La lirica italiana
Un lessico fondamentale (secoli XIII-XIV)
A cura di
Lorenzo Geri, Marco Grimaldi e Nicolò Maldina
1a edizione, settembre 2021
© copyright 2021 by Carocci editore S.p.A., Roma
Realizzazione editoriale: Edimill, Bologna
Finito di stampare nel settembre 2021
da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)
ISBN 978-88-290-1124-7
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice
Premessa
di Lorenzo Geri, Marco Grimaldi e Nicolò Maldina
13
1.
Amore
di Roberto Rea
15
1.1.
1.2.
L’amore cortese dai trovatori ai Siciliani
Da Guittone a Guinizelli: palinodia vs sublimazione
dell’amore
Cavalcanti: l’amore come passione della mente
Dante: l’amore «che non puote venir meno»
Petrarca: l’amore come «giovenile errore»
15
1.3.
1.4.
1.5.
17
19
21
23
2.
Città
di Nicolò Maldina
25
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
Corte e città nella lirica tardomedievale
Dalla corte al comune
Comuni e poesia nel xiii secolo
Corte e città nei rimatori del Trecento
25
26
27
30
3.
Comico
di Marco Berisso
35
3.1.
3.2.
Che cos’è la letteratura comica nel Medioevo?
La costituzione del “canone” comico
35
37
7
la lirica italiana
3.3.
3.4.
Un genere comunale (e municipale)
Cecco Angiolieri e il comico “oggettivo”
40
43
4.
Corte
di Lorenzo Geri
45
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
La lirica romanza e la corte
Le corti dell’Italia settentrionale e la Magna Curia
Dalla Magna Curia ai comuni centro-settentrionali
Dante e Petrarca
45
46
50
51
5.
Dialogo
di Claudio Giunta
55
5.1.
5.2.
5.3.
5.4.
5.5.
5.6.
Le rime di corrispondenza
La dialogicità nella lirica dei primi secoli
Poesie dialogate nei Siciliani
Varia dialogicità tra pre-Stilnovo e Stilnovo
Il discorso diretto e le personificazioni negli Stilnovisti
La lezione degli Stilnovisti nel Trecento (Boccaccio e
Petrarca)
55
57
59
61
67
69
6.
Filosofia
di Luca Lombardo
73
6.1.
6.2.
6.3.
6.4.
Il nome di filosofia
Occorrenze poetiche
La poesia filosofica
Dante e Petrarca
73
75
81
85
7.
Forme poetiche
di Marco Grimaldi
89
7.1.
7.2.
7.3.
Lirica e varietà
Canzone
Ballata
89
95
97
8
indice
7.4.
7.5.
Sonetto
Le altre forme
98
100
8.
Geografia
di Federico Ruggiero
103
8.1.
8.2.
8.3.
8.4.
8.5.
La prospettiva geografica
Dalle tracce alla tradizione
Dalla Magna Curia all’Italia comunale
Tra Firenze e il Veneto: lo Stilnovo e la poesia comica
Il policentrismo trecentesco
103
104
109
112
114
9.
Io
di Lorenzo Geri
119
9.1.
9.2.
9.3.
9.4.
9.5.
Lirica e individuo, lirica e interiorità
Dai Siciliani a Guittone
Guinizelli e Cavalcanti
Dante
Petrarca
119
120
123
126
129
10.
Lingua
di Irene Iocca
133
10.1.
10.2.
10.3.
10.4.
10.5.
La formazione del volgare letterario
Il siciliano letterario
La lingua della lirica cosiddetta “siculo-toscana”
La lingua della lirica stilnovista
La lingua eclettica della lirica trecentesca e quella selettiva di Petrarca
133
134
138
141
144
11.
Modelli biblici
di Nicolò Maldina
149
11.1.
11.2.
Sacra Scrittura e codice lirico
Poeti della Scuola siciliana
149
150
9
la lirica italiana
11.3.
11.4.
11.5.
Lo Stilnovo e la Vita nova
Il Canzoniere di Petrarca
I rimatori del Trecento
152
158
161
12.
Modelli latini
di Natascia Tonelli
165
12.1.
12.2.
12.3.
12.4.
«Ovidio leggi». Prima dello Stilnovo
Poesia dello Stilnovo e Dante lirico
Petrarca: un nuovo rapporto coi classici
Influenze macrostrutturali
165
168
171
172
13.
Modelli romanzi
di Simone Marcenaro
175
13.1.
