se danno la dimensione della partecipazione cittadina alla lotta, non chiariscono però lo svolgimento degli avvenimenti, che ci sono invece narrati in modo più conseguente dagli Annales Althaenses Maiores […] e da Wipone […] Queste fonti, tuttavia, non parlano dell’intervento di Bonifacio»15. Ora le fonti. Wipone: Nell’inverno di quell’anno l’imperatore con il suo esercito, attraversato il Po, venne alla città di Parma e vi celebrò il Natale del Signore all’inizio dell’anno dell’incarnazione del Signore 1038. Proprio il giorno di Natale scoppiarono grandi e violenti disordini fra i Teutonici e i cittadini di Parma, e un tal Cor14 R. Greci, Origini, sviluppi e crisi del Comune, in Storia di Parma III.1: Parma medievale. Poteri e istituzioni, a. c. di R. Greci, Parma 2010, p. 118. 15 Donizone, Vita di Matilde di Canossa, traduzione e note di P. Golinelli, Milano 1987, pp. 128-129 n. 154. 22 Glauco Maria Cantarella rado, un tipo gagliardo, addetto ai cibi dell’imperatore, fu ucciso insieme ad altri. Dalla qual cosa scosso, l’esercito investe i cittadini con le spade e il ferro; e l’imperatore dopo l’incendio ordinò di distruggere una grande parte delle mura perché le loro macerie indicassero alle altre città che tanta temerarietà non era rimasta impunita16. Annales Altahenses Maiores: L’imperatore […] va a Parma per celebrarvi il Natale del Signore. Ma proprio nel giorno santo i Parmensi, volendo eliminare tutti i nostri insieme con il principe, scatenarono un grande tumulto. D’ambo i lati si combatté accanitamente e i nostri stavano per essere sopraffatti quando Dio per la sua grazia inculcò all’imperatore il consiglio di ordinare di dare alle fiamme la città. Rchiamate da questo, le truppe sparse tutt’intorno arrivarono di qua e di là e devastarono la città con il fuoco17. Donizone. È verbosissimo, ma si comprende perché: la sua tempesta di parole deve compiacere la sua augusta destinataria Matilde non soltanto sotto il profilo letterario ma anche perché trasmette notizie mirate, diciamo così: Era stretta d’assedio dall’imperatore Corrado, che per espugnarla ordinò d’attaccarla coi dardi, ma presto il popolo armato fe’ strage degli Alemanni: ben otto ne uccise un fornaio da solo! Allora aumentò il furore del re, che ordinò sull’istante D’accostare alle mura soldati protetti dagli elmi; poi mandò a chiamar Bonifacio, esperto nell’armi, che accorse ad aiutarlo a spezzar le reni alla stolta città. 16 Gesta, XXXVII, p. 57: «Eodem anno hiberno tempore collecto exercitu imperator transcendens Padum ad Parmam civitatem venit, ibi natalem Domini celebravit inchoante anno dominicae incarnationis MXXXVIII. In ipsa die nativitatis Domini inter Teutonicos et cives Parmenses magna seditio orta est, et quidam bene valens vir Chuonradus, infertor ciborum imperatoris, cum aliis interfectus est. Unde commotus exercitus gladiis et igne cives aggreditur; et imperator post incendium magnam partem murorum destrui praecepit, ut eorum praesumptionem non inultam fuisse haec ruina aliis civitatibus indicaret». 