PDF P. P. Viazzo, ''Introduzione All'antropologia Storica''
PDF P. P. Viazzo, ''Introduzione All'antropologia Storica''
PDF P. P. Viazzo, ''Introduzione All'antropologia Storica''
Nel 1899 lo storico del diritto inglese Frederic William Maitland (1850-1906),
arrivò a sostenere durante una conferenza che l’antropologia si sarebbe
trovata di fronte alla scelta ‘’tra essere storia o essere nulla’’.
Nel cinquantennio successivo l’antropologia, soprattutto in Gran Bretagna e
Stati Uniti, decise di non essere storia, producendo risultati che portarono nel
1963 un giovane storico, Keith Thomas, a sostenere che era ora la storia a
dover scegliere se ‘’essere antropologia o essere nulla’’.
Con queste parole Thomas voleva invitare i colleghi a prestare più attenzione
al lavoro degli antropologi, e ad adottarne metodi e prospettive teoriche; un
consiglio che venne colto al balzo da uno storico eminente come Le Goff, che
definì l’antropologia come l’interlocutrice privilegiata della ‘’nuova storia’’.
Anche se l’esigenza di riavvicinarsi alla storia è stata sentita forse più dagli
antropologi, quello che importa è che questi scambi hanno portato
all’emergere di una nuova disciplina: l’antropologia storica.
Si deve sapere che il già citato Bernard Cohn era inizialmente professore in
un dipartimento di storia, cosa che gli diede modo di osservare usi e costumi
della ‘’tribù degli storici’’.
Ciò che più lo colpì fu l’aurea di sacralità assegnata all’archivio, luogo in cui si
celebrava il ‘’culto dei fatti’’.
Addirittura l’antropologo Orvar Lofgren, quando ancora era studente di
storia, raccontava che molti storici ‘’cercavano prima le fonti e poi i problemi’’.
Questo atteggiamento positivista era più accentuato in alcuni paesi piuttosto
che in altri, tuttavia le differenti esperienze geografiche di Lofgren e Cohn ci
dimostrano che , intorno agli anni Sessanta del XX secolo , era il disinteresse
degli storici per la teoria a differenziare questi dagli antropologi.
Questo disinteresse creò un ambiente stagnante, che spinse molti ad
allontanarsi dalla storia, e che invece generò in altri un desiderio di
rinnovamento.
A quest’ultima categoria si deve ascrivere Eric Hobsbawm (1917-2012), che
già nel 1972 raccomandava agli storici di seguire dei modelli analitici e di
avere la propensione alla teoria dell’antropologia sociale.
Negli anni successivi però lo stesso Hobsbawm si è fatto più critico anche
della teoria, individuando come minaccia i ‘’branchi di teorici che si aggirano
intorno alle pacifiche mandrie degli storici’’.
Oggi gli storici attribuiscono alla critica letteraria la responsabilità della crisi
che sta vivendo la disciplina, dimenticando che fu l’influenza di alcune
correnti antropologiche, come lo strutturalismo di Lévi-Strauss e
l’antropologia interpretativa di Geertz, a spingerli su questa strada.
Gli stessi storici che anni fa suggerivano, pur senza particolare convinzione la
‘’fecondazione interdisciplinare’’, oggi sono i primi ad arroccarsi; un esempio
molto valido è proprio Hobsbawm, uno dei ‘’padri’’ dell’antropologia storica.
La situazione di oggi è assolutamente antitetica rispetto al passato: se una
volta antropologi come Malinowski e Lévi-Strauss erano indicati come nemici
della storia, essi vengono ora presentati come antesignani dell’antropologia
storica.
Anche il terreno in cui si muove l’antropologia è però oggi in via di
trasformazione, in quanto anche esso è stato travolto dal dibattito post-
modernista.
Il dibattito aperto da Clifford Geertz (1926-2006) ha portato a mettere in
discussione la stessa figura dell’etnografo.
Un momento di svolta importante è rappresentato dalla pubblicazione nel
1986 di Writing Culture di James Clifford e George Marcus, che hanno
sottolineato le affinità tra la produzione letteraria e quella antropologica,
mettendo dunque in luce la natura partigiana e incompleta di quest’ultima.