13.2.
13.3.
La diffusione della lirica provenzale
La Scuola siciliana
Poesia dell’Italia del Nord, i poeti “siculo-toscani” e
Guittone
13.4. I modelli provenzali nella Toscana dopo Guittone
180
183
14.
Morale
di Marialaura Aghelu
185
14.1.
14.2.
14.3.
14.4.
Lirica e morale
Le origini e il Duecento
Dante
Petrarca, Boccaccio e gli altri trecentisti
185
186
189
191
15.
Musica
di Maria Sofia Lannutti
201
15.1.
15.2.
Poesia e musica
Poesia e musica nell’Italia del Nord: i primi testi lirici
in volgare italiano
201
10
175
176
203
indice
15.3. Il Duecento in Sicilia e in Toscana
15.4. Dallo Stilnovo all’Ars Nova
205
207
16.
Politica
di Enrico Fenzi
213
16.1.
16.2.
16.3.
16.4.
Politica, filosofia, bene comune
Il comune
Dante
Petrarca
213
218
221
224
17.
Realtà
di Marco Grimaldi
229
17.1.
17.2.
17.3.
17.4.
La realtà rappresentata
La realtà della lirica
L’uomo
Il mondo
229
229
232
238
18.
Retorica
di Veronica Albi
245
18.1.
18.2.
18.3.
18.4.
18.5.
L’eredità classica
Dalla Scuola siciliana a Guittone d’Arezzo
Rustico Filippi e i poeti comico-realistici
Lo Stilnovo
Petrarca e Boccaccio
245
247
251
252
257
19.
Sacro
di Matteo Leonardi
261
19.1.
19.2.
19.3.
19.4.
La categoria del sacro nella letteratura bassomedievale
La nascita di una poesia religiosa in volgare
Vedere e gustare: il sacro sperimentato
Le laude francescane: Francesco e Iacopone
261
263
265
266
11
la lirica italiana
19.5.
19.6.
Predicare la contemplazione: le laude domenicane
Amor sacro e amor profano nel «sacrato poema» di
Dante e nelle «rime sparse» di Petrarca
269
20.
Tradizione
di Giuseppe Marrani
273
20.1.
20.2.
20.3.
20.4.
La tradizione della poesia lirica delle origini
Vicissitudini della tradizione di copia
La storia della tradizione e l’edizione dei testi antichi
La storia della tradizione e gli studi filologico-letterari
273
274
281
286
Riferimenti bibliografici
289
Indice dei manoscritti e delle stampe
317
Indice dei passi citati
319
Indice dei luoghi
327
Indice dei nomi
329
Gli autori
339
12
270
15
Musica
di Maria Sofia Lannutti
15.1
Poesia e musica
La lirica romanza nasce in continuità con l’innodia mediolatina, di cui
assume la peculiare simbiosi di poesia e musica, che riguarda i fondamenti strutturali e le modalità di esecuzione. Alcune delle canzoni di
Guglielmo ix d’Aquitania, il più antico dei trovatori compresi nel corpus a noi noto, sono costruite su schemi metrici propri anche di inni
del repertorio dell’abbazia di S. Marziale di Limoges (De Alessi, 1972,
pp. 118-9). Un importante fattore identitario dell’innodia mediolatina
come della lirica romanza, il prevalente isostrofismo (la struttura metrica della prima strofe si ripete in tutte le successive), può essere messo
in relazione con il tipo di esecuzione musicale normalmente adottato
(la melodia della prima strofe si applica a tutte le strofe successive).
L’isostrofismo, che distingue il genere lirico dagli altri generi poetici,
può essere dunque visto come principio formale di matrice musicale.
Nei capitoli dedicati all’ars cantionis del De vulgari eloquentia, che
risale all’inizio del Trecento, Dante insiste sul legame tra la conformazione della strofe e la musica intesa come scienza delle proporzioni. Per
Dante, ogni poeta che volesse consapevolmente comporre una canzone
non poteva ignorare che la sua struttura, non a caso denominata cantus,
La ricerca di cui si offrono i risultati nel presente articolo è parte integrante del progetto Advanced Grant European Ars Nova: Multilingual Poetry and Polyphonic Song in the Late Middle Ages (ArsNova),
finanziato dallo European Research Council nell’ambito del programma Horizon 2020 Research and Innovation dell’Unione Europea
(Grant Agreement n. 786379).