17 Annales Althaenses Maiores, a c. di E. L. B ab Oefele, MGH. Scriptores Rerum Germanicarum in usus scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim recusi 4, ad a. 1037, p. 21: «Imperator […] Parmam civitatem proficiscitur ibique nativitatem dominicam acturus. Die vero sancto Parmenses tumultu maximo excitato omnes nostros una cum principe voluerunt exterminare. Cum utrimque fortiter pugnaretur, et nostri pene superarentur, Deo donante incidit consilium imperatori, ut iuberet civitatem succendi. Unde provocatus exercitus, circumquaque per regiones diffusus, hinc inde advenerunt, cede et igne urbem vastaverunt». Narrative dell’XI secolo 23 Egli tosto raccolse le schiere dei fanti e dei cavalieri, e, da amico del re, s’affrettò a distruggere quella città. Alla vista di lui s’impauriscono i cittadini e si senton perduti: vanno senza sosta a gettarsi ai piedi dell’imperatore, e gli aprono tutti le porte della città e delle lor case. Erano allora col re due prigionieri malvagi, uomini forti e più di tutti possenti: essi, strappate le corde, si diedero a destra e a manca a colpire, straziando ed uccidendo i parmensi. I giovani della città, coi coltelli, li vogliono eliminare; e s’appostano dietro di essi e tagliano loro le braccia. Piansero il re e gli amici una tale uccisione, e subito fece il sovrano incendiar la città. Ma ora con canto sicuro si narri come l’imperatore Si congiunse al nostro signore con un giuramento. S’era accorto Corrado che, per conservare l’impero E per governarlo, più di tutti poteva giovargli Il magnifico, forte, famoso e generoso Bonifacio, grande e temibil guerriero; gli chiese perciò di prestargli il giuramento di fedeltà, in cambio, gli disse, gli avrebbe concesso in feudo una marca, nonché ricambiato dal re quel giuramento. Disse sì Bonifacio al sovrano e giurò: tosto il re gli giurò innalzando la croce che per sempre egli avrebbe protetto la vita, i suo corpo e l’onor che s’addice a un signore, senza inganno e in ogni evenienza: questo patto sottoscrissero entrambi, finché vita avessero avuto. Nessun duca giammai meritò giuramente tanto solenne ed un tale trattato fu vergato su pergamena18. 18 Vita Mathildis a Donizone scripta, a c. di L. Simeoni, RIS 2 V.II, I.XI, vv. 850-886 pp. 35-36: «Caesaris haec vallo Chonradi cingitur arto: / Ut capiatur enim iubet ipsam pungere telis: / Plebis mox armis, fit strages ex Alemannis. / Panificus quidam necuit bis quattuor ira. / Proluit unde furor mage Cesaris, ilico muro / Applicat armatos custodes ac galeatos; / Mandat hero nostro Bonefacio bene docto, / Quatinus accurrat, iuvet urbem frangere stultam. / Qui subito sumptis equitum peditum quoque turmis, / Urbis ad excidium properavit regis amicus. / Quo viso cives trepidant reputantque perire: / Absque tenore pedes adeunt mox regis, et edes / Ac portas urbi resecaverunt sibi cuncti. / Tunc aderant victi bini cum rege maligni, / Pingues et fortes homines nimium super omnes; / Avulsis vinclis, a dextris atque sinistris / Cedunt precipites, lacerant, perimunt quoque cives; / Quos iuvenes urbis cupientes cedere cultris, / Propter eos sistunt, frameis humeros sibi scindunt. / Taliter occisis, rex flevit et eius amici, / Protinus atque locum fecit comburere totum. / Qualiter augustus cum nostro principe iunctus / Sit sacramento, referatur carmine certo. / Imperium servans Chonradus eumque gubernans, / Cognoscit vere plus cunctis posse valere / Mirificum, clarum, generosum, sepe relatum, / Athletam magnum Bonefacium vene- 24 Glauco Maria Cantarella Le narrative delle tre fonti coincidono solo sul grande spargimento di sangue. Gli Annales, fra l’altro, lasciano il dubbio che l’imperatore fosse all’interno delle mura della città, che ovviamente non poteva contenere tutto il suo esercito; come a Ravenna nel 1027, insomma. E sottendono che si sia trattato di una rivolta esplicitamente anti-imperiale. Non così Wipone, che anzi ha una particolarità che possiamo considerare almeno come un indizio se non come una possibile chiave: è preciso e unico come se avesse avuto la notizia di prima mano o riferisse una cosa che era credibile perché verisimile: l’assassinio di quel Corrado (che non è mai menzionato altrove né dalle altre fonti) infertor ciborum19. Uomo di fiducia, dunque, se ha il compito di portare da mangiare al re. Perché proprio lui? Non è il caso di ricamare troppo sulle fonti, ma nulla vieta di pensare che sovraintendesse al cibo destinato alla tavola dell’imperatore, che non poteva non essere riccamente rifornita, e a questo doveva aver provveduto, verosimilmente, il vescovo quando era stata decisa la presenza di Corrado II a Parma; dunque si può pensare all’acquisto, ma anche a requisizioni, di cibo in pieno inverno. Ma allora, perché la rivolta non ebbe come oggetto il vescovo? Bersaglio e vittima non il vescovo, non l’imperatore: ma l’esecutore, l’interprete materiale della volontà imperiale: il che poteva ben rendere proprio quel tal Corrado e non altri oggetto d’ostilità, bersaglio immediato, diretto, simbolico e esemplare. E proprio perché esemplare lo ritroviamo in Wipone. Vittima eccellente che sottolinea quanto i ribelli fossero arrivati vicini alla persona imperiale: è dell’infertor ciborum, non di altri, che Wipone consegna il nome alla storia. Per quanto le analogie possano lasciare il tempo che trovano, ricordiamo i motivi della rivolta di Ravenna. E aggiungiamo che nel 1110 accadrà una cosa simile a Sahagún quando l’abate volle acquartierare nel borgo i cavalieri di Alfonso d’Aragona. Analogie, e differenze: a Ravenna la rivolta fu contro l’imperatore e non contro il signore della città, l’arcivescovo; a Sahagún sarà contro il signore del borgo, l’abate, e non contro il re. Ma c’è un elemento comune: gli randum, / Ut iuraret ei rogat ipsum more fidelis, / Ac ideo dixit quod marchia servit ipsi, / Redderet atque vicem iurandi rex sibi quippe. / Annuit hoc regi Bonefacius, atque peregit: / Voceque mox viva iuravit rex sibi, vitam / Atque suos artus, et honorem principis aptum, / Absque dolo recte servare per omnia semper: / Donec eis vita subsisteret hoc ita firmant. / Nullus dux unquam meruit tam foedera culta: / In carta scriptum iusiurandum fuit istud». La traduzione è di P. Golinelli, Vita di Matilde di Canossa, cit., pp. 56-57. 19 C. du Cange, Glossariun ad Scriptores Mediae et Infimae Latinitatis, Francofurti ad Moenum 1710, II, p. 68: Infertor: Dapifer, qui dapes infert. Narrative dell’XI secolo 25 abitanti si infuriano per gli abusi o ciò che intendono come tali, non mettono in questione il principio dell’autorità imperiale o regia; a Sahagún oggetto della rivolta è l’esecutore della volontà regia (l’abate), non così a Ravenna e a Parma dove i signori della città non vengono coinvolti e l’unico che ci va di mezzo è, a Parma, l’uomo così vicino all’imperatore da nutrirlo materialmente e che materialmente e direttamente gli ubbidisce20. Ma questo ne potrebbe fare, allora, una rivolta puntuale scatenata da almeno un motivo preciso, non una rivolta genericamente antimperiale come la presentano gli Annales Althaenses. Parma, insomma, nel 1037 non è anti-imperiale. Non lo sarà ancora almeno per un secolo. Come Wipone, unico è anche Donizone, che con le altre narrazioni ha in comune l’ineludibile, l’incendio e il fatto che i fatti più gravi si siano svolti all’interno della città (e che forse ci fornisce un indizio con «aprono […] le porte della città e delle lor case»: un riferimento proprio all’acquartieramento?); comunque ha elementi curiosi e che varrà la pena almeno accennare: se tutto fu provocato da due prigionieri malvagi che erano riusciti a liberarsi, perché il re e gli amici si dolsero e decisero la rappresaglia? una specie di lesa maestà perché i parmigiani avevano sottratto al re, cui solo spettava, la punizione dei colpevoli? Il Simeoni si arrampicò sugli specchi: «Per avere un senso bisogna intendere: due malvagi che erano col re, cioè una perifrasi per dire due tedeschi. Che siano tali lo prova il vederli ammazzare i cittadini appena rotti i legami, e il dolore del re per la loro morte: dovevano essere dei tedeschi fatti prigionieri dai cittadini in un primo tempo e che si stavano per restituire». Altra interazione fra fonte e interpretazione, o meglio, altra narrativa. Peccato che Donizone scriva «vincti bini cum rege maligni»… E nemmeno faccia qualche riferimento che possa lasciar pensare al famoso e mitico furor theutonicus…21 Salvo che con Donizone la narrativa si sposa con ciò che ora si usa chiamare post-truth. Attraverso la costruzione del testo suggerisce che la concessione della Marca (di Toscana, evidentemente) fosse stata una specie di conseguenza logica dell’auxilium prestato da Bonifacio a Parma; noi sappiamo che risaliva a dieci anni prima… ma così Donizone prepara la via alla dimostrazione di quanto il figlio di Corrado, Enrico III, sarà infido e sleale nonostante la fedele e vittoriosa partecipazione di Bonifacio alla campagna di Borgogna. 20 21 Cfr. il mio Manuale della fine del mondo, cit., pp. 17-18, 246-247. Vita Mathildis a Donizone scripta, cit., nota a p. 36. 26 Glauco Maria Cantarella Parma, «città inquieta»22. Ma non come Cremona. Nella Parma pacificata un diploma del 29 dicembre è rilasciato al monastero di San Giusto di Susa; nel diploma successivo (28 gennaio) si tratta di Coira: l’imperatore si trova a Nonantola. Pur non potendo non mettere in conto la perdita di documentazione, proprio l’abbondanza di quella relativa a Cremona deve farci intendere che a Parma le relazioni fra cittadini e vescovo erano infinitamente meno critiche23. Torniamo dunque a quanto già detto: non si trattò di una rivolta antivescovile. E forse neppure anti-imperiale. Ma… Potremmo essere indotti a pensare che la ribellione fu fomentata da qualche membro del Capitolo della cattedrale, visto che il Capitolo patì delle perdite a partire dal 1038 per decisione imperiale e i vescovi non intervennero mai a rivendicare quanto esso aveva perduto (non esiste nessun Polittico delle malefatte per Parma che consenta di affermarlo: a meno di non voler interpretare, malgrado lo si sia fatto, come risposta a un documento del genere il diploma rilasciato il 16 maggio 1111 a Marengo dal neo-imperatore Enrico V, che però non dà nessun indizio di questo). Anzi, i vescovi gestirono in prima persona alcuni beni del patrimonio capitolare come il castello di San Secondo e il castrum e la curtis di Pizzo che Cadalo concesse ai da Cornazzano, vassalli di Bonifacio di Canossa24. Dunque forse una rivolta che avrebbe dovuto avere come bersaglio il vescovo ma si era tramutata in una generica rivolta contro gli abusi perché le famiglie dei canonici implicati non erano riuscite a indirizzarla e gestirla? Fermiamoci qui, è davvero stupido macinare acqua. Lasciamoci alle spalle Corrado II e con lui il panorama turbolento delle città italiane. Un ultimo caso, trentanove anni più tardi. Infinitamente più famoso dei precedenti. Diverso, perché non ha a che fare con le città. Il viaggio di Enrico IV verso l’Italia alla fine del 1076, una narrativa degna di nota. 22 P. Golinelli, Matilde di Canossa. Vita e mito, Roma 2021, p. 196 Cfr. Conradi II Diplomata, cit., nn° 254-255, pp. 349-353. Cfr. Manuale della fine del mondo, pp. 243-246. 24 San Secondo Parmense, a NW di Parma tra il Taro e lo Stirone, del sec. IX: cfr. D. Romagnoli, I castelli e la vita cortese, in Storia di Parma III.2: Parma medievale. Economia, società, memoria, a. c. di R. Greci, Parma 2011, pp. 378, 383; Pizzo, a NW di Parma verso la confluenza dello Stirone nel Taro, del sec. XI: ibidem pp. 381, 383. Cfr. R. Greci, Origini, sviluppi e crisi del Comune, cit. pp. 119-120, E cfr. ora il mio Il seecolo lungo: Parma e i Canossa, in Parma crocevia di cultura in Europa. Atti del Convegno (Parma, 20 novembre 2021), Parma 2022, pp. 8-12. 23 Narrative dell’XI secolo 27 Enrico, come si sa, aveva urgenza di vedersi rimettere la scomunica che l’aveva colpito. Scese in Italia in pieno inverno. Partì da Spira qualche giorno prima di Natale, celebrò il Natale a Besançon, accolto con magnficenza da Guglielmo di Borgogna. Lasciata Besançon arrivò a Gex, sulla via del Moncenisio, il 27 dicembre. Tappe forzate a una velocità che ha dell’incredibile anche se dobbiamo pensare che gli spostamenti dovevano avvenire sfruttando al meglio le acque, i corsi del Reno, del Doubs (e poi il Lemano, il corso del Rodano): gli Annali di Stade (ora in Bassa Sassonia), del XIII secolo, tracciano un quadro preciso e illuminante dell’itinerario che dal nord della Germania menava a Roma. Secondo Lamperto di Hersfeld «l’inverno era asperrimo» e il Reno ghiacciato al punto che si poté attraversare a piedi dalla metà di novembre fino all’inizio di aprile (Bernoldo di Costanza aggiunge, con una precisione da serie statistica di meteorologia: in tutto il regno nevicò moltissimo dal 31 ottobre fine al 26 marzo, cinque mesi di neve). Comunque anche calcolando tre giorni interi di viaggio si tratterebbe di circa 47 km al giorno, si può proprio dire che viaggiò giorno e notte… A Gex l’aspettavano Adelaide di Torino e suo figlio Amedeo II. Qui la faccenda si fa intrigante. Il re non compariva all’improvviso, il suo viaggio non era segreto. Nessuno avrebbe dovuto comunicare con lui, che era scomunicato; nessuno, al di fuori dell’area tra RenoMosa-Mosella e la Sassonia-Turingia, temeva le scomuniche papali? Besançon era parte integrante del regno, era stato per garantire la stabilità dell’intera area che Enrico III aveva predisposto la rete di alleanze matrimoniali con gli Arduinici, fidanzando Berta di Torino con il figlioletto nel 1055 a Zurigo (il matrimonio era stato celebrato nel 1066 a Tribur); il controllo della Maurienne, con i passi fra le montagne e le vie fluviali, era essenziale per garantire una via d’accesso alla penisola da Ovest. Enrico non poteva neppur programmare di scendere in Italia per i cammini consueti, Baviera, Carinzia, Brennero, Adige, perché la via gli era preclusa dai duchi ribelli. Non aveva scelta, dovette negoziare con Adelaide, far buon viso a cattivo gioco di fronte alle sue richieste territorialmente esose, placare l’indignazione dei suoi consiglieri; e si avviò verso l’Italia. Adelaide andò con lui insieme con Amedeo. Non solo la sua presenza garantiva la sicurezza per il passaggio del re, ma sarebbe stata una garanzia ancora più forte e convincente dopo il valico delle Alpi. Era in viaggio anche Gregorio VII, in direzione inversa. Il 28 dicembre era a Firenze. Con lui Ugo di Semur, abate di Cluny e in duplice, anzi ambigua, veste di di grande ecclesiastico e di padrino del 28 Glauco Maria Cantarella re, che enfatizzava il ruolo pacificatore di Cluny. Un mese più tardi l’incontro di Canossa25. Arrivare in Italia fu terribile, scrive Lamperto di Hersfeld. Bisognava attraversare le Alpi cariche di nevi e ghiacci, un itinerario molto pericoloso. Ma urgeva farlo. E comunque l’itinerario delle Alpi occidentali era sempre stato uno di più frequentati, e in quei mesi lo stavano percorrendo, fra gli altri, molti messaggeri. Lamperto qui si compiace della propria penna: servivano guide esperte, furono necessari accorgimenti tecnologici come predisporre argani per spostare i cavalli, con le zampe legate, per superare dislivelli particolarmente ardui ed evitare che sdrucciolassero sul ghiaccio e finissero a sfracellarsi nei dirupi o si azzoppassero; la moglie del re e le sue dame furono agganciate alle corna dei buoi che venivano guidati da stallieri, scudieri o dalle stesse guide: i viaggi erano sempre scomodissimi, ma pensiamo che le poverette dovettero passare dei giorni terribili, sballottate, impossibilitate a far fronte a un qualunque imprevisto…26 La sua narrazione è colorita e giustamente citata dappertutto: ma da dove gli arrivavano tante notizie tanto dettagliate? È un problema che non riguarda solo lui, ovviamente, ma tutte le nostre fonti tranne quelle ufficiali: è il problema del flusso di notizie che le attraversa e le vivifica. Insomma, Lamperto racconta quello aveva saputo da qualche testimonianza, quello che si immaginava generalmente e circolava ed era arrivato all’orecchio, o quello che immaginava lui? Ma se anche 25 Cfr. il mio Gregorio VII, cit., pp. 172-174. Lamperti monachi Hersfeldensis Annales, a c. di O. Holder-Egger, MGH. Scriptores Rerum Germanicarum in usus scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim recusi, 38, pp. 286-287: «Hyemps erat asperrima, et montes, per quos transitus erat, in inmensum porrecti et pene nubibus cacumen ingerentes ita mole nivium et glaciali frigore obriguerant, ut per lubricum precipitemque decessum nec equitis nec peditis gressum sine periculo admitterent […] Igitur quosdam ex indigenis locorum peritos et preruptis Alpium iugis assuetos mercede conduxit, qui comitatum eius per abruptum montem et moles nivium precederent et subsequentibus quaqua possent arte itineris asperitatem levigarent. His ductoribus cum in vertice montis magna cum difficultate evasissent, nulla ulterius progrediendi copia erat, eo quod preceps montis latus et, ut dictum est, glaciali frigore lubricum omnem penitus decessum negare videretur. Ibi viri periculum omne viribus evincere conantes, nunc manibus et pedibus reptando, nunc ductorum suorum humeris innitendum, interdum quoque titubante per lubricum gressu cadendo et longius volutando, vix tandem aliquando cum gravi salutis suae periculo ad campestria pervenerunt. Reginam et alias, quae in obsequio eius erant, mulieres boum coriis impositas duces itineris conductu preeuntes deorsum trahebant. Equorum alios per machinas quasdam summittebant, alios colligatis pedibus trahebant, ex quibus multi, dum traherentur, mortui, plures debilitati, pauci admodum integri incolumesque periculum evadere potuerunt». 26 Narrative dell’XI secolo 29 così fosse, quanto racconta doveva essere verosimile, o non avrebbe avuto nessuna efficacia di comunicazione (nel medioevo non si scriveva per diletto, scrivere era faticoso e costosissimo, ce ne dimentichiamo troppo spesso). Di certo non aveva testimonianze d’età classica cui attingere. A meno che la sua biografia non ci fornisca qualche indizio e suggerimento. Nell’autunno 1058, appena ordinato sacerdote ad Aschaffenburg, partì per un pellegrinaggio a Gerusalemme senza il permesso dell’abate e ne ritornò solo a settembre dell’anno successivo; ciò non gli impedì di riprendere il suo posto in monastero e dirigere la scuola, da cui si allontanò solo nel 1071 per un viaggio a Saalfeld e a Siegburg27. Gli Annales Stadenses, benché risalgano a quasi duecento anni dopo il suo pellegrinaggio, sono preziosi per tentare di capire, anche perché gli strumenti tecnologici per i viaggi non erano cambiati, camminare, cavalcare, qualche passaggio in carretto… Semmai nel frattempo erano migliorati i passaggi marittimi, e quelli consigliati per Gerusalemme erano via Marsiglia-Messina costeggiando Corsica e Sardegna: ma si può escludere abbastanza serenamente che nel secolo XI si potesse intraprendere un itinerario del genere perché sarebbe stato assai arrischiato (solo per dirne una, la Sicilia era musulmana), Gli itinerari per scendere in Italia e da lì raggiungere la Città Santa prevedevano il passaggio attraverso la Maurienne e le Alpi; e casomai ritorni diversificati, attraverso il Trentino, la Val Pusteria («sed per Pustertal carissima sunt tempora et mala hospitia»), Venezia, Como, Basilea; o anche per via d’acqua, però sconsigliata per la possibilità di tempeste e la mancanza di rifugi nelle paludi: Argenta, Ferrara, il Delta del Po. Insomma, l’itinerario terrestre era lo stesso percorso da Enrico IV. Se lo era stato anche di Lamperto, il nostro monaco non aveva attraversato le Alpi in pieno inverno benché non avesse intrapreso il viaggio nella stagione consigliata dagli Annales Stadenses («circa medium Augustum, quia tunc aer temperatus est, viae siccae sunt, aquae non abundant, dies longi satis ad ambulandum, noctes etiam ad corpus recreandum, et invenies horrea novis frugis adimpleta»). Potrebbe aver ripercorso e infiorato il suo passaggio delle Alpi? Potrebbe averle viste con le prime nevi dell’autunno? potrebbe aver riportato racconti uditi in viaggio da altri viaggiatori, che si scambiavano informazioni e storie durante i loro incontri, i tragitti in comune, le soste, e coordinato quel che aveva 27 Cfr. P. M. Lampel, Lampert von Hersfeld (von Aschaffenburg), in Neue Deutsche Biographie 13, Berlin 1982, https://www.deutsche-biographie.de/sfz47610. html, consultato 7 aprile 2022. 30 Glauco Maria Cantarella visto di persona con ciò che aveva sentito28? E aggiungiamo una banale ma accessoria considerazione di semplice buon senso: il suo pellegrinaggio fu molto rapido, durò meno di un anno, dunque anche i suoi spostamenti furono molto rapidi. Il che, senza voler insistere troppo, potrebbe aiutarci a inquadrare meglio la velocità di Enrico IV. Forse proprio alla luce del semplice buon senso bisognerebbe rivedere la sua narrativa: anche Adelaide era una donna, anche lei aveva attraversato le Alpi per arrivare a Gex, anche lei le riattraversò con Enrico IV, anche lei fu presente a Canossa anzi forse arrivò prima del re: solo che Lamperto di Hersfeld non la menziona… Possibile che la adombri all’interno di quel gruppo di dame che erano «in obsequio» della regina? Dunque? Dunque forse Lamperto sviluppa un espediente narrativo e vi si distende non soltanto per puro autocompiacimento e per dare diletto ai suoi lettori, ma per sottolineare attraverso la narrazione quanto eccezionale fosse la situazione, quanto fossero necessarie soluzioni d’emergenza e rapidissime, quanto arduo, quanto straordinario, quanto disperato, quanto irripetibile fosse il tutto: non soltanto il viaggio ma anche la penitenza regia, l’accordo di Canossa. Pensiamo, ad esempio, alle dame agganciate alle corna dei buoi: proviamo a mettere in moto la nostra immaginazione, in quale posizione avrebbero potuto essere? distese lungo la schiena dei buoi? issate su baldacchini agganciati alle corna? Sono interrogativi banali, ma la storia, si sa, è sempre banale (anche e forse soprattutto nel Male, come ha insegnato una purtroppo quasi dimenticata Hannah Arendt). I registri delle narrative corrispondono a esigenze di comunicazione; quelli molto elevati, al limite dell’iperbolico, straordinari come in questo caso, quando non appartengono al genere della satira o della polemistica29, non di rado dissimulano (anzi, per usare un’espressione da verbale di polizia, travisano) proprio la semplice e nuda banalità. 28 Annales Stadenses, a c. di I. M. Lappenberg, MGH. Scriptores XVI, pp. 335-337; pp. 339-340 (ibidem per l’itinerario via mare). 29 Cfr. G. M. Cantarella, Luz, colores, artes, música. Voces desde la Plena Edad Media, in El mundo sensible de los eclesiásticos: siglos IV al XIII, a. c. di G. Rodríguez, A. V. Neyra, Mar del Plata 2022, pp. 202-212. INDICE Introduzione 5 Istituzioni ecclesiastiche Aspiranti sposi fra Toscana e Lombardia Roberto Bizzocchi 11 Narrative dell’XI secolo Glauco Maria Cantarella 13 Vices apostolorum in ecclesia gerentes. L’argomento della successione apostolica nel sermone di Leonardo Dati al concilio di Pisa (1409) e in Pierre d’Ailly a Costanza (1416) Michela Guidi 31 Tessere da un mosaico in frantumi. Il codice 2737 della Biblioteca Statale di Lucca Nino Mastruzzo, Maria Cristina Rossi 47 «Averete imparata la regola e dottrina del Pastore buono». Sulla lettera di s. Caterina da Siena all’arcivescovo di Pisa Jacopo Paganelli 95 Dai da Burcione alla Brina: diverse letture intorno a un castello Enrica Salvatori Uno spazio aperto. Prime riflessioni sulla composizione sociale del capitolo cattedrale di Parma durante l’episcopato di Obizzo Fieschi (1194-1224) Pietro Silanos 107 163 Città e comune Fiorentini a Pisa al tempo di Enrico VII in un documento poco noto Maria Luisa Ceccarelli Lemut, Gabriella Garzella 183 492 Indice Pisa e il mare nell’alto medioevo: una riconsiderazione delle fonti scritte Simone M. Collavini 195 Un duca e un arcivescovo tra dinamiche macropolitiche e affermazione locale (Ravenna, IX sec.) Maria Elena Cortese 225 La traslazione delle reliquie di san Giacomo a Pistoia (anni ’30 e ’40 del XII secolo). Una rilettura Alberto Cotza 255 Tutrix et curatrix. Il ruolo legale delle tutrici a Pisa all’inizio del Quattrocento Sylvie Duval 277 L’adventus di Federico Barbarossa nelle città italiane Knut Gӧrich 295 La memoria medievale pisana della battaglia di Montecatini (29 agosto 1315) Cecilia Iannella 315 La peste del 1348 e i processi di riforma ospedaliera: considerazioni a partire dal caso toscano Alberto Luongo 351 Una nota sulle ‘parti’ pisane dopo la conquista fiorentina Giuseppe Petralia 367 Quattro mesi molto intensi. Ancora sulla compagnia di San Michele (Pisa, 1369) Alma Poloni 389 Amici, parenti, fedeli. Una rilettura della Translatio ss. Iuvenalis et Cassii Narniensium episcoporum Lucam Paolo Tomei 419 I Visconti di Verona (secoli XII-XIII): sviluppi dinastici e politici, prerogative signorili, assetti patrimoniali 449 Gian Maria Varanini Consoli in disaccordo Chris Wickham 471 Edizioni ETS Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2023