I critici della storia scientifica hanno invece sottolineato che la narrazione
storica necessita di un salto immaginativo al fine di collocare eventi e fatti
all’interno di una vicenda coerente.
Si arriva così al rimettere in discussioni i presupposti che avevano portato alla
nascita della storia intesa come disciplina accademica e professionalizzata nel
corso dell’Ottocento, oltre al precetto stesso che lo storico potesse ricostruire
la verità.
Rispetto a quanto accade nell’antropologia però , queste discussioni sono in
ambiente storico molto meno centrali: in Italia e Gran Bretagna l’attenzione
posta su questo è superficiale, in Francia c’è una situazione simile, mentre
negli Stati Uniti è stato molto acceso per merito dei lavori di Hayden White
(1928-2018).
Si deve notare che negli U.S.A. sono molti gli storici che considerano
l’antropologia corresponsabile della crisi aperta dal postomdernismo.
Sui primi lavori di White ebbe una netta influenza il pensiero di Lévi-Strauss,
egli in seguito ha rivolto a Geertz l’accusa di aver introdotto un eccessivo
soggettivismo e un relativismo estremo (in questo senso non appare più
come necessariamente conciliante la posizione di Sahlins sulle ‘’differenti
storicità’’).
Va detto in effetti che oggi anche tra gli antropologi storici vi è una tendenza
negativa al leggere sempre meno lavori storici, rispetto a quanto si faceva
fino a qualche anno fa.
Come ha osservato l’antropologo Anton Blok, oggi i suoi colleghi fanno
riferimento ‘’primariamente alle idee di altri antropologi’’.
Da queste informazioni è possibile comprendere quanto difficile sia definire
con esattezza il campo e le caratteristiche dell’antropologia storica.
A queste differenze si devono poi aggiungere quelle presenti in una stessa
disciplina: in Francia l’antropologia storica è stata da sempre vista come una
prosecuzione dell’attività dell’Annales, mentre nel mondo tedesco si è posta
in antitesi con la tradizione storica dominante.
L’antropologia storica pare dunque un terreno di frontiera, posta a metà tra
storia e antropologia: un terreno in cui, seppur non siano mancati gli scontri,
è emersa un’identità collettiva, legata comunque alla specificità dei singoli
contesti e delle situazioni.
Questa identità trova espressione in un canone non rigidamente definito, ma
condiviso, di letture; in definitiva si può affermare che l’antropologia storica
rimane un cantiere aperto a cui si sta cercando di costruire una stabile
impalcatura, che permetta di rifiutare quel dilettantismo che sembrava un
tempo superato.
Negli Stati Uniti le scuole boasiane esercitarono senza dubbio una sorta di
egemonia, tuttavia è innegabile che studiosi formatesi in esse si aprirono alle
novità (si pensi all’utilizzo dei metodi statistici, di cui Boas dubitava, nei suoi
studi sulla famiglia e la parentela di George Peter Murdock).
Le generazioni più giovani si allontanarono pian piano dall’analisi
diffusionista: esemplare la vicenda di Margaret Mead (1901-1978), allieva di
Boas fortemente influenzata dal pensiero di Radcliffe-Brown.
La Mead pubblicò un celeberrimo studio sull’adolescenza nelle isole Samoa in
cui utilizzò un metodo certamente non storico, cosa che in seguito le sarebbe
stata duramente rimproverata.
A questo punto bisogna tornare all’interrogativo di partenza: nel periodo tra
le due guerre l’antropologia attuò un vero ‘’rifiuto della storia’’, oppure questo
non è altro che una costruzione a posteriori, come dice Herbert Lewis?
È indubbio l’antropologia sociale accantonò la storia in maniera più decisa
ed evidente, e altrettanto innegabile è il fatto che il pensiero di Radcliffe-
Brown influenzò anche l’antropologia americana, dove il fervore storico degli
antropologi boasiani venne fortemente ridimensionato.
Anche negli Stati Uniti, dove si era professata apertamente una certa fedeltà
al metodo storico, in realtà si può parlare, per il periodo tra le due guerre, di
un allontanamento; si veda la constatazione malinconica contenuta in un
articolo di Kroeber del 1935, in cui spiega che non bisogna essere stupiti del
fatto che ‘’gli storici si curino poco di noi...non disponiamo nemmeno di un
documento scritto prima dei nostri giorni’’.