201
la lirica italiana
dipendeva da proporzioni di matrice musicale. La stanza di una canzone era articolata in due sezioni, a loro volta suddivisibili in sottosezioni
(piedi e volte), che potevano dirsi tali solo se era possibile intonarle sulla medesima melodia (modulatio o sonus o nota o melos), solo cioè se la
loro struttura sillabica (numero, tipo e combinazione dei versi) era perfettamente identica. Il poeta poteva variare le rime, che non incidevano
sulle proporzioni, ma non il cantus (Tavoni, 2011, pp. 1105-8).
L’esecuzione cantata della lirica profana in volgare, in origine monodica, è prevista dai trattati sulla poesia in lingua d’oc, che contengono
indicazioni sul tipo di melodia da adottare per i diversi generi, a cominciare dalla Doctrina de compondre dictatz (seconda metà del xiii secolo). L’autore delle più tarde Leys d’Amors (1328-55) lamenta l’adozione
delle complesse soluzioni ritmiche proprie della polifonia per il genere
della dansa, ma specifica che la tenso e il partimen non venivano sempre
messi in musica. Nel De vulgari eloquentia, Dante dichiara che la canzone poteva essere eseguita con o senza melodia, e che il poeta poteva
occuparsi personalmente dell’esecuzione o affidarla ad altri: «profertur
vel ab autore vel ab alio quicunque sit, sive cum soni modulatione proferatur, sive non» [‘viene eseguita o dall’autore o da chiunque altro, con
o senza melodia’] (ii viii 4). Per Dante, come per gli autori dei trattati
sulla lirica in lingua d’oc, una canzone era tale per il suo testo verbale,
che ne determinava l’identità, e la musica, pur avendo una propria autonomia artistica, quando si univa alla poesia aveva la funzione di farla
“suonare”, esaltandone la bellezza e favorendone la diffusione.
Questa concezione del rapporto tra poesia e musica trova riscontro nella pluralità di melodie associate a uno stesso testo poetico nei
canzonieri galloromanzi copiati in periodi diversi e in diverse regioni,
segno di un rinnovamento nel tempo e nello spazio delle modalità di
esecuzione musicale. Ma la priorità e l’indipendenza della poesia rispetto alla musica è dimostrata in primo luogo dal numero limitato
di canzonieri notati, quasi tutti originari della Francia settentrionale,
dove del resto ebbero luogo i più importanti mutamenti del linguaggio
musicale e dove nacquero i nuovi generi polifonici (Lannutti, 2008,
pp. 12-21). Basti pensare che la tradizione manoscritta dei trovatori,
costituita da decine di testimoni, diversi dei quali copiati in Italia tra
xiii e xiv secolo, comprende due soli canzonieri con musica, uno di
probabile origine veneta (Carapezza, 2004, pp. 11-2), mentre altre raccolte minori sono conservate in due delle numerose antologie notate
di lirica in lingua d’oïl.
202
15. musica
I dati che emergono dalla lettura della trattatistica e dall’osservazione della tradizione manoscritta inducono a non dare per scontato che
tutta la poesia lirica venisse messa in musica, che le melodie conservate
siano quelle originali, e che l’autore del testo poetico fosse sempre anche autore dell’intonazione, neppure nel caso del repertorio dei trovatori e dei trovieri. Se ne ricava inoltre l’impressione che si sia verificata
una progressiva specializzazione dei ruoli e delle competenze del poeta
e del musicista parallela al consolidarsi e diffondersi della produzione
lirica in volgare e al formarsi ed evolversi di un linguaggio musicale
autonomo dalla monodia ecclesiastica e destinato a essere influenzato
e affiancato dalla polifonia.
15.2
Poesia e musica nell’Italia del Nord:
i primi testi lirici in volgare italiano
Soprattutto in seguito alla crociata contro gli albigesi (1208-29), nel
primo trentennio del Duecento, dai territori della Francia meridionale
giunsero presso le corti dell’Italia settentrionale diversi trovatori, che
diedero vita a un’opera di recupero e valorizzazione dell’intera tradizione lirica in lingua d’oc anche attraverso l’allestimento di canzonieri
arricchiti da parti in prosa sugli autori (vidas) e sulle motivazioni dei
componimenti (razos) (cfr. Corte). In funzione di una strategia culturale che intendeva corrispondere alle aspettative del nuovo pubblico,
vidas e razos contribuirono a mitizzare l’immagine dei trovatori e del
loro originario ambiente, mescolando ricostruzioni di fantasia a informazioni attendibili (Meneghetti, 1992, pp. 177-208). È tenendo conto
di questo contesto che vanno letti i riferimenti alle abilità o inabilità
musicali dei trovatori nelle vidas.
Le prime attestazioni di lirica in volgare italiano rivelano l’esistenza
nell’Italia settentrionale di una produzione poetica parallela a quella
dei trovatori. I due testi più antichi, una canzone e un componimento
di cinque endecasillabi, sono stati copiati sul verso di una pergamena
notarile datata 1127 (Ravenna, Archivio Storico Arcivescovile, 11518ter)
da due diverse mani che hanno operato a breve distanza di tempo tra
la fine del xii e l’inizio del xiii secolo (Stussi, 1999). Al di sopra e al di
sotto dei testi è stata aggiunta una melodia, forse dalla seconda mano
contestualmente alla trascrizione del testo più breve (Locanto, 2005,
203
la lirica italiana
pp. 124-33). Nonostante l’anomala disposizione sulla pergamena, la
melodia sembra comunque funzionale all’esecuzione dei testi (Sabaino, 2005, pp. 85-91).
Un terzo componimento, il cosiddetto Frammento piacentino, è
stato trascritto, con altri testi in latino di vario genere, su una pergamena di recupero utilizzata come coperta per un quaderno di scuola
(Piacenza, Biblioteca Capitolare di Sant’Antonino, C. 49, framm. 10).
La pergamena è stata adattata al codice di cui costituisce la coperta,
subendo una rifilatura che ha comportato il taglio di porzioni consistenti di testo. La prima riga del frammento in volgare è sormontata
da una notazione musicale distribuita sulle prime undici sillabe, che
costituiscono parte del ritornello, incompleto a causa della rifilatura
del foglio. La mano che ha trascritto il testo verbale ha operato entro
il primo quarto del xiii secolo, epoca a cui si può far risalire anche la
notazione musicale (Vela, 2005).
La canzone ravennate conta cinque strofe di dieci decasillabi dotate
di una rima fissa in -ia in ultima sede. Il testo breve potrebbe essere stato aggiunto perché fungesse da ritornello, dal momento che riassume
i concetti portanti della canzone e si conclude con la parola die ‘giorno’, forse in luogo di un originario dia che ripropone la rima fissa delle
strofe. Se così fosse, la struttura strofica prodotta dall’unione dei due
testi rimanderebbe a un genere formale tipico della poesia in lingua
d’oïl, la chanson à refrain. Le quattro strofe monorime del Frammento
piacentino, in settenari doppi, sono precedute da un ritornello. Manca
la rima fissa in ultima sede, come nella rotrouenge francese, genere in
voga proprio all’inizio del xiii secolo. Di ascendenza francese è anche il settenario doppio, che deriva dall’alessandrino, verso tipico della
poesia narrativa in lingua d’oïl e secondariamente impiegato anche in
alcuni generi lirici minori, tra i quali la rotrouenge (Lannutti, 2005, pp.
168-73) (cfr. Modelli romanzi).
In quale contesto storico-culturale possono essere collocati i più
antichi testi lirici italiani? Si può presumere che il Frammento piacentino sia stato trascritto in ambiente ecclesiastico da un maestro di
scuola, forse un religioso con cognizioni anche musicali. A giudicare
dal supporto, la Carta ravennate potrebbe essere stata invece trascritta
in ambiente notarile e comunque laico. Se però si considera non tanto
la natura del supporto ma la sua provenienza dal fondo del monastero
femminile di Sant’Andrea Maggiore in Ravenna, non si potrà escludere che almeno le aggiunte successive alla trascrizione della canzone,
204
15. musica
cioè il testo breve e la notazione musicale, siano state apportate quando
il documento si trovava già nel monastero, quindi ancora in ambiente ecclesiastico (Lannutti, 2007, pp. 188-9). Diversa potrebbe essere la
provenienza dei rimatori. La veste formale di ascendenza francese che
caratterizza il Frammento piacentino potrebbe essere indizio di una
familiarità del suo autore con la lirica in lingua d’oïl, storicamente credibile, se si considerano gli importanti contatti mercantili della città di
Piacenza con la Francia settentrionale. Secondo una suggestiva ipotesi,
la canzone ravennate potrebbe invece inserirsi in una tradizione romagnola di poesia lirica in volgare, desumibile tra l’altro dall’apprezzamento, pur moderato, che Dante fa dei poeti faentini nel De vulgari
eloquentia (Breschi, 2004, pp. 97-106).
Esempi di una produzione pionieristica e sperimentale, questi antichi reperti, originari di luoghi non molto distanti dalle corti italiane che
accolsero i trovatori e diedero nuovo impulso alla loro poesia, profilano
la possibilità di un legame, pur complementare rispetto al modello trobadorico, con generi formali tipici del repertorio lirico d’oïl, e rivelano
che una forma di tradizione manoscritta musicale, sebbene occasionale,
è esistita anche per la lirica italiana delle origini (cfr. Tradizione).
15.3
Il Duecento in Sicilia e in Toscana
La corte di Federico ii era costituita da funzionari e dignitari scelti
di norma tra giuristi e notai di estrazione laica, svincolati dalle gerarchie nobiliari ed ecclesiastiche e direttamente legati all’imperatore e ai
suoi ministri (cfr. Corte). Proprio al ceto dei funzionari e intellettuali
di corte appartennero in prevalenza i rimatori in volgare italiano che
diedero vita alla cosiddetta Scuola siciliana nel decennio 1230-40.
Alcune canzoni siciliane, in primis la celebre Madonna, dir vo voglio del caposcuola Giacomo da Lentini, sono traduzioni d’arte, più o
meno libere, di canzoni di trovatori, e dimostrano nel modo più evidente il debito della poesia siciliana nei confronti della lirica in lingua
d’oc (cfr. Modelli romanzi, Geografia). Nello stesso tempo, il corpus
dei poeti federiciani visto nel suo complesso si differenzia rispetto
al modello trobadorico per aspetti fondamentali, che denotano una
forte autonomia e una spiccata identità letteraria. La poesia siciliana
esclude il tema morale e politico, fa a meno delle forme con ritornel205
la lirica italiana
lo, ma arricchisce il sistema dei generi con il sonetto, invenzione destinata ad avere enorme fortuna (cfr. Forme poetiche). Muove da questa
prospettiva l’idea che tra le novità della poesia siciliana vi sia l’abbandono del legame tra poesia e musica costitutivo del genere lirico («divorzio tra musica e poesia» secondo Roncaglia, 1978). In effetti, nessuno dei componimenti siciliani ci è pervenuto con la melodia. Ma il
silenzio della tradizione manoscritta, che è di fatto avara di testimoni con notazione in ogni contesto e ambiente (con l’eccezione della
Francia settentrionale), è argomento davvero sufficiente a sostenere
che il rapporto tra poesia e musica nella lirica siciliana avesse assunto
una diversa natura rispetto ai modelli d’Oltralpe? È ragionevole supporre che i poeti-giuristi, Giacomo da Lentini in testa, non avessero
una formazione anche musicale e che quindi affidassero l’intonazione
dei loro componimenti a musici professionisti (ivi, pp. 383-4 e 390-1).
Ma quanto scrive Salimbene da Parma su Federico ii, a cui sono attribuiti cinque testi poetici (tre in modo non univoco), invita a prendere
in considerazione la possibilità che alcuni dei poeti siciliani, almeno
quelli di estrazione nobiliare, fossero in grado di intonare la propria
poesia: «legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones
invenire». La musica era del resto implicata con ogni probabilità nei
generi legati alla danza, come dimostrano alcuni versi del discordo di
Giacomino Pugliese Donna per vostro amore (pss 17,3): «isto caribo /
ben distribo»; «lo stormento / vo sonando / e cantando, / blondetta piagente» (vv. 49-50 e 53-56) [‘compongo armonicamente questa
danza’]; [‘canto accompagnandomi con il mio strumento, biondina
aggraziata’] (Di Girolamo, 2008, pp. xlvi-xlvii). È inoltre probabile
che nella prima metà del xiii secolo, cioè nel periodo che vede nascere in Francia la polifonia profana su testo in volgare, la specializzazione dei ruoli e delle competenze del poeta e del musicista di cui si è
detto avesse fatto il suo corso anche in Italia.
Occorre infine menzionare la canzone Amors, merce, no sia!, inclusa
in una piccola raccolta di quattro testi in una lingua d’oc venata di catalanismi. I quattro testi sono stati trascritti con la notazione musicale
sulle parti rimaste in bianco di due fogli cartacei che contengono le
minute di alcuni documenti provenienti dall’abbazia di Sant Joan de
les Abadesses, nella provincia di Girona (Barcelona, Biblioteca de Catalunya, 3871). Siamo verso la fine del Duecento, nell’ultima fase della
dominazione catalana sulla Sicilia. In ragione dei numerosi italianismi
e della fitta rete di riferimenti a canzoni di autori siciliani (tra i quali
206
15. musica
spicca Giacomo da Lentini), Amors, merce, no sia! è stata interpretata come traduzione di un originale siciliano (Schulze, 2002), come
centone assemblato da un rimatore che scrive in un italiano con tratti
centro-meridionali a cui si è sovrapposta la lingua del copista (Larson,
2006), o infine come testo scritto da un autore catalano nella koinè a
base occitana della poesia catalana, dove gli italianismi e i riferimenti
alla poesia siciliana sono usati a scopo parodico (Lannutti, 2012). Sia
come sia, la presenza dell’intonazione, trascritta dalla stessa mano che
ha trascritto i versi, prova comunque l’esecuzione cantata, se non della
poesia siciliana, almeno di un testo poetico che ne è intriso. Si noti, a
questo proposito, che alcuni documenti dell’Arxiu de la Corona d’Aragó attestano la presenza a Barcellona di giullari di origine siciliana al
servizio di Giacomo ii tra il 1293 e il 1312, proprio nel periodo in cui la
Sicilia era governata dal fratello di Giacomo, Federico d’Aragona, che
era nipote di Manfredi e pronipote di Federico ii di Svevia (Alberni,
Lannutti, 2018, p. 379).
Dopo la metà del Duecento, i poeti attivi in ambiente comunale, in
Toscana e a Bologna, ereditarono e rinnovarono l’esperienza dei Siciliani. Anche per questa seconda fase di produzione lirica non abbiamo
nessuna attestazione manoscritta con musica, ma va notato che nel corpus dell’autore maggiore, Guittone d’Arezzo, grande sperimentatore
e innovatore, si insinua il genere della lauda in forma di ballata, tipica
del repertorio devozionale, che era certamente cantata (cfr. Forme poetiche). Alcune delle sillogi di laude a noi pervenute sono infatti munite
di notazione musicale, come nel caso del laudario di Cortona (Cortona, Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusca, 91), che è all’incirca coevo dei primi canzonieri di lirica italiana delle origini, compilati
sul finire del Duecento. Il più antico di questi, il canzoniere Palatino
(Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 217), dedica peraltro un’intera sezione alla ballata, tra i generi formali che saranno
intonati dai polifonisti del Trecento (cfr. Tradizione).
15.4
Dallo Stilnovo all’Ars Nova
In un celebre passo del secondo canto del Purgatorio Dante incontra
il musico Casella, e lo prega di fargli nuovamente ascoltare il suo amoroso canto. Casella lo accontenta intonando la canzone di Dante Amor
207
la lirica italiana
che nella mente mi ragiona. Questo episodio viene di solito chiamato in
causa come testimonianza del persistere di un’esecuzione presumibilmente monodica della poesia, di cui non rimane alcuna traccia scritta.
E in effetti, quanto lo stesso Dante scrive nel De vulgari eloquentia,
a proposito della possibilità di eseguire la canzone cum soni modulatione, gli conferisce credibilità storica. Ma che la poesia di Dante sia
stata messa in musica lo si desume dal testo di due suoi componimenti.
Uno è il sonetto Se Lippo amico se’ tu che mi leggi, «che accompagna
una pulcella (cioè, secondo una metafora diffusa […], un altro testo
poetico), da rivestire (v. 18) certamente con musica» (Giunta, 2011, p.
124). Si tratta con ogni probabilità della stanza di canzone Lo meo servente core, come conferma la rubrica riferita nel ms. Vaticano lat. 3214
a un’altra stanza di canzone, Lontana dimoranza di Lemmo Orlandi
(«et Casella diede il suono»), che ne attesta l’esecuzione cantata (ivi,
p. 133). L’altro è la ballata Per una ghirlandetta, dove l’autore dichiara
di aver composto nuovi versi (parolette novelle) da cantare su una musica (vesta) non nuova perché originariamente composta per un altro
testo (ivi, pp. 176-7). Per molti aspetti tematici, stilistici e formali, Per
una ghirlandetta può essere accostata alla lirica galloromanza. L’uso
del raro novenario, che corrisponde all’octosyllabe, verso tra i più frequenti nella poesia lirica e narrativa in lingua d’oc e d’oïl, e l’eccezionale ripetizione di due diverse rime della ripresa nella volta, di cui una
tronca (in -à: farà : vedrà : verrà : canterà), fanno pensare alla dansa
occitana e al virelai francese. Nella dansa e nel virelai, corrispettivi
della ballata, la ripetizione delle rime del refrain nella volta è infatti
normale. Inoltre, il legame con il virelai può dirsi rafforzato dal registro stilistico, che rimanda ai generi oggettivi francesi (ivi, pp. 174-6)
(cfr. Modelli romanzi). Per una ghirlandetta è comunemente ritenuta
tra le prime prove poetiche di Dante, ma il gusto francesizzante che
la caratterizza ci autorizza a formulare l’ipotesi che si tratti in realtà
di un esperimento condotto in un ambiente particolarmente aperto
alla cultura d’Oltralpe. Si pensi alle corti dell’Italia nord-orientale che
accolsero Dante durante l’esilio, dove il francese divenne lingua letteraria «per scelta culturale» (Folena, 1978, pp. 272-3, cit. in Morlino,
2015, p. 29).
Il virelai, già intonato polifonicamente sul finire del Duecento, è
una delle tre principali forme francesi proprie del nuovo stile musicale,
non solo polifonico, che va sotto l’etichetta convenzionale di Ars Nova
e che dalla Francia, dove si afferma nei primi decenni del Trecento, si
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15. musica
diffonde anche in Italia. I primi musicisti dell’Ars Nova italiana, largamente debitrice dell’Ars Nova francese ma capace di trovare proprie
soluzioni tecniche e artistiche, prestarono servizio presso le corti di
Verona, Padova, Milano. A Verona, città dove Dante esule soggiornò
per due volte, sono ambientate alcune tra le più antiche composizioni
arsnovistiche pervenute, che si possono far risalire al quarto decennio
del Trecento (cfr. Geografia).
I polifonisti italiani intonarono testi poetici riconducibili a tre generi formali: il madrigale, la ballata e la caccia. Di questi, solo la ballata,
con la sua variante sacra, la lauda, ha una storia di lungo corso e una
diffusione panromanza (sono suoi omologhi, oltre al virelai francese e
alla dansa occitana, la dansa catalana e il villancico castigliano). Il madrigale e la caccia sono invece novità trecentesche italiane (cfr. Forme
poetiche). Il madrigale, nella sua conformazione più diffusa, corrisponde alla seconda parte del sonetto ritornellato (due terzine e un distico), ed è affine a forme minori duecentesche conservate con i sonetti
nel canzoniere Palatino (Leonardi, 2010). Caratterizzata da frequente
irregolarità strofica, dalla tendenza a una versificazione molto varia e
spezzata e da un linguaggio realistico e incline al discorso diretto, la
caccia potrebbe invece essere una riformulazione della chace dell’Ars
Nova francese, forse anche per contaminazione con un altro genere
italiano trecentesco, la frottola (cfr. ed. di Epifani). Nelle cacce, come
nelle chaces francesi, la coerenza e la comprensibilità del testo poetico
sono talvolta garantite dalla successione delle voci nel testo musicale,
di norma in forma di canone (Checchi, Epifani, 2015).
La piena legittimazione della ballata come genere di registro aulico
ha luogo nell’ambito del rinnovamento della lirica italiana che va sotto
il nome di Stilnovo. Agli autori stilnovisti si devono i primi esempi di
ballata monostrofica, tra i quali va ricordata la dantesca Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore. Secondo la testimonianza di un codice oggi
perduto riferita dal Crescimbeni, Deh, Vïoletta fu intonata dal musico
Scochetto, nome che compare nell’elenco di musicisti contenuto nel
sonetto di Nicolò de’ Rossi Io vidi ombre (Giunta, ed. commentata,
pp. 189-90). La ballata stilnovista e il madrigale sono esempi di poesia
della brevitas, evocativa e visionaria, lontana dall’andamento ragionativo della canzone e adatta alla dilatazione dei tempi di esecuzione
implicata da una musica complessa, qual è quella dell’Ars Nova. Non
risulta che sia stata invece mai intonata l’altra forma breve, il sonetto,
senza che se ne possa vedere una ragione diremo tecnica, mentre po209
la lirica italiana
trebbe aver influito la frequente funzione di missiva interlocutoria e di
accompagnamento di altri testi (Zuliani, 2009, pp. 91-2 e 100-1), come
nel caso del dantesco Se Lippo amico se’ tu che mi leggi.
A uno dei primi musicisti dell’Ars Nova, Jacopo da Bologna, attivo a Milano e a Verona, si deve l’intonazione del madrigale Non al
suo amante più diana piacque (Rvf 52), l’unico testo sicuramente petrarchesco che sia stato intonato nel Trecento. È però improbabile
che Jacopo abbia messo in musica una prima versione del madrigale
collaborando con Petrarca a Verona, secondo una fortunata ipotesi
ora confutata in modo convincente tenendo conto degli snodi della
tradizione manoscritta (Campagnolo, 2018). Recenti studi hanno anche prospettato un’interpretazione in chiave etica del madrigale, in
sintonia con la sua posizione di rilievo nella struttura calendariale del
Canzoniere (il madrigale si trova in corrispondenza della domenica
di Pentecoste, celebrazione della nascita della Chiesa militante), che
spinge a interrogarsi nuovamente sul ruolo nel macrotesto dei generi “per musica” (quattro madrigali e sette ballate) (Lannutti, 2015). È
interessante notare, a questo proposito, che il Dialogo xxiii del primo libro del De remediis utriusque fortune, vero e proprio trattatello
sul valore della musica, si conclude con l’idea platonica che la musica possa esercitare una funzione educativa nella società civile: «Nec
sine causa divini Plato vir ingenii musicam arbitratus est ad statum
sive correctionem morum reipublice pertinere» [‘Non senza ragione
il divino Platone ha ritenuto che la musica contribuisca a edificare e
regolare i costumi della repubblica’]. Sappiamo che Petrarca fu amico
di musicisti: Ludovico di Beringen, il Socrate dedicatario delle lettere
Familiari; Philippe de Vitry, tra i primi teorici e compositori dell’Ars
Nova; Floriano da Rimini, menzionato nel citato sonetto di Nicolò
de’ Rossi Io vidi ombre e nel madrigale intonato da Jacopo da Bologna
Oselleto salvazo per stasone. Non era invece un musicista Tommaso
Bombasi, a cui Petrarca lasciò in eredità il suo liuto, e non si ha quindi ragione di ritenere che l’invio a Bombasi di alcuni sonetti da parte
di Petrarca nel 1359 implicasse la richiesta di un rivestimento musicale
(lo si chiarisce in Campagnolo, 2005, pp. 12-3). Circa dieci anni prima, quando risiedeva a Parma, Petrarca aveva comunque scritto tre
ballate per un musicista di nome Confortino, anch’esso menzionato
nel sonetto di Nicolò de’ Rossi, che ne intonò solo una (Nova bellezza in habito gentile). Sebbene Confortino non sia autore compreso nei manoscritti arsnovistici a noi pervenuti, nulla vieta di pensare
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15. musica
che l’intonazione composta per la ballata di Petrarca fosse nello stile
dell’Ars Nova (ivi, pp. 14-8).
Con l’Ars Nova si afferma con forza, non solo in Italia, una musica
individuale, d’autore, che assorbe il patrimonio musicale del passato e
lo sublima attraverso un linguaggio più sofisticato. L’incremento senza
precedenti dell’autorialità nella musica spiega perché le antologie che
ci conservano le composizioni dell’Ars Nova, quando sono dotate di
rubriche attributive, indicano il nome dei musicisti e non dei poeti,
che è possibile ricavare dai testimoni letterari in un numero limitato
di casi (cfr. Tradizione). L’anonimato e il generale deterioramento dei
testi poetici nei codici musicali sono tra le ragioni per cui, a cominciare dai pionieristici contributi di Giosue Carducci (cfr. in particolare
Carducci, 1871), nella storiografia corrente si è radicata l’idea di una
poesia di minore livello qualitativo, funzionale alla musica, d’intrattenimento e di consumo, anonima in senso proprio e in senso traslato.
Questa idea può dirsi in via di superamento grazie a nuovi studi ed edizioni critiche interdisciplinari che della poesia intonata hanno rivelato
la ricercatezza della sintassi e del lessico, lo spessore simbolico e allegorico, il virtuosismo tecnico, l’espressionismo linguistico (Calvia, nel
commento a Nicolò del Preposto; Epifani nell’ed. della Caccia nell’Ars
Nova italiana). Una recente ricerca ha inoltre individuato ben 50 testimoni letterari in cui i testi intonati figurano come parte integrante del
repertorio lirico complessivo ( Jennings, 2014).
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