19_Le origini del colonialismo asiatico (Borsa)

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LE ORIGINI DEL COLONIALISMO

EUROPEO IN ASIA

1. Missionari e mercanti «ad tartaros»


Racconta il cronista portoghese Alvaro Velho che, quando dom Vasco da
Gama sbarcò il 20 (secondo altre fonti il 27) maggio 1498 a Calicut al termine del
suo primo viaggio intorno al capo di Buona Speranza, gli si fecero incontro
due «mori di Tunisi» che erano al servizio dello Zamorin, chiedendogli che
mai lui e i suoi compagni fossero venuti a fare fin laggiù. Al che egli avrebbe
risposto «siamo venuti in cerca di spezie e di cristiani». Anche se — come pare
— si tratta di una tradizione apocrifa, non è senza significato. Spezie e cristiani, il
commercio e l’evangelizzazione, sono alla radice della spinta colonizzatrice che
portò gli europei nell’Asia meridionale e orientale agli inizi dell’età moderna.
Rapporti commerciali tra l’Europa e l’Asia Major esistevano da almeno un
millennio, talora intensi, come nell’età augustea, via via diradati fino a ridursi a
poca cosa dopo il v secolo, quando l’imbarbarimento della vita europea fece
venir meno un mercato per i prodotti dell’Oriente; di nuovo in forte espansione
dopo le crociate. Le crociate segnarono (insieme alla «reconquista» della
penisola iberica, 1037-1248) la controffensiva della cristianità contro l’Isiam; una
controffensiva in cui fin dall’inizio le motivazioni religiose appaiono
inestricabilmente connesse con quelle politiche e con quelle commerciali. Furono
le repubbliche marinare italiane a trasportare i crociati, dopo il fallimento del
primo, folle tentativo di Pier l’Eremita; e a rifornirne gli stati cristiani sorti in
Terra Santa dopo la prima crociata. In cambio, esse — specialmente Venezia —
poterono stabilirvi i loro fondachi e ottenere privilegi commerciali che non
andarono perduti neanche dopo che il Saladino ebbe disfatto il regno di
Gerusalemme nel 1187 e l’ultimo baluardo dei crociati, S. Giovanni d’Acri,
cadde nel 1291. I veneziani stipularono con i conquistatori e con i sultani
d’Egitto trattati che consentirono loro di continuare ad acquistare le spezie nei
porti del Vicino Oriente, avviandole poi verso i grandi mercati dell’Europa
continentale e collegando in tal modo l’area mediterranea da una parte con
l’Oriente, dall’altra con la grande area commerciale che si andava sviluppando
nell’Europa settentrionale intorno ai porti del mare del Nord e del Baltico e alle
città fiamminghe e tedesche.
A partire dal XIII secolo incominciarono i tentativi di stabilire contatti diretti tra la
cristianità e i favolosi paesi dell’Oriente asiatico. La tradizione secondo cui
l’Oriente era abitato da un popolo di produttori di seta si ritrova nel Tesoretto di
Brunetto Latini; ma in generale la conoscenza che l’Europa medioevale aveva
dell’Oriente asiatico era inferiore a quella dei greci e dei romani. Molte delle
notizie da questi raccolte erano andate perdute e a esse si erano sovrapposte
ogni sorta di leggende che narravano di terre popolate di grifoni, amazzoni,
uomini senza testa o con testa di cane e con la testa sul ventre, o dotati di un
unico piede ecc. La maggiore fonte delle conoscenze geografiche divenne la
Bibbia. L’Asia orientale era identificata con il paradiso terrestre, donde traevano
la loro origine il Gange, il Nilo e l’Eufrate. Una tradizione senza alcun
fondamento storico diceva che l’apostolo Tommaso, subito dopo la resurrezione
di Gesù, aveva predicato il Vangelo tra i parti e in India, costituendovi delle
comunità cristiane e subendovi il martirio. Si favoleggiava di un regno cristiano
retto da un re, il Prete Gianni che, secondo il cronista tedesco Ottone di
Frisinga, avrebbe ripetutamente sconfitto i «mori», cioè i musulmani
(un’allusione forse alla vittoria dei cinesi contro gli arabi nel 1141 nei pressi di
Samarcanda).
Questa credenza nell’esistenza di popolazioni cristiane alle spalle del nemico
islamico fece nascere la speranza di potersi un giorno congiungere con esse e
insieme combattere i «mori». Quando Genghis Khan fondò il grande impero
che sotto i suoi successori andava dalla Crimea e dall’Ungheria alla Cina, tale
speranza parve potersi realizzare per altre vie. I mongoli erano prevalentemente
sciamanisti e una loro conversione alla religione di Cristo non appariva
impossibile; pur non essendo un popolo di mercanti, proteggevano e
promuovevano il commercio tra le popolazioni soggette e la pax tartarica
rendeva sicure le grandi carovaniere transcontinentali. Nel corso del XIII secolo il
papa e i sovrani cristiani mandarono ambasciatori presso i khanati: i loro
resoconti contribuirono a diffondere la conoscenza dell’Asia centrale. Stimolati
da queste notizie e dalla domanda crescente dei prodotti d’Oriente, i Polo
compirono, per primi, i loro due viaggi fino alla Cina. Sulle loro orme, altri
mercanti e monaci seguirono. Nella prima metà del xiv secolo, comunità
cattoliche sorsero a Pechino e a Ch’uang-chou, nella Cina meridionale, e il papa
nominò Giovanni da Montecorvino arcivescovo di Cambalic (Pechino). Il padre
Giovanni de’ Marignolli, nelle sue note di viaggio, racconta di avere incontrato in
Cina numerosi mercanti italiani, specialmente genovesi. Egli menziona
l’esistenza a Zaiton (Ch’uang-chou) di un fondaco annesso alla missione
francescana. Queste notizie sono confermate da frate Peregrino da Castello,
vescovo di quella città, dal suo successore Andrea da Perugia e dal viaggiatore
arabo Ibn Battuta; il fiorentino Francesco Calducci Pegolotti, con il suo Libro di
divisamenti e di paesi, confermò la presenza in Cina di molti mercanti.
Questa prima penetrazione religiosa e commerciale in Cina non sopravvisse
al potere mongolo. Per quasi 200 anni i rapporti tra l’Europa e l’Asia orientale
tornarono a farsi difficili. La potenza turca, insediata nel cuore dell’Asia, sbarrava
la via della seta; la gelosia dei sultani d’Egitto precludeva il mar Rosso e
l’oceano Indiano. Avventurosi mercanti veneziani, genovesi e fiorentini
continuarono a percorrere la via rischiosissima di Hormùz, mantenendo in vita
traffici, sia pur ridotti, con l’India; ma attraverso di questi non era possibile
soddisfare una domanda che cresceva continuamente con la ripresa
demografica ed economica che seguì in Europa alla «morte nera». Altre
difficoltà insorsero quando, nel 1428, il sultano d’Egitto impose sul commercio
delle spezie un monopolio statale e quando la conquista turca di Costantinopoli
nel 1453 pose fine ai privilegi che i mercanti italiani — specialmente veneziani —
godevano nei territori dell’ex impero bizantino. Il prezzo delle spezie — di cui
ormai i veneziani, in società con gli egiziani, detenevano in Europa il monopolio
— crebbe in media del 60%.
Il desiderio di rompere questo monopolio e di trovare una via alternativa per
l’approvvigionamento delle spezie fu, insieme a quello religioso, il fattore
principale nello stimolare i viaggi e le scoperte lungo la costa dell’Africa
occidentale nel XV secolo. Dai regni cristiani della penisola iberica, prima
ancora che il regno arabo di Granata fosse conquistato dalla Castiglia nel 1492,
la reconquista si era trasformata in un movimento di espansione verso
l’Africa.
Protagonista di tale movimento fu il piccolo regno del Portogallo, costituito nel
1139, con Giovanni I, ma soprattutto con il figlio Enrico il Navigatore. Lo spirito di
crociata (Enrico era fra l’altro Maestro dell’Ordine di Cristo) ma soprattutto la
speranza di raggiungere per mare i territori transahariani, di dove giungevano
negli empori mediterranei l’oro, gli avori, gli schiavi, lo spinsero a farsi promotore
di una sistematica esplorazione delle coste atlantiche dell’Africa. Si andava
inoltre facendo strada l’idea che fosse possibile arrivare in Oriente
circumnavigando l’Africa le cui dimensioni erano ritenute molto inferiori alla
realtà.
Con l’aiuto finanziario dell’Ordine di Cristo, Enrico fondò una scuola di
navigazione. Nel 1418 partirono le prime navi da lui armate. L’anno successivo
furono raggiunte Madeira, poi le Canarie e le Azzorre. Nel 1432 furono doppiati
il capo Bojador e il capo Non, ritenuti un limite invalicabile. Successive spedizioni
raggiunsero ed esplorarono le isole del Capo Verde, risalirono il fiume Gambia,
prendendone possesso in nome del re del Portogallo, che una bolla papale del
1455, la Romanus Pontifex, autorizzava, in riconoscimento del suo zelo di
soldato di Cristo, a «sottomettere e convertire i pagani che le sue genti
avessero incontrato lungo la rotta dal Marocco alle Indie». Le navi portoghesi
continuarono a discendere la costa razziando schiavi e oro e superarono
l’equatore e il Congo. Due spedizioni con a bordo dei missionari incaricati di
prendere contatto con un mitico regno di Ogane, il cui monarca si riteneva
potesse essere il Prete Gianni, ritornarono senza averlo trovato, ma portando la
notizia che procedendo verso sud lungo la costa si arrivava a un punto in cui
l’Africa era circondata dall’Oceano. Nel 1486 il re del Portogallo affidò 3 navi a
Bartolomeo Diaz, con l’ordine di procedere verso sud, fino a trovare il regno di
Ogane. Diaz doppiò l’anno seguente il capo Tormentoso (poi ribattezzato di
Buona Speranza), ma non potè procedere oltre. Dovette trascorrere ancora 10
anni prima che si trovasse un capitano tanto ardimentoso da compiere il viaggio.
L’onore toccò a Vasco da Gama che, partito da Lisbona con 4 navi il 18 luglio
1497, doppiò il capo, risalì la costa, raggiunse i grandi empori swahili di Kilwa,
Mombasa e Malindi, e, con l’aiuto di un nocchiero arabo, Ibn Majid, attraversò
l’oceano Indiano e il 27 (o il 20) maggio 1498 entrò, come già si è detto, nel
porto di Calicut.

2. Gli imperi iberici in Asia


In un primo tempo Vasco da Gama fu accolto bene dallo Zamorin, un
piccolo potentato hindu, la prosperità del cui stato dipendeva tuttavia dai traffici
condotti in quel porto da mercanti indo-musulmani e arabi, che in seguito
aizzarono lo Zamorin contro Vasco da Gama, il quale dovette ripartirsene senza
lo sperato carico di spezie. Egli portava tuttavia con sé cinque o sei indiani e
campioni di merci varie, quanto bastò perché al suo ritorno fosse accolto come
un trionfatore. Re Manuel del Portogallo informò del viaggio i vari sovrani e il
papa, che lo confermò nei suoi privilegi conferendogli il titolo di «Signore delle
conquiste, navigazioni e commerci dell’Etiopia, dell’Arabia, della Persia e
dell’India». Nuove flotte furono inviate nel 1500 e nel 1501 al comando di Pedro
Alvarez Cabrai e di Vasco da Gama. Essendosi lo Zamorin dimostrato ostile,
questi bombardarono Calicut e conclusero accordi con i principati rivali di
Cochin e di Cannanore. Appariva ormai chiaro che se voleva assicurarsi i
benefici del commercio con l’India, il Portogallo doveva conquistare il dominio
del mare. Nel 1504 il Consiglio Reale approvò un piano proposto dall’ammiraglio
Alfonso di Albuquerque, che aveva partecipato ad alcune delle precedenti
spedizioni. Questo prevedeva: nessuna conquista territoriale, la creazione di
basi navali fortificate lungo la rotta e in India, la nomina di un viceré con poteri
in materia militare, politica e commerciale, l’istituzione di un monopolio della
corona sul commercio delle spezie, la difesa di tale monopolio con le armi.
Tale programma fu attuato con una decisione e una rapidità stupefacenti
per merito soprattutto del primo viceré, Francisco de Almeida e dello stesso
Albuquerque, suo successore. Arabi e veneziani fecero un tardivo tentativo per
impedirlo. Nel 1503 i veneziani avevano fatto pace con i turchi, preoccupati della
«lieta novella» annunciata al loro ambasciatore da re Manuel che d’ora innanzi le
spezie le avrebbero trovate a Lisbona e non era il caso si scomodassero per
andarle a cercare tra gli infedeli. Nel 1504 il pepe costava al Cairo 192 ducati
per 100 libbre, a Lisbona 20 ducati. La concorrenza divenne insostenibile. I
veneziani indussero il sultano d’Egitto ad armare una flotta che, insieme ad alcuni
legni forniti dai mercanti del Gujerat e ad alcune galee veneziane, nel 1509 fu
affrontata dai portoghesi nelle acque di Diu e costretta, dopo uno scontro di esito
incerto, ad abbandonare il campo. L’anno dopo, i portoghesi tolsero al sultano di
Bijapur Goa, facendone la capitale dello Estado de India. Nel 1511
conquistarono Malacca, nel 1515 Hormùz. Negli anni successivi, attraverso
accordi con i potentati locali, fondarono una serie di empori fortificati
(feitorias), sulle coste occidentale e orientale dell’India nel golfo del Bengala, a
Ceylon, Giava e Sumatra.
Gli spagnoli avevano tentato di contendere ai portoghesi le Molucche sulla base
di una bolla emanata da Alessandro VI nel 1493. Questa assegnava al Portogallo
tutti i territori scoperti a est di una linea che passava a 370 miglia a ovest delle
isole del Capo Verde. L’accordo era sancito dal trattato ispano-portoghese di
Tordesillas del 1494. Il meridiano che corre lungo quella linea nell’opposto
emisfero lasciava le Molucche nella sfera spagnola; ma Carlo V, impegnato nella
costosa guerra contro Francesco I e nello sfruttamento dell’impero americano, le
cedette ai portoghesi con il trattato di Saragozza (1529) per 350.000 ducati
d’oro.
Diciannove anni dopo l’arrivo di Vasco da Gama a Calicut, nell’agosto del
1517, la prima flotta europea composta di otto vascelli portoghesi provenienti da
Malacca e al comando di Ferdinando di Andrade, gettava l’ancora nella baia di
Canton, in Cina. Seguirono alcuni decenni burrascosi nei rapporti tra portoghesi
e cinesi, finché nel 1557 Lionel de Sousa ottenne dal mandarino locale il
permesso di insediarsi nell’estremità meridionale dell’estuario del fiume delle
Perle, fondandovi Amacao (Macao), tutt’ora sotto la sovranità portoghese. Macao
non servì molto a incrementare il commercio con la Cina, ma divenne la base per
una penetrazione commerciale e missionaria in Giappone, finché questo fu
chiuso ai «barbari occidentali» nei primi decenni del Seicento. Con la fondazione
di Macao, l’impero portoghese in Asia aveva raggiunto il suo apogeo.
Come funzionava il monopolio portoghese? Una parte del commercio era
gestito direttamente dalla corona, una parte da privati su licenza (cartai) di
questa. Nella prima metà del Cinquecento, la corona cercò di limitare il
commercio privato ed estendere il monopolio diretto, ma questo non fu mai
totale e nel 1570 fu addirittura abolito, fermo restando l’obbligo di imbarcare le
merci nelle basi portoghesi e sbarcarle a Lisbona, per il controllo e il pagamento
delle imposte. Queste erano determinate dalla Casa da India, dove i carichi
affluivano. Le navi — portoghesi o straniere che fossero — che non obbedivano a
queste disposizioni, o venivano sorprese senza il regolare cartai, erano
considerate pirate, depredate e affondate. Fino al 1549 le spezie raccolte a
Lisbona erano nella stragrande maggioranza spedite ad Anversa, dove i
mercanti di tutta Europa, resisi indipendenti da Venezia, affluivano in misura
crescente. La vendita ad Anversa avveniva attraverso concessionari privati, per
lo più mercanti italiani e tedeschi, come gli Affaitati di Cremona, i Gualtierotti di
Firenze, i Függer e i Roth di Augusta, il milanese Rovellasca ecc. Dal 1549 le
spezie poterono acquistarsi direttamente a Lisbona. Anversa, che Ludovico
Guicciardini descriveva negli anni quaranta come la più «viva città d’Europa»,
declinò rapidamente.
Gli storici si sono posti la domanda: come potè il Portogallo, paese
relativamente povero, con una popolazione di circa 1.100.000 abitanti,
costruirsi un così vasto impero commerciale? La risposta è che lo sviluppo del
commercio con l’India nel XVI secolo non fu un’impresa solo portoghese. Dietro il
Portogallo c’era la marineria delle nostre repubbliche, c’era un’Europa
occidentale prospera, c’era il protocapitalismo delle città italiane, tedesche e
fiamminghe in pieno sviluppo. La spedizione portoghese che raggiunse per prima
il fiume Gambia era comandata da un veneziano, Alvise Ca’ da Mosto, e marinai
italiani erano imbarcati in molti degli equipaggi. I mercanti fiorentini, genovesi,
lombardi cercavano di controbilanciare la supremazia di Venezia nel commercio
con l’Oriente, sviluppando intense relazioni con i paesi emergenti dell’Europa
occidentale. Genovesi, lombardi e fiorentini formavano alla fine del XIV secolo a
Lisbona una prospera colonia che contribuì a finanziare le spedizioni di Enrico
il Navigatore. Essi seguirono i portoghesi in Marocco, a Madeira, nelle Canarie
ove commerciavano in oro, schiavi, avorio, legni pregiati. I Bardi, i Függer, gli
Affaitati avevano a Lisbona le loro agenzie. Una delle navi di Vasco da Gama
fu allestita a cura dei Marchionni, mercanti fiorentini presenti a Lisbona.
Finanzieri italiani e tedeschi gestivano, come si è detto, il commercio delle
spezie ad Anversa.
Come si spiega allora il declino dell’impero portoghese, rapido come la sua
crescita, tanto da ridursi verso la metà del Seicento al possesso di Goa, Diu e
Daman in India e di Macao in Cina? Vi contribuirono fattori interni ed esterni;
fra i primi, l’esiguità del territorio e della popolazione della madrepatria.
Nonostante il reclutamento di marinai italiani e di altri paesi, divenne sempre più
difficile trovare gli equipaggi per le navi e più ancora i soldati per le guarnigioni
delle numerose fattorie fortificate, continuamente insidiate dagli arabi e dai
maharatta. La difesa di tali fattorie dovette sempre più essere affidata a
mercenari indigeni, a meticci, a schiavi. La Carreira de India prendeva da 4 a 8
mesi. Le flotte che ne affrontavano i rischi ne uscivano decimate. Lo Chaunu
(1969) calcola una perdita media per viaggio del 15% delle navi e del 20-25%
degli uomini, ma probabilmente è un calcolo per difetto. Il viceré Joan Numes da
Cunha lamentava in una relazione alla corona che il numero dei portoghesi
residenti in tutti i territori dell’oceano Indiano e a Macao non superava quello di
un sobborgo di Lisbona, circa 1.500 persone. La situazione era resa ancor più
difficile dallo sforzo sostenuto nello stesso periodo dal Portogallo per
colonizzare il Brasile; e dal fatto che i portoghesi residenti in India si dedicavano
in misura crescente a esercitare in proprio il commercio marittimo interasiatico,
un’attività proficua, che sopravvisse al crollo dell’impero.
Altre cause di decadenza furono la pessima amministrazione della giustizia,
denunciata anche da uomini politici e cronisti portoghesi dell’epoca, come
Gaspar Correia e Diogo de Couto; l’estendersi del meticciato dovuto all’assenza
quasi totale delle donne fra i portoghesi d’oltremare; l’ostilità suscitata nelle
popolazioni, soprattutto in India, dallo zelo controriformista dei missionari
portoghesi. La sanzione papale era la base giuridica della conquista ed era
condizionata a un impegno di evangelizzazione. Nel 1540 le autorità portoghesi
ordinarono la distruzione dei templi hindu a Goa e nel 1557 questa città fu eretta
in sede arcivescovile con giurisdizione su tutte le missioni in Oriente. Nel 1560
furono istituiti i tribunali ecclesiastici e venne introdotta l’Inquisizione.
Nonostante il Consiglio ecclesiastico di Goa avesse decretato nel 1567 che le
conversioni non dovevano essere imposte, «perché nessuno viene a Cristo se
non chiamato dal padre celeste con amore spontaneo e grazia preveniente»,
ogni sorta di pressioni fu esercitata sulle popolazioni per indurle ad abbracciare
la vera fede. Lo stesso san Francesco Saverio «pur con tutta la sua spiritualità e
prudenza», si rendeva conto, a detta del suo successore padre Alessandro
Valignano, «di quanto incapace e primitiva sia la natura di questo popolo nelle
cose di Dio e che perciò il convincimento non fa su di esse tanta impressione
quanto l’uso della forza». Quei missionari, come il gesuita Roberto de’ Nobili, che
cercarono di attuare nell’India del Sud la stessa politica di penetrazione pacifica
usata con tanto successo dai loro confratelli alla corte cinese, operando
dall’interno della società hindu, furono, come quelli, sconfessati e lo stesso de’
Nobili dovè recarsi a Roma per difendersi dall’accusa di eresia dinnanzi al
Sant’Uffizio.
Tra i fattori esterni che concorsero alla decadenza dell’impero portoghese,
due, soprattutto, meritano di essere ricordati. Il primo è la ripresa di Venezia e
del commercio arabo. Per le ragioni già dette, divenne sempre più difficile per i
portoghesi imporre il monopolio. A poco a poco, i mercanti arabi e musulmani
del Gujerat ripresero a commerciare, corrompendo i funzionari o addirittura in
società con i mercanti portoghesi. La lotta contro i turchi costrinse i portoghesi a
rinunciare al controllo del golfo Persico, allo scopo di ottenere l’aiuto persiano.
Babur, dopo avere consolidato l’impero turco-mongolo in India, si impadronì di
Aden, che aveva sempre resistito ai portoghesi, facendo del mar Rosso un lago
turco. Le città marinare del Mediterraneo, in particolare i veneziani,
riconquistarono una grossa fetta di tale commercio. Il prezzo del pepe, di cui
essi tornavano a rifornire i mercati europei, era più alto di quello portoghese, ma
la qualità migliore. Tra il 1554 e il 1564 è stata calcolata una corrente annua di
pepe proveniente attraverso il mar Rosso ed Alessandria tra 20.000 e 40.000
quintali. Ma ciò che diede il colpo di grazia all’impero portoghese delle Indie fu
l’unione, nel 1580, delle corone del Portogallo e della Spagna. Sebbene le due
amministrazioni coloniali fossero tenute distinte e fossero spesso in
antagonismo, l’unione coinvolse il Portogallo nelle guerre condotte dalla Spagna
contro i Paesi Bassi insorti e contro l’Inghilterra. Sia l’Inghilterra, sia le Province
Unite erano paesi protestanti e non tenevano perciò in alcun conto l’investitura
papale; ma soprattutto erano le due potenze marittime emergenti.
Furono infatti olandesi e inglesi a sostituirsi al Portogallo come le potenze
egemoni nell’oceano Indiano. La Spagna vi ebbe una posizione marginale. Le
Filippine erano state scoperte nel 1521 da un portoghese al servizio del re di
Spagna, Ferdinando Magellano, che vi lasciò la vita. Il trattato di Saragozza, già
ricordato, confermò l’inclusione dell’arcipelago nella sfera di espansione
spagnola. Dal Messico fu inviata una prima spedizione esplorativa nel 1542.
Più di vent’anni dopo ebbe inizio l’occupazione, che avvenne in modo incruento,
tranne che nella parte meridionale, dove i «moros» di Mindanao, convertiti
all’islamismo, opposero sempre una forte resistenza. Nel 1571 gli spagnoli
conquistarono Manila, nell’isola di Luzon, facendone la capitale del nuovo
dominio. Nelle Filippine gli spagnoli non trovarono né oro, né argento, né spezie.
Ripetuti tentativi di insediarsi nelle Molucche, approfittando delle difficoltà create ai
portoghesi dal sultano di Ternate e della minaccia degli olandesi, fallirono e le
isole caddero alla fine sotto l’influenza di questi ultimi. Il commercio con il
Giappone e la Cina rappresentava l’unica possibile alternativa, anche per
ragioni geografiche. Ma gli spagnoli non erano navigatori-mercanti e l’accesso
agli empori dell’oceano Indiano orientale era comunque sbarrato dai portoghesi.
Le autorità spagnole ricorsero allora con successo alla politica di attirare nelle
Filippine i mercanti asiatici, specialmente cinesi, nonostante il governo
imperiale vietasse il commercio oltremare. A Manila si formò una forte colonia
cinese, che creò talora preoccupazioni e problemi, risolti dagli spagnoli con
estrema durezza. I galeoni spagnoli giungevano da Acapulco carichi dell’oro e
dell’argento delle Americhe e ne ripartivano stivati di sete, velluti, bronzi,
porcellane, giade.
A differenza dei portoghesi, gli spagnoli cercarono di sfruttare anche le risorse
agricole del paese. Dopo la conquista, divisero la popolazione in encomiendas.
L’encomendero riscuoteva dalle popolazioni assegnategli — in genere tra 500 e
1.000 persone — un tributo in natura o in lavoro in cambio della protezione e
della cura delle anime, consistente nel promuovere le conversioni alla
religione cattolica e la sua fedele osservanza. In realtà, come nelle Americhe, i
coltivatori furono brutalmente sfruttati nonostante qualche tentativo della chiesa
di difenderli. Il sistema di produzione agricola preesistente continuò inalterato;
mentre gli spagnoli modificarono i rapporti fondiari con una serie di leggi che
favorì la creazione del latifondo. I più grossi patrimoni fondiari appartenevano
agli ordini religiosi; ma la maggioranza dei grandi proprietari era costituita da un
notabilato indigeno formato dai capi (cabezas) dei vari clan che fino al 1786
esercitavano un potere ereditario. Il clan (barangay) divenne l’unità
amministrativa locale al di sopra di cui venivano le municipalità (pueblo), i
capitanei, gli alcade mayor (a capo delle province) e al sommo il governatore o
capitano generale, che dipendeva dal viceré del Messico, di cui le Filippine erano
considerate una propaggine.
Dei tre obiettivi che gli spagnoli si proponevano — trovare le spezie, fare delle
Filippine un punto di appoggio per la penetrazione nel resto dell’Asia
sudorientale, promuovere l’evangelizzazione delle popolazioni — solo l’ultimo fu
raggiunto. Tranne che nelle regioni meridionali, il cattolicesimo si diffuse e si
radicò. La chiesa era potentissima. Il vescovo di Manila contava quanto il
governatore generale, e spesso lo ignorava appellandosi direttamente alla corona.
Fallirono invece i tentativi di penetrazione religiosa e politica in Cina, in Giappone e
nella penisola indocinese. I missionari francescani spagnoli non riuscirono a
stabilirsi né in Giappone né in Cina sia per l’ostilità di quei governi, sia per
l’antagonismo dei gesuiti portoghesi che vi erano insediati. Ancor meno
riuscirono nei tentativi di conquista. Un folle piano di invadere la Cina, sottoposto
a Carlo V nel 1586, fu lasciato cadere poiché anche il re di Spagna (come più
tardi dirà di sé Federico di Prussia) «aveva troppo da fare in Europa per
occuparsi dei cinesi». Due tentativi di invadere la Cambogia nel 1596 e nel
1598 ebbero un esito disastroso.

3. La colonizzazione olandese
Nel 1580 sir Francis Drake ritornava in Inghilterra dopo avere compiuto, con le
sue navi, il giro del mondo. Portava con sé, oltre all’oro e all’argento, di cui
aveva depredato i galeoni spagnoli, una piccola partita di chiodi di garofano
acquistata a Ternate, con il cui sultano affermava di avere stipulato un
vantaggioso trattato. L’impresa di Drake suscitò grande interesse,
specialmente in Inghilterra e in Olanda, paesi che mal sopportavano il
monopolio portoghese delle spezie. Sei anni dopo Thomas Cavendish ripeteva
il viaggio, passando attraverso lo stretto di Magellano, e portava in Inghilterra la
notizia che era possibile commerciare con le Molucche, eludendo il monopolio
portoghese. Seguirono nel 1591 e nel 1596 due altre spedizioni, la prima lungo
la rotta del capo, la seconda attraverso lo stretto di Magellano, entrambe con
esito disastroso. Questi insuccessi raffreddarono gli entusiasmi dei mercanti di
Londra. Vi erano altri ostacoli. I capitali liquidi scarseggiavano. Non era ancora
stata abbandonata la speranza di trovare una rotta per l’Estremo Oriente, che
evitasse di entrare in collisione con i portoghesi. Nel 1555 si era costituita una
Compagnia della Moscovia, che si proponeva di raggiungere il Catai lungo una
rotta settentrionale. Non riuscì mai nello scopo, anche se avviò commerci
redditizi con i porti del mar Bianco e lungo il Volga. Nel 1581 aveva ricevuto le
patenti regie una Compagnia del Levante, che riuscì ad assicurarsi partite di
spezie, seta e indaco provenienti dall’India, ma non poté stabilire contatti diretti
con le zone di produzione. Inoltre a quell’epoca l’Inghilterra era minacciata
dall’Armada spagnola e doveva badare a difendersi. A ridestare l’interesse per
il commercio diretto con l’India contribuirono la cattura di alcune caracche
portoghesi cariche di spezie e la notizia che una flotta olandese al comando di
Cornelius de Houtman aveva compiuto con successo nel 1595-97 una
spedizione nel mare della Sonda.
Gli olandesi si trovavano in una situazione molto più favorevole. Disponevano
di una flotta e di una marineria che si erano molto sviluppate sotto la corona
spagnola. In concorrenza con le città anseatiche, svolgevano un ruolo di
commissionari, trasportatori e distributori, nei paesi del Nord, dei prodotti
provenienti dalle Americhe. Con il declino di Anversa, il ruolo di emporio
europeo delle spezie era passato ad Amsterdam. Gli olandesi avevano
perfezionato l’arte della navigazione e della costruzione di grossi navigli oceanici;
e possedevano notizie dettagliate e aggiornate sulla geografia, il commercio e la
navigazione in Oriente, grazie soprattutto agli scritti di Jan van Linschoten, che
aveva trascorso quattro anni in Portogallo e cinque a Goa come segretario di
quell’arcivescovo. I mercanti olandesi e zelandesi si consorziarono dando vita a
otto compagnie che in sette anni inviarono complessivamente a Giava e nelle
Molucche sessantacinque navi. Ma la concorrenza tra le varie compagnie si
rivelò dannosa. Nel 1599 si fusero le compagnie di Amsterdam e dell’Olanda
settentrionale; e nel 1602, su pressione degli Stati generali, fu costituita
un’unica Compagnia olandese delle Indie orientali (Vereenigde Oostindische
Compagnie). La Carta della Compagnia, approvata dagli Stati generali il 20
marzo, ne faceva una federazione di Camere, corrispondente ciascuna a una
delle compagnie fondatrici. Ogni Camera godeva di una certa autonomia per
quanto riguardava l’armamento delle singole navi e la gestione finanziaria. Ma
l’insieme dell’armamento, l’ammontare dei carichi, i rapporti finanziari tra le
Camere, la vendita delle merci trasportate erano regolati da un direttorio
composto da 17 membri (Heeren 17 o Directeuren) delegati dalle varie
Camere. Otto ne spettavano alla Camera di Amsterdam, quattro alla Zelandia. Il
capitale iniziale ammontava a 6.500.000 fiorini in azioni da 2.000 fiorini, più della
metà del quale sottoscritto da Amsterdam. La carta costitutiva concedeva alla
Compagnia il monopolio del commercio tra il capo di Buona Speranza e le
Molucche, soggetto al pagamento di una tassa del 3% sulle merci importate; e
le attribuiva poteri di amministrazione e giurisdizione sui dipendenti, il diritto di
mantenere contingenti armati, di fare la guerra e di stipulare trattati con i
potentati indigeni.
La storia dell’impero coloniale olandese nell’Asia sud orientale può dividersi
in tre periodi. Il primo periodo va dalla fondazione della Compagnia nel 1602
all’inizio del governatorato di Jan Pieterszoon Coen nel 1618. Esso fu
caratterizzato dall’inserimento nel commercio detenuto dai portoghesi e dal
tentativo di affermare la propria supremazia sul mare, appoggiandosi a una rete
di fattorie fortificate dove le spezie, acquistate dai capi indigeni, venivano fatte
affluire per essere trasportate in Europa lungo una rotta, più breve di quella
aperta dai portoghesi, che tagliava direttamente l’oceano Indiano tra Giava e il
capo di Buona Speranza. I vascelli olandesi, riuniti in flotte numerose e bene
armate, stabilirono fondachi sulla costa nord-occidentale di Giava, a Macassar
nell’isola di Celebes, a Surat, Masulipatan e Pulicat in India. Lo scontro
inevitabile con i portoghesi fu, da principio, di esito incerto. Tentativi olandesi di
occupare Malacca e attaccare Goa e Mozambico fallirono. In compenso, essi
conquistarono Amboina, Banda Neira e la parte orientale di Ternate.
Nel 1609 Pietr Bosch fu nominato primo governatore delle Indie e il suo
successore Jan Pieterszoon Coen (il vero fondatore dell’impero, cui tale carica
fu affidata nel 1617-22 e nel 1627-29) conquistò Giacarta, ribattezzandola
Batavia e facendone la capitale. Il Coen mirava soprattutto ad assicurare agli
olandesi il commercio interasia-tico attraverso il controllo dei mari, e a tal fine
avrebbe voluto espellere gli spagnoli da Manila e i portoghesi da Macao, ma
senza costituire un impero territoriale. Il suo governatorato dimostrò che, se
pure i suoi obiettivi a lungo termine erano giusti, per raggiungerli si rendeva
necessario il controllo territoriale di gran parte dell’arcipelago. Sotto i suoi due
successori Anton van Diemen (1636-45) e Johan Maetsuycker (1653-78), gli
olandesi tolsero ai portoghesi molte fortezze, tra cui Negapatam nel Coromandel
(1659), Cochin e Cannanore nel Malabar (1661-62). Nel 1641 la conquista di
Malacca assicurò loro il controllo dello stretto. Nel decennio seguente, essi
acquistarono il dominio di Ceylon e delle Molucche e sul finire del secolo,
estromessi gli inglesi e sconfitti i più potenti stati indigeni di Giava, i regni di
Mataran e di Bantam, anche quest’isola era sotto il loro controllo diretto o
indiretto. Negli anni seguenti i sultanati della costa sud occidentale di Sumatra e
di quella meridionale di Celebes dovettero riconoscere la suzerainité olandese;
e vantaggiosi accordi furono imposti ai principati malesi produttori di stagno.
Finché fu possibile, gli olandesi usarono nell’arcipelago sistemi di governo
indiretto. I vari stati, presso molti dei quali essi mantenevano dei residenti, erano
legati alla Compagnia da trattati, in virtù dei quali erano tenuti a pagare tributi in
natura e a raccogliere, per il tramite dei reggenti e dei notabili, prodotti destinati
all’esportazione (prima spezie, poi anche zucchero, cotone, caffè), che i contadini
erano obbligati a coltivare e a consegnare a prezzi fissati dalla Compagnia a un
livello estremamente basso. La politica del vendere ad alto prezzo e comprare a
basso prezzo, tenacemente perseguita, fu causa non ultima del declino della
Compagnia. Tale politica aveva l’effetto di ridurre i giavanesi in uno stato di
povertà tale che non potevano acquistare i prodotti europei o gli eleganti tessuti
indiani che gli olandesi portavano nell’isola. Inoltre il costo del mantenimento di
una serie di fattorie fortificate costruite in tutto l’arcipelago per assicurarsi il
monopolio nel commercio delle spezie non si giustificava più dopo la costante
diminuzione della domanda di spezie sul mercato europeo. Nonostante che il
commercio interasiatico si rivelasse sempre più una fonte alternativa di profitti
(che per altro andavano in buona parte ai singoli funzionari o capitani di nave
che lo gestivano in proprio); e nonostante l’introduzione della coltivazione del
caffè che, nel 1670, rappresentava una percentuale delle esportazioni quasi
eguale a quella delle spezie, la Compagnia sprofondò nel corso del Settecento in
un crescente dissesto finanziario, finché, alla fine del secolo fu abolita e lo stato
olandese le subentrò nella gestione dell’impero delle Indie.

4. Gli inglesi in India


Oltreché con i portoghesi, gli olandesi avevano dovuto lottare, per affermarsi,
con gli inglesi. Ma con questi, lo scontro non fu così aspro, né fu condotto fino in
fondo, per due motivi. Primo, perché l’Inghilterra e l’Olanda si trovarono a
essere nel secolo XVII per lunghi periodi alleati in Europa, cosicché le due
Compagnie dovettero, se non collaborare, convivere. Secondo, perché alla fine vi
fu una sorta di divisione in sfere di influenza, concentrando sempre più i suoi
sforzi la Compagnia inglese in India, quella olandese in Insulindia.
Come i loro colleghi olandesi e per gli stessi motivi, anche i mercanti della City
di Londra, alcuni dei quali già membri della Compagnia del Levante, furono
indotti nel settembre del 1599 a unire le loro risorse per inviare una spedizione
nelle Indie Orientali, attraverso la rotta del Capo. Il 31 dicembre 1600 la regina
Elisabetta concedette alla nuova società, denominata «The Governor and
Company of Merchants of London Trading into the East», una carta con la
quale le riconosceva il diritto esclusivo di esercitare per 15 anni il commercio
nelle regioni poste al di là del capo di Buona Speranza. Le prime due spedizioni,
allestite nel 1601-03, e 1604-06 raggiunsero Sumatra, Giava e le Molucche,
ritornando cariche di spezie. Sulla flotta che compì il terzo viaggio fu imbarcato il
capitano Hawkins, munito di una lettera con cui il re Giacomo I chiedeva
all’imperatore Moghul Jahanghir di stabilire regolari rapporti diplomatici e
commerciali. Lo Hawkins fu sbarcato a Surat, di dove proseguì per Agra alla corte
del Gran Moghul. Vi rimase dal 1608 al 1611; ma nonostante fosse trattato
amichevolmente e fosse entrato nelle grazie del sovrano, la richiesta del re
d’Inghilterra non fu presa in considerazione e lo Hawkins dovette tornarsene a
mani vuote, anche per l’opposizione dei mercanti di Surat, subornati dai
portoghesi, con cui avevano stabilito buoni rapporti di affari. L’atteggiamento della
comunità mercantile di Surat mutò dopo che una flotta inglese per rappresaglia
bloccò lo stretto di Bab el Mandeb, taglieggiando e depredando le navi
provenienti dal Gujerat; e dopo che, nel 1612, sir Thomas Best, con sole due
navi, respinse l’attacco di una flotta portoghese inviata da Goa per scacciarlo da
Surat. L’anno seguente un firmano imperiale concedeva alla Compagnia
britannica privilegi e franchigie che l’autorizzavano a costruire a Surat una
fattoria permanente; e nel 1615 una seconda flotta portoghese subì una nuova
disfatta nella rada di Swally, dinnanzi alla foce del fiume Tapti.
Persistendo, tuttavia, l’ostilità dei mercanti di Surat, gli inglesi inviarono una
seconda ambasceria alla corte di Jahanghir, guidata da sir Thomas Roe (1615-
18). Neppure questa riuscì a ottenere un trattato commerciale. L’imperatore
disdegnava di occuparsi di commercio, un’attività esercitata in India dalle caste
inferiori. Più fortunato fu il Roe con il viceré del Gujerat, Khurram (poi divenuto
imperatore con il titolo di Shah Jahan) il quale consentì pur senza la sanzione
di un trattato, alle principali richieste degli inglesi, desiderosi di acquistarvi
prodotti, soprattutto tessuti di cotone, che poi scambiavano con le spezie a
Sumatra, dove avevano costituito ad Ajheh, Priaman e Djambi delle fattorie;
sulla costa occidentale di Giava (Bantam) e a Macassar, nell’isola di Celebes. Da
Surat iniziò la penetrazione inglese in India. Nel 1619 la Compagnia possedeva
fattorie oltreché a Surat, ad Agra, Ahmadabad, Broach e Masulipatam. Il fattore
di Surat fu nominato presidente con autorità su tutte le fattorie in India e sul
commercio con la Persia e nel mar Rosso.
In un primo tempo vi fu tra la Compagnia britannica e quella olandese
un’aspra rivalità, che sfociò in numerosi incidenti. Gli inglesi erano assai meno
aggressivi degli olandesi e cercavano di mantenere ai loro traffici un carattere
pacifico; ma dovunque venivano in contatto e si trovavano in concorrenza con gli
olandesi che, a loro volta, avevano costituito fondachi a Surat, Ahmadabad, Agra
e Masulipatam e si opponevano a che gli inglesi facessero altrettanto nelle
Molucche. Quando in Olanda andò al potere il partito orangista, sostenuto dagli
inglesi, il desiderio di evitare un conflitto in Oriente indusse nel 1619 i rispettivi
governi a promuovere un accordo tra le due Compagnie. Questo, firmato il 17
luglio, stabiliva: che il pepe fosse acquistato in parti uguali dalle due compagnie;
che agli inglesi fosse riservata una quota di 1/3 del commercio delle altre spezie;
che si costituisse un Consiglio di difesa composto di 4 membri per ciascuna
Compagnia con a disposizione una flotta di 20 navi (10 per parte) al comando
di un inglese e mantenuta a spese degli inglesi. L’accordo, voluto dai governi, fu
giudicato insoddisfacente da entrambe le Compagnie e in particolare da quella
olandese, che considerava ingiustificata la concessione agli inglesi di una quota
relativamente alta nel commercio delle spezie. Vi furono incidenti, il più gra ve
dei quali si ebbe ad Amboina, dove, nel febbraio del 1623, il governatore
olandese dell’isola, van Speult, fece arrestare l’agente commerciale britannico
Towerson, insieme a 18 compatrioti, e lo condannò a morte con 8 di questi,
nonostante non fosse stata menomamente provata l’accusa di avere
complottato contro il potere olandese.
Da questo momento le due Compagnie cessarono dal collaborare. La rivalità
commerciale si riaccese e non mancarono episodi di conflitto armato
specialmente in coincidenza della prima (1652-54) e della seconda (1667) guerra
per l’Atto di Navigazione; e con il periodo in cui, essendo Carlo II alleato dei
francesi contro l’Olanda e l’impero, gli olandesi cercarono di tagliare le
comunicazioni tra la fattoria inglese di Surat e Bombay; ma nel complesso una
guerra totale tra le due Compagnie fu evitata perché l’espansione inglese si
orientò sempre più verso l’India e quella olandese verso l’Insulindia. Anche se gli
olandesi conservarono basi a Negapatam sulla costa orientale, a Cochin su quella
occidentale e a Chinsura nel golfo del Bengala, queste servivano non al
commercio con l’Europa, ma ad acquistare prodotti indiani — soprattutto
cotonate — da scambiare con i prodotti dell’Insulindia, che erano poi inviati
nella madrepatria.
In India, nella seconda metà del Seicento, gli inglesi avevano acquistato una
preminenza assoluta. Fino al 1612 la Compagnia aveva organizzato «viaggi
separati»; vale a dire che ogni viaggio era finanziato dai sottoscrittori che, alla
sua conclusione, si dividevano i profitti. Nel 1612 essa si trasformò in una
società anonima, con un capitale fisso e un dividendo distribuito alla fine di ogni
anno finanziario. Era retta da un Consiglio dei Direttori eletti da un’Assemblea
dei Proprietari e responsabili verso di essa, che era formata da tutti i soci
sottoscrittori per almeno 500 sterline. I Direttori, in numero di 24, erano suddivisi
in 10 Comitati, simili a dei dicasteri. Il più importante era il «Comitato per la
corrispondenza», che sovrintendeva ai rapporti con l’apparato della Compagnia
in India. Questo era composto da 4 categorie di funzionari, gerarchicamente
ordinati.
In un primo tempo si cercò di unificare la direzione delle fattorie prima a
Surat poi a Bombay. Successivamente, furono istituite tre diverse presidenze,
ciascuna dipendente direttamente da Londra, con capitale a Madras, fondata
nel 1641 nei pressi del Forte St. George; a Bombay, portata in dote da
Caterina di Braganza a Carlo II nel 1661 e da questi ceduta alla Compagnia per
un affitto annuo nominale di 10 sterline; e a Calcutta, nata dalla fusione intorno
al Forte William di tre villaggi: Kalikata (che le diede il nome), Sutanuti e
Govindapur, sui quali la Compagnia aveva acquistato dal nawab del Bengala nel
1698 lo zamindari, cioè il possesso accompagnato dalla giurisdizione e da poteri
di polizia. Ogni presidenza era retta da un governatore, assistito da un consiglio
con poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. La Compagnia non era più solo
un’impresa commerciale, ma anche un’organizzazione politica, che esercitava
taluni poteri sovrani. Tali poteri le erano stati conferiti dalla carta costitutiva e
ampliati in occasione dei successivi rinnovi, specialmente da Cromwell nel 1657
e da Carlo II nel 1683. Comprendevano la facoltà di armare le proprie navi — i
grandi Indiamen che collegavano l’India all’Europa — di assoldare truppe
indigene, di far guerra e di concludere trattati con i potentati indigeni, di
catturare e giudicare gli interlopers, i violatori cioè del monopolio, di
nominare i governatori delle varie presidenze dotati del potere di legiferare sui
territori della Compagnia e di esercitare sui suoi dipendenti e sudditi indigeni la
giurisdizione penale e civile, secondo le leggi inglesi ma, se i giudicandi erano
indigeni, tenendo conto delle consuetudini locali.
La Compagnia ebbe un’alterna fortuna. Da principio furono pagati alti
dividendi, ma vi furono periodi in cui la Compagnia sarebbe fallita se non
avesse ottenuto consistenti prestiti dal governo inglese. Una delle spine mai
eliminata era costituita dal contrabbando esercitato in proprio dagli stessi
funzionari (mal pagati) e dai capitani di nave, che decurtava i profitti. Sotto
Carlo I la Compagnia perdette il suo monopolio. Il sovrano, che aveva bisogno di
fonti di finanziamento indipendenti dal parlamento, consentì la formazione di una
Compagnia rivale, la Courteen Company che, avventurosamente amministrata,
gettò grave discredito sul commercio britannico. Cromwell restituì alla vecchia
Compagnia la sua posizione dominante, in riconoscimento dell’appoggio
ricevutone durante la guerra civile. Alla restaurazione, seguì un trentennio di
grande prosperità, con profitti dal 20 al 40%; ma dopo la seconda rivoluzione, i
whigs, contrari al monopolio, ne ottennero l’abolizione e di nuovo si costituì una
Compagnia rivale, la English Company of Merchants, che tuttavia non riuscì mai
a far concorrenza alla vecchia Compagnia, cosicché nel 1708-09 dovette
accettare di fondersi con questa in una United Company of Merchants of
England Trading to the East Indies. Nel 1711 la Compagnia assunse il nome
definitivo che doveva conservare fino al suo scioglimento nel 1858, di English
East India Company.
Nei primi decenni del Seicento l’attività commerciale della Compagnia era
limitata all’esportazione in Europa di spezie, specialmente pepe, ma anche chiodi
di garofano e cannella. Ma le spezie si trovavano soprattutto in Insulindia, sempre
più sottoposta al controllo olandese, e solo in piccola parte e di qualità inferiore
sulle coste del Malabar. Quando gli inglesi furono estromessi dall’arcipelago e
concentrarono i loro sforzi in India, le spezie passarono in secondo piano,
cedendo il posto alle cotonate tinte e stampate, ai chintz, alle mussole, alle sete,
agli scialli del Kashmir, ai broccati, al salnitro, all’indaco, all’oreficeria, ai cuoi e ai
metalli sbalzati, e poi alle porcellane, alle lacche e al tè provenienti dalla Cina.
La grande maggioranza delle importazioni dall’India era costituita dai tessuti di
cotone. Nel Settecento l’esportazione di cotonate indiane in Gran Bretagna
assunse tali dimensioni da provocare una vera rivoluzione nel costume. «La
fantasia popolare — scriveva Daniele Defoe sulla «Weekly Review» del 31
gennaio 1708 — è presa dai prodotti indiani a tal punto che i chintz e le cotonate
stampate... divengono oggetto di abbigliamento per le nostre signore: e tale è
la potenza della mota che ci è capitato di vedere anche persone di rango
agghindate con tessuti indiani». Cedendo alle pressioni dei lanieri e dei setaioli,
che si vedevano minacciati dal rapido diffondersi della nuova moda, il
parlamento inglese introdusse, a partire dal 1701, una serie di misure limitative
delle importazioni di cotonate dall’India.
La Compagnia era diventata anche una fonte di corruzione della vita politica
inglese. Essa costituiva quello che oggi si chiamerebbe un gruppo di pressione
potentissimo. Verso la fine del Settecento controllava tra 60 e 100 seggi alla
Camera dei Comuni. Molti dei funzionari della Compagnia, arricchitisi più o meno
lecitamente in India, al loro ritorno in patria cercavano di ascendere socialmente
anche attraverso la carriera parlamentare al servizio degli interessi della
Compagnia. «Senza conoscenze, senza alcun interesse per la proprietà terriera
— lamentava William Pitt — questi importatori di oro straniero si sono aperti la
strada al seggio parlamentare con un giro tale di corruzione a cui nessun
patrimonio privato avrebbe potuto resistere». Anche gli economisti, influenzati
dalle idee liberiste, protestavano contro la Compagnia, che era assai più
interessata a vendere con buoni profitti sul mercato europeo i prodotti indiani,
che ad aprire ai prodotti inglesi un mercato in India. Le esportazioni
dall’Inghilterra erano limitate a pochi prodotti: tessuti di lana, metalli, utensili
domestici, prodotti alimentari. Il valore delle importazioni dall’Inghilterra non
copriva, nei primi 50 anni, più di 1/4 delle esportazioni; il rimanente doveva
essere pagato in oro e in argento. Successivamente, la Compagnia potè
riequilibrare la sua bilancia con i proventi del country trade (cioè del commercio
interno) e con il commercio cinese.
I prodotti inviati in Gran Bretagna erano forniti da un artigianato indigeno
raffinato e abbastanza numeroso specialmente in alcuni centri come Surat, Agra,
Ahmadabad, Benares, che lavorava per le corti e per i signori. La Compagnia si
era inserita nello schema del commercio esistente, acquistando questi prodotti o
direttamente per mezzo di propri agenti o più spesso per mezzo di
intermediari indigeni. Gli uni e gli altri impegnavano la produzione fornendo
agli artigiani degli anticipi o in natura o in denaro e finendo così per ridurli in
proprio potere. Nelle città della costa, specialmente nel Gujerat e nel Bengala,
ma anche nel Coromandel e nel Malabar, esisteva, quando giunsero gli europei,
una classe di mercanti in prevalenza musulmana o parsi, non molto numerosa
rispetto alla stragrande maggioranza dei contadini che vivevano nel chiuso
ambito del villaggio autosufficiente, ma intraprendente, anche se frenata nel suo
sviluppo dalla limitatezza del mercato e dalla difficoltà di detenere capitale
liquido, esposta com’era alla rapacità dei sovrani e dei signori locali. Molti di
questi mercanti si arricchirono lavorando con la Compagnia e costituiro no il
nucleo di quella borghesia occidentalizzante che, dopo la conquista dell’India
da parte degli inglesi, assunse un ruolo economicamente, socialmente e
politicamente importante.
Fino alla metà del Settecento la Compagnia si attenne, tranne che per un
breve periodo, quando si lasciò coinvolgere in una guerra contro Aurangzeb,
ai saggi consigli del suo ambasciatore sir Thomas Roe: «Se mirate al profitto,
cercatelo sul mare e nella pace dei traffici». Ma successivamente, con
l’anarchia che si instaurò dopo la morte di Aurangzeb e di fronte alla
concorrenza della Compagnia francese delle Indie fondata dal Colbert nel
1664 e fattasi minacciosa a partire dei primi decenni del XVIII secolo, gli
inglesi, come gli olandesi, furono trascinati nelle rivalità dei potentati indiani
emersi dalla disintegrazione dell’impero dei Moghul e si resero conto, come
scriveva ai direttori il governatore di Bombay sir Gerald Aungier poco prima di
morire, che «i nuovi tempi vi impongono di condurre il commercio con le armi in
pugno». Con la sconfitta inflitta da lord Clive al nawab del Bengala nella
battaglia di Plassey il 13 giugno 1757, si chiudeva la prima fase
dell’espansione coloniale europea in Asia, prevalentemente commerciale, e ne
incominciava una nuova, che culminerà nel fenomeno imperialista della
seconda metà dell’Ottocento.

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