Segni Particolari (Fuori Collana) (Italian - Giuseppe Sorgi
Segni Particolari (Fuori Collana) (Italian - Giuseppe Sorgi
Segni Particolari (Fuori Collana) (Italian - Giuseppe Sorgi
SEGNI
PARTICOLARI
Progetto grafico
Caterina Ferrante
Editing
Matteo Trevisani
Redazione
Maria Elena Marrocco
ISBN: 9788831498234
Introduzione
Patti chiari…
Di certo Freud non avrà gradito, avverso com’era a ogni divagazione poco
terrena. Così come non gradiscono tutti coloro che, oggi come allora,
reputano idiota l’idea che il nostro carattere venga in qualche modo
condizionato dal cielo sopra di noi. E hanno ragione, è un’idea idiota! La
scienza in questo ci giunge in aiuto. La meccanica quantistica per esempio
ha dimostrato l’esistenza di una rete di interazioni energetiche, detta
entanglement, che correla particelle subatomiche distanti fra loro anche
migliaia di chilometri; mentre il fisico e astronomo Lawrence Krauss, a
proposito delle sostanze di cui è composto anche il nostro organismo,
afferma:
La cosa sorprendente è che ogni atomo del tuo corpo viene da una stella che è
esplosa. E gli atomi nella tua mano sinistra vengono probabilmente da una stella
differente da quella corrispondente alla tua mano destra. È la cosa più poetica che
conosco della fisica: tu sei polvere di stelle.4
Il primo segno dello Zodiaco viene di solito dipinto come un individuo che
cavalca l’amore in modo schietto, ardito e per nulla parsimonioso. Una
sorta di impunito e solare Don Giovanni, oppure, al femminile, un’indomita
amazzone che mai cede alla presunta superiorità del maschio.
«È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele»,9 canta
Don Giovanni nella prima scena del secondo atto. Mentre l’Ariete Giacomo
Casanova nelle sue memorie dichiara: «L’amore è un divino fanciullo che
aborre la vergogna»;10 di contro Claudia Cardinale, esponente femminile
del segno, afferma: «Sono contenta di essere una donna, ma solo perché ho
capito che la donna è un essere forte, persino più dell’uomo. Talmente forte
da saper sopravvivere a dolori grandissimi, che nessun uomo potrà mai
capire fino in fondo, perché non fanno parte della sua storia e del suo
destino»11
Queste le tinte del segno. Queste le caratteristiche che moltissimi esponenti
dell’incipit dello Zodiaco fanno proprie e rivendicano per sé.
Peccato però che, osservando i percorsi sentimentali di certi Arieti, la
situazione appare ben diversa. Il piglio è lo stesso, lo smalto pure, ma
l’Ariete sabotatore sfrutta le caratteristiche del proprio segno per infliggersi
un clamoroso autogol. Così di libertino e indipendente non rimane un bel
niente, se non forse la capacità di ideare, attuare e portare a termine lo
sfacelo amoroso tutto da sé. Ah, in questo l’Ariete è leader indiscusso!
Siamo dinanzi a un segno maschile, fecondatore, incline al comando
militaresco nelle sue più basiche accezioni. Questo sia chiaro. Nello Zodiaco
simboleggia il Big Bang: un’espansione dirompente e soprattutto
autodeterminante, istintiva, fisica e immediata. Non a caso l’Ariete è il
bimbo dello Zodiaco, non potrebbe essere altrimenti, dal carattere volitivo e
capriccioso, ma dall’ideale tanto alto quanto ingenuo. Cosa che in amore si
traduce spesso in un curioso mix: un desiderio carnale, infantile e in un
certo senso mentale, teso a possedere ciò che non possiede e, al tempo
stesso, a inseguire un sogno indefinito di sentimento romantico.
Si potrebbe indugiare a lungo in definizioni tradizionali con una prosa più
o meno da manuale, ma in questa sede ci occupiamo del profilo del
sabotatore e, in quanto tale, l’Ariete è paragonabile a una sorta di
orangotango infoiato, pervaso da romantici slanci in stile Cyrano De
Bergerac. Immaginate uno scimmione che si percuote furioso (la furia
dell’Ariete è pericolosa e patologica) e poi di colpo declama poetico:
Chi amo? Su, rifletti, forza. A me è proibito il sogno di un amore con questo naso
al piede, che almen di un quarto d’ora ovunque mi precede. Allora per chi amo?
Ma questo va da sé. Amo, ma è inevitabile, la più bella che c’è.12
Così recita il protagonista del film Cyrano. Che Edmond Rostand, autore del
celebre romanzo, fosse Ariete sarà di certo una coincidenza.
In queste poche righe sono presenti due elementi che ci permettono di
comprendere i punti fermi dell’esser Ariete: il primo è il dichiaratissimo
complesso di inferiorità, tale da vedersi «proibito il sogno di un amore»; il
secondo è la tendenza a concepire la bellezza in modo assoluto. «La più
bella che c’è» non va letto in chiave soggettiva – e il testo non lascia dubbi in
proposito – ma si riferisce a quello standard di bellezza assoluta da cui
l’Ariete è ossessionato. In questo senso si può tranquillamente affermare che
l’Ariete è torturato dalla bellezza, strattonato fra l’ideale e la molteplicità
succosa del carnale.
Per dondolare su quest’altalena tuttavia ci vuole più che semplice
passionalità; serve un pizzico di autocritica, altrimenti si perde il controllo
dell’altalena e si fa un volo di quelli da finire frantumati a terra. «La mia
storia dimostra che siamo degli imbecilli quando cerchiamo fuori di noi le
cause dei nostri guai, perché sono tutte, direttamente o indirettamente, in
noi stessi»,13 afferma lo stesso Casanova. Ma da un soggetto sabotante non
si può pretendere tanta autocritica.
Pur di non confrontarsi con se stesso e con l’amore, e pur di preservare
intatto il suo dispotico status fanciullesco, l’Ariete sabotatore elabora allora
due strategie, precise e nette, nonché riconoscibili lontano un miglio: la
caccia e il vassallaggio. Sembrano due tattiche opposte, ma in realtà sono
facce della stessa arietina medaglia.
La prima tecnica, quella della caccia, consiste in un eterno safari amoroso,
in stile Don Giovanni. Una caccia irreale e al tempo stesso ideale e
allucinata, nel corso della quale il soggetto non si perde in semplici
avventurette o infatuazioni – anche se quelle non mancano mai –, ma in
autentici innamoramenti fulminanti e fulminati. Un continuo balzare di
grande amore in grande amore, tanto estenuante quanto propedeutico e
funzionale affinché l’Ariete illuda e si illuda di essere alla costante ricerca di
qualcosa di nobile e sublime. Una sorta di Santo Graal, che di volta in volta
giunge a illuminargli la vita come un lampo rivelatore.
Ma la luce del lampo dura un attimo, dopo giunge il fragore del tuono: nel
nostro caso lo schianto della testata che l’Ariete dà sul muro del suo
ennesimo, indicibile, immenso amore. Sbang! A questo punto il nostro
soggetto potrebbe fermarsi, e invece compie la scelta meno saggia e più
arietina possibile, ossia non arrendersi, accendersi, prendere la rincorsa e di
nuovo: sbang! Altrimenti che ariete sarebbe? Così insiste e insiste e sbang e
ancora sbang! In nome del suo cuore palpitante, del suo desiderio assoluto e
del suo sublime ardore. Sbang!
E più l’altro si nega, più in lui o in lei si accende la miccia. Se invece la
preda si concede o è disposta a mettersi in gioco in una relazione, et voilà, il
cielo si spegne e le saette svaniscono. L’astuzia di questo tipo di sabotaggio
non consiste quindi nella semplice smania di conquista, ma si fa assai più
sottile nel preferire colui o colei che indugia, rispetto a chi si nega (o si
concede) in modo schietto. D’altronde la rincorsa del frutto proibito, sfiorato
ma non gustato, sfidato ma non vinto, è di per sé più eccitante, più
adrenalinica e si addice in pieno alle corde dell’Ariete, che fra tutti i segni è
per eccellenza colui che desidera desiderare.
Il soggetto sabotante pertanto, meno consapevole ma in un certo senso più
furbo, traviserà il senso del desiderio, svilendolo ad alibi perfetto e
cristallizzandolo in un atteggiamento mentale pseudo-giovanile tale da
negare a se stesso ogni evoluzione. Peccato. Perché l’Ariete invece è intriso
di puro desiderio e autentico entusiasmo. «La vita non è un significato, ma
un desiderio»14 afferma Charlie Chaplin, Ariete . Ed è meraviglioso
desiderare la vita, piuttosto che desiderarne il sabotaggio.
Il titanico slancio di energie profuso dall’Ariete nell’erotico “safari”
sembrerebbe svanire nella seconda tecnica di sabotaggio: il vassallaggio.
Invece è presente più che mai! Il vassallaggio arietino prevede difatti la
scelta di un solo partner, o pseudo-tale, causa e sorgente di un’unica e
irripetibile fonte d’amore. Più che una persona la si potrebbe definire una
sorta di “entità”, fra l’astratto e il feudale, a cui l’Ariete obla da buon
vassallo la propria esistenza. L’entità in questione, tutt’altro che eletta, si
presenta per lo più come un soggetto mediocre. La classica mezza calzetta
che si spaccia per un dio in terra. Una sorta di idolo molliccio e vampiresco
al cui altare l’Ariete si inchina. Ovviamente l’Ariete con la flaccida entità
non concretizzerà mai una coppia gratificante e oggettiva, ci saranno
sempre difatti delle validissime motivazioni che impediranno l’evoluzione
della storia in qualcosa di più maturo: i figli di lui, il divorzio di lei, il mutuo
della casa, la suocera inferma, insomma, la solita roba fritta e rifritta in un
olio stantio e indigesto. E così il giochino del “safari” si ripropone condito
con una salsina diversa. Come si è detto infatti questa tattica in sostanza è
identica alla precedente. Lì il Santo Graal andava di volta in volta inseguito,
qui è stato trovato; in entrambi i casi comunque non viene mai realmente
vissuto.
L’incastro tuttavia è perfetto: per un verso la molliccia entità ha trovato il
fesso che gli regge il gioco e lo idolatra, permettendogli di realizzare i propri
comodi nonché il proprio mediocre e opportunistico standard affettivo;
dall’altro l’Ariete è riuscito anche stavolta a sottrarsi a ogni evoluzione, non
rinunciando così al solito fanciullo, ormai stagionato e grottesco, che è in
lui.
Quanto finora esposto in merito a questa seconda tecnica di sabotaggio
sembrerebbe non corrispondere a uno dei princìpi base dell’essere Ariete: la
congenita necessità di primeggiare. Tutto lascerebbe supporre che un Ariete
vassallo, prono ai piedi dell’entità, abbia accettato di scendere dal podio
delegando al partner il ruolo del leader. Ma qui bisogna avere uno sguardo
arguto, perché la furbizia arietina si fa tanto infantile quanto raffinata e
crudele. D’altronde, si sa, i bambini sanno essere spietati.
A un esame più attento infatti l’entità di cui sopra rivela delle
caratteristiche di natura economica, sociale, professionale o anche
semplicemente legate all’aspetto fisico, che in una convenzionale scala di
consenso borghese la collocano qualche gradino più giù dell’Ariete, il quale
potrà così guardarsi intorno e, più o meno consciamente, sentire appagata
la propria sete di leadership e prevaricazione (qualcosa di simile lo fa anche
il Leone). E se qualcuno con sincero affetto proverà a far notare all’Ariete
che l’entità venerata è la sua rovina, l’aggressività arietina si scaglierà allora
senza freni contro il malcapitato divulgatore di tali infamanti falsità.
Menzogne! Pronunciate, a detta dell’Ariete, soltanto per invidia e gelosia.
D’altronde l’Ariete sabotatore è specializzato nel fidarsi di parassiti
approfittatori e diffidare della gente in gamba. Fa parte della diffidenza
tipica del segno, in questo caso rigirata in modo nefasto. L’Ariete infatti, e
questo quasi mai viene sottolineato a dovere, è caratterizzato da una
profonda diffidenza verso il genere umano. Sarà pure socievole ed
estroverso, ma fino a un certo punto. Dentro cova un istinto antico.
Primitivo? Guerriero? Orango? Chissà. Comunque sia, l’altro è un
potenziale nemico, un predatore pronto a rubare la preda, qualcuno con cui
competere costantemente per garantirsi superiorità e sopravvivenza. Una
roba un po’ da caverne, ma così è. Tuttavia se l’Ariete sabotatore
rispolverasse l’autenticità di questo istinto, certamente brutale ma per altri
aspetti sano (nel senso di funzionale alla difesa della parte vitale di sé), allora
capirebbe che il suo vero nemico, in amore e non solo, per troppo tempo è
stato solo e soltanto se stesso.
M ’A
Mai non divenga un uom turpe felice,
né mai beato chi mi strugge il cuore! 15
Così recita un celebre verso della tragedia scritta da Euripide. Così Medea
dichiara la sua furia distruttiva. Una rabbia che nulla potrà fermare.
Medea infatti ucciderà Glauce, la donna per cui il marito Giasone l’ha
lasciata, ucciderà Creonte, padre di Glauce e, pur di distruggere
completamente l’uomo che ha amato, giungerà persino a trafiggere con la
spada i suoi stessi figli, quei due amatissimi figli avuti da Giasone. Tutto,
purché tutto venga distrutto. Senza alcun discernimento. Senza freno. In
una valanga distruttiva che non trova argini, finché Giasone stesso non si
toglierà la vita.16 Non farà lo stesso Medea però, devastata ma convinta del
suo operato.
Una storia terribile, che Euripide mette in scena così come la racconta il
mito. Si tratta tuttavia dell’epilogo di una vicenda ben più lunga e
complessa.
A tal proposito spesso in numerosi libri di astrologia ho trovato indicato,
come mito corrispondente al segno dell’Ariete, semplicemente la conquista
del vello d’oro a opera di Giasone. Vi confesso che per anni non riuscivo a
cogliere il nesso fra questa impresa e il primo segno dello Zodiaco. Sì,
d’accordo, il coraggio, l’ardimento, l’aureo ariete sbrilluccicante, eppure mi
è sempre parso troppo poco, troppo vacuo per tratteggiare il carattere
arietino. E vi confesso anche che, pur amando Medea di Euripide,
stupidissimo e cieco, ancora non mettevo insieme i pezzi. Il punto è che non
è possibile estrapolare soltanto una parte del mito, in questo caso quella
della conquista del manto d’oro. Perché le gesta di Giasone fanno parte di
una storia più ampia, hanno un movente e delle conseguenze e, soprattutto,
hanno origine in un carattere che sente, brama e agisce in un determinato
modo: da Ariete, appunto.
Se la mitologia racconta in fiaba quel che l’astrologia condensa in simboli,
bisogna ricordare allora che fu Medea ad aiutare Giasone in quell’impresa
altrimenti impossibile. E prima ancora, bisogna ricordare che il vello d’oro
fu emblema non di un singolo episodio, ma addirittura di una stirpe intera,
in cui follia, avidità e uccisioni dei figli costituiscono l’affettuoso filo
conduttore che unisce ben tre generazioni.
Ecco che, con buona pace degli Arieti più impazienti (praticamente tutti),
per comprendere il mito corrispondente a questo segno bisogna
inevitabilmente analizzare ogni passaggio della vicenda, cominciando dal
principio della storia. D’altronde, astrologicamente parlando, il principio è
l’Ariete. Pertanto vi chiedo un pizzico di attenzione, pazienza e riflessione.
Lo so, parole sconosciute all’Ariete.
Tutto comincia con Issione che chiede in sposa Dia, promettendo al padre
di lei preziosissimi doni. Sposata la fanciulla però, Issione non solo non
donò quanto promesso, ma uccise a tradimento il suocero facendolo
precipitare in una fossa di carboni ardenti. Eh, all’Ariete l’ardore piace! La
follia fu la punizione per quel delitto.
Zeus però ebbe pietà di Issione e gli concesse la grazia di rinsavire. Ma
quell’uomo era incapace di frenare la propria arroganza e le proprie brame
smodate, tanto da provare a violentare persino Era, moglie di Zeus! E allora
nessuna pietà. Il padre degli dèi creò Nefele, la dea delle nubi, che prese le
sembianze di Era e ingannò Issione. Quest’ultimo infatti la concupì e da
quell’unione nacquero i mostruosi centauri; quindi Zeus legò l’ingrato a una
ruota ardente e lo lanciò nel cielo. Nefele, infine, per volere di Era, fu data
in sposa al re Atamante. E così si conclude la prima arietina generazione.
Fin qui mi pare semplice.
Secondo tempo, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.
Dall’unione di Atamante e Nefele nacquero due figli, un maschio, Frisso, e
una femmina, Elle. Atamante tuttavia ben presto lasciò la moglie per
convolare a nuove nozze con un’altra donzella, carina, affettuosa, tanto
amorevole da convincerlo, per gelosia, a uccidere i figli del precedente
matrimonio. Nefele allora, per salvare Frisso ed Elle, li avvolse in una nuvola
e li pose in groppa a un ariete alato dal manto d’oro, dono di Ermes, per
fuggire lontano. Ma Elle cadde in mare e morì (da cui il nome del mare
Ellesponto). Soltanto Frisso si salvò e, giunto in Colchide, sacrificò l’ariete a
Zeus in segno di riconoscenza, appese il vello d’oro a una quercia del bosco
consacrato ad Ares, e sposò la figlia del re di quella regione. A custodia del
vello verranno posti quattro tori infuriati e un drago sputafuoco che non
dormiva mai. Nel frattempo Atamante e la dolce mogliettina furono puniti
dagli dèi con la pazzia, si suicidarono e trascinarono con sé i loro due figli.