3. GLI STORICI
Negli anni tra i due conflitti mondiali gli antropologi, specialmente quelli di
scuola britannica, maturarono una notevole indifferenza, e in alcuni casi una
aperta ostilità, nei confronti della storia; questo per tre ragioni principali.
4. VERSO IL RIAVVICINAMENTO
Nel 1701 Christian Thomas, giurista tedesco meglio noto come Thomasius
(1655-1728) pubblicò il De crimine magiae, inaugurando un secolo di dibattito
illuminista su magia, stregoneria e demonologia.
La ‘’caccia alle streghe’’ si era conclusa solo da pochi anni, spingendo gli
intellettuali europei ad interrogarsi se la stregoneria fosse ‘’un crimine da
punire o una fantasia da compatire’’.
Un secolo e mezzo più tardi le credenze magiche apparivano ormai confinate
ai popoli primitivi, mentre i processi di stregoneria erano visti come una
macchia nella storia europea di cui dovevano occuparsi gli storici.
Il primo lavoro importante prodotto da questi studi fu La Sorcière (1862) di
Jules Michelet (1798-1874), storico della Rivoluzione Francese, che studiò la
figura della strega da ‘’l’età leggendaria’’ fino alla sua epoca storica.
Al momento della pubblicazione del testo Michelet era caduto in disgrazia a
causa della sua decisione di non giurare fedeltà al governo di Napolene III,
quindi la scelta di dedicarsi ad un argomento scabroso come quello della
stregoneria non giocava di certo a suo favore.
Si trattava di un’opera di difficile classificazione, in quanto scritta a modello
di romanzo, caratteristica che venne lodata prima da Victor Hugo e in seguito
dalla storiografia dell’Annales.
La Sorcière è un libro indubbiamente protofemminista, una storia della figura
femminile della strega che ha una scrittura molto vicina ai canoni post-
modernisti; esso tuttavia non lasciò un segno immediato.
Molta più fortuna ebbe il teologo liberale tedesco Wilhelm Gottlieb Soldan
(1803-1869), che nel 1843 pubblicò una raccolta sistematica di processi alle
streghe, inserita all’interno di un volume in cui queste fonti erano
interpretate.
Il modello di Soldan venne ripreso da storici come Lea, Lincoln Burr, Hansen
e Notestein (quest’ultimo autore di un’opera sulla stregoneria che avrebbe
influenzato almeno tre generazioni di studiosi).
Questi storici, assieme ovviamente a Soldan, costituirono un nuovo modo di
avvicinarsi allo studio della caccia alle streghe, definito il ‘’paradigma
soldaniano’’.
Nelle opere di coloro che aderivano a questo modello interpretativo le
streghe erano donne accusate e processate secondo procedure arbitrarie, che
confessavano solo per far terminare la tortura: in alcun modo nelle loro
confessioni poteva esservi traccia di una qualche minima verità.
La continuità di questo filone venne interrotta dal volume già citato di
Margaret Murray, The Witch-Cult in Western Europe. A study in Anthropology
(1921).
La Murray si approcciò alle carte con una sensibilità antropologica che
aveva impressionato Geoffrey Gorer, che infatti aveva consigliato agli storici
il suo volume come esempio del contributo che l’antropologia poteva dare
alla storia.
A differenza degli storici soldaniani, la Murray prese le distanze dagli storici
che sostenevano che coloro che venivano accusati di stregoneria fossero per
forza persone che soffrivano di isteria o in preda ad allucinazioni.
L’incredulità dei contemporanei non doveva far dimenticare che nel passato
anche le menti più brillanti avevano creduto alla stregoneria, mentre gli
scettici erano spesso ‘’personaggi grigi e mediocri’’.
Lo stesso Jean Bodin (1529-1596) nel 1580 scrisse un volume, intitolato
Démonomanie des Sorciers, in cui incitava alla repressione della stregoneria.
Dalle confessioni di streghe e stregoni si ricavava qualcosa di nuovo, una
realtà dimenticata e perduta fatta di culti della fertilità animale e vegetale
risalenti all’età precristiana (se non preromana).
Questi culti rimasero la religione dominante fra le masse rurali per tutto il
Medioevo e la prima età moderna al di sotto della facciata cristiana.
Questi culti vennero spazzati via dalla Controriforma, ma le loro tracce sono
sopravvissute proprio nelle descrizioni fatte agli inquisitori, che vedevano
nella descrizione di questi proprio il ‘’sabba’’ satanico.
Nonostante fossero molti gli accusati che dichiaravano di aver partecipato a
culti notturni, la Murray era a conoscenza della principale obiezione che
sarebbe stata mossa al suo lavoro: le confessioni erano state estorte con la
tortura.
Ma anche ammettendo che ciò fosse vero, vi erano troppi dettagli di cui non
si poteva ignorare la presenza.
Le posizioni proposte da The Witch-Cult in Western Europe conobbero un vasto
e rapido successo, garantendo alla Murray un’autorevolezza notevole, a tal
punto che le venne chiesto di compilare la voce ‘’Witchcraft’’ all’interno
dell’Encyclopedia Britannica (IVa edizione, 1929).
Secondo Ginzburg le tesi della Murray persero però di peso in quanto essa
aveva omesso le descrizioni più imbarazzanti, quelle che riguardavano il
volo notturno o la trasformazione in animali.
Il libro pubblicato dalla Murray nel 1931, The God of the Witches, fu un fiasco e
già nel 1940 la sua voce era per lo più ignorata.
La caccia alle streghe continuò a lungo ad essere considerata una pagina
dolorosa e secondaria della storia d’Europa, oltre che un argomento di
secondo piano per la storiografia.
Rimase ancora a lungo un argomento affidato a folkloristi e antropologi,
salvo qualche rara eccezione, come l’articolo scritto nel 1948 da Lucien Febvre
sui processi di stregoneria nella Franca Contea nei primi anni del Seicento.
Febvre poneva sull’Annales il quesito ultimo: com’era possibile che gli uomini
più brillanti del Seicento avessero potuto credere davvero alla stregoneria?
Se la Murray, ‘’credente’’ nella stregoneria, non era rimasta stupita da questo
fatto, al contrario Febvre, ‘’non credente’’ nella stregoneria, suggeriva che la
causa di ciò stava nella differenza di mentalità: ‘’Tra noi e loro devono aver
avuto luogo delle rivoluzioni; di quelle rivoluzioni dello spirito che avvengono
senza rumore e che nessuno storico si cura di registrare’’.
La considerazione di Febvre ravvivò gli studi sul tema stregonesco, rinnovati
da due volumi: Magistrats et sorciers en France au XVII siecle (1968)di Robert
Mandrou (1921-1984) e The European Witch-Craze of the Sixteen and Seventeenth
Centuries (1967) di Hugh Trevor-Roper (1914-2003).
Se il testo di Mandrou si occupa principalmente della psicologia collettiva di
un preciso gruppo sociale (i magistrati), quello di Trevor-Roper cerca prova a
spiegare per quali ragioni le credenze nella stregoneria si fossero trasformate
in una forza esplosiva capace di scatenare una selvaggia persecuzione.
Per Trevor-Roper streghe e stregoni erano ‘’capri espiatori’’ a cui era
assegnata la responsabilità per le sventure e le tensioni che nel Seicento
stavano attraversando l’Europa: la peste, le guerre di religione, i rigorismi
della Riforma e Controriforma.
La stregoneria sarebbe stata una forma di nevrosi collettiva di cui le donne e
gli uomini accusati di stregoneria avrebbero pagato il prezzo.
Il merito più grande dei libri di Mandrou e di Trevor-Roper fu però quello di
aver dato dignità alla stregoneria come tema storiografico.
Il saggio di Trevor-Roper appare oggi del tutto estraneo all’impostazione
delle ricerche storiche sulla stregoneria, in primo luogo perché privo di una
prospettiva antropologica.
Trevor-Roper non nascose mai la sua poca empatia per l’antropologia e per
quegli ‘’storici attivi nel dirci che dovremmo introdurre più antropologia nello
studio della storia’’.
A differenza della Murray dunque, Trevor-Roper nella sua trattazione aveva
deciso di ignorare quelle che per lui erano delle ‘’credulità contadine’’; nella
sua impostazione egli era dunque più fedele al paradigma soldaniano.
Gli storici a cui alludeva Trevor-Roper nel suo discorso del 1973 citato poco fa
erano Keith Thomas e Alan Macfarlane (1941), i due modernisti che erano
intervenuti nel 1968 al convegno degli antropologi sociali britannici (ASA).
Entrambi avevano effettivamente espresso la loro insoddisfazione per il
saggio di Trevor-Roper, che avevano trovato una semplice esposizione
generale.
Nel 1967 Macfarlane aveva completato la sua tesi di dottorato, sotto la guida
di Thomas, ad Oxford, un lavoro incentrato sugli atti processuali conservati
negli archivi dell’Essex.
A differenza di Trevor-Roper, che aveva sostenuto che non si potesse sapere
della stregoneria più di quanto vi era nel suo volume, secondo Macfarlane su
di essa si sapeva pochissimo.
Dati e informazioni nuovi sarebbero però emerse solo interrogando le fonti
con il metodo dell’antropologia, che avrebbe portato ad elaborare domande
nuove, diverse dalle solite (‘’La responsabilità delle persecuzioni ricade più sui
cattolici o sui protestanti? Sulle autorità religiose o su quelle civili?’’).
Nelle relazioni che presentarono al convegno el 1968, Thomas e Macfarlane
sostenevano che in archivi totalmente inesplorati vi era un’enorme quantità
di materiale nuovo.
La relazione esposta da Thomas era destinata ad espandersi negli anni
successivi, divenendo parte di Religion and the Decline of Magic (1971),
imponente opera che documenta la ‘’rivoluzione senza rumore’’ che aveva
portato al declino delle credenze magiche e prodotto il ‘’disincantamento’’
tipico della società occidentale (il concetto weberiano di ‘’Entzauberung’’).
I lavori di Thomas e Macfarlane costituirono il primo esempio del nuovo
paradigma storiografico sullo studio della stregoneria.
Questo è caratterizzato in primo luogo dall’applicazione della teoria
antropologica, grazie alla quale i due erano riusciti a dimostrare per esempio
che anche nei villaggi inglesi d’età elisabettiana la credenza nella stregoneria
serviva a spiegare disgrazie, proprio come tra gli Azande di Evans-Pritchard.
I due avevano dimostrato anche che le accuse erano usate metodicamente per
risolvere un conflitto, e che i sospetti appartenevano a precise categorie:
donne, anziane/sole/vedove e in ogni caso povere e residenti nello stesso
vicinato dei loro accusatori.
Queste erano sempre descritte come persone cattive e malvagie, dall’aspetto
minaccioso e nemiche di chi non prestava loro aiuto.
Secondo Thomas e Macfarlane questo tipo di persone venivano accusate
principalmente perché nella società inglese di metà Cinquecento era avvenuta
una decisiva rivoluzione, che aveva portato alla sostituzione di un sistema
assistenziale basato sull’iniziativa della comunità di villaggio con uno di tipo
nazionale.
Emergeva dunque una profonda tensione tra il sentimento di carità cristiana
e quello che invece imponevano di fare le autorità, che scoraggiavano le
tradizionali pratiche assistenziali.
Il senso di colpa che emergeva da questa situazione, in cui i capifamiglia
erano obbligati a cacciare i mendicanti che bussavano alla porta per chiedere
sostegno, forniva terreno fertile per la caccia alle streghe.
La teoria della ‘’carità rifiutata’’ è stata oggetto di pesanti critiche nel corso
degli ultimi anni, tuttavia è innegabile che essa abbia avuto il merito di
andare oltre la precedente idea di stregoneria intesa come delirio propagatosi
misteriosamente in Europa, per introdurne una che la vedeva come credenza
dotata di razionalità propria.
Altrettanto importanti erano le novità metodologiche, basate in primo luogo
sull’abbandono del livello ‘’anatomico-macroscopico’’ di Trevor-Roper e
sull’utilizzo di quello ‘’istologico-microscopico’’ della contea/villaggio.
Gli altri tratti distintivi del rinnovato paradigma storiografico sulla
stregoneria erano l’identificazione di materiale d’archivi e l’analisi intensiva
di questo, non più considerato dagli storici come ‘’poco attraente’’ (Ginzburg).
Studiare in profondità i documenti processuali dava allo storico la possibilità
di ricostruire cosa per i nativi rappresentasse la stregoneria.
È indubbio che le confessioni siano qualcosa di ripetitivo, tuttavia leggendole
ci si accorge che si è di fronte ad un vero e proprio dialogo tra voci diverse e
contrastanti.
La scelta metodologica di Macfarlane, e poi di Ginzburg e di altri pionieri
dell’antropologia storica, fu quella di immergersi in profondità in una
documentazione che a molti storici era risultata poco attraente al fine di
renderla più profonda.
L’enorme quantità di informazioni presenti nei fondi archivistici poneva gli
storici in una posizione di vantaggio sugli antropologi, avendo la possibilità
di poter contare su una quantità di materiale più abbondante (Julio Caro
Baroja).
Il vantaggio dato dalla documentazione storica era la possibilità di registrare
le variazioni nel tempo (si poteva dunque valutare l’oscillazione del numero
dei processi di stregoneria); un rinnovamento parallelo alla crisi che stava
vivendo l’antropologia sociale, troppo concentrata sugli aspetti statici della
società.
La difficoltà principale che lo storico doveva affrontare in questa situazione
era invece la necessità di ricreare il contesto etnografico, che l’antropologo
poteva invece vivere in prima persona dall’antropologo.
Tra la possibilità di far emergere la dimensione microscopica del villaggio
tramite quanto detto negli atti processuali o selezionare un gruppo di villaggi
e applicare ad essi procedimenti analoghi a quelli adottati dagli antropologi
sul terreno, Macfarlane aveva scelto quest’ultima opzione, arrivando a
ricostruire i rapporti di vicinato/parentela/affinità, il censo degli abitanti, la
topografia del villaggio, la loro religione.
Macfarlane, uno degli ideatori del procedimento di ‘’ricostruzione totale’’,
era anche attento ad una ricostruzione del contesto etnografico guidato dalle
preoccupazioni teoriche dell’antropologia sociale.
A differenziare il lavoro di Macfarlane da quello di Ginzburg era l’interesse
che quest’ultimo aveva per altri tipi di fonti oltre agli atti processuali e la
maggiore attenzione alle confessioni di stregoneria piuttosto che sulle
accuse.
Ginzburg era stato ispirato non tanto dal volume di Evans-Pritchard (che
Thomas e Macfarlane avevano preso a modello), quanto piuttosto dai lavori
dell’antropologo italiano Ernesto De Martino (1908-1965), in particolar modo
Mondo magico (1948).
Ginzuburg era stato spinto dai lavori di De Martino a vedere nelle credenze
nella stregoneria un’origine popolare e a credere che nei processi si fossero
verificati degli scontri tra culture differenti.
Questa ipotesi sembrò confermata dalla sua prima grande monografia, I
Benandanti (1966), uno studio compiuto da Ginzburg su alcuni processi,
trovati nell’Archivio Arcivescovile di Udine, ad una sorta di associazione o
confraternita rurale a cui appartenevano per destino tutti coloro che erano
‘’nati con la camisciola’’, ovvero avvolti dalla membrana amniotica.
Il termine ‘’benandante’’ in friulano significa ‘’stregone’’, ma Ginzburg notava
che nei processi condotti dall’Inquisizione contro i benandanti questi ultimi
non si definirono mai stregoni.
Essi erano infatti convinti di combattere gli stregoni, e questo in quattro
occasioni durante l’anno (le notti delle ‘’quattro tempora’’, i giorni ad inizio di
ogni stagione in cui la Chiesa prescriveva il digiuno).
Durante queste notti i benandanti abbandonavano il proprio corpo, che
giaceva come morto, e chiamati da un messaggero divino essi si recavano in
un prato a combattere ‘’li stregoni del diavolo’’, ma questo ‘’in favore di
Christo’’ e ‘’per amor delle biave’’, ovvero a protezione dei raccolti.
Ammettere di fare questo non costituiva per i benandanti una confessione di
stregoneria, allo stesso tempo gli inquisitori rimanevano sconcertati da questi
racconti; solo dopo mezzo secolo di processi l’Inquisizione riuscì a far sì che i
benandanti ammettessero apertamente di essere stregoni.
Nell’anno in cui Ginzburg pubblicava il suo volume veniva anche ridata alle
stampe la più importante opera sulla stregoneria di Margaret Murray, The
Witch-Cult in Western Europe, da cui lo storico piemontese prendeva le debite
distanze, ma nel quale dichiarava di vedere un ‘’nocciolo di verità’’.
A stupire Ginzburg era che le battaglie descritte dai benandanti avevano un
incredibile parallelo nella confessione fatta ai giudici di una città della
Livonia (Jurgensburg) da un certo Thiess.
Quest’ultimo aveva dichiarato di essere un lupo mannaro, che in tre occasioni
durante l’anno (le notti di Santa Lucia, di Pentecoste e di San Giovanni) si
recava in un luogo solitario per combattere contro il diavolo e gli stregoni
assieme ad altri lupi mannari,
La scoperta di credenze così simili ad una distanza geografica così vasta
suggeriva a Ginzburg l’esistenza di una connessione reale tra i benandanti e
gli sciamani, con i quali sembravano condividere credenze e pratiche.
Rintracciare i fili che legavano i benandanti ad aree così lontane nello spazio
era però molto complesso, cosa che spinse Ginzburg a non spingersi troppo
in là con la comparazione (come consigliato da Bloch).
Tuttavia egli portò a lungo avanti questo interesse, che riemerse con forza in
uno dei suoi lavori più celebri e discussi: Storia notturna (1989), un’opera che
venne accusata di ‘’murraismo’’ in quanto indicava nei rituali sciamanici di
area siberiana le radici dei culti agrari friulani del Cinquecento.
Il ‘’nocciolo di verità’’ di cui aveva parlato Ginzburg riferendosi al lavoro della
Murray (egittologa di formazione) stava proprio nella scelta di aver preso sul
serio le confessioni delle streghe, che poi sono giunte a noi tramite il filtro
inquisitorio.
La pubblicazione dei benandanti aveva avverato di fatto la profezia di Gorer,
che aveva consigliato agli storici di seguire il modello della Murray, secondo
il quale si doveva credere alla verità delle confessioni per arrivare a riscoprire
le pratiche e l’εθος dei gruppi/delle popolazioni subalterne.
In un articolo del 1977 Arnaldo Momigliano notava che tra i tratti distintivi
della storiografia degli anni Sessanta-primi Settanta era il crescente interesse
per le condizioni sociali e culturali subalterne (gruppi oppressi o minoritari,
contadini, eretici, donne, operai, schiavi, uomini/donne di colore ecc…).
Momigliano sembrava soprattutto denunciare la ‘’sparizione dei confini fra
storia e sociologia (o antropologia)’’.
Aveva notato che gli antropologi avevano ormai raggiunto un prestigio senza
precedenti tra gli storici, qualcosa che aveva colto anche un altro importante
storico, Lawrence Stone (1919-1999).
Secondo Stone, inglese ma professore all’Università di Princeton negli U.S.A.,
nella storiografia americana tutte le ricerche avevano per tema gli oppressi e
i diseredati.
Il prestigio raggiunto dalla sociologia era per lui la principale motivazione di
questo slittamento di interessi, anche se si vedeva costretto ad ammettere che
‘’l’influenza più potente viene dalla demografia e dall’antropologia sociale e
simbolica’’.
Gli antropologi non erano più dunque i ‘’parenti sfortunati’’ di cui parlava
Kroeber, al contrario erano sempre più cercati per ottenere indicazioni
teoriche necessarie per non sprecare la ricchezza del materiale storico.
a) Volontariamente.
b) Con qualcuno in particolare.
c) Per trasmettere un messaggio in particolare.
d) Senza che il resto dei presenti lo sappia.
3. STRUTTURA E STRATEGIA
Nel 1980 John Davis aveva sostenuto che i lavori storici degli antropologