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Musica

2021

Natura e funzione della musica nel repertorio lirico italiano del medioevo.

La lirica italiana Un lessico fondamentale (secoli XIII-XIV) A cura di Lorenzo Geri, Marco Grimaldi e Nicolò Maldina 1a edizione, settembre 2021 © copyright 2021 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Edimill, Bologna Finito di stampare nel settembre 2021 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-290-1124-7 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. Indice Premessa di Lorenzo Geri, Marco Grimaldi e Nicolò Maldina 13 1. Amore di Roberto Rea 15 1.1. 1.2. L’amore cortese dai trovatori ai Siciliani Da Guittone a Guinizelli: palinodia vs sublimazione dell’amore Cavalcanti: l’amore come passione della mente Dante: l’amore «che non puote venir meno» Petrarca: l’amore come «giovenile errore» 15 1.3. 1.4. 1.5. 17 19 21 23 2. Città di Nicolò Maldina 25 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. Corte e città nella lirica tardomedievale Dalla corte al comune Comuni e poesia nel xiii secolo Corte e città nei rimatori del Trecento 25 26 27 30 3. Comico di Marco Berisso 35 3.1. 3.2. Che cos’è la letteratura comica nel Medioevo? La costituzione del “canone” comico 35 37 7 la lirica italiana 3.3. 3.4. Un genere comunale (e municipale) Cecco Angiolieri e il comico “oggettivo” 40 43 4. Corte di Lorenzo Geri 45 4.1. 4.2. 4.3. 4.4. La lirica romanza e la corte Le corti dell’Italia settentrionale e la Magna Curia Dalla Magna Curia ai comuni centro-settentrionali Dante e Petrarca 45 46 50 51 5. Dialogo di Claudio Giunta 55 5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6. Le rime di corrispondenza La dialogicità nella lirica dei primi secoli Poesie dialogate nei Siciliani Varia dialogicità tra pre-Stilnovo e Stilnovo Il discorso diretto e le personificazioni negli Stilnovisti La lezione degli Stilnovisti nel Trecento (Boccaccio e Petrarca) 55 57 59 61 67 69 6. Filosofia di Luca Lombardo 73 6.1. 6.2. 6.3. 6.4. Il nome di filosofia Occorrenze poetiche La poesia filosofica Dante e Petrarca 73 75 81 85 7. Forme poetiche di Marco Grimaldi 89 7.1. 7.2. 7.3. Lirica e varietà Canzone Ballata 89 95 97 8 indice 7.4. 7.5. Sonetto Le altre forme 98 100 8. Geografia di Federico Ruggiero 103 8.1. 8.2. 8.3. 8.4. 8.5. La prospettiva geografica Dalle tracce alla tradizione Dalla Magna Curia all’Italia comunale Tra Firenze e il Veneto: lo Stilnovo e la poesia comica Il policentrismo trecentesco 103 104 109 112 114 9. Io di Lorenzo Geri 119 9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5. Lirica e individuo, lirica e interiorità Dai Siciliani a Guittone Guinizelli e Cavalcanti Dante Petrarca 119 120 123 126 129 10. Lingua di Irene Iocca 133 10.1. 10.2. 10.3. 10.4. 10.5. La formazione del volgare letterario Il siciliano letterario La lingua della lirica cosiddetta “siculo-toscana” La lingua della lirica stilnovista La lingua eclettica della lirica trecentesca e quella selettiva di Petrarca 133 134 138 141 144 11. Modelli biblici di Nicolò Maldina 149 11.1. 11.2. Sacra Scrittura e codice lirico Poeti della Scuola siciliana 149 150 9 la lirica italiana 11.3. 11.4. 11.5. Lo Stilnovo e la Vita nova Il Canzoniere di Petrarca I rimatori del Trecento 152 158 161 12. Modelli latini di Natascia Tonelli 165 12.1. 12.2. 12.3. 12.4. «Ovidio leggi». Prima dello Stilnovo Poesia dello Stilnovo e Dante lirico Petrarca: un nuovo rapporto coi classici Influenze macrostrutturali 165 168 171 172 13. Modelli romanzi di Simone Marcenaro 175 13.1. 13.2. 13.3. La diffusione della lirica provenzale La Scuola siciliana Poesia dell’Italia del Nord, i poeti “siculo-toscani” e Guittone 13.4. I modelli provenzali nella Toscana dopo Guittone 180 183 14. Morale di Marialaura Aghelu 185 14.1. 14.2. 14.3. 14.4. Lirica e morale Le origini e il Duecento Dante Petrarca, Boccaccio e gli altri trecentisti 185 186 189 191 15. Musica di Maria Sofia Lannutti 201 15.1. 15.2. Poesia e musica Poesia e musica nell’Italia del Nord: i primi testi lirici in volgare italiano 201 10 175 176 203 indice 15.3. Il Duecento in Sicilia e in Toscana 15.4. Dallo Stilnovo all’Ars Nova 205 207 16. Politica di Enrico Fenzi 213 16.1. 16.2. 16.3. 16.4. Politica, filosofia, bene comune Il comune Dante Petrarca 213 218 221 224 17. Realtà di Marco Grimaldi 229 17.1. 17.2. 17.3. 17.4. La realtà rappresentata La realtà della lirica L’uomo Il mondo 229 229 232 238 18. Retorica di Veronica Albi 245 18.1. 18.2. 18.3. 18.4. 18.5. L’eredità classica Dalla Scuola siciliana a Guittone d’Arezzo Rustico Filippi e i poeti comico-realistici Lo Stilnovo Petrarca e Boccaccio 245 247 251 252 257 19. Sacro di Matteo Leonardi 261 19.1. 19.2. 19.3. 19.4. La categoria del sacro nella letteratura bassomedievale La nascita di una poesia religiosa in volgare Vedere e gustare: il sacro sperimentato Le laude francescane: Francesco e Iacopone 261 263 265 266 11 la lirica italiana 19.5. 19.6. Predicare la contemplazione: le laude domenicane Amor sacro e amor profano nel «sacrato poema» di Dante e nelle «rime sparse» di Petrarca 269 20. Tradizione di Giuseppe Marrani 273 20.1. 20.2. 20.3. 20.4. La tradizione della poesia lirica delle origini Vicissitudini della tradizione di copia La storia della tradizione e l’edizione dei testi antichi La storia della tradizione e gli studi filologico-letterari 273 274 281 286 Riferimenti bibliografici 289 Indice dei manoscritti e delle stampe 317 Indice dei passi citati 319 Indice dei luoghi 327 Indice dei nomi 329 Gli autori 339 12 270 15 Musica di Maria Sofia Lannutti 15.1 Poesia e musica La lirica romanza nasce in continuità con l’innodia mediolatina, di cui assume la peculiare simbiosi di poesia e musica, che riguarda i fondamenti strutturali e le modalità di esecuzione. Alcune delle canzoni di Guglielmo ix d’Aquitania, il più antico dei trovatori compresi nel corpus a noi noto, sono costruite su schemi metrici propri anche di inni del repertorio dell’abbazia di S. Marziale di Limoges (De Alessi, 1972, pp. 118-9). Un importante fattore identitario dell’innodia mediolatina come della lirica romanza, il prevalente isostrofismo (la struttura metrica della prima strofe si ripete in tutte le successive), può essere messo in relazione con il tipo di esecuzione musicale normalmente adottato (la melodia della prima strofe si applica a tutte le strofe successive). L’isostrofismo, che distingue il genere lirico dagli altri generi poetici, può essere dunque visto come principio formale di matrice musicale. Nei capitoli dedicati all’ars cantionis del De vulgari eloquentia, che risale all’inizio del Trecento, Dante insiste sul legame tra la conformazione della strofe e la musica intesa come scienza delle proporzioni. Per Dante, ogni poeta che volesse consapevolmente comporre una canzone non poteva ignorare che la sua struttura, non a caso denominata cantus, La ricerca di cui si offrono i risultati nel presente articolo è parte integrante del progetto Advanced Grant European Ars Nova: Multilingual Poetry and Polyphonic Song in the Late Middle Ages (ArsNova), finanziato dallo European Research Council nell’ambito del programma Horizon 2020 Research and Innovation dell’Unione Europea (Grant Agreement n. 786379). 201 la lirica italiana dipendeva da proporzioni di matrice musicale. La stanza di una canzone era articolata in due sezioni, a loro volta suddivisibili in sottosezioni (piedi e volte), che potevano dirsi tali solo se era possibile intonarle sulla medesima melodia (modulatio o sonus o nota o melos), solo cioè se la loro struttura sillabica (numero, tipo e combinazione dei versi) era perfettamente identica. Il poeta poteva variare le rime, che non incidevano sulle proporzioni, ma non il cantus (Tavoni, 2011, pp. 1105-8). L’esecuzione cantata della lirica profana in volgare, in origine monodica, è prevista dai trattati sulla poesia in lingua d’oc, che contengono indicazioni sul tipo di melodia da adottare per i diversi generi, a cominciare dalla Doctrina de compondre dictatz (seconda metà del xiii secolo). L’autore delle più tarde Leys d’Amors (1328-55) lamenta l’adozione delle complesse soluzioni ritmiche proprie della polifonia per il genere della dansa, ma specifica che la tenso e il partimen non venivano sempre messi in musica. Nel De vulgari eloquentia, Dante dichiara che la canzone poteva essere eseguita con o senza melodia, e che il poeta poteva occuparsi personalmente dell’esecuzione o affidarla ad altri: «profertur vel ab autore vel ab alio quicunque sit, sive cum soni modulatione proferatur, sive non» [‘viene eseguita o dall’autore o da chiunque altro, con o senza melodia’] (ii viii 4). Per Dante, come per gli autori dei trattati sulla lirica in lingua d’oc, una canzone era tale per il suo testo verbale, che ne determinava l’identità, e la musica, pur avendo una propria autonomia artistica, quando si univa alla poesia aveva la funzione di farla “suonare”, esaltandone la bellezza e favorendone la diffusione. Questa concezione del rapporto tra poesia e musica trova riscontro nella pluralità di melodie associate a uno stesso testo poetico nei canzonieri galloromanzi copiati in periodi diversi e in diverse regioni, segno di un rinnovamento nel tempo e nello spazio delle modalità di esecuzione musicale. Ma la priorità e l’indipendenza della poesia rispetto alla musica è dimostrata in primo luogo dal numero limitato di canzonieri notati, quasi tutti originari della Francia settentrionale, dove del resto ebbero luogo i più importanti mutamenti del linguaggio musicale e dove nacquero i nuovi generi polifonici (Lannutti, 2008, pp. 12-21). Basti pensare che la tradizione manoscritta dei trovatori, costituita da decine di testimoni, diversi dei quali copiati in Italia tra xiii e xiv secolo, comprende due soli canzonieri con musica, uno di probabile origine veneta (Carapezza, 2004, pp. 11-2), mentre altre raccolte minori sono conservate in due delle numerose antologie notate di lirica in lingua d’oïl. 202 15. musica I dati che emergono dalla lettura della trattatistica e dall’osservazione della tradizione manoscritta inducono a non dare per scontato che tutta la poesia lirica venisse messa in musica, che le melodie conservate siano quelle originali, e che l’autore del testo poetico fosse sempre anche autore dell’intonazione, neppure nel caso del repertorio dei trovatori e dei trovieri. Se ne ricava inoltre l’impressione che si sia verificata una progressiva specializzazione dei ruoli e delle competenze del poeta e del musicista parallela al consolidarsi e diffondersi della produzione lirica in volgare e al formarsi ed evolversi di un linguaggio musicale autonomo dalla monodia ecclesiastica e destinato a essere influenzato e affiancato dalla polifonia. 15.2 Poesia e musica nell’Italia del Nord: i primi testi lirici in volgare italiano Soprattutto in seguito alla crociata contro gli albigesi (1208-29), nel primo trentennio del Duecento, dai territori della Francia meridionale giunsero presso le corti dell’Italia settentrionale diversi trovatori, che diedero vita a un’opera di recupero e valorizzazione dell’intera tradizione lirica in lingua d’oc anche attraverso l’allestimento di canzonieri arricchiti da parti in prosa sugli autori (vidas) e sulle motivazioni dei componimenti (razos) (cfr. Corte). In funzione di una strategia culturale che intendeva corrispondere alle aspettative del nuovo pubblico, vidas e razos contribuirono a mitizzare l’immagine dei trovatori e del loro originario ambiente, mescolando ricostruzioni di fantasia a informazioni attendibili (Meneghetti, 1992, pp. 177-208). È tenendo conto di questo contesto che vanno letti i riferimenti alle abilità o inabilità musicali dei trovatori nelle vidas. Le prime attestazioni di lirica in volgare italiano rivelano l’esistenza nell’Italia settentrionale di una produzione poetica parallela a quella dei trovatori. I due testi più antichi, una canzone e un componimento di cinque endecasillabi, sono stati copiati sul verso di una pergamena notarile datata 1127 (Ravenna, Archivio Storico Arcivescovile, 11518ter) da due diverse mani che hanno operato a breve distanza di tempo tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo (Stussi, 1999). Al di sopra e al di sotto dei testi è stata aggiunta una melodia, forse dalla seconda mano contestualmente alla trascrizione del testo più breve (Locanto, 2005, 203 la lirica italiana pp. 124-33). Nonostante l’anomala disposizione sulla pergamena, la melodia sembra comunque funzionale all’esecuzione dei testi (Sabaino, 2005, pp. 85-91). Un terzo componimento, il cosiddetto Frammento piacentino, è stato trascritto, con altri testi in latino di vario genere, su una pergamena di recupero utilizzata come coperta per un quaderno di scuola (Piacenza, Biblioteca Capitolare di Sant’Antonino, C. 49, framm. 10). La pergamena è stata adattata al codice di cui costituisce la coperta, subendo una rifilatura che ha comportato il taglio di porzioni consistenti di testo. La prima riga del frammento in volgare è sormontata da una notazione musicale distribuita sulle prime undici sillabe, che costituiscono parte del ritornello, incompleto a causa della rifilatura del foglio. La mano che ha trascritto il testo verbale ha operato entro il primo quarto del xiii secolo, epoca a cui si può far risalire anche la notazione musicale (Vela, 2005). La canzone ravennate conta cinque strofe di dieci decasillabi dotate di una rima fissa in -ia in ultima sede. Il testo breve potrebbe essere stato aggiunto perché fungesse da ritornello, dal momento che riassume i concetti portanti della canzone e si conclude con la parola die ‘giorno’, forse in luogo di un originario dia che ripropone la rima fissa delle strofe. Se così fosse, la struttura strofica prodotta dall’unione dei due testi rimanderebbe a un genere formale tipico della poesia in lingua d’oïl, la chanson à refrain. Le quattro strofe monorime del Frammento piacentino, in settenari doppi, sono precedute da un ritornello. Manca la rima fissa in ultima sede, come nella rotrouenge francese, genere in voga proprio all’inizio del xiii secolo. Di ascendenza francese è anche il settenario doppio, che deriva dall’alessandrino, verso tipico della poesia narrativa in lingua d’oïl e secondariamente impiegato anche in alcuni generi lirici minori, tra i quali la rotrouenge (Lannutti, 2005, pp. 168-73) (cfr. Modelli romanzi). In quale contesto storico-culturale possono essere collocati i più antichi testi lirici italiani? Si può presumere che il Frammento piacentino sia stato trascritto in ambiente ecclesiastico da un maestro di scuola, forse un religioso con cognizioni anche musicali. A giudicare dal supporto, la Carta ravennate potrebbe essere stata invece trascritta in ambiente notarile e comunque laico. Se però si considera non tanto la natura del supporto ma la sua provenienza dal fondo del monastero femminile di Sant’Andrea Maggiore in Ravenna, non si potrà escludere che almeno le aggiunte successive alla trascrizione della canzone, 204 15. musica cioè il testo breve e la notazione musicale, siano state apportate quando il documento si trovava già nel monastero, quindi ancora in ambiente ecclesiastico (Lannutti, 2007, pp. 188-9). Diversa potrebbe essere la provenienza dei rimatori. La veste formale di ascendenza francese che caratterizza il Frammento piacentino potrebbe essere indizio di una familiarità del suo autore con la lirica in lingua d’oïl, storicamente credibile, se si considerano gli importanti contatti mercantili della città di Piacenza con la Francia settentrionale. Secondo una suggestiva ipotesi, la canzone ravennate potrebbe invece inserirsi in una tradizione romagnola di poesia lirica in volgare, desumibile tra l’altro dall’apprezzamento, pur moderato, che Dante fa dei poeti faentini nel De vulgari eloquentia (Breschi, 2004, pp. 97-106). Esempi di una produzione pionieristica e sperimentale, questi antichi reperti, originari di luoghi non molto distanti dalle corti italiane che accolsero i trovatori e diedero nuovo impulso alla loro poesia, profilano la possibilità di un legame, pur complementare rispetto al modello trobadorico, con generi formali tipici del repertorio lirico d’oïl, e rivelano che una forma di tradizione manoscritta musicale, sebbene occasionale, è esistita anche per la lirica italiana delle origini (cfr. Tradizione). 15.3 Il Duecento in Sicilia e in Toscana La corte di Federico ii era costituita da funzionari e dignitari scelti di norma tra giuristi e notai di estrazione laica, svincolati dalle gerarchie nobiliari ed ecclesiastiche e direttamente legati all’imperatore e ai suoi ministri (cfr. Corte). Proprio al ceto dei funzionari e intellettuali di corte appartennero in prevalenza i rimatori in volgare italiano che diedero vita alla cosiddetta Scuola siciliana nel decennio 1230-40. Alcune canzoni siciliane, in primis la celebre Madonna, dir vo voglio del caposcuola Giacomo da Lentini, sono traduzioni d’arte, più o meno libere, di canzoni di trovatori, e dimostrano nel modo più evidente il debito della poesia siciliana nei confronti della lirica in lingua d’oc (cfr. Modelli romanzi, Geografia). Nello stesso tempo, il corpus dei poeti federiciani visto nel suo complesso si differenzia rispetto al modello trobadorico per aspetti fondamentali, che denotano una forte autonomia e una spiccata identità letteraria. La poesia siciliana esclude il tema morale e politico, fa a meno delle forme con ritornel205 la lirica italiana lo, ma arricchisce il sistema dei generi con il sonetto, invenzione destinata ad avere enorme fortuna (cfr. Forme poetiche). Muove da questa prospettiva l’idea che tra le novità della poesia siciliana vi sia l’abbandono del legame tra poesia e musica costitutivo del genere lirico («divorzio tra musica e poesia» secondo Roncaglia, 1978). In effetti, nessuno dei componimenti siciliani ci è pervenuto con la melodia. Ma il silenzio della tradizione manoscritta, che è di fatto avara di testimoni con notazione in ogni contesto e ambiente (con l’eccezione della Francia settentrionale), è argomento davvero sufficiente a sostenere che il rapporto tra poesia e musica nella lirica siciliana avesse assunto una diversa natura rispetto ai modelli d’Oltralpe? È ragionevole supporre che i poeti-giuristi, Giacomo da Lentini in testa, non avessero una formazione anche musicale e che quindi affidassero l’intonazione dei loro componimenti a musici professionisti (ivi, pp. 383-4 e 390-1). Ma quanto scrive Salimbene da Parma su Federico ii, a cui sono attribuiti cinque testi poetici (tre in modo non univoco), invita a prendere in considerazione la possibilità che alcuni dei poeti siciliani, almeno quelli di estrazione nobiliare, fossero in grado di intonare la propria poesia: «legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire». La musica era del resto implicata con ogni probabilità nei generi legati alla danza, come dimostrano alcuni versi del discordo di Giacomino Pugliese Donna per vostro amore (pss 17,3): «isto caribo / ben distribo»; «lo stormento / vo sonando / e cantando, / blondetta piagente» (vv. 49-50 e 53-56) [‘compongo armonicamente questa danza’]; [‘canto accompagnandomi con il mio strumento, biondina aggraziata’] (Di Girolamo, 2008, pp. xlvi-xlvii). È inoltre probabile che nella prima metà del xiii secolo, cioè nel periodo che vede nascere in Francia la polifonia profana su testo in volgare, la specializzazione dei ruoli e delle competenze del poeta e del musicista di cui si è detto avesse fatto il suo corso anche in Italia. Occorre infine menzionare la canzone Amors, merce, no sia!, inclusa in una piccola raccolta di quattro testi in una lingua d’oc venata di catalanismi. I quattro testi sono stati trascritti con la notazione musicale sulle parti rimaste in bianco di due fogli cartacei che contengono le minute di alcuni documenti provenienti dall’abbazia di Sant Joan de les Abadesses, nella provincia di Girona (Barcelona, Biblioteca de Catalunya, 3871). Siamo verso la fine del Duecento, nell’ultima fase della dominazione catalana sulla Sicilia. In ragione dei numerosi italianismi e della fitta rete di riferimenti a canzoni di autori siciliani (tra i quali 206 15. musica spicca Giacomo da Lentini), Amors, merce, no sia! è stata interpretata come traduzione di un originale siciliano (Schulze, 2002), come centone assemblato da un rimatore che scrive in un italiano con tratti centro-meridionali a cui si è sovrapposta la lingua del copista (Larson, 2006), o infine come testo scritto da un autore catalano nella koinè a base occitana della poesia catalana, dove gli italianismi e i riferimenti alla poesia siciliana sono usati a scopo parodico (Lannutti, 2012). Sia come sia, la presenza dell’intonazione, trascritta dalla stessa mano che ha trascritto i versi, prova comunque l’esecuzione cantata, se non della poesia siciliana, almeno di un testo poetico che ne è intriso. Si noti, a questo proposito, che alcuni documenti dell’Arxiu de la Corona d’Aragó attestano la presenza a Barcellona di giullari di origine siciliana al servizio di Giacomo ii tra il 1293 e il 1312, proprio nel periodo in cui la Sicilia era governata dal fratello di Giacomo, Federico d’Aragona, che era nipote di Manfredi e pronipote di Federico ii di Svevia (Alberni, Lannutti, 2018, p. 379). Dopo la metà del Duecento, i poeti attivi in ambiente comunale, in Toscana e a Bologna, ereditarono e rinnovarono l’esperienza dei Siciliani. Anche per questa seconda fase di produzione lirica non abbiamo nessuna attestazione manoscritta con musica, ma va notato che nel corpus dell’autore maggiore, Guittone d’Arezzo, grande sperimentatore e innovatore, si insinua il genere della lauda in forma di ballata, tipica del repertorio devozionale, che era certamente cantata (cfr. Forme poetiche). Alcune delle sillogi di laude a noi pervenute sono infatti munite di notazione musicale, come nel caso del laudario di Cortona (Cortona, Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusca, 91), che è all’incirca coevo dei primi canzonieri di lirica italiana delle origini, compilati sul finire del Duecento. Il più antico di questi, il canzoniere Palatino (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 217), dedica peraltro un’intera sezione alla ballata, tra i generi formali che saranno intonati dai polifonisti del Trecento (cfr. Tradizione). 15.4 Dallo Stilnovo all’Ars Nova In un celebre passo del secondo canto del Purgatorio Dante incontra il musico Casella, e lo prega di fargli nuovamente ascoltare il suo amoroso canto. Casella lo accontenta intonando la canzone di Dante Amor 207 la lirica italiana che nella mente mi ragiona. Questo episodio viene di solito chiamato in causa come testimonianza del persistere di un’esecuzione presumibilmente monodica della poesia, di cui non rimane alcuna traccia scritta. E in effetti, quanto lo stesso Dante scrive nel De vulgari eloquentia, a proposito della possibilità di eseguire la canzone cum soni modulatione, gli conferisce credibilità storica. Ma che la poesia di Dante sia stata messa in musica lo si desume dal testo di due suoi componimenti. Uno è il sonetto Se Lippo amico se’ tu che mi leggi, «che accompagna una pulcella (cioè, secondo una metafora diffusa […], un altro testo poetico), da rivestire (v. 18) certamente con musica» (Giunta, 2011, p. 124). Si tratta con ogni probabilità della stanza di canzone Lo meo servente core, come conferma la rubrica riferita nel ms. Vaticano lat. 3214 a un’altra stanza di canzone, Lontana dimoranza di Lemmo Orlandi («et Casella diede il suono»), che ne attesta l’esecuzione cantata (ivi, p. 133). L’altro è la ballata Per una ghirlandetta, dove l’autore dichiara di aver composto nuovi versi (parolette novelle) da cantare su una musica (vesta) non nuova perché originariamente composta per un altro testo (ivi, pp. 176-7). Per molti aspetti tematici, stilistici e formali, Per una ghirlandetta può essere accostata alla lirica galloromanza. L’uso del raro novenario, che corrisponde all’octosyllabe, verso tra i più frequenti nella poesia lirica e narrativa in lingua d’oc e d’oïl, e l’eccezionale ripetizione di due diverse rime della ripresa nella volta, di cui una tronca (in -à: farà : vedrà : verrà : canterà), fanno pensare alla dansa occitana e al virelai francese. Nella dansa e nel virelai, corrispettivi della ballata, la ripetizione delle rime del refrain nella volta è infatti normale. Inoltre, il legame con il virelai può dirsi rafforzato dal registro stilistico, che rimanda ai generi oggettivi francesi (ivi, pp. 174-6) (cfr. Modelli romanzi). Per una ghirlandetta è comunemente ritenuta tra le prime prove poetiche di Dante, ma il gusto francesizzante che la caratterizza ci autorizza a formulare l’ipotesi che si tratti in realtà di un esperimento condotto in un ambiente particolarmente aperto alla cultura d’Oltralpe. Si pensi alle corti dell’Italia nord-orientale che accolsero Dante durante l’esilio, dove il francese divenne lingua letteraria «per scelta culturale» (Folena, 1978, pp. 272-3, cit. in Morlino, 2015, p. 29). Il virelai, già intonato polifonicamente sul finire del Duecento, è una delle tre principali forme francesi proprie del nuovo stile musicale, non solo polifonico, che va sotto l’etichetta convenzionale di Ars Nova e che dalla Francia, dove si afferma nei primi decenni del Trecento, si 208 15. musica diffonde anche in Italia. I primi musicisti dell’Ars Nova italiana, largamente debitrice dell’Ars Nova francese ma capace di trovare proprie soluzioni tecniche e artistiche, prestarono servizio presso le corti di Verona, Padova, Milano. A Verona, città dove Dante esule soggiornò per due volte, sono ambientate alcune tra le più antiche composizioni arsnovistiche pervenute, che si possono far risalire al quarto decennio del Trecento (cfr. Geografia). I polifonisti italiani intonarono testi poetici riconducibili a tre generi formali: il madrigale, la ballata e la caccia. Di questi, solo la ballata, con la sua variante sacra, la lauda, ha una storia di lungo corso e una diffusione panromanza (sono suoi omologhi, oltre al virelai francese e alla dansa occitana, la dansa catalana e il villancico castigliano). Il madrigale e la caccia sono invece novità trecentesche italiane (cfr. Forme poetiche). Il madrigale, nella sua conformazione più diffusa, corrisponde alla seconda parte del sonetto ritornellato (due terzine e un distico), ed è affine a forme minori duecentesche conservate con i sonetti nel canzoniere Palatino (Leonardi, 2010). Caratterizzata da frequente irregolarità strofica, dalla tendenza a una versificazione molto varia e spezzata e da un linguaggio realistico e incline al discorso diretto, la caccia potrebbe invece essere una riformulazione della chace dell’Ars Nova francese, forse anche per contaminazione con un altro genere italiano trecentesco, la frottola (cfr. ed. di Epifani). Nelle cacce, come nelle chaces francesi, la coerenza e la comprensibilità del testo poetico sono talvolta garantite dalla successione delle voci nel testo musicale, di norma in forma di canone (Checchi, Epifani, 2015). La piena legittimazione della ballata come genere di registro aulico ha luogo nell’ambito del rinnovamento della lirica italiana che va sotto il nome di Stilnovo. Agli autori stilnovisti si devono i primi esempi di ballata monostrofica, tra i quali va ricordata la dantesca Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore. Secondo la testimonianza di un codice oggi perduto riferita dal Crescimbeni, Deh, Vïoletta fu intonata dal musico Scochetto, nome che compare nell’elenco di musicisti contenuto nel sonetto di Nicolò de’ Rossi Io vidi ombre (Giunta, ed. commentata, pp. 189-90). La ballata stilnovista e il madrigale sono esempi di poesia della brevitas, evocativa e visionaria, lontana dall’andamento ragionativo della canzone e adatta alla dilatazione dei tempi di esecuzione implicata da una musica complessa, qual è quella dell’Ars Nova. Non risulta che sia stata invece mai intonata l’altra forma breve, il sonetto, senza che se ne possa vedere una ragione diremo tecnica, mentre po209 la lirica italiana trebbe aver influito la frequente funzione di missiva interlocutoria e di accompagnamento di altri testi (Zuliani, 2009, pp. 91-2 e 100-1), come nel caso del dantesco Se Lippo amico se’ tu che mi leggi. A uno dei primi musicisti dell’Ars Nova, Jacopo da Bologna, attivo a Milano e a Verona, si deve l’intonazione del madrigale Non al suo amante più diana piacque (Rvf 52), l’unico testo sicuramente petrarchesco che sia stato intonato nel Trecento. È però improbabile che Jacopo abbia messo in musica una prima versione del madrigale collaborando con Petrarca a Verona, secondo una fortunata ipotesi ora confutata in modo convincente tenendo conto degli snodi della tradizione manoscritta (Campagnolo, 2018). Recenti studi hanno anche prospettato un’interpretazione in chiave etica del madrigale, in sintonia con la sua posizione di rilievo nella struttura calendariale del Canzoniere (il madrigale si trova in corrispondenza della domenica di Pentecoste, celebrazione della nascita della Chiesa militante), che spinge a interrogarsi nuovamente sul ruolo nel macrotesto dei generi “per musica” (quattro madrigali e sette ballate) (Lannutti, 2015). È interessante notare, a questo proposito, che il Dialogo xxiii del primo libro del De remediis utriusque fortune, vero e proprio trattatello sul valore della musica, si conclude con l’idea platonica che la musica possa esercitare una funzione educativa nella società civile: «Nec sine causa divini Plato vir ingenii musicam arbitratus est ad statum sive correctionem morum reipublice pertinere» [‘Non senza ragione il divino Platone ha ritenuto che la musica contribuisca a edificare e regolare i costumi della repubblica’]. Sappiamo che Petrarca fu amico di musicisti: Ludovico di Beringen, il Socrate dedicatario delle lettere Familiari; Philippe de Vitry, tra i primi teorici e compositori dell’Ars Nova; Floriano da Rimini, menzionato nel citato sonetto di Nicolò de’ Rossi Io vidi ombre e nel madrigale intonato da Jacopo da Bologna Oselleto salvazo per stasone. Non era invece un musicista Tommaso Bombasi, a cui Petrarca lasciò in eredità il suo liuto, e non si ha quindi ragione di ritenere che l’invio a Bombasi di alcuni sonetti da parte di Petrarca nel 1359 implicasse la richiesta di un rivestimento musicale (lo si chiarisce in Campagnolo, 2005, pp. 12-3). Circa dieci anni prima, quando risiedeva a Parma, Petrarca aveva comunque scritto tre ballate per un musicista di nome Confortino, anch’esso menzionato nel sonetto di Nicolò de’ Rossi, che ne intonò solo una (Nova bellezza in habito gentile). Sebbene Confortino non sia autore compreso nei manoscritti arsnovistici a noi pervenuti, nulla vieta di pensare 210 15. musica che l’intonazione composta per la ballata di Petrarca fosse nello stile dell’Ars Nova (ivi, pp. 14-8). Con l’Ars Nova si afferma con forza, non solo in Italia, una musica individuale, d’autore, che assorbe il patrimonio musicale del passato e lo sublima attraverso un linguaggio più sofisticato. L’incremento senza precedenti dell’autorialità nella musica spiega perché le antologie che ci conservano le composizioni dell’Ars Nova, quando sono dotate di rubriche attributive, indicano il nome dei musicisti e non dei poeti, che è possibile ricavare dai testimoni letterari in un numero limitato di casi (cfr. Tradizione). L’anonimato e il generale deterioramento dei testi poetici nei codici musicali sono tra le ragioni per cui, a cominciare dai pionieristici contributi di Giosue Carducci (cfr. in particolare Carducci, 1871), nella storiografia corrente si è radicata l’idea di una poesia di minore livello qualitativo, funzionale alla musica, d’intrattenimento e di consumo, anonima in senso proprio e in senso traslato. Questa idea può dirsi in via di superamento grazie a nuovi studi ed edizioni critiche interdisciplinari che della poesia intonata hanno rivelato la ricercatezza della sintassi e del lessico, lo spessore simbolico e allegorico, il virtuosismo tecnico, l’espressionismo linguistico (Calvia, nel commento a Nicolò del Preposto; Epifani nell’ed. della Caccia nell’Ars Nova italiana). Una recente ricerca ha inoltre individuato ben 50 testimoni letterari in cui i testi intonati figurano come parte integrante del repertorio lirico complessivo ( Jennings, 2014). 211