Fine secondo round. Una boccata d’aria perché la storia si fa pesante.
Approfittando della pausa è opportuno sottolineare un simbolismo: Elle e
Frisso rappresentano la componente femminile e quella maschile della
psiche umana. Il femminile viene schiacciato, tanto da perdersi, e Frisso nel
salvarsi preserva soltanto se stesso: all’Ariete insomma resta soltanto
l’elemento maschile.
Terzo round. Dopo la tragica fine di Atamante, sul trono gli succedette
Esone, padre di Giasone, che però fu ingiustamente spodestato dal
fratellastro Pelia. Giasone quindi, una volta cresciuto, volle rivendicare la
legittimità del trono e si oppose allo ziastro, il quale, sapendo di avere torto
marcio, gli impose come condizione una sfida impossibile: riconquistare
quel famoso vello d’oro. Ed eccoci finalmente tornati a tempi, diciamo così,
più recenti, ovvero alla celebre impresa di Giasone. Il giovane infatti accettò
la sfida: con l’aiuto di Era venne costruita una nave di nome Argo e
Giasone, insieme ad alcuni illustri compagni, detti appunto “Argonauti” (fra
cui vale la pena ricordare Orfeo, Teseo, Castore e Polluce) salpò alla volta
della Colchide e del bosco sacro. Nel corso del viaggio l’equipaggio dovette
affrontare numerose e terribili prove ma, alla fine, il prezioso vello fu
conquistato. Magnifico! Peccato però che non fu né il valore di Giasone, né
quello dei suoi compagni a garantire il buon esito della vicenda, bensì
l’indispensabile aiuto di Medea: innamoratasi di Giasone, infatti, utilizzò le
sue arti magiche per immobilizzare i quattro tori, addormentare il drago e
tagliare in pezzi lo zio Pelia.
Senza Medea, insomma, Giasone il vello lo avrebbe conquistato sintetico,
altro che d’oro!
C’è poi un altro piccolo dettaglio, non proprio trascurabile: Medea era la
figlia del re della Colchide (la dinastia successiva, diretta discendenza di
Frisso. Tutto torna!) e, pur di aiutare Giasone, dovette agire contro il volere
del padre e di tutta la famiglia, pagando un prezzo altissimo. Ma nonostante
tutti gli sforzi compiuti e le vittorie conseguite, Giasone decise in ultimo di
non affrontare il figlio di Pelia e preferì piuttosto dirigersi a Corinto. Medea,
ormai sua inseparabile amata, lo seguì senza indugio. Qui i due si
stabilirono, si sposarono, nacquero due figli, vissero felici per alcuni anni,
finché… Giasone lasciò la famiglia per sposare la figlia del re di Corinto,
bella, giovane ed erede al trono. E a questo punto Medea s’incazza. Eccome
se s’incazza! Il resto già lo sapete.
Ecco che limitare il riferimento mitologico dell’Ariete alla semplice
conquista del vello d’oro è del tutto riduttivo e inaccettabile. Altro che
lanugine dorata! L’Ariete in queste tre generazioni è Issione, è Atamante ed
è Giasone. Tre uomini pervasi da pulsioni forti, incontentabili e, soprattutto,
incapaci di portare avanti un progetto: raggiunto lo scopo non c’è
costruzione. A guardarli bene sono lo stesso personaggio che tenta una
trasformazione, un’evoluzione puntualmente mancata. Sono insomma
sabotatori ! Di se stessi e di ciò che hanno ottenuto. «Giasone è uno dei
pochi eroi che non si compie»17 fa notare appunto Lidia Fassio. Follia e
morte sono conseguenza costante di una tal condotta.
Nefele, Elle e Medea rappresentano invece la componente psichica
femminile dell’Ariete. Quella parte femminile che l’Ariete tende ad
amputare, ma con cui deve necessariamente fare i conti, poiché una psiche
coniugata soltanto al maschile non regge. Non ce la fa. Come Giasone, che
non riesce nella sua impresa se non grazie a Medea. È Medea che mette
fuori gioco tutti gli elementi maschili avversi a Giasone: è insomma il
femminile ad affrontare quel maschile che il maschio Giasone non risolve.
In quanto simbolica espressione del femminile, Medea compie il tutto per
amore, attraverso la magia e lo spirito di sacrificio e dinanzi il banale,
sciocco e letale sabotaggio di Giasone, questo stesso femminile esplode.
Senza razionalità e senza margini di salvezza. Si scatena allora una furia
talmente potente da superare la distruzione di cui è capace Marte, pianeta
dominante il segno dell’Ariete.
L’agire di Medea, infatti, in quanto eros femminile, più che di un arietino,
fallico e marziano raptus di collera, assume tutte le caratteristiche di una
scorpionica, programmatica vendetta, dove l’erotismo collassa nella morte.
A tal proposito vale la pena ricordare che Ariete e Scorpione sono
entrambi dominati da Marte, ma con una valenza assai diversa: mentre
nell’Ariete il pianeta è, diciamo così, assoluto e solitario, foriero soltanto
delle sue caratteristiche maschili e per nulla sovrastrutturate, nello
Scorpione Marte è invece affiancato a Plutone e Mercurio. È guerra, abisso,
rappresentazione scenica e intelletto. Ecco perché Medea è così
scorpionesca. Ed ecco perché il destino che riserva per sé non è morire, ma
soffrire nella consapevolezza delle terribili colpe commesse. Colpe di cui si
strazia, ma non si pente.
Dopo tre generazioni, l’Ariete Giasone ha preferito ancora una volta
ascoltare soltanto quel puer che alberga nel suo ego. Pertanto la sua parte
femminile, Medea, alla fine lo ha massacrato.
In questa saga la mitologia descrive alla perfezione il carattere e le
dinamiche del sabotatore Ariete: un impulsivo insoddisfatto, fallico, privatosi
del suo femminile, specializzato nell’accendersi invano e nel non saper
godere di ciò che ha costruito. Più che dalla smania di conquista, l’Ariete
sabotatore è vittima allora di un’egocentrica infantilità sbilanciata al
maschile.
D’altronde in questo segno, come afferma Lisa Morpurgo,
Il sole è un sole neonato, fiero di possedere testicoli e pene, ma ancora
parzialmente ignaro della loro complessità, e dunque attratto soprattutto dal loro
valore totemico. Da qui la tendenza alla fallocrazia, a un virilismo o machismo
mentale.18
I T
Con martellante ostinazione tipica del segno, i due aggettivi su cui bisogna
insistere per comprendere il Toro e il suo eventuale sabotaggio sono: “orale”
e “perimetrale”. Si tratta di due peculiarità strettamente connesse l’una
all’altra, quasi fossero la doppia elica di un astrologico che impone a
questo segno un condizionamento ben preciso: «Fissare i valori di ciò che si
forma e si sviluppa»,20 per usare la definizione di Barbault.
Condizionamento che ovviamente il soggetto sabotante attua in modo
distruttivo.
Sul perché il Toro sia da definire psicologicamente “orale”, con tutte le
implicazioni annesse e connesse, spero di essere stato sufficientemente
esaustivo nel paragrafo precedente; in merito alla sua natura “perimetrale”
invece, reputo necessario un approfondimento, in quanto tale definizione
non solo rischia di risultare arbitraria, ma soprattutto apparentemente
antitetica allo stile di un sabotatore il cui gusto, in sintesi estrema, è quello di
masticare all’infinito un boccone amaro.
Come mai un soggetto che adora mettere “paletti” a cose, fatti e persone,
non riesce a piazzarne uno, netto e preciso, come limite a quella tal
situazione? Come mai l’indole perimetrale taurina in questo caso viene
meno? Il punto è che non viene meno affatto, anzi, il Toro sabotatore forgia
paletti a più non posso, ma li utilizza non per “fissare valori”, bensì per
costruire un labirinto dentro cui chiudersi e che di continuo maneggia pur
di non trovare mai la via d’uscita. Più delimitato e fissato di così!
Mi rendo conto che, espressa in questi termini, resta una teoria troppo
soggettiva e astratta, e l’astrazione e la soggettività il Toro le annusa come
pietanze poco appetibili. Per fortuna a rendere il tutto più attendibile e
gustoso giunge in nostro soccorso la mitologia, la quale in questo caso si
esprime con una chiarezza a dir poco disarmante: il mito associato al segno
è infatti quello del celebre Minotauro, ovvero la mostruosa creatura dal
corpo umano e dalla testa taurina che, rinchiusa nel labirinto di Creta, si
nutriva di carne umana. Eloquente, sintetico e mitologicamente
inoppugnabile! Tuttavia non si può certo liquidare così la faccenda perché,
come sempre accade nei racconti mitologici, il singolo fatto fa parte di una
storia più complessa, in cui le azioni dei protagonisti danno un senso preciso
al divenire degli eventi. Perciò anche il nostro Minotauro ha una sua origine
e una sua fine, un prima e un dopo. Ed è lì che bisogna indagare con
maggiore accuratezza, perché in quel prima e in quel dopo c’è tutto il
significato che il simbolo mitologico riassume. Non solo, ma prima e dopo
sono anche le due direzione su cui ogni sabotatore non gradisce
l’attenzione dell’osservatore, più che mai il sabotante Toro, che nella sua
apparente placidità quotidiana annega il passato e confonde il futuro.
Euripide racconta, tramandando a sua volta un ancor più antico mito
cretese, di una bellissima fanciulla di nome Europa, figlia del re greco
Agenore, della quale Zeus si innamorò. È risaputo che il padre degli dèi non
conosceva limitazioni erotiche: quel che desiderava prendeva, e così fece
con Europa. Tuttavia, per non spaventarla, mentre la donzella passeggiava
all’alba su una spiaggia, decise di avvicinarsi a lei assumendo le fattezze di
un possente, placido, toro bianco. Europa allora prima accarezzò il
bell’animale, poi gli montò sulle spalle, quindi lo cavalcò aggrappandosi alle
sue candide corna. Inutile indugiare sul perché una tizia sana di mente
passeggi all’alba su una spiaggia, veda un toro bianco, gli salti addosso e lo
monti tenendolo per le corna. Sta di fatto che Europa questo fece.
A quel punto però il divino bove con la fanciulla in groppa attraversò il
mare a divina velocità e giunse in un lampo sull’isola di Creta. Lì il padre
degli dèi riprese le sue sembianze. Dinanzi cotanta possanza Europa si
innamorò all’istante e, per nulla intimorita o turbata, pare nemmeno
spettinata dal viaggio, con rinnovato slancio continuò a montare, cioè a
cavalcare, insomma avete capito, a intrattenersi divinamente con Zeus.
Dietro questa romantica vicenda il mito cela il principio femminile
fecondato dal principio maschile, la Luna rapita al mattino dal Toro solare.
Ma cosa c’entra il Toro col Sole fecondante? Non è quello un simbolo
astrologicamente connesso all’Ariete? La mitologia straparla come una
decrepita svagonata? Niente affatto.
Scavando infatti nel passato più remoto di questo segno dello Zodiaco ci si
imbatte in una sorpresa mozzafiato: qualche millennio fa il Toro era l’incipit
dello Zodiaco. Ebbene sì. Più o meno dal 4380 a.C. al 2220 a.C. l’equinozio
di primavera cadeva infatti nella porzione di cielo occupata dalla
costellazione del Toro. Fu soltanto dopo il 2220 a.C. che il Sole
dell’equinozio primaverile prese a sorgere in una “nuova” costellazione,
ovvero l’Ariete. Prima di allora il Toro apriva lo Zodiaco. A tal proposito è
doveroso ricordare che proprio lo spostamento degli equinozi è il dato
scientifico più usato da molti razionalisti a prova dell’assoluta infondatezza
dell’astrologia. Eppure lo Zodiaco regge. Tuttavia qui l’elemento centrale è
un altro: il pio bove era l’inizio del tutto. Nell’antico Egitto infatti Osiride
viene raffigurato come un Toro, mentre in Mesopotamia il Toro rappresenta
il Sole fecondante e al tempo stesso la matrice, l’utero del cosmo. La
mitologia insomma è sempre infallibile.
Ma tornando a Europa, come proseguì la sua vicenda amorosa? A
dispetto dei mal pensanti, quella con Zeus non fu affatto un’avventura, anzi
dalla loro unione nacquero tre figli, Sarpedonte, Radamante e Minosse. Per
dar loro un padre terreno, Zeus ebbe cura di dare in sposa Europa al re di
Creta, Asterio. Alla morte di Asterio furono Radamante e Minosse a
contendersi il regno; Minosse sostenne però di essere lui il prescelto e
pertanto chiese agli dèi un segno in tal senso. La richiesta fu esaudita:
Poseidone fece emergere dal mare uno splendido toro bianco, a condizione
che venisse poi sacrificato in suo onore. Il nuovo re di Creta però, che del
caratterino del Toro tanto incarna, pensò bene di tenere per sé quel
meraviglioso toro e di sacrificarne al dio un altro meno particolare. La
punizione di Poseidone fu sopraffina.
Minosse ebbe sì un regno fiorente, ma nell’amata moglie Pasifae
lentamente proruppe un qual certo pruritino per quel bianco toro, tanto che
la regina si concesse all’animale. Vizio di famiglia, come la suocera
insomma. Ma stavolta la progenie fu mostruosa: da Pasifae nacque infatti
una creatura dalla testa taurina e dal corpo umano, il Minotauro, che si
cibava soltanto di esseri umani vivi.
Con la pratica strafottenza tipica del segno, Minosse non si scompose
alquanto; decise che gli ateniesi, su cui aveva riportato un’importante
vittoria, avrebbero provveduto a donare ogni anno, come prezzo della
sconfitta, dodici fanciulli e dodici fanciulle da dare in pasto al mostro;
mostro che fu rinchiuso nel labirinto appositamente costruito nel palazzo
reale. Tutto a posto. “Massimo rendimento col minimo sforzo”, la solita
snervante filosofia del segno del Toro. E bisogna dire che per un po’ la cosa
funzionò, mentre il regno di Minosse proseguiva fiorente.
Ma il filo del ragionamento prima o poi abbatte ogni recinto. Teseo infatti,
figlio del re d’Atene, stanco del supplizio subito dalla sua città, decise di
recarsi a Creta per uccidere il Minotauro. E chi s’innamora di Teseo?
Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, la quale ebbe un’idea geniale: un filo!
Un semplice filo. Teseo ne portò con sé un estremo nel labirinto e Arianna
tenne l’altro fuori. Così il giovane uccise il Minotauro e, seguendo il filo,
riuscì a ritrovare la via d’uscita. I due innamorati allora fuggirono insieme e
da quel momento il regno di Minosse cominciò il suo inesorabile declino.
Da Europa ad Arianna, da Zeus a Teseo, passando per Pasifae, Minosse e
il Minotauro, la morale della “favoletta” mi pare eloquente. Ogni elemento
terreno, per quanto figlio del divino, deve rispettare sempre quel
sovraterreno da cui deriva; altrimenti una basica materialità, seppur
apparentemente florida, finisce per trasformare l’individuo in un mostro
antropofago recluso in un labirinto. Il Minotauro è pertanto il simbolo che
rappresenta e racchiude, in chiave distruttiva, l’elemento “orale” e quello
“perimetrale”.
A onor del vero il corso degli eventi non finisce qui.
Anche Teseo, infatti, eroe dalle mille imprese, verrà schiacciato
dall’ottusità taurina. La storia è bellissima e chi vorrà approfondirla non ne
resterà deluso. Tuttavia qui sono costretto a ridurla all’osso: Teseo
abbandona Arianna prima ancora di arrivare ad Atene, sposa Melanippe,
da cui ebbe un figlio, Ippolito; diviene re, ma resta vedovo, quindi in
seconde nozze sposa Fedra, sorella di Arianna, un matrimonio di
convenienza ordito da Minosse e dallo stesso Teseo. Ma Fedra è di ben altra
pasta rispetto alla sorella, presto infatti si incapriccerà di Ippolito e, vistasi
malamente rifiutata, per vendicarsi accusa il figliastro di averla sedotta.
Teseo le crede (perché Fedra dovrebbe mentire?) e chiede a Poseidone di
punire il figlio. Il dio accoglie la richiesta e ancora una volta farà emergere
dalle onde un toro bianco, il quale ucciderà Ippolito, non prima però di far
comprendere a Teseo che il figlio era innocente. Lo strazio è infinito. Teseo
presto morirà e così terminerà il suo regno.
Labirinti familiari, labirinti della mente, promesse disattese,
perseguimento ottuso di un ragionamento basico, inchiodato al materiale,
privo di qualunque astrazione e pertanto di autentica libertà.
Se Teseo fosse ricorso ancora una volta al filo, sarebbe uscito salvo da un
altro labirinto. Ma l’idea del filo fu di Arianna, non sua. Probabilmente
Teseo aveva forza per le sue imprese, non il buon senso e la fantasia per
pensare a un sottile, semplicissimo filo. Forse è sempre così. Dal di dentro
nessuno di noi è in grado di trovare da solo l’uscita; ci vuole l’aiuto saggio e
amorevole di qualcuno che da fuori regga il cordoncino di eventi che
sembrano schiaccianti e prioritari, quando invece la via d’uscita è lì che ci
aspetta. Forse la vera eroina di tutta questa storia fu Arianna, che gli dèi
raccolsero dove era stata abbandonata da Teseo e innalzarono ai massimi
onori del cielo. Forse il Toro dovrebbe ascoltare il suo lato venusiano. Ma il
Toro sabotante purtroppo è chiuso in mastodontiche certezze. Speriamo che
il solletico di questi forse stuzzichi in lui quel sano appetito di vita per cui è
celebre nello Zodiaco.
GEMELLI
IG G
Il mito corrispondente al segno dei Gemelli è inequivocabilmente quello dei
Dioscuri, ovvero Castore e Polluce, due celebri gemelli della mitologia.
Analizzando bene la parentela però, i due non sono proprio gemelli, lo
sono quasi, anzi a guardar meglio non sono nemmeno del tutto fratelli. Ed
ecco che già nella premessa le certezze diventano quasi certezze e i legami
quasi legami, consegnandoci un quid tipico del terzo segno dello Zodiaco. Si
narra che Leda, regina di Sparta e sposa felice di Tindaro, un giorno si
ritrovò attratta da un possente, immacolato cigno. Una fascinazione
incontenibile e per nulla platonica, tanto che Leda, dimentica di ogni regale
protocollo o seppur minimo freno inibitore, decise di concedersi seduta
stante al grosso pennuto. Una pazza? A sua discolpa va detto che dietro
quelle mentite spoglie si celava addirittura Zeus, il quale, quando si
incapricciava di qualcuno, era solito assumere le sembianze di un fantastico
animale e, agguantata la preda, svelava la sua identità soltanto prima di
consumare il fattaccio.
Resta però inspiegato in questo caso perché proprio il cigno; forse Zeus,
che tutto sapeva, era a conoscenza delle inclinazioni della regina per i
possenti, candidi pennuti? Chissà.
Pur nondimeno, da quel fugace e volatile amplesso, Leda rimase incinta.
Di Castore e Polluce, direte voi. Sì e no. Sarebbe troppo semplice e la
faccenda non mai è così semplice quando si ha a che fare col segno del
Gemelli. Leda infatti, che doveva essere di robusto appetito erotico, una
volta rientrata a casa, si abbandonò a un secondo amplesso col marito e
anche stavolta rimase incinta.
Com’è possibile, vi chiederete? Eh, con i Gemelli tutto è possibile!
Il mito racconta difatti che Leda portò avanti una duplice gravidanza, alla
fine della quale nacquero, non due, ma addirittura quattro gemelli, per
l’esattezza due immortali, figli di Zeus, e due mortali, figli di Tindaro:
rispettivamente Castore e Clitennestra, Elena e Polluce. Una gemellare
portentosa quaterna. O un doppio miracoloso ambo, fate voi.
A questo punto vi devo confessare che, a proposito del mito dei Dioscuri,
non ho mai capito perché poco o nulla vien riferito delle due sorelle,
quando non solo sono parte integrante del mito stesso, ma addirittura sua
rappresentazione femminile; inoltre le due fanciulle sono personaggi chiave
del gossip mitologico, ben più di Castore e Polluce, pertanto non si può
certo eludere la loro storia.
Clitennestra infatti, è nientemeno che la moglie dello spartano
Agamennone, re dell’Argolide ed eroe nella guerra contro Troia. Donna
seducente e drammatica, nel mito incarna il rancore e l’inganno. Al marito
infatti non perdona di aver sacrificato la loro unica figlia agli dèi pur di
sconfiggere i troiani; e quando costui torna vincitore a Sparta, lo accoglie
con un machiavellico discorso, così messo in scena da Eschilo:
Ma ora, mio caro, scendi da questo carro, senza posare a terra il tuo piede che ha
distrutto Troia. E voi ancelle, cui è stato assegnato il compito di coprire di drappi il
suolo su cui deve camminare, che aspettate? Subito si prepari un cammino coperto
di porpora, perché Giustizia lo conduca alla sua casa che non sperava più di
rivedere: il resto lo sistemerà una cura più invincibile del sonno, con l’aiuto divino,
come voluto dal Fato.25
Ah, la dialettica dei Gemelli!
Poco dopo nel palazzo risuonerà l’urlo di Agamennone colpito a morte.
Ucciso di sua mano lo sposo, Clitennestra quindi aggiungerà: «Delle molte
parole che prima per convenienza ho pronunciato, non mi vergognerò di
dire ora l’opposto: come si potrebbe altrimenti, nel preparare insidie a un
nemico che ha volto d’amico?».26 Mercuriale istrionismo tipico del segno. E
vi è dell’altro nella vicenda di Clitennestra: un primo marito finito non
meno tragicamente e un figliastro che la ucciderà. Impossibile però
approfondire (i Gemelli detestano questo verbo!), anche perché le vicende
della semidivina Elena non sono meno clamorose. Si tratta infatti, se ancora
non vi fosse sorto il sospetto, della celeberrima Elena di Troia. Ebbene sì.
Uno dei personaggi più eclatanti di tutta la mitologia. Bellissima, anzi “la
più bella donna del mondo”, ambita da tutti, leggiadra e incendiaria, tanto
da scatenare una guerra, e che guerra!
Elena infatti fu chiesta in sposa da moltissimi principi greci ma il prescelto
fu Menelao, re di Sparta e fratello di Agamennone. (Già, due sorelle
sposarono due fratelli. Che vi aspettavate? Quando si ha a che fare col
segno dei Gemelli la singola unità non esiste). Ma il bellissimo Paride, figlio
del re di Troia, la volle per sé ed Elena, vittima innocente della propria
bellezza, si lasciò sedurre, tanto da fuggire a Troia.
E con la sua fuga d’amore, la bella Elena scatenò niente di meno che la
famosissima e sanguinosa guerra fra gli achei e i troiani. Va ricordato però
un altro fatto, antecedente e di non poco peso nella vicenda, ovvero
l’altrettanto famosa mela d’oro lanciata da Eris, dea della discordia, a Era,
Afrodite e Atena, al motto di: «Per la più bella».
Ne scaturì un lieve alterco in conseguenza del quale le tre dee giunsero a
prendersi per i capelli e, per porre fine all’incresciosa contesa, Zeus decise
che ad assegnare la mela d’oro sarebbe stato il mortale Paride.
Esposta quindi la questione al ragazzo, ognuna delle dee promise al
giovane un dono e Afrodite gli garantì in moglie la donna più bella del
mondo, Elena. Paride allora, giudice per nulla corruttibile, assegnò il pomo
alla dea dell’amore. Insomma Elena poverina è innocente, in balia degli
eventi, portata da un vento più forte di lei, forse un tantino sprovveduta,
leggera magari. Comunque un giglio! Vi ricorda qualcuno?
La guerra si concluse con la totale distruzione di Troia e il ritorno di Elena
a Sparta dal marito Menelao. Non dimentichiamoci però che Sparta
conseguì tale vittoria grazie ad Agamennone, il quale accettò di immolare la
figlia agli dèi e poi morì ucciso da Clitennestra, a sua volta sgozzata dal
figliastro. Insomma, una strage!
A questo punto spero vi sia chiaro quanto risulti imprescindibile il ruolo
giocato dalle due sorelline e la necessità di raccontare le loro gesta a
proposito del segno dei Gemelli. Tuttavia in questa costante partita doppia
sono Castore e Polluce a risultare i più gettonati corrispondenti mitologici
del segno e un motivo c’è: vissero infatti inseparabili finché Castore non
morì in duello combattendo al fianco del fratello contro altri due gemelli.
Allora Polluce, straziato, implorò il padre Zeus di riportare in vita il mortale
quasi-gemello. Zeus ebbe pietà e acconsentì, a condizione però che i due
vivessero sei mesi sulla terra e sei mesi sull’Olimpo. Qui e là. Diciamo che la
storia è più sintetica, a lieto fine e pertanto si presta meglio a spazzare sotto
il tappeto le nefandezze del segno. Ma è proprio sotto il tappeto che bisogna
sbirciare per scoprire le tracce di un sabotaggio.
Nel caso dei Gemelli poi, il tutto è fatto sotto il naso, con l’aria sbarazzina
di una marachella o una truffa innocente. A tal proposito c’è un altro mito,
stavolta di matrice biblica, che racconta di due fratelli, Esaù e Giacobbe,
figli di Isacco e Rebecca. I due erano molto diversi: Esaù, il maggiore, era
d’aspetto virile, dedito alla lotta e alla caccia e già ammogliato – insomma,
per i tempi rappresentava il simbolo dell’uomo maturo e responsabile;
Giacobbe invece era l’opposto, del tutto imberbe anche se adulto, una sorta
di eterno fanciullo, cresciuto senza allontanarsi dal villaggio, sempre vicino
alla madre e alle altre donne. Per questo proprio Giacobbe divenne il
prediletto di Rebecca, la quale escogitò un piano affinché fosse lui, il
secondogenito, a diventare erede dei beni paterni.
Fin qui si potrebbe pensare che la storia sia quasi più pertinente al segno
del Cancro e al suo eterno complesso di Edipo, ma il movente del
sabotaggio cancerino è quello di restare figlio a vita per non essere adulto,
nel caso di Giacobbe c’è una sostanziale differenza: si tratta del raggiro di
un fanciullo verso il fratello maggiore (in cui si può leggere, in chiave
simbolica, la parte adulta di sé) perpetrato senza esserne nemmeno il diretto
artefice; subendo in un certo senso, come Elena.
Quando infatti il vecchio Isacco, ormai cieco, decise che era giunto il
momento di benedire Esaù e, come costume dei tempi, con la benedizione
affidargli i beni e la responsabilità della famiglia, Rebecca si rivolse a
Giacobbe e gli disse:
Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Va’ subito al gregge e prendimi di là due
bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre, secondo il suo gusto. Così tu lo
porterai a lui che ne mangerà, perché ti benedica prima della sua morte.27
L L L
In Mesopotamia la costellazione del Cancro era detta Allul che significa
“granchio”, ma talvolta il segno era rappresentato da una tartaruga marina.
In Egitto era uno scarabeo stercorario, simbolo del dio Khepri, che ogni
mattino spinge il dio Ra (il Sole) fuori dall’oltretomba. In Grecia il Cancro
era raffigurato dal granchio, dal gambero e da altri crostacei, ma anche dal
polipo. Il gambero e il granchio rappresentavano l’apparente rallentamento
del Sole quando, giunto al suo culmine nel solstizio d’estate, sembra tornare
indietro, e le giornate cominciano ad accorciarsi; mentre il polipo era il
simbolo della natura allo stato embrionale. Sul piano esoterico la
costellazione del Cancro simboleggia invece una delle Porte Zodiacali:
quella che le anime varcano prima di reincarnarsi. Davanti a questa Porta
esse bevono dalla Coppa dell’Oblio per dimenticare le vite precedenti.
Insomma ce n’è per tutti i gusti. Un ventaglio di cangianti manifestazioni,
così diverse eppure simili, unite infatti da un sottile, e nemmeno tanto, filo
conduttore che ai più maliziosi avrà già dettato certe assonanze col soggetto
in questione.
Tuttavia al segno del Cancro bisogna approcciarsi con la più rigorosa
essenzialità. Al polposo crostaceo sabotatore poi, il palcoscenico va lasciato
del tutto nudo, per evitare quel balugino di rifrazioni a cui il nostro
animaletto, qualunque sia la sua effige, mira per depistarci. Pertanto meglio
attenerci a un’analisi strettamente mitologica, e la mitologia pone in
correlazione con questo segno due miti: Edipo e Selene.
Affrontando già in Io Vergine, tu Pesci? il mito di Edipo, in questa sede ci
risparmieremo le gesta dell’eroe che, ignaro di aver sposato la madre, si
acceca con la spilla di lei e vaga non appena scopre l’accaduto (una
soluzione di cancerina, sconfinata concretezza!), e ci concentreremo invece
sull’altro mito corrispondete al segno: quello di Selene.
Il Cancro infatti è il segno governato, dominato, plasmato, obnubilato, e
chi più ne ha più ne metta, dalla Luna. L’eterea e pallida Luna. Ci si
aspetterebbe allora da parte della mitologia racconti delicati e sognanti.
Quando mai! Riguardo la signora del cielo, il mito narra storie tutt’altro che
romantiche, assai eloquenti, spesso inquietanti, a tratti raccapriccianti.
Proprio come il Cancro.
Comunque sia, giunti fin qui, molti di voi avranno tirato almeno un
sospiro di sollievo, rinfrancati dal fatto che, per una volta, a proposito di
questo segno si eviterà l’argomento “mamma”. Spiacente, ma tocca
deludervi. La Luna, sia per l’astrologia che per la mitologia, rappresenta
nientemeno che la Grande Madre. Eccola là! Non c’è che fare. Gira e rigira,
meglio rassegnarsi: dove c’è Cancro, c’è mamma. Quale però? Sì, perché
adesso la faccenda si complica e non poco.
In virtù della mutevolezza del suo aspetto, la Luna infatti nella tradizione
greco-romana viene identificata non con una, bensì con tre divinità, ognuna
corrispondente a una delle fasi lunari: crescente, piena e nuova. Selene è la
dea che incarna la Luna al massimo del suo splendore. Figlia di Tehia e
Iperione, Titani della luminosità, è simbolo di vita e fertilità, e deriva il suo
nome dal greco sélas (“splendore”) e méne (“misura”).34
Vale la pena ricordare che, prima della riforma imposta da Giulio Cesare
nel secolo a.C., il calendario era regolato sul ciclo lunare e difatti il termine
latino mensis (“mese”) deriva dalla stessa radice méne. Scusate, ma alle
rimembranze il Cancro ci tiene! Così come all’amore.
A tal proposito si narra che Selene si innamorò di un bellissimo e giovane
pastore di nome Endimione, e che ogni notte scendesse a contemplarlo
mentre egli giaceva addormentato. Secondo alcuni l’amore fu platonico, per
altri i due ebbero addirittura cinquanta figli, ma la mitica verità resta
imperscrutabile (come spesso accade col Cancro). Sta di fatto che Selene,
non accettando che il suo amato, platonico o meno, in quanto mortale
dovesse un giorno lasciarla, allora rivolse a Zeus lacrime e lamenti. E tanto
piange e si lamenta (mi astengo da ogni commento), finché ottiene che
Endimione viva immerso in un sonno eterno, ma dorma con gli occhi aperti
affinché possa così continuare a mirarla. Ma ci pensate al povero Endy?
Narcotizzato con gli occhi sgranati per guardare in eterno una pazza che ha
fatto tutto in nome dell’“amore”. Una roba tanto cancerina!
Raggiunto il suo culmine, la Luna diviene poi calante, fino a scomparire
apparentemente (ah, questo avverbio!) dal cielo per cinque giorni. Una volta
scomparsa, diviene Ecate. La Luna che regna negli Inferi, la Luna che esiste
e non si vede, l’oscura Luna simbolo della morte-utero dove tutto rifluisce
per rinascere. Madre misteriosa e potente, tanto da essere l’unica divinità,
oltre Zeus, a godere del privilegio di esercitare la propria potenza su terra,
cielo e mare.
A Ecate venivano attribuiti numerosi poteri, in particolare la protezione
dei bambini, delle maghe e delle abitazioni. Perciò veniva detta triforme,
raffigurata con tre teste e un corpo solo, o tre corpi congiunti, e al posto dei
capelli serpenti. Si credeva inoltre che volasse su di un carro trainato da cani
ululanti. A incontrarla insomma, romantica e argentea non doveva apparire.
Ma compiuto il suo corso, risorgerà nel cielo. Avremo allora la Luna
crescente incarnata da Artemide, figlia di Zeus e sorella gemella di Apollo,
che incarnava quindi il corrispettivo femminile del dio, il cui compito era
quello di far sorgere il Sole; e come Apollo dava vita e morte agli uomini, la
dea le donava alle donne. Ma mentre Apollo era dedito a ogni tipo di
scorribanda sessuale, Artemide invece era obbligata alla più ferrea castità.
Perché mai la poveretta dovesse essere interdetta dai piaceri dell’eros, non è
chiaro. Forse perché candida, pura, luna nascente. Chissà. Comunque,
niente. Vergine intatta.
Tuttavia la dea non era affatto d’indole ascetica, era semmai una selvaggia
cacciatrice, e così finì per desiderare perdutamente Orione, splendido
ragazzo dotato di ogni beltà e amante esperto, il quale si accompagnava
spesso ad Artemide nelle battute di caccia. Sarà forse una coincidenza che
Orione corrisponde al mito dello Scorpione? Non credo.
Sta di fatto che la povera Artemide, diafana e lunare, primitiva e vorace,
caccia oggi e caccia domani, finì giustamente per bramare di essere
profanata dal bell’Orione in un bosco, in una selva, persino in una palude a
lei sacra, basta che il giovane facesse di lei selvaggina! Ma Orione non lo
fece per rispetto, pare, alla divina castità della dea. Per consolarsi però il
possente ragazzo si intrattenne con tutte le di lei ancelle. La dea allora
s’arraggiò (verbo siciliano indicativo di una qual certa rabbia connessa
all’astinenza sessuale) e decise di vendicarsi scagliando contro Orione uno
scorpione il cui veleno lo uccise. Oppure, secondo un altro finale, fu Apollo
a uccidere Orione, ordendo un inganno e trafiggendolo con una freccia
scoccata dalla stessa Artemide.
Comunque sia, nemmeno questa luna nascente è poi così innocente e
candida. Eppure rappresenta la rinascita, simboleggiando il potenziale
femminile al suo albore, in tutta la gamma delle sue possibilità. E a
proposito di molteplici possibilità, avete notato quante a proposito del
Cancro? Quante “lune” dentro il nostro lunatico animaletto? Quanti
elementi a cui attingere per costruire un sabotaggio perfetto? Tutto in nome
di un femminile tanto recettivo, quanto dominante, indiretto e mutevole.
Se tutto ciò viene poi riportato sul piano della simbologia astrologica della
Madre, allora l’identità del Cancro la si ritroverà non tanto nelle scelte
compiute, o non compiute, ma nella percezione che l’individuo ha, o crede
di avere, della propria figura materna. Selene, Ecate o Artemide. O tutte e
tre? Lo psicodramma cancerino si conferma così del tutto basato
sull’identificazione del soggetto con la Grande Madre, quella che per un
verso lo ha generato e che per un altro egli genera dentro di sé, poiché
sostanza imprescindibile di sé.
Al Cancro sabotatore risulterà facile allora calarsi nei panni della vittima,
una povera creatura indifesa la cui argentea tenerezza è incompresa e
costantemente vessata. Peccato però che il mito di argentea tenerezza non
parla affatto. Così come non parla di un carattere mite e remissivo. In un
certo senso passivo, semmai. Ma decisamente dominante, come d’altronde
dominante è in astrologia il segno del Cancro.
Infine un’annotazione: nessuna delle nostre Lune ha figli. Forse Selene,
ma se nacquero lei non se ne curò. La Grande Madre insomma resta
tragicamente figlia.
Si potrebbe quindi concludere così il paragrafo dedicato al mito
corrispondente al segno del Cancro, eppure manca ancora un elemento,
implicito fra le righe, che invece va ben evidenziato. Si tratta di un
“dettaglio” di cui, a proposito di questo segno, si parla sempre con un certo
disagio e per taluni risulta addirittura oltraggioso. Mi riferisco al narcisismo
di cui il Cancro è portatore sano e di cui il Cancro sabotatore è intriso fino
al midollo. Non potrebbe essere altrimenti d’altronde: per inscenare uno
psicodramma di tal fatta bisogna essere non solo egocentrici, ma anche
narcisisti. Con implacabile ineluttabilità l’astrologia difatti associa alla
nostra triforme creatura, oltre a Edipo e la Luna, un terzo mito, quello di
Narciso.
Lo so, può sembrare un colpo basso, perché all’inizio avevo omesso
l’esistenza di un terzo mito. Ma certe cose vanno dette a tempo debito,
perché la verità resta sempre assai sgradevole.
Narciso era un giovane talmente bello che alla sua vista tutte le fanciulle e
ragazzi si innamoravano di lui. Ma egli, superbo e indifferente, non prestava
attenzione a nessuno. Di lui con particolare trasporto si innamorò la ninfa
Eco, la quale si logorò a tal punto per il dolore di essere rifiutata, e pure in
malo modo, che di lei persino le membra e le ossa lentamente si
consumarono, «finché si dissolse e sparve»35 come narra Ovidio in uno degli
episodi più belli de Le Metamorfosi. «Perciò in selve si cela e non si vede più
per i monti; pur da tutti è udita, ché in lei pur vive il suon della sua voce».36
Ma Afrodite punisce coloro che non cedono all’amore (che meraviglia!
Nei millenni successivi siamo stati condannati all’eros come peccato, per i
Greci invece era peccato il non amare) e, per la fredda arroganza di
Narciso, la dea dell’amore attuò un castigo esemplare: quando il giovane si
specchiò in una fonte rimase a tal punto folgorato dalla propria bellezza da
struggersi per il resto della vita nel non poter abbracciare e baciare l’amato
aspetto. «Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma! Che
fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare? Ciò che desidero
è in me: un tesoro che mi rende impotente».37 Ogni singola parola scolpisce
il lamento del Cancro sabotatore.
Ed ecco che grazie alla mitologia il profilo del nostro sabotatore è ormai
chiaro: un Edipo, Narciso, Lunare. Triforme. A questo punto, forse più che
in conclusione di ogni altro paragrafo, alcuni lettori – o le di loro mamme –
desidereranno annegarmi nel pozzo delle loro lacrime. Che Afrodite mi
aiuti!
LEONE
L L
In merito all’indole del Leone, ho insistito non poco sulla necessità del segno
di forgiarsi affinché l’Io-Sole sia irradiazione di luminosa energia vitale, e
non acerbo (e talvolta rozzo) esercizio di forza o protagonistica celebrazione
di sé. I nativi del segno devono perciò temprarsi, evolvere, così da
strutturare una personalità di “alto profilo” tale da «sorreggere il loro
esibizionismo ed evitargli la caduta nel ridicolo». Una citazione che vale la
pena di ribadire. Ogni Leone pertanto è chiamato così a plasmare
innanzitutto la propria innata potenza, misurandosi con essa e con
l’inevitabile insicurezza che ne deriva.
Di questo parla appunto il mito corrispondente al segno, ovvero uno degli
eroi più celebri, un personaggio famosissimo, il cui nome evocava l’idea di
forza e valore a tal punto da essere usato nelle formule legali di giuramento
dell’antica Roma; e tutt’oggi quello stesso nome è ancora sinonimo di forza
invincibile, nel linguaggio comune come nella letteratura, così che persino il
più illustre detective del Novecento, Poirot, pur essendo piccolo di statura, di
nome fa Hercule. Ercole! L’Eroe tutto forza. Ma da dove scaturisce tanto
vigore? Un dono? Perché? E in che senso Ercole, come il Leone, è chiamato
a forgiarsi e confrontarsi col divino destino che fin dalla nascita lo vuole
contraddistinto da una forza senza eguali?
A queste domande la mitologia risponde in modo talmente esaustivo da
non lasciare margine ad alcun fraintendimento e così, tassello dopo tassello,
la vita di Ercole è di fatto il manifesto astrologico del segno del Leone.
Figlio di Zeus e della mortale Alcmena, Eracle, Ercole per i romani, era
un semidio, che prima ancora di nascere fu segnato a vita dalla piaga della
gelosia, nella fattispecie quella di Era, moglie del padre degli dèi. Zeus
infatti aveva comunicato agli dèi che quel giorno sarebbe nato un suo figlio,
prediletto a tal punto da affidargli il dominio su tutti i popoli confinanti.
Era, inviperita dall’ostentazione da parte del marito del frutto della sua
ennesima scappatella, ordì allora un inganno e, in quanto dea della fertilità
e delle nascite, riuscì a far sì che il dono voluto da Zeus per Ercole si
riversasse su un altro nascituro, Euristeo. Non solo, ma appena nacque
Ercole, quella notte stessa nella culla Era inviò due serpenti dagli occhi
infuocati per ucciderlo. Ah, la gelosia! Elemento imprescindibile
nell’esistenza del Leone.
Ercole tuttavia, seppur in fasce, riuscì a strozzare i due serpenti. Il padre
infatti gli aveva donato una forza senza eguali, per conquistarsi ciò che
desiderava e difendersi dalla gelosia di Era. Di elementi ce ne sono già
abbastanza. Ma se pensate che la vicenda è così riassunta nel prodigio di un
poppante forzuto vi sbagliate di grosso. Si tratta semmai soltanto della
premessa da cui si dipana l’esistenza del nostro eroe.
Ercole crebbe educato dai migliori maestri in svariate discipline, dalle
lettere al pugilato, dalla musica al tiro con l’arco, manifestando oltre alla
forza una vitalità eclettica. Ma dall’alba si vede il buon giorno e così, come
senza indugio il ragazzo aveva ucciso i due serpenti, con lo stesso caratterino
e la stessa prontezza accoppò il maestro di musica rompendogli in testa la
lira, per un castigo che l’insegnante gli aveva inflitto. Insomma a Ercole la
mosca al naso non si doveva posare, né alcuno si poteva permettere di
sovrastarlo. Vi ricorda qualcuno?
Alcmena quindi decise che al figlio era necessario apprendere la più
importante delle virtù, l’umiltà, e lo mandò pertanto a pascolare armenti
per parecchi anni in una regione lontana. Durante quel periodo Ercole
crebbe. «Bastava vederlo perché incutesse timore: alto quattro cubiti, dagli
occhi gli splendeva una luce di fuoco e non sbagliava mai la mira, né
quando traeva d’arco, né quando lanciava il giavellotto».43 Nello stesso
periodo si distinse in numerose prove, fra cui, la più importante e
significativa, l’uccisione di un leone che puntualmente devastava le mandrie.
Orgoglioso dell’impresa, il nostro eroe allora indossò la pelle del felino e ne
usò la testa come elmo, «sicché fu sempre visto di poi ricoperto della spoglia
leonina e armato di arco e di clava».44 Mi pare eloquente. Tuttavia il gesto
resta inequivocabilmente di stampo esibizionista e narcisista, in puro stile
Leone, ed Ercole, più che a un eroe adulto, così conciato potrebbe far
pensare a uno scenografico lottatore di wrestling.
La via per la maturità insomma era ancora lunga e per il figlio prediletto
di Zeus si era appena conclusa soltanto la prima parte della sua formazione:
i Leoni più impazienti ne saranno delusi – quelli più permalosi avranno già
scaraventato il libro –, ma la gelosia di Era covava spietata e persecutoria, e
il peggio doveva ancora arrivare.
Euristeo infatti, trovandosi nella condizione d’imporre ordini in nome del
potere letteralmente cadutogli dal cielo, da bravo burattino di Era, obbligò
Ercole ad affrontare non una, bensì dodici prove. Dodici sfide impossibili da
superare, le famose “dodici fatiche di Ercole”. In pegno la vita.
Non è il caso di enumerarle tutte. Lo so, così rischio di fomentare
l’indignazione dei pochi Leoni ancora miracolosamente dinanzi al libro, ma
ci vorrebbe un testo a parte e il lettore più interessato può sempre ripassarle
altrove, ulteriormente motivato dal fatto che alcuni studiosi di astrologia
riscontrano un nesso fra le dodici fatiche e i dodici segni zodiacali. Qui
l’attenzione sarà focalizzata sulla prima fatica compiuta da Ercole, quella
che gli permetterà di affrontare e concludere eroicamente anche le altre. E
guarda caso, di che narra la prima delle dodici imprese? Dell’uccisione di
un altro leone, quello di Nemea!
Nel racconto dell’impresa la mitologia rivela ancora una volta tutta la sua
saggezza, utilizzando un linguaggio simbolico di rara raffinatezza
psicanalitica. Un’altra favoletta, e dentro la chiave di volta.
Si narra infatti che a Nemea, città nei pressi di Corinto, un feroce leone
generato dal mostro Tifone, ribelle agli dèi, divorava persone e greggi. La
belva sembrava invulnerabile perché nessun’arma riusciva a scalfirla, e così
la città stava cadendo in rovina. Ercole partì quindi alla ricerca di quel leone
e, quando finalmente riuscì a scovarlo in un bosco vicino la città, scagliò
sull’animale tutte le sue frecce e con ognuna lo colpì in pieno, ma senza
causargli la seppur minima ferita; allora lo attaccò con la clava, ma anche
così non ottenne nulla. Anzi, il leone, ancora più inferocito, si lanciò su
Ercole. Ma a un passo da lui, la bestia balzò via come per farsi inseguire e
sparì nel nulla. Invano Ercole la cercò, finché non udì il suo ruggito lontano.
L’eroe seguì allora quel suono e scoprì che proveniva da una caverna.
Quell’antro, la tana del leone, aveva però due entrate. Ercole sbarrò allora
un ingresso con una catasta di legna, entrò dalla parte opposta e,
consapevole ormai che nessun’arma funzionava contro l’animale, si lanciò
su di esso in un paritario corpo a corpo. Il figlio di Zeus stava quasi per
soccombere, quando finalmente riuscì a sconfiggere il leone schiacciando il
plesso solare dell’animale col peso di tutta la propria persona. A quel punto
Ercole volle scuoiare la fiera, ma riuscì a farlo solo con gli artigli della belva
stessa. Infine ne indossò il manto, al posto del precedente, e tornò da
Euristeo.
Cara, vecchia mitologia! L’essere umano deve necessariamente uccidere la
parte più selvaggia e distruttiva di sé per poter diventare un eroe valente in
grado di affrontare le altre prove. L’uccisione del leone, rappresentazione
del sé inferiore del nostro Leone, avviene in una caverna con due entrate
perché spetta all’individuo, con la propria volontà, sbarrare la via di fuga e
affrontare se stesso. A mani nude. Senza armi. Dentro un antro, ovvero
dentro la propria coscienza o dentro la propria psiche. Indossare la pelle
della bestia vinta è infine il ritratto dell’Io che indossa la parte sconfitta di sé.
Non più ostentazione di vittoria, ma consapevolezza di evolutiva sconfitta.
Soltanto allora Ercole può tornare nel mondo esterno.
Più di così si può chiedere alla mitologia soltanto di incarnarsi in una
maestra paziente, chiamare a raccolta tutti gli esponenti del segno e far loro
una lezione con disegnini e cartoncini colorati.
C’è però un dettaglio che non mi va di lasciare sottinteso: Ercole sconfigge
il leone poggiando con tutto il proprio peso sul plesso solare dell’animale e il
segno del Leone è difatti governato dal Sole. È una ciliegina astrologica sulla
torta: bisogna affondare con tutta la propria persona sul quel preciso
condizionamento del segno, il Sole-Leone, affinché si evolva al meglio e non
degradi al peggio.
Jung, non a caso Leone, scrisse: «Un uomo che non è passato attraverso
l’inferno delle proprie passioni, non potrà mai superarle».45
Una dopo l’altra Ercole in seguito affrontò e superò tutte e dodici le prove.
Tuttavia, quando l’eroe tornò a Tebe, sperando finalmente di vivere
tranquillo con i genitori, la moglie e i figli, l’odio e la gelosia di Era
colpirono ancora, e stavolta senza scampo, scatenando la pazzia nell’anima
(non nella mente!) di Ercole.
Sì che questi, con gli occhi stravolti, muggendo come un toro inferocito, sentendo
accresciuta la sua forza, abbatté il palazzo e uccise la moglie e i figli che non
riconosceva più, mentre dalla bocca gli scendeva abbondante spuma. Poi cadde,
abbattuto da profondo torpore; quale strazio al suo risvegliarsi!46
L I
Il mito corrispondente al segno della Vergine è quello di Demetra (Cerere
per i romani), una delle maggiori divinità greco-romane, inventrice e
protettrice dell’agricoltura.
Connessa quindi alla Terra e alla sua fertilità, a Demetra si devono quelle
messi che, seminate in precedenza, vengono poi raccolte e custodite. Così la
Vergine viene rappresentata da una composta e dignitosa fanciulla con delle
spighe in mano. Fin qui tutto bene. Solerzia, sobrietà, produttività e fertilità.
Questo è il significato più immediato, e anche il più sponsorizzato, che il
mito consegna all’astrologia. Ma non è tutto, anzi.
Se per un verso l’accezione del mito fin qui esposta trova piena
corrispondenza nella necessità del sesto segno di custodire cose, fatti,
persone e sentimenti preservandoli dalla dispersione e dalla fine (la
mummificazione a cui alludevo nel paragrafo precedente), per un altro la
stessa necessità nasconde ben altro, come racconta il mito di Demetra.
Prima di approfondire le vicende della dea, è opportuno ricordare però un
fatto fondamentale: per la Vergine il “granaio-cuore” deve essere solido,
stabile, pieno e ben custodito. Immutato e immutabile. Possibilmente
eterno. Tuttavia l’eternità della Vergine non ha nulla di ascetico, né di
mistico o di astratto: consiste semmai nel concreto e quotidiano lavorio
affinché tutto resti solido. Più è solido, più si avrà la garanzia che resterà
immutato. E qui cominciano i guai.
Non a caso nel descrivere il sabotaggio intessuto dalla Vergine ho insistito
non poco sul concetto di “morte”.
È questo il tabù che l’operosa Vergine tenta disperatamente (e
irrazionalmente, aggiungerei) di infrangere, ed è questo il nemico con cui,
più di ogni altro segno, la Vergine deve scendere a patti. Il mito racconta
tutto ciò in una lettura più approfondita; difatti, narra sì di una divinità a
cui si deve l’abbondanza o meno del raccolto, ma anche – e soprattutto – di
una madre che non accetta il terribile destino della sua unica, adorata figlia:
Persefone (Proserpina per i romani). E le due storie sono intimamente
connesse. Anzi, credo sia più corretto affermare siano la stessa, identica
storia.
Per comprendere a pieno tutte le sfumature della divina vicenda e tutte le
sue precise, simboliche implicazioni col carattere della Vergine è bene
cominciare dal principio.
Demetra è figlia di Crono e Rea. Chi sono? Una delle sei coppie di Titani,
forse la più importante. Crono (per i romani Saturno) è colui che secondo la
mitologia governò sul mondo in un tempo remotissimo, e il suo regno fu
talmente duraturo e florido da meritare l’appellativo di età dell’oro (da cui
aureus Saturnus). Rea è la “grande madre”, divinità della Terra nonché madre
di tutti gli dèi. Crono e Rea sono infatti anche genitori di Zeus. Ebbene sì,
avete capito bene: Demetra è sorella del re dell’Olimpo. Famigliola
decisamente potente, ma non priva di qualche lieve contrasto. Voci di
corridoio dicono infatti che Crono, appurato dal Fato che Zeus avrebbe
posto fine al suo duraturo regno, pur di non perdere il trono tentò di
divorare il figlio appena nato, ma fortunatamente Zeus fu salvato in extremis
da Rea con uno stratagemma. Per i dettagli più raccapriccianti si rimanda al
Capricorno, il cui leggiadro mito corrispondente è proprio quello di Crono.
Insomma da un punto di vista mitologico l’albero genealogico della
Vergine discende direttamente dal Tempo (chrónos, “tempo”) che non accetta
il divenire, e dalla Terra che, fecondata appunto dal Tempo, porta in
grembo ogni evoluzione. Questo il punto di partenza. Vi sembra foriero di
un qual certo contrasto? Nulla rispetto al seguito della vicenda. Demetra
infatti si unisce in amoroso amplesso al fratello Zeus (la Vergine alla famiglia
ci tiene) e da questa unione nasce Persefone. Una volta cresciuta, Demetra
desidera ovviamente per la figlia un matrimonio all’altezza. Come minimo
un dio! E così fu, ma Demetra non poteva immaginare che fra tutti gli dèi a
innamorarsi di Persefone sarebbe stato Ade, signore dell’oltretomba e che
questi, mentre la fanciulla raccoglieva fiori in un campo della Sicilia, vicino
Enna, la rapisse, la trascinasse negli Inferi e la sposasse. Tuttavia Persefone
pare non fosse proprio così restia al rapimento o comunque, una volta
conosciuto Ade, non se ne dispiacque. Trattasi di una sicula divina fuitina?
Chissà. Un fatto è certo e non lo si può omettere: anche Ade è figlio di
Crono e Rea. Lo so, sembra una roba ultramorbosa, tuttavia va letta in un
altro modo: nel simbolismo mitologico come dalla coppia Crono/Rea nasce
Zeus, così deve nascere Ade. Olimpo e Inferi. Non può essere altrimenti. E
Ade non può che scegliere per sua sposa la figlia di Zeus e Demetra. Nel
simbolo di casuale non c’è nulla. Proprio come il seguito della storia.
Demetra, scomparsa la figlia e ignara del rapimento, la cercò
disperatamente in ogni dove. Per anni errò in lungo e in largo e giurò che
non avrebbe mai più reso fertile il suolo finché non l’avesse ritrovata. Persino
Omero, nell’Inno a Demetra canta lo strazio di questa madre e della terra
sterile da cui nessuna gemma prendeva più vita. Fu Ermes, mosso a pietà,
ad aiutare Demetra nella disperata ricerca. Tuttavia, quando il dio alato
rintracciò Persefone, si trovò dinanzi a un bel problema: la fanciulla amava
Ade e non voleva tornare sulla Terra. E niente, fuitina fu! La questione
venne sottoposta a Zeus, che così decise: Persefone avrebbe trascorso il
periodo invernale, durante il quale la terra dorme e riposa, al fianco dello
sposo Ade, mentre il periodo della vegetazione e della maturazione delle
messi con Demetra nell’Olimpo. In questa “villeggiatura” di Persefone è
possibile scorgere la metafora della vegetazione, che d’inverno scompare e
in primavera germoglia. Ma qui il centro resta Demetra: proprio lei, la dea
della fertilità, deve accettare che la sua unica figlia non sia semplicemente
morta – cosa già di per sé dolorosa –, ma addirittura che sia divenuta
l’immortale regina degli Inferi. Sposa della morte. È tosta da digerire!
Così il mito ci conduce al centro esatto della personalità della Vergine:
l’accettazione della fine come imprescindibile causa di inizio, della morte
come necessaria componente della vita e del cambiamento – costante e
anche violento – necessario al perpetrarsi dell’esistenza. Da un punto di
vista astrologico è interessante notare il raffinato simbolismo che sia proprio
Ermes (ovvero Mercurio, il pianeta fortemente mentale che governa il segno
della Vergine) il mediatore di questa accettazione: soltanto l’intelligenza
infatti, operando con il buon senso, può far sì che l’orrore verso la morte e
verso la sofferenza della perdita non conduca a una sterile e sofferta fissità,
ma sia sempre il presupposto per una vita fertile.
D’altronde, dopo aver tanto insistito sull’“immobilità” di certe Vergini, è
bene ricordare che fra i segni di Terra la Vergine è invece quello Mobile, e i
segni mobili sono quelli che portano in sé il segno del cambiamento, la
coscienza della trasformazione di ciò che il loro elemento rappresenta.
C’è infine un ultimo aspetto nelle azioni di Demetra che merita
attenzione: Demetra sarà pure divina e visceralmente legata alla figlia, ma
come gran parte delle suocere Vergine, è decisamente invadente! Potrà
sembrare banale, la classica battutaccia sulla suocere, eppure
astrologicamente parlando si tratta di una caratteristica quasi costante del
segno. Suocere micidiali! Anche questa è una forma di sabotaggio molto
efficace nei confronti dei figli. Per fortuna Persefone si oppose almeno un
po’ e Zeus fu saggio, altrimenti la poveretta avrebbe trascorso la vita eterna
con la madre a seminare, arare, zappare e raccogliere spighe. Per lo meno
sei mesi l’anno si riuniva con l’amato Ade: negli Inferi, certo, ma per
Persefone sarà stato il paradiso!
BILANCIA
L B
La scabrosa affermazione che il sabotaggio della Bilancia poggi su un
edonistico esercizio alla solitudine – come forma di esorcizzazione ed
estetica trasformazione della solitudine stessa – trova riscontro nei miti
corrispondenti al segno. Mi esprimo al plurale perché la nostra Bilancia, da
strepitoso segno doppio, non poteva certo esser racchiusa in un unico e
monolitico mito. Due infatti sono le vicende mitologiche inerenti ed
entrambe sono incentrate sul senso profondo del trasformismo e del
complementare; ma hanno anche a che fare con una lacerante solitudine.
Il primo mito narra del vate Tiresia, il quale un giorno, ben prima di
acquisire i suoi poteri divinatori, mentre camminava in un bosco, si imbatté
in due serpenti che si stavano accoppiando. Tale visione lo disgustò a tal
punto che non solo separò con un bastone i due animali, ma uccise anche la
femmina. Se Tiresia avesse dovuto motivare la sua reazione dinanzi a uno
psicanalista, qualcosina sarebbe saltata fuori. Perché mai la visione di due
animali che si accoppiano gli causò tanto ribrezzo? E perché proprio due
serpenti? E infine, perché giungere al gesto secco e spietato di uccidere la
femmina? Il bravo analista avrebbe condotto Tiresia alle dovute
associazioni. La mitologia fa molto di più: ha trasformato immediatamente
l’uomo in donna. Perciò per sette anni Tiresia dovette vivere in un corpo
femminile, sperimentandone la sessualità e provando il piacere di essere
amato dagli uomini. Un giorno però vide nuovamente due serpenti nell’atto
di accoppiarsi, e di nuovo col bastone li separò, ma stavolta uccise il
maschio. All’istante si trasformò in uomo. Zeus allora lo convocò
sull’Olimpo in qualità di giudice di un’aspra controversia: quale dei due
sessi prova maggiore godimento durante l’amplesso? Zeus sosteneva che
fossero le donne, sua moglie Era invece affermava che fossero gli uomini. In
virtù della sua esperienza, Tiresia asserì che se il piacere sessuale fosse
composto di dieci parti, alla donna ne sarebbero spettate tre volte tre,
all’uomo una sola. Era si adirò a tal punto per il fatto che il mortale aveva
svelato uno dei segreti della femminilità, che per punirlo lo privò della vista.
Il padre degli dèi invece, pur non potendo nulla contro la punizione inflitta
dalla consorte, attribuì a Tiresia il dono di vedere oltre e di vivere per sette
generazioni, così che egli potesse predire il futuro e del passato svelare quel
che fosse ignoto. Durante quel tempo, gli dèi non avrebbero potuto quindi
nascondere nulla al vate.
Impossibile analizzare tutti i riferimenti e le implicazioni di questo mito:
l’invidia di genere fra Era e Zeus, la definizione stessa di “identità sessuale”,
il successivo ruolo di Tiresia nella vicenda di Edipo. Significherebbe
analizzare uno dei temi più importanti di tutta la storia della psicanalisi. Per
non parlare del simbolismo del serpente! Dagli antichi Egizi a Freud, sul
bastone di Esculapio, simbolo della medicina, o sull’albero di mele del
peccato originale, il serpente lo ritroviamo in opposte accezioni.
Insomma, qui rischiamo di perderci in un oceano di parole, proprio come
vuole la Bilancia sabotatrice. Il dato essenziale del mito in questione è uno:
Tiresia attraverso la trasformazione accoglie l’Altro in sé. E questo lo rende
capace di vedere oltre. Pagando tuttavia il prezzo di una particolare
solitudine, quella di un uomo cieco, vecchissimo e conoscitore di ciò che gli
altri mortali disconoscono.
Il secondo mito correlato al segno della Bilancia è quello di Amore e
Psiche. Rappresentato nella celebre scultura del Canova esposta al Louvre e
negli affreschi di Raffaello a Villa Farnesina a Roma, il mito narra di tre
sorelle, una delle quali, Psiche appunto, talmente bella da essere adorata
come una Venere in Terra. La dea dell’amore però non gradì affatto una
tale commistione di ruoli e si adirò a tal punto da condannare Psiche a
divenire sposa di un orribile e brutale mostro, del quale aveva timore lo
stesso Zeus. Venere affidò quindi a suo figlio Eros il compito di rapire la
mortale nel sonno e condurla sul monte su cui si sarebbe compiuto il nuziale
sacrificio. Ma accadde un fatto inaspettato: non appena il dio alato vide
Psiche se ne innamorò e, disubbidendo alla madre, la condusse nella propria
dimora e la sposò. Tuttavia Eros, per celare l’intollerabile disobbedienza,
non rivelò la propria identità alla moglie, anzi le intimò severamente di non
osar mai mirare il suo aspetto. Egli infatti giaceva con Psiche di notte, nella più
assoluta oscurità, e al mattino scompariva prima che lei si destasse. Psiche
restò perciò convinta di esser sposata al mostro, anche se talmente appagata
da non desiderare affatto la fuga. Perché mai avrebbe dovuto? Durante il
giorno, nel magnifico palazzo stracolmo di tesori, la accudivano ancelle
immateriali, di cui ella udiva soltanto la voce, e la notte… la notte era
divina!
Trascorse il tempo e la storia avrebbe potuto proseguire così, se non fosse
che Psiche cominciò a soffrire di solitudine e pregò il marito di poter
ospitare di tanto in tanto le sorelle. Eros acconsentì, ma le due zitelle – forse
mitologiche antenate delle sorellastre di cenerentola – quando videro Psiche
ancor più bella, inspiegabilmente radiosa d’amore, accudita come una dea
in quel sontuoso palazzo, si inviperirono un tantino e, visita oggi e visita
domani, instillarono in lei il tarlo di non aver mai visto le sembianze del
marito. Simulando di esser preoccupate per il suo bene e per la sua
moralità, arrivarono al punto di insinuare che lo sposo non esistesse.
Pertanto Psiche, in parte istigata dalle sorelline, in parte impaziente ormai di
scoprire il mostruoso aspetto di colui che comunque l’appagava, una notte
accese una lampada a olio per vedere finalmente le sembianze del suo
sposo. Rimase a dir poco stupita quando vide la divina bellezza del corpo e
del volto che le giaceva accanto. E poi le candide ali, e ancora l’arco e le
frecce ai piedi del talamo nuziale. Ma una goccia d’olio cadde sulla spalla
del dio, svegliandolo. Eros a quel punto volò via e non tornò più.
Invano Psiche andò errando in cerca di lui, invano supplicò gli dèi; infine
si rivolse alla stessa Venere. Questa, più che mai ostile, le impose allora
quattro prove impossibili: da un gigantesco cumulo di sementi diversi
distinguerne ogni specie e farne di ognuna un mucchio; portarle un fiocco di
lana aurea proveniente da un gregge divino; dell’acqua salubre sgorgante da
una fonte custodita da draghi e infine un unguento di bellezza, lo stesso di
cui si serviva Proserpina negli Inferi. Inaspettatamente Psiche riuscì in tutte
le prove, anche se aiutata in modo sfacciato da altri: nel primo caso dalle
formiche, nel secondo da Pan, poi da Zeus e infine dalla voce, soltanto la
voce, dello stesso Eros. A questo punto Venere si impietosì e, con l’assenso di
tutti gli altri dèi, deliberò l’assunzione di Psiche nell’Olimpo e il
ricongiungimento con Eros.
Prima di effettuare un’analisi decorosa della vicenda, non riesco a
trattenermi da un’indecorosa, personale sintesi. Stiamo parlando di una
fanciulla che si ritrova sposata con Eros senza saperlo, felice e turbata di
giacere col mostro che mostro non è, in un palazzo dove sente le voci e,
siccome si sente sola, allora invita le sorelle e tanto chiacchiera con loro che
combina il danno. Quindi è costretta ad affrontare delle prove, che supera
perché le delega ad altri, e finalmente viene traslocata nell’Olimpo, dove si
riappacifica col divino marito e con la divina suocera. Più Bilancia di così!
Come se non bastasse vorrei che rileggeste il contenuto delle prove imposte
da Venere: di una futilità unica fra tutte le storie della mitologia! Quella
delle sementi però è sfiziosa, indicativa della schizzinosa selettività del segno.
Alla luce di un’analisi più ortodossa il dato saliente è che psyché in greco
antico vuol dire “anima”, intesa come “insieme di processi emotivi e
cognitivi”; per usare termini attuali: un’anima congiunta alla mente. Da qui
il termine “psicologia”. In sostanza il mito afferma l’impossibilità della
psiche umana di vedere l’amore. Può provarlo, accoglierlo, ma non può
pretendere di contemplarlo nella sua purezza: in quanto umana, l’anima
non è in grado di sostenere, o addirittura concepire, una tale visione. Nel
mito, infatti, a Psiche sarà concesso di rivedere lo sposo soltanto una volta
eletta sull’Olimpo, e quindi definitivamente sottratta alla sfera terrena. In
questa perdita, nella privazione della sua umanità, consiste la solitudine di
Psiche. Non è poco.
Traducendo il tutto in chiave astrologica, alla Bilancia corrisponde la
necessità di sublimare, quindi trasformare, il bello, ovvero l’amore, affinché
l’umana natura ne possa fruire. Vale la pena ricordare che il glifo di questo
segno è costituito da una linea orizzontale, simbolo della materia, sovrastato
da un tratto curvo, che rappresenta la sua sublimazione. Ecco che, come
sempre, mitologia e astrologia si incontrano rivelando il condizionamento
del tipo psicologico con una chiarezza disarmante.
Infine c’è un ultimo elemento, ribadito costantemente, che condensa
ulteriormente l’essenza della Bilancia e che unisce il mito di Tiresia a quello
di Eros e Psiche; un elemento densissimo di significato, tutto racchiuso in
una parola: sembianza. È questa la chiave di entrambi i miti ed è questa la
chiave astrologica della Bilancia. Sulla sembianza verte la trasformazione di
Tiresia, così come sulla sembianza è basata la storia di Eros e Psiche (la
bellezza di Psiche, il mostro da sposare per punizione e la bellezza di Eros
non mirabile da occhi mortali). E ancora sulla sembianza ogni Bilancia
costruisce la realizzazione di sé o il proprio sabotaggio.
È opportuno tuttavia sottolineare la vastità degli argomenti in ballo non
appena si parla di “sembianza”, strettamente correlata a “sembiante”.
Senza nemmeno accorgercene siamo già nell’universo dei significanti e dei
significati, del reale e dell’immaginario, della forma e del contenuto. Da
Platone in poi, passando per Dante, Schopenhauer, Cervantes e Lacan, tutti
i filosofi, gli artisti, gli psicanalisti, persino i teologi hanno dovuto
confrontarsi con queste poche lettere: sembianza. Approfondire in questa
sede è impossibile, la querela incombe. Ma quale carico dietro l’apparente
leggera Bilancia! Quale intima doppiezza, rintracciabile nei miti e
nell’astrologica dominanza del segno da parte di Venere e al tempo stesso di
Saturno.
Da qualunque punto di vista si voglia analizzare la faccenda, è comunque
curioso quanto salti fuori più che mai il sottile confine fra l’effettiva
realizzazione di sé e la sua simulazione. Basti pensare a Don Chisciotte e i
mulini a vento!
Quel processo di sublimazione e di trasformazione su cui tanto ho
insistito, nel caso del soggetto sabotante è un fine o un mezzo? Forse il più
astuto bilancino sabotatore allora non è colui o colei che si affeziona troppo
a una futile dimensione estetica, o che scambia i mulini per giganti, ma chi
fa della sublimazione l’alibi perfetto per non vivere. La mitologia così come
l’astrologia ci dicono che l’essenza della Bilancia è il processo di
trasformazione in sé. Non l’oggetto della trasformazione.
Mi rendo conto che il paragrafo ha preso una piega complessa. Non c’è
che fare, è sempre così quando si ha a che fare con la Bilancia. Per
concludere, a proposito dei miti corrispondenti al segno, è una gioia citarne
uno mio, personale, al tempo stesso di tanti. Un’artista a tutto tondo,
Loretta Goggi, Bilancia . A proposito di trasformazione nella sua
autobiografia scrive: «A volte si va avanti, a volte si torna indietro. È il
viaggio della vita, perennemente in sfida con me stessa, che mi ha fatto
diventare quella che sono… che ero… No, che sarò».52
SCORPIONE
Da quel momento i fatti succedettero rapidi, eppure scolpiti nelle mente del
mio amico con l’indelebile impronta tipica della memoria emotiva degli
Scorpioni. La sua fidanzata rimase indietro. Lui trascinò fuori dall’auto la
donna e la distese per terra.
Mi venne spontaneo parlarle e allora ne chiesi il nome alla ragazza. «Si chiama
Carmela», rispose. Cominciai a parlare a Carmela. Aveva gli occhi chiusi, il respiro
debole e degli spasmi. Con una mano le tenevo la testa sollevata, mentre la ragazza
insisteva perché le iniettassi il farmaco. Poco dopo sopraggiunse il tizio del cane e
anche una passante. Quest’ultima corse a prendere dell’acqua in un bar non
distante, mentre il tizio mi aiutò a reggere Carmela, ma quasi subito, all’ennesimo
spasmo della donna, si sentì male e dovette indietreggiare. Adagiai allora la testa di
Carmela al suolo, le tenevo la mano e continuavo a parlarle. A un tratto lei aprì gli
occhi, di un azzurro chiaro. Mi fissò e io le sorrisi per tranquillizzarla. Restammo
così, poi fece un respiro diverso, che io non seppi interpretare al momento, quindi
richiuse gli occhi. Qualche minuto dopo arrivò l’ambulanza. Mi accorsi allora che
la ragazza si era dileguata. Riferì quanto potevo agli infermieri mentre reggevo
ancora Carmela. Fu un’infermiera dai modi diciamo poco garbati che mi disse:
«Aho, ma non vedi che è morta?».
Ho passato giorni a chiedermi il motivo dell’accaduto. Di quell’incontro
avvenuto dopo una serie circostanze del tutto fortuite. Un fatto è certo: l’ultima
cosa che quella donna ha visto è stata il mio viso. In un certo senso l’ho
accompagnata nell’ultimo viaggio.
B , , .
Nel tentare di districarci fra i meandri di un carattere simile – deflagrante
eppure sommerso, essenziale ma tortuoso, sessuoso, peccaminoso e mistico
al tempo stesso – la mitologia risulta uno strumento prezioso, non solo
perché efficace, ma anche perché alleggerisce il clima vagamente
drammatico che si crea sempre quando si parla dello Scorpione.
Non aspettatevi tuttavia una storiella semplice e leggiadra. Tutt’altro! Il
mito semmai col suo linguaggio immaginifico rende le cose più fruibili e,
condensando in sé vari aspetti, non tralascia quelli che un’analisi
strettamente astrologica pone inevitabilmente in ombra. Primo fra tutti, una
certa smodatezza tipica del segno. Sembra strano l’utilizzo di un termine
simile a proposito dello Scorpione, così misurato e calcolatore. Eppure, fra i
sensi e controsensi di questo segno, c’è anche questa peculiarità, soprattutto
nel caso del soggetto sabotante. E di smodatezza, ma non solo, parla infatti
il mito corrispondente al segno, ovvero Orione, la cui vicenda presenta
diverse varianti, tutte molto eloquenti.
Secondo la cultura ellenica Orione era un semidio, figlio di Poseidone e
della mortale Euriale, a sua volta figlia del re di Creta, Minosse (quello del
celebre labirinto per intenderci; d’altronde lo Scorpione non poteva non
avere nel suo albero genealogico che abissi e labirinti!). Bellissimo, dalla
corporatura colossale, di una bellezza talmente erotica che tutti, donne e
uomini, mortali e divini, subivano il suo fascino, Orione fu educato da
Atlante e, d’indole intrepida e acuta, ancora giovanissimo divenne un
provetto cacciatore, in senso tanto venatorio quanto erotico, cosicché la lista
delle sue gesta in entrambe le “discipline” fu presto lunghissima. Ma fu
proprio la sua eccessività a segnarne il destino.
Secondo una versione del mito, infatti, il giovane nel corso delle sue
battute di caccia, nelle quali spesso si accompagnava addirittura ad
Artemide, dea della caccia, fece un tale scempio di animali, sicuro di poter
sconfiggere persino le bestie più feroci, che Artemide stessa s’indignò. Perciò
con l’aiuto di Gea gli pose dinanzi un piccolo e apparentemente
insignificante aracnide: uno scorpione. Questo punse Orione e lo uccise.
Un’altra versione, decisamente più intrigante, si basa invece sui romantici
risvolti della vita privata del bellissimo semidio che, seppur avvezzo a ogni
tipo di erotica escursione, finì infatti per innamorarsi. Fu Merope a
conquistarlo – non posso non pensare alla dottoressa Merope Generosa, la
sessuologa ideata dal genio di Anna Marchesini, ovviamente Scorpione – e
poiché la fanciulla ricambiava in pieno il sentimento, Orione la chiese in
sposa. Il padre di lei però, in un primo tempo favorevole, a ridosso delle
nozze negò il suo consenso, in quanto anche lui carnalmente innamorato
della figlia. Orione allora, stravolto e ubriaco, entrò di notte nella stanza
dell’amata e la possedette. Ne seguì un lieve alterco col suocero, il quale per
vendetta strappò gli occhi a Orione, li gettò in mare e costrinse il giovane a
vagare cieco. Una storiella da niente, quel che si dice un “amoruccio
spensierato”. Se pensate però che la vicenda si concluda così vi sbagliate di
grosso: siamo soltanto all’inizio.
Dopo varie peregrinazioni Orione recuperò miracolosamente la vista
grazie all’amore della dea Eos, l’Aurora, che in seguito sposerà e che ogni
mattina arrossirà al pensiero delle loro notti d’amore. Ma a innamorarsi di
Orione infine sarà anche Artemide e con un ardore più bruciante, poiché lei
era anche dea della verginità, vocata alla castità. D’altronde era una dea,
non una santa! Era inevitabile che a forza di condividere col possente
giovane galoppate nei boschi, finisse per bramare di deporre arco e frecce,
imboscarsi e galoppare con lui in altro modo.
Purtroppo, come sempre accade, il troppo amore guasta, e così la
leggenda narra due tragici finali: il primo vuole che Apollo, fratello di
Artemide, temendo per l’illibata divinità della sorella, con un inganno fece sì
che una freccia scoccata per mano della dea stessa uccidesse Orione; il
secondo racconta invece che Orione si negò ad Artemide adducendo come
pretesto l’amore per la moglie Aurora ma, quando l’amante respinta scoprì
la tresca che il bel cacciatore aveva intrecciato con le Pleiadi (le ancelle di
Artemide!), per vendetta gli scagliò addosso uno scorpione che lo uccise.
Comunque sia, a memoria dei fatti, Orione fu posto in cielo sotto forma di
costellazione.
Amori torbidi ed eletti, passioni incontenibili e castità, vendette,
tradimenti, punizioni e autopunizioni. Sesso e morte. Qui e là cogliete forse
un qualche rimando col nostro Scorpione?
Secondo la versione romana, Orione invece fu concepito da tre divinità:
Giove, Nettuno e Mercurio.
Detta così la cosa suona strana; il problema è che spiegandola risulterà
ancora più strana. Pare infatti che i tre dèi fossero scesi sulla Terra travestiti
da vagabondi per controllare l’operato degli esseri umani. Sotto queste
mentite spoglie chiesero ospitalità a Ireo, un povero contadino che li accolse
nella sua casa e offrì loro tutto il possibile, compreso come pasto l’unico
vitello che possedeva. Gli dèi, commossi, prima di partire svelarono al
contadino la loro vera identità e gli chiesero quale fosse il suo più grande
desiderio. Ireo, rimasto da poco vedovo, rispose che aveva amato molto la
moglie e non desiderava altra donna, ma il suo grande rimpianto era quello
di non aver avuto da lei figli. Giove, Nettuno e Mercurio urinarono allora
sulla pelle di quel vitello precedentemente ucciso e ordinarono a Ireo di
sotterrare la curiosa commistione. Nove mesi dopo da quella pelle nacque
Orione.
I riferimenti psicanalitici si sprecano. Innanzitutto abbiamo a che fare con
un concepimento privo della figura femminile, mentre il femminile della
vicenda è rappresentato da un’amatissima moglie morta, come morto è il
vitello dalla cui pelle viene rigenerata la vita attraverso l’urina, il cui
simbolismo, sia da un punto di vista erotico che psicologico, meriterebbe
una trattazione a sé. Certo non è questa la sede adatta. Mi ha sorpreso
tuttavia che del mito non figuri nessuna analisi “ufficiale” da parte della
psicologia. Credevo si trattasse di una mia lacuna e che al pari di altri miti,
come ad esempio Edipo, anche quello di Orione fosse stato affrontato da
Freud o da un altro big del settore. Pare proprio di no. Mistero, in puro stile
Scorpione.
La storia si fa ancora più intrigante se pensiamo che, andando indietro nel
tempo, la porzione di cielo occupata dalla costellazione di Orione era
denominata dagli antichi Egizi Duat: il regno dei defunti governato da
Osiride, dio della morte e della rinascita – e si torna ancora al dualismo
della morte, che con l’Eros è fine e principio di tutto. Orione di contro è la
stella verso cui il faraone ascendeva percorrendo la Via Lattea. Anche i
Maya, gli Aztechi, i Cherokee e molte altre popolazioni, distanti fra loro
millenni e continenti, hanno identificato nella costellazione di Orione il
punto di origine e fine. Persino nella Bibbia si legge: «Ecco, il giorno del
Signore arriva implacabile […] Poiché le stelle del cielo e la costellazione di
Orione non daranno più la loro luce».53 Come mai questa costante? Ancora
una volta non è questo il luogo per trovare una risposta al quesito. Tuttavia
è doveroso ricordare studiosi quali l’archeologo Robert Cormack, esperto
della civiltà Maya, Stansbury Hagar, autorità indiscussa riguardo
l’astronomia peruviana, e l’ingegnere ed egittologo Robert Bauval, giunti
rispettivamente alla conclusione che la capitale Maya Quiché, la città azteca
di Teotihuacan e il complesso delle piramidi di Giza in Egitto
corrispondono alla raffigurazione della costellazione di Orione nella
posizione che essa occupava nel cielo al tempo della loro costruzione.
Insomma, per quel che ci riguarda, tutto del nostro Orione/Scorpione
rimanda costantemente a un “oltre” ben poco terreno e terrestre. È come se
l’astrologia attraverso questo segno ci volesse ricordare a suo modo che la
vita ha connessioni remote, mentre la morte è rinascita per mezzo del
desiderio. Nulla di teologico, puro erotismo: in quanto tale inconciliabile
con l’occidentale, positivista tabù della morte, nonché col concetto di
“peccato” di cui per secoli è stata intrisa, e forse lo è ancora, la nostra
società. Ne sa qualcosa Martin Lutero, guarda caso Scorpione, che operò la
sua rivoluzione religiosa partendo proprio dall’emancipazione del peccato e
dell’eros. «Lo spirito di tristezza viene dal diavolo, che ci invidia la gioia»,54
affermò. Anche se lo stesso Lutero ebbe poi una, diciamo così, svolta
puritana, incarnando ancora quel senso e controsenso tipico del segno.
Fra peccato e santità, ascesi e baratri, alla fine di questa immersione
nell’universo dello Scorpione mi vien da pensare quanti artisti (e nello
specifico quanti comici) vanta questo segno: nel panorama italiano basta
ricordare, oltre la già citata Marchesini, Monica Vitti, Carlo Verdone, Gigi
Proietti, Roberto Benigni, Luciana Littizzetto. Forse allora lo Scorpione, fra
tutti i segni, è l’unico a essere sempre e comunque un sabotatore: in senso
distruttivo nei confronti di se stesso, in senso costruttivo nei confronti della
società; nel primo caso attuerà un ragionato, viscerale, inarrestabile
tormento per negarsi ogni resurrezione; nel secondo un altrettanto
ragionato, viscerale, inarrestabile tormento per trasformare in carezze per
l’anima i chiodi di ogni croce. La comicità non fa forse questo?
SAGITTARIO
S
Ho insistito più volte sul fatto che il Sagittario non solo è un segno doppio,
ma decisamente cangiante, e proprio le differenze fra un tipo e l’altro di
centauro sono le prove maggiormente addotte da scettici e sabotatori
esponenti del segno a dimostrazione della vacuità di quanto sostenuto
dall’astrologia.
La mitologia ci aiuterà a chiarire la faccenda. Tuttavia, prima di
addentrarci nel mito corrispondente al segno, a proposito della doppiezza
del Sagittario è opportuno evidenziare un dato imprescindibile: è l’unico
segno dello Zodiaco ad avere una corrispondenza astronomica non con una,
bensì con due costellazioni: quella del Centauro e quella del Sagittario
propriamente detta. La prima – perfettamente visibile dal nostro emisfero al
tempo degli antichi greci, mentre oggi, in conseguenza della precessione
degli equinozi, osservabile per intero dall’emisfero australe e soltanto in
parte dalle nostre latitudini – presenta l’intrigante peculiarità di contenere il
sistema stellare più vicino al Sole, l’ammasso globulare più luminoso della
volta celeste e la galassia attiva più vicina alla nostra.
La costellazione del Sagittario invece è composta a sua volta da due
regione: la Grande Nube del Sagittario e la Piccola Nube del Sagittario e
vanta il primato di comprendere dentro i suoi confini la zona più densa
della Via Lattea. Insomma, di univoco finora non c’è nulla. Nemmeno di
calmo e pacato considerando le prerogative astronomiche.
Per fortuna la mitologia giunge propizia a raccontare a suo modo la
curiosa corrispondenza fra i fatti celesti e quelli terreni, offrendoci due
leggende che racchiudono perfettamente l’intrinseca doppiezza del segno:
quella del centauro Chirone e quella del centauro Euritione. La vicenda di
Chirone, spesso più gettonata, viene associata alla prima costellazione; alla
seconda costellazione corrisponde invece l’altra storia, un tantino più
scomoda e per questo forse talvolta elusa, che narra della stirpe in sé dei
Centauri. Cominciare da quest’ultima pertanto credo sia più utile e
stuzzicante. Prima però, a costo di ripetermi, desidero esser certo che i fatti
vi siano ben chiari: alla costellazione del Centauro corrisponde il mito di
Chirone, mentre alla costellazione del Sagittario corrispondono Euritione e
la sua stirpe; al segno zodiacale del Sagittario di contro corrispondono
entrambe le costellazioni e i rispettivi miti. Questa è la fondamentale
premessa. Multiforme doppiezza!
Si narra che Issione, uomo brutale e smodato, a causa delle sue
nefandezze fu punito dagli dèi con la follia. Tuttavia Zeus ne ebbe pietà e
restituì al mortale il senno. Issione però non mutò affatto la sua indole
rozza, giungendo persino a tentare di concupire Era, moglie di Zeus. Il
padre degli dèi allora escogitò una punizione esemplare: volle che Nefele,
dea delle nuvole, assumesse le sembianze di Era per sedurre Issione; lo
sciocco cadde nell’inganno e Zeus, svelato il trucco, ordinò che l’ingrato
mortale venisse gettato nel Tartaro, legato a una ruota infuocata e quindi
scagliato nel cielo con la condanna di ruotare in eterno. Ma la punizione
non consistette solamente in questo: a memoria terrena dell’infamia del
bestiale Issione, dall’unione con Nefele, per volere di Zeus, fu generata una
creatura mostruosa, metà cavallo e metà uomo, il centauro Euritione
appunto. Questi, una volta cresciuto, si accoppiò con delle giumente e diede
così inizio alla stirpe dei Centauri.
Rinomata per la sua “signorilità”, l’animalesca casata fu protagonista di
numerosi raffinatissimi episodi, due dei quali hanno però una rilevanza
particolare (come d’altronde due sono le regioni di cui si compone la
costellazione del Sagittario). Il primo narra della rissa scoppiata al
matrimonio della figlia del re dei Lapiti. Euritione e famiglia, invitati alla
cerimonia nonostante qualche perplessità da parte del padre della sposa,
bevvero così tanto e parteciparono a tal punto alla gioia della festa, da
violentare alla fine gli ospiti, solo quelli giovani però. Come se non bastasse
Euritione tentò infine di rapire e violentare persino la sposa. Insomma gli
invitati perfetti per delle nozze da sogno! Chissà, forse lo sposo era Cancro e
aveva organizzato il tutto per tornare da mamma? O le consuocere erano
una Scorpione e l’altra Vergine e avevano tramato un piano per sabotare le
nozze? Non è il caso di approfondire queste mie deliranti ipotesi. Sta di fatto
che la rissa sfociò in una battaglia in piena regola, che si concluse con la
sconfitta dei Centauri. Della vicenda, nota col nome di Centauromachia, la più
famosa raffigurazione è quella del Partenone, di cui si possono ammirare
numerosi ampi frammenti presso il British Museum di Londra.
L’altra elegantissima perfomance è quella che vede invece protagonista il
centauro Nesso, il quale tentò di violentare Deianira, la seconda moglie di
Ercole. Colpito a morte dall’eroe, prima di morire per vendicarsi donò a
Deianira una tunica intrisa del proprio sangue, asserendo fosse una supplica
di perdono e che la veste, indossata da Ercole, lo avrebbe reso uno sposo
sempre fedele. Quando in seguito Deianira ebbe motivo di sospettare che il
marito la tradisse con una giovane e bella schiava, diede allora in dono a
Ercole la tunica; questi, non appena l’ebbe indossata, morì arso all’istante.
A parte la soavità dei modi e la lieve intemperanza sessuale tendente a una
qual certa propensione per la violenza carnale, a proposito di questi
centauri il lettore più accorto avrà notato anche un altro elemento: i due
episodi sopra citati sono strettamente connessi ad altri due celebri miti:
quello di Giasone (di cui la storia di Issione è il mitologico antefatto) e quello
di Ercole, non a caso corrispondenti rispettivamente al segno dell’Ariete e al
segno del Leone. La mitologia ci ricorda insomma che il Sagittario è un
segno di Fuoco, appartenente alla stessa astrologica famigliola dell’istintivo
(per usare un eufemismo) Ariete e dell’appena possessivo ed egocentrico (in
tono sempre eufemistico) Leone. Pertanto, con buona pace di molti Sagittari
caratterizzati da una specifica forma di intellettuale puzza al naso, in virtù
della quale prendono le distanze dai loro focosi parenti astrologici, fin qui di
intellettuale e chic il mito narra ben poco: i centauri sono esseri bramosi,
prepotenti e dalla smodata passionalità, che incarnano il peggio dell’essere
umano unito al peggio dell’animale.
C’è però un altro Sagittario, il centauro Chirone, del tutto differente e
senza parentela alcuna con Euritione e la sua stirpe. Chirone difatti è figlio
di Crono e della mortale Filira e, pertanto, fratellastro nientemeno che di
Zeus. A cosa deve allora la deformità del suo corpo? Al fatto che Crono, per
celare la propria identità alla fanciulla ed evitare la furia della moglie Rea,
assunse le sembianze di un possente stallone e così concupì Filira. Perché
quest’ultima abbia provato così tanta attrazione per un cavallo da unirsi a
lui sessualmente, resta un quesito arduo. Il mito di Ilona Staller potrebbe
illuminarci. Qui basta notare che l’aspetto di Chirone è comunque
conseguenza di una passione incontenibile e illecita. E difatti del suo corpo
Chirone ha vergogna, tanto da studiare le arti mediche nel tentativo di
guarire la propria deformità. Tentativo vano, però. In compenso Chirone
diventerà un medico così esperto da scoprire la panacea, erba guaritrice di
tutti i mali (tutti tranne il suo, che non è una malattia, ma una forma
d’essere); e soprattutto diverrà a tal punto saggio e incline all’insegnamento,
da annoverare fra i suoi discepoli addirittura Asclepio, dio della medicina e
figlio di Apollo, Dionisio e ovviamente Giasone ed Ercole.
I miti ancora una volta si intersecano. Fu proprio Ercole l’involontario
esecutore del compimento del destino del suo maestro. L’eroe infatti, reduce
dalla sua seconda fatica (l’uccisione del mostro dalle nove teste
simbolicamente connesso al segno dello Scorpione), colpì inavvertitamente
Chirone con una freccia sporca del sangue velenoso dell’Idra. Chirone però,
in quanto figlio di Crono, era immortale e il veleno, non potendolo
uccidere, agì su di lui con un continuo e insostenibile dolore, finché lo stesso
Chirone non chiese di spogliarsi dell’immortalità per porre fine alle sue
sofferenze. Zeus acconsentì. Non solo, ma in segno di rispetto verso il
fratellastro, volle trasformare Chirone nella costellazione del Centauro
affinché brillasse comunque di luce eterna. «Da allora Chirone incarna la
figura del guaritore ferito. Il saggio che conosce profondamente la natura
del dolore».57 Un ruolo così caro a tanti esponenti del segno! Alibi perfetto
di certi sabotatori. A monte di tutto, però, resta il sesso.
Laddove Chirone educa e forma, Euritione e famiglia brutalizzano senza
freni. Quel che il primo vive con vergogna, gli altri esternano impunemente.
Tuttavia, nonostante le origini diverse e le diverse modalità di vivere il
desiderio, quel corpo composto da due metà brutalmente congiunte è
comune a entrambi. Un’immagine simbolica, potente ed efficace, per
rappresentare l’erotismo umano: istinti e cerebralità in un unico essere.
Chirone potrà anche apparire – e per certi versi lo è – migliore degli altri
centauri, eppure il suo sforzo è tutto teso a reprimere e sublimare una
sessualità di cui ha vergogna e timore. Dato che si esenta dal confrontarsi
con essa, sarà il Fato a costringerlo. Lo Scorpione rappresenta infatti
l’ineluttabile potenza dell’eros e del thánatos, e la freccia è intrisa del suo
simbolico veleno. Così come l’altra freccia, quella che il Sagittario è sul
punto di scoccare, è rivolta nel cielo proprio verso la costellazione dello
Scorpione.
Resto incantato dall’eleganza e dalla precisione con cui la mitologia
racconta la dicotomia eros/ratio propria del Sagittario. E di conseguenza la
sua esasperata difficoltà di mediare fra razionale e istintuale. L’incanto si fa
in me assoluto stupore nel constatare come l’astrologia, quando e come non
si sa, abbia sintetizzato tutto ciò in un simbolo.
Avremo così il sabotatore che veste i panni di Euritione e quello che
predilige invece il ruolo di Chirone, o più ancora troveremo sabotanti
esponenti del segno in cui i due ruoli si alternano nel corso della vita o si
sovrappongono fra pubblico e privato. Eppure il succo è lo stesso. Perché il
Sagittario è uno. Duplice, multiforme, ma uno. E qualunque sia il suo stile
sabotante, implica l’esasperazione di una parte di sé, quella animale o
razionale, a discapito dell’altra. Non a caso fra gli esponenti del segno è
maggiormente avvertita la scissione fra sentimento e godimento sessuale.
Una condizione spesso stigmatizzata come tabù o farcita dei soliti efficaci
sensi di colpa, quando invece è abbastanza naturale. Certo non va
esasperata. Per fortuna il Sagittario così come incarna il problema,
impersona la soluzione.
Una mia amica ultraottantenne, ovviamente Sagittario, donna coltissima e
vissuta, resta una fervente sostenitrice di quanto i bordelli fossero la miglior
terapia per un buon matrimonio. E un’altra fantastica Sagittario, anche lei
vicina agli ottanta, una sera d’estate a cena a casa mia, quando riproverai il
mio cane perché le leccava una gamba, mi disse: «Lascialo stare, non fa
nulla. Sai da quanto un maschio non mi lecca le cosce?». Ci vogliono
coraggio e anni sulle spalle per sostenere certe tesi. Il Sagittario è in
grado di fare questo e altro. Così come può superare ogni sabotaggio
proprio per quel bisogno innato di andare oltre.
C’è un ultimo punto, implicito nel mito, che vale la pena sottolineare:
come si è detto, il Sagittario è un segno di Fuoco e casto o promiscuo,
mondano o monacale, troverà il modo di ricoprire il ruolo del leader. E lo
farà con la sottile peculiarità dettata dal condizionamento tipico del segno:
insegnare. Dietro cui si cela il comandare. Il Sagittario sabotante pertanto
attuerà la sua leadership in modo smaccatamente fallico: dove non ci sarà
sesso ci sarà allora esercizio di potere, danaro o, per i più astuti, sapere.
Magari soltanto nelle piccole cose domestiche, ma il fatto resta. Il solito
giochino della vittima che in realtà si rivela carnefice.
Ci sarebbero altri elementi da sviscerare, ad esempio il concetto di
“verità” e “legalità”, tanto cari agli esponenti del segno. Ma si rischia di
mettere troppa legna la fuoco e il fuoco del Sagittario è già ardente di suo.
Pertanto meglio concludere qui. Anche perché il Sagittario, oltre a essere il
più scettico, è forse il segno più permaloso dello Zodiaco. A questo punto
allora non oso immaginare le critiche e i commenti. E c’è di più. Sono certo
che alcuni di loro, fra una telefonata, un messaggio o una mail, troveranno il
modo di spiegarmi cosa ho sbagliato e perché. Il bello è che qualcuno avrà
pure ragione!
CAPRICORNO
È ovvio che la differenziazione fra i due tipi non è sempre così netta. Jung lo
ribadisce più volte: esistono delle sfumature, delle compensazioni nella
personalità di ogni individuo, ma a seconda di quale approccio tende a
prevalere avremo il tipo introverso o il tipo estroverso. E il Capricorno che
tipo è? Qui viene il bello! La sua natura di segno di Terra pone il senso della
realtà nel mondo oggettivo esterno. Esiste solo ciò che si vede e ciò che si
tocca con mano. La verità è reale ed è tale perché tangibile. Liz Green
scrive:
L’elemento terra è in correlazione con la funzione della sensazione e la funzione
della sensazione è la funzione della realtà. Il tipo terra non può accettare niente
che non sia sostenuto dalla testimonianza dei suoi sensi, d’altronde la sensazione dà
valore solo a ciò che può percepire.59
Tuttavia è vero anche che il Capricorno nel ruolo del “bravo bambino” ci
sguazza e il sabotante ci sciala, e dietro la maschera indossata per la società
si nascondono i gatti neri di Edgar Allan Poe.
A proposito di lamenti silenziati, mi viene in mente un episodio della vita
sentimentale di una mia cara amica Capricorno ascendente Vergine, la
quale pianse per giorni in una camera d’albergo con un cuscino in bocca
quando disse addio al suo compagno austriaco, che mesi prima si era
scoperto in Austria sposato con figli. Ad accompagnarla nel romantico
viaggio fu un’altra amica, Toro , la quale in una mitica telefonata mi
disse: «Ma perché venire fin qui per torturarsi? E perché piangere col
cuscino in bocca? Poi nemmeno ha voluto farci sesso. Con Lucas, non col
cuscino. Mah, almeno avrebbe ammortizzato il prezzo del biglietto!
Comunque stasera ho deciso che cucino le melanzane alla parmigiana, a lei
piacciono». L’esito della taurina parmigiana austriaca fu devastante, in ogni
senso. A pensarci bene anche un’altra mia carissima amica, lei invece
Vergine ascendente Capricorno, anni fa pianse per sei mesi con un cuscino
in bocca. In questo caso lei aveva lasciato lui perché non poteva seguirlo.
Dove, tutt’ora non è chiaro.
Non è facile accordarsi alle evoluzioni della vita. Non lo è per nessuno.
Ma è proprio di questo che parla il mito corrispondente al Capricorno, così
come in un tema natale Saturno parla fondamentalmente di ciò che è
irrisolto. Portarlo a galla non è mai una passeggiata, sono spesso i fatti più
dolorosi a imporci il confronto con noi stessi. Ma nonostante la durezza del
mito, questo non rende Saturno un infelice, semmai il saggio re dell’Età
dell’oro. Il sabotante di tutto ciò non vuol saperne. Preferisce opporsi al Fato
e rinchiudere i propri amori/figli, in una grotta o divorali, logorandosi (e
logorando gli altri) nel complesso più devastante: non avere su gli altri il
potere desiderato. D’altronde fu Giulio Andreotti, Capricorno ascendente
Capricorno, a dire: «Il potere logora chi non ce l’ha».64
Per cominciare a disinnescare questo sabotaggio basterebbe allora un
pizzico di umiltà. Non complessi, ma umiltà, assai diverso. Quella stessa
che, in nome del proverbiale orgoglio tipico del segno, molti Capricorno
disconoscono. Soltanto qualche granello di umiltà: se nemmeno i padri di
tutti gli dèi poterono sottrarsi all’evoluzione, potrà mai farlo un comune
mortale? È logico impegnare tutte le proprie forze per vivere retroversi? Il
Capricorno sabotante, granitico e austero, vi risponderà di sì.
ACQUARIO
Mettiamola così: il sabotatore come sempre è assai più arguto del semplice
sprovveduto. Avverte ciò che potrebbe essere, perciò lo sabota. Nel caso
dell’Acquario usare la libertà come alibi per nascondere il “disagio della
libertà” è una roba sopraffina, un procedimento tutto mentale, così come
cerebrale è l’Acquario.
Sì, lo so, avete ragione. Il discorso si è fatto pesante. Succede sempre così
coi segni d’Aria, sabotanti o no: sembrano leggeri, allegri, impalpabili, e per
certi versi lo sono davvero, poi però la loro doppiezza rivela un’inquietante
cervellotica pesantezza. E più si tenta di analizzare il funzionamento di
questi zodiacali aquiloni, più ci si accorge che sono fatti in fibra di plutonio!
Con l’Acquario la questione poi è particolarmente sfuggente, e confesso che,
nonostante quel che ho scritto, ancora non mi sento soddisfatto. Mi sembra
di non aver acciuffato attraverso le parole il sofisticato, lieve, svampito,
micidiale meccanismo che spinge l’Acquario al sabotaggio della propria vita
affettiva.
Per fortuna giunge sempre in soccorso la letteratura.
Nel racconto Phyllis e Rosamond Virginia Woolf (Acquario) parla di due
sorelle della buona società inglese dei primi del Novecento. Le ragazze sono
in età da marito e la loro giornata, sotto la ferrea guida della madre Lady
Hibbert, è tutta incentrata nel trovare il miglior partito. Si tratta di un
regime claustrofobico. Rituali ben precisi regolano la preparazione a feste e
tè, mentre rigide valutazioni ne scandiscono lo svolgimento. L’amore come
movente è escluso. Tuttavia le ragazze sono felici. «Per sua misericordia il
Buon Dio ci ha rese idonee al nostro stato»68 afferma acutamente Phyllis.
Finché non si imbattono nelle sorelle Tristram, che abitano in un quartiere
di Londra meno altolocato dove «si poteva crescere come si voleva».69 Nel
salotto delle Tristram gli argomenti erano assai diversi da quelli a cui Phyllis
e Rosamond erano abituate e, tornando da una di queste riunioni, in Phyllis
si insinua un dubbio: «Che cosa voleva realmente? Per cosa era adatta? Per
criticare entrambi i mondi e sentire che nessuno dei due le dava quello di
cui aveva bisogno?».70 Virginia Woolf non risponde e conclude il suo
racconto riferendoci di Phyllis: «I suoi ultimi pensieri della sera sono stati
che era un vero sollievo che per l’indomani Lady Hibbert avesse disposto
per loro una giornata piena di impegni: quantomeno non avrebbero dovuto
pensare».71
Appurato il movente del nostro sabotatore, resta da tratteggiarne il modus
operandi. È possibile identificarne due: il primo dinamico o transitorio, e il
secondo statico o a lunga gittata. La versione dinamica vanta un ampio
ventaglio di campi d’applicazione: i viaggi, lo sport, il cucciolo trovato per
strada, quel raduno buddista, il circolo letterario del giovedì, il monaco
tibetano del venerdì, la lezione di pilates tantrico e molto altro. Si tratta di
impegni a breve raggio, ma la cui frequenza impegna il nostro Acquario così
da sfuggire, in nome della libertà, a una reale, matura e consapevole
indipendenza.
Nel secondo caso, ovvero nel sabotaggio statico, l’Acquario sceglie invece
un elemento fisso che funge da autentica palla al piede. A volte la catena
sarà costituita da una circostanza che costringerà il soggetto a una certa
immobilità, altre volte si tratterà proprio del partner, o pseudo tale, scelto ad
arte per chiudersi in una gabbia dentro cui lamentarsi per la smarrita
libertà. Con quest’ultima affermazione so bene di essermi guadagnato una
valanga di critiche. Per incrementarle ulteriormente aggiungo che il partner
in questione possiederà di certo almeno uno dei seguenti requisiti: 1) avrà
bisogno di “aiuto”; 2) abiterà a svariati chilometri di distanza 3) presenterà
una spiccata differenza d’età; 4) sarà benestante.
I primi due sono quelli più ricorrenti, d’altronde si sa che l’Acquario ha
una vocazione filantropica e viaggiatrice. Immolarsi per qualcuno è perciò
un’ottima opportunità per sabotare la propria vita, così come la distanza
evita l’evoluzione di un rapporto. Il terzo e il quarto requisito sono invece
connessi ad altre due caratteristiche del segno: venerazione della giovinezza
e snobismo radical chic. In merito al primo punto per l’Acquario infatti non
solo la giovinezza è bella, ma è tutto. La vecchiaia è brutta e non deve
esistere. Nulla a che vedere, ben inteso, con l’estetismo della Bilancia o col
narcisismo del Leone. Nel caso dell’Acquario la valutazione è ben diversa: la
giovinezza equivale al trionfo delle opportunità, la vecchiaia alla loro fine. Il
sabotatore sceglierà quindi partner troppo giovani o troppo agè, dipende dai
gusti.
Per quanto riguarda invece lo status sociale, è qualcosa a cui ogni
Acquario mira, seppur in modo new age. Perché l’Acquario crede davvero
nei suoi slogan: via inutili apparenze! Via borghesi tombe del pensiero! Vade
retro vile danaro, consumismo e banche che hanno distrutto il pianeta e
l’umanità! Eppure l’Acquario raramente sceglierà per sé come partner
l’autentico naturalista squattrinato o l’ecologista sinceramente in lotta col
mondo: resta pur sempre un principino, con uno snobismo intellettuale
tutto suo, in nome del quale gradirà tutte le deprecabili comodità del bel
mondo. L’Acquario sabotante a quelle comodità lo ritroveremo abbarbicato,
seppur con leggiadria.
Come sempre accade, una cosa tuttavia non esclude l’altra, né i
comportamenti sono mai così netti e così evidenti da poter esser rintracciati
in un colpo solo. Quasi sempre le carte si mischiano e si confondono. Il
sabotatore poi è assai furbo, e la bandiera della libertà è un alibi che
sventola bene.
Ancora una volta Colazione da Tiffany risulta il manifesto di questo tipo di
sabotaggio. Ed è il personaggio di Paul, quando nella scena finale si rivolge
a Holly, a riassumere tutto in un ritratto di assoluta precisione:
Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di
coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci
si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera
di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi
che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te
la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in
qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra,
finirai sempre per imbatterti in te stessa.72
Dopo questa tirata il film si conclude con l’happy ending necessario al grande
pubblico. Si tratta dell’unico, comprensibile torto che la pellicola fa al libro.
Il genio di Truman Capote infatti conclude diversamente le sue pagine.
Molti di voi avranno visto il film. Vi consiglio di rivederlo e poi leggere il
libro, breve e stupendo. Troverete tutto quello che qui ho tentato di
comunicarvi. Forse soltanto l’Acquario sabotante non si riconoscerà. Ma
questo fa parte della libertà di scegliere.
E à
«Perché un corvo è simile a una scrivania?»73 chiede il Cappellaio matto ad
Alice. Del celebre indovinello nemmeno il Cappellaio conosceva la risposta.
Così come non ne aveva idea lo stesso autore, Lewis Carroll, il quale però
dovette escogitarne una in seguito al successo del libro e alla pressante
richiesta dei lettori. Perciò nella prefazione dell’edizione del 1896 Carroll
scrisse:
Mi sono state chieste spiegazioni così spesso in merito al fatto che una risposta
all’indovinello del Cappellaio si può immaginare, che posso anche mettere per
iscritto qui quella che a me sembra essere una risposta appropriata: perché è in
grado di produrre note, anche se molto piatte, e non può essere mai messo al
contrario! A ogni modo, questo è un semplice ripensamento; l’indovinello fu
pensato per non avere soluzione.74
Eloquente. Forse non sarà il caso di Roth, tuttavia sono convinto che sia
proprio questa pseudocompletezza a consentire ai Pesci di proiettare a
oltranza sull’altro.
Qualcuno potrebbe obiettare allora che un soggetto simile potrebbe
innamorarsi di chiunque senza dare alcun valore alle caratteristiche
specifiche di quella persona: non è così, almeno non del tutto. È ovvio che ci
debbano essere delle peculiarità che facciano scattare la scintilla, ma se
l’altro non è strutturato in modo da prestarsi alla totale proiezione dei Pesci,
la scintilla finisce lì. Anzi, più che strutturato, a pensarci bene l’altro deve
essere sufficientemente de-strutturato, così da consentire al famigerato
incanto di compiersi.
C’è qualcosa nelle parole di Roth che coglie e rivela il punto debole di
questo ingranaggio. Roth parla di «platonica unione delle anime» e difatti
quasi tutti i Pesci tendono al platonico; e cosa c’è di meglio del platonico
affinché l’amore sia altrove, diverso, altro, anni luce lontano dall’immanenza
della realtà e dalle responsabilità che essa implica? Il sesso in questo caso
rompe l’incanto, svelandone l’inganno. Difatti lo stesso Roth afferma: «Per
quante cose tu sappia, per quante cose tu pensi, per quanto tu ordisca e
trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso».83 Il sesso insomma
strappa il velo dietro cui c’è la realtà. Parlando di velo e realtà a questo
punto non ce la faccio a non tirare in ballo Schopenhauer, Pesci anche lui. Il
grande filosofo, a suo buon cuore, astrologicamente ci aiuta più di chiunque
altro a comprendere cosa distingue un pesciolino sabotatore da un
pesciolino guizzante. Non è questione di pianti, deliri, proiezioni e follie
varie. No, c’entra il noumeno! Vi garantisco che non sto farneticando.
Schopenhauer distingue fra rappresentazione della realtà e noumeno: la
rappresentazione della realtà non coincide con la verità, il noumeno è invece il
fatto autentico che sta dietro la rappresentazione. A questo si accede
attraverso la volontà. Nel nostro caso, con buona pace di Schopenhauer, si
potrebbe dire quindi che mentre il Pesci folle, ma non sabotante, userà i
condizionamenti del suo segno per accedere al fatto oltre la
rappresentazione, il sabotante si limiterà alla rappresentazione. L’amore in
questo caso sarà quindi una rappresentazione fine a se stessa, felice o
infelice, fedele o infedele, assennata o scriteriata, ma del tutto fine a se
stessa. Una nebbia di sentimenti evaporati dentro cui è quasi impossibile
guardare e, semmai ci si riesce, si scopre che dentro non c’è nulla. Per
questo il sesso, o meglio l’eros, tanto desiderato e decantato a parole, sarà
invece il nemico numero uno, poiché elemento autentico e quindi
scardinante che, come già detto, riporta tutto sul piano della realtà.
In altre sedi ho indugiato sul fatto che questa tendenza al platonismo
spinge i Pesci a una forma cronica di infedeltà, desiderando sempre qualcun
altro, lontano, sognato, altrove. Ma molti soggetti non ne sono consapevoli e
comunque non è una caratteristica che di per sé rende un soggetto
sabotante. Come sempre il sabotatore è più acuto e consapevole, e in questo
segno è assai meno svampito di quanto lasci supporre. Cambiano i caratteri,
ma un punto fondamentale resta: il sabotatore deve avere la situazione sotto
controllo, altrimenti non può operare il proprio sabotaggio. Nel caso del
sabotatore Pesci quindi tutti gli eccessi emotivi del segno – collassi,
disperazioni, segnali d’amore cosmico, allucinazioni di gioia e mistici
vaneggiamenti vari – hanno un fondo di consapevolezza decisamente
maggiore rispetto alla sincera deriva emotiva in cui versano i non sabotanti.
Il Pesci sabotatore è un diverso che ha paura della propria diversità, e lo
sa; un insicuro consapevole della propria insicurezza, tanto da farne il punto
di forza del proprio sabotaggio.
Per concludere, rispetto agli undici profili precedentemente elencati,
questo squamoso sabotaggio presenta una peculiarità purtroppo accentuata:
mai come in questo caso gli altri possono essere del tutto calpestati. Parlo
soprattutto di eventuali figli o di chiunque si frapponga in modo realistico e
concreto, fosse pure con la sua semplice presenza, fra il Pesci sabotante e le
sue “emozioni”. Ovviamente questa mia affermazione sarà fonte di
massima indignazione. Ma ne resto convinto. Il Pesci sabotatore ignora del
tutto i reali bisogni dell’altro e, quando un qualche rimorso affiora, troverà il
modo di anestetizzarlo. Si tratta di un autogol clamoroso, come ogni
sabotaggio, ma d’altronde, senza cadere in facili slogan, è inevitabile che chi
ignora gli autentici bisogni altrui finisca per ignorare anche i propri. Sempre
per amore però!
Come poter disinnescare tutto ciò? Ah, non ne ho la più pallida idea.
Avevo anticipato all’inizio che non posso competere con il Caos che
organizza se stesso per sabotarsi. Qui ci vogliono Schopenhauer, Fromm,
Roth, Einstein e altri geni. Non io.
Tuttavia ripensandoci, grazie a queste menti, un antidoto è affiorato e vale
la pena ricordarlo: la volontà di andare al fatto. Di più non so. Mi spiace
soltanto che per ogni Pesci sabotante, veniamo privati di qualcuno che
potrebbe consegnare a noi comuni terrestri valide alternative sconosciute.
L’A
Con l’ultimo segno dello Zodiaco, ultimo per modo di dire poiché il cerchio
ricomincia, la mitologia sfoggia un colpo di scena da lasciar senza fiato. Chi
ha letto i paragrafi dedicati al Capricorno sarà vagamente preparato al
fatto, ma gli altri potrebbero restarne turbati. Sopratutto i pesciolini più
romantici e sognanti, che si aspettano dal mito una delicata e struggente
prova del loro sconfinato sentimento. Niente di più diverso purtroppo da
quello che la mitologia ci racconta.
A proposito del segno dei Pesci abbiamo a che fare infatti col mostro più
terribile con cui gli dèi si siano dovuti scontrare: Tifeo, tanto potente da far
tremare l’Olimpo. Si tratta di una creatura orribile, dalle dimensioni di una
montagna, con cento teste di serpente che gli si intorcinavano sulle spalle,
grandi ali di pipistrello e al posto delle gambe altre serpi. Da tutte queste
bocche uscivano talvolta suoni eterei e incantatori, altre volte latrati e
lamenti orribili. Non a caso il nome “Tifeo” deriva dal greco týfein, “fare
fumo”, in un’accezione che ha in sé qualcosa di stupefacente. Chiedo scusa
per le mie irriverenti incursioni, ma affidandomi all’esperienza dei lettori
(non Pesci!), trovate forse una metafora più adatta per descrivere certi
esponenti del segno?
La mostruosità di Tifeo è soltanto direttamente proporzionale al movente
del suo concepimento. Gea infatti lo mise al mondo con un fine ben preciso:
annientare Zeus. La vicenda è strettamente connessa col mito di Crono,
inerente al segno del Capricorno. Qui basta ricordare che Gea, sposa di
Urano e nonna di Zeus, quando quest’ultimo sconfisse il padre Crono, da
nonna tenera e affettuosa non esitò a unirsi a Tartaro, signore della regione
più profonda degli Inferi, per generare Tifeo, che avrebbe ucciso Zeus e
concesso a lei di esercitare ancora il suo potere.
Così però non andò: Zeus infatti sconfisse Tifeo, ma lo scontro fu terribile.
Il mostro infatti oltre all’aspetto spaventoso possedeva anche una furia
distruttiva senza pari, tanto da scuotere l’Olimpo e costringere tutti gli dèi
tranne Zeus alla fuga. Si narra che per sfuggire a Tifeo ogni divinità si
trasformò in un animale diverso; Afrodite e suo figlio, il piccolo Eros, furono
sul punto di essere catturati e per salvarsi si gettarono in acqua
trasformandosi in pesci. Prima però, per non perdersi, legarono le loro code
con una fune: affascinante riscontrare che la stella Alfa della costellazione
dei Pesci anticamente era chiamata Alrisha, che in arabo vuol dire “corda”.
A onor di cronaca il mito presenta numerose piccole varianti; secondo la
versione riportata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, Afrodite ed Eros furono
salvati da due pesci che li soccorsero conducendoli in salvo, per taluni in
mare, per altri in un fiume.
Comunque sia il dato saliente è che Amore, nella sua duplice
personificazione Afrodite/Eros, fu sopraffatto a tal punto da Tifeo da
rischiare l’annientamento e si salvò soltanto perché, trasformandosi, fuggì.
Amore, morte, trasformazione, fuga, salvezza. Ritroviamo così concentrate
tutte le parole chiave di questo segno. La sequenza nella vita reale però non
è sempre quella esposta. Se difatti è del tutto legittimo affermare che la
fuga/trasformazione in conseguenza di un sentimento sia un dato frequente
nella vita dei Pesci, non si può certo dire altrettanto della salvezza. Spesso il
meccanismo viene invertito e, in nome di quell’amore “mostruoso”, la
trasformazione assume i toni dell’annullamento di sé, mentre la fuga muove
nella direzione opposta, verso il sentimento stupefacente e letale. Allora si va
dritti in bocca a Tifeo. E visto che il mostro di bocche ne ha cento, si può
ripetere l’esperienza a oltranza!
Attenzione tuttavia a non cadere nel facile, e comodo, errore di dividere i
buoni dai cattivi. Il condizionamento del segno, quel condizionamento dal
tratto tutto emotivo, sognante, potente e relativo, trova il suo corrispettivo in
Afrodite ed Eros quanto in Tifeo. Pertanto la mitica vicenda va considerata
in tutta la sua interezza, senza tralasciare, anteporre o sminuire nulla.
Bisogna tenere sempre presente il motivo del concepimento di Tifeo, il fatto
che tutti gli dèi fuggirono in tempo, mentre soltanto Afrodite ed Eros
indugiarono confusi; e infine il dato meno romantico, che Tifeo è
inequivocabilmente più forte di Amore.
Ognuno tragga le sue conclusioni, altrimenti ci perdiamo in analisi
soggettive che ci condurrebbero in pagine di un’altra realtà parallela.
Meglio evitare. D’altronde il sabotatore avrà già trovato la sua relativistica e
paracula (scusate, ma non c’è altro termine che renda) interpretazione:
trasformare per fuggire non è forse il suo talento?
Ma a proposito di squamosi trasformismi e fughe guizzanti, bisogna
ricordare anche che fu Pan, mutandosi per metà in pesce, a dare l’allarme e
consentire agli dèi di fuggire da Tifeo, per poi tornare sull’Olimpo e aiutare
Zeus a sconfiggere il mostro. Il simbolismo legato alla figura del pesce
ricorre nella sua accezione salvifica, e non soltanto nella mitologia greca.
Successivamente lo ritroviamo infatti persino nel cristianesimo, dove la
parola greca ichthys, “pesce”, diviene un codice: ΙΧΘΥΣ (la trascrizione
greca) è composta dalle iniziali Iησους Xριστος Θεου Υιος Σωτηρ che significa
letteralmente “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”; perciò i primi cristiani
al tempo delle persecuzioni utilizzavano l’immagine di un pesce stilizzato
come clandestino simbolo di riconoscimento delle chiese e delle case dei
fedeli. Con un balzo indietro nel tempo il pesce lo troviamo anche nel mito
dei sette sapienti, per metà umani e per metà pesci, che secondo i babilonesi
furono coloro che istruirono e instradarono il genere umano prima del
diluvio universale. Oannes era uno dei sette, descritto da Berosso nella sua
Storia di Babilonia del 276 a.C. come un misterioso essere anfibio apparso di
colpo, che «insegnò le lettere, le scienze, le arti e i cui insegnamenti erano
universali. Quando tramontava il sole, l’essere si tuffava in mare e attendeva
tutta la notte nelle profondità marine. Dopo di lui apparvero altri esseri
simili a Oannes».
Curioso come il tema delle creature anfibie, giunte in tempi remoti per
emancipare l’umanità, ricorra in numerosissime culture e, laddove non
compaia direttamente, ne ritroviamo tracce e varianti. Non per nulla è
materia di studio da parte di quei ricercatori, alcuni meno fantasiosi di
quanto si possa pensare, che affermano di un contatto fra civiltà aliene e
civiltà terrestri impresso nella notte dei tempi.
Attenzione però, qui si rischia davvero di perdere il filo divagando nel
cosmo. Quel che a noi interessa in questa sede terrestre è che, alla luce di
quanto esposto, il soggetto Pesci è inequivocabilmente definibile come
“alieno”. Tranquilli, non sono uscito di senno, non del tutto. Mi riferisco al
significo originale del termine e non a quello da noi attribuitogli in seguito:
“alieno” deriva alienus, che significa “altrui, di altri”, vocabolo latino
derivante a sua volta dal greco allόtrios, che vuol dire “forestiero, estraneo”,
ma anche “nemico”. Il soggetto Pesci è quindi alieno in quanto altro da sé; e
si potrebbe tranquillamente aggiungere anche forestiero, estraneo e nemico
di se stesso. Non è forse questa una definizione calzante di quell’amore
espresso dalle vicende di Afrodite, Eros e Tifeo? Il sentimento dei Pesci,
sabotanti o meno, non è forse alienato dalla realtà?
Se il soggetto promette bene, mettiamola così, quell’emotiva alienazione
sarà un risorsa preziosa, un ponte per andare oltre la mera realtà e scoprire
quindi altre realtà; se invece il soggetto rema contro, più drastico sarà il suo
sabotaggio e più la realtà verrà manipolata in modo da non trovare alcuna
alternativa e ristagnare in uno stato fumoso, delirante e del tutto
inconcludente.
A conferma di questa tesi, è imbarazzante l’ulteriore quantità di miti e
leggende che si potrebbero citare. Mitologia e astrologia riservano infatti al
segno dei Pesci numerose altre storie e non potrebbe essere altrimenti per un
segno doppio la cui doppiezza riguarda universi paralleli. Citarli tutti è
impossibile, ma vale la pena ricordarne qualcuno per puntualizzare, semmai
non fosse ancora chiaro, con chi abbiamo a che fare. Ad esempio il mito di
Cassiopea, una regina talmente “fumosa” da volere competere con gli dèi, e
perciò annientata da un mostro scagliatole contro da Poseidone. Questo
mito, qui sintetizzato in modo brutale, è quello utilizzato da André Barbault
per descrivere il carattere dei Pesci, «dove il tentativo di cambiare fisionomia
si rapporta a un impulso inconscio di non avere forma reale o meglio di
fuggire dalla realtà».84 Infine non si può omettere il mito di Orfeo, al quale
gli dèi concessero di attraversare gli Inferi e riportare in vita l’amata
Euridice, a una sola condizione: che mai si volgesse a guardare la fanciulla
prima di essere di nuovo sulla Terra, poiché l’interazione fra vivi e defunti
ha dei limiti invalicabili. Orfeo però, poco prima di giungere in salvo, si
voltò ed Euridice fu morta per sempre. Un sabotaggio esemplare! Si
potrebbe continuare, ma credo vi basti. Come sottolinea Liz Green a
proposito di questi e di altri miti o favole posti in relazione al segno dei
Pesci, il dato ricorrente consiste nell’incontro dell’essere con «un altro livello
di realtà». Spetta al soggetto decidere se connotare questo incontro in
chiave costruttiva o distruttiva, boicottandolo o favorendolo. Fra i due
estremi il ventaglio di possibilità è così ampio da risultare vertiginoso. Come
scrisse il Pesci Gabriel García Márquez in L’amore ai tempi del colera: «Lo
spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere
limiti».85
Capitolo 4
Le gioie della famiglia
S fi
M. Caregnato, “Crono-Saturno: il Signore del tempo, del karma e del libero
arbitrio”, www.ilcerchiodellaluna.it
L. Fassio, www.eridanoschool.it.
Genesi 27:8-13, Conferenza Episcopale Italiana, www.biblegateway.com
I. Levi, “Da Giacobbe a Ulisse. Una coazione a ripetere”, www.rodoni.ch
V. Rossi, «Satisfiction», 16 settembre 2011
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S. Freud, C.G. Jung, Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), Bollati Boringhieri, Torino 1990.
L.M. Krauss, L’universo dal nulla. Le rivoluzionarie scoperte che hanno cambiato le nostre basi scientifiche, Macro,
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C.G. Jung, Opere, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 527.
L. Morpurgo, Il convitato di pietra. Trattato di astrologia dialettica, TEA, Milano 2004, p. 45.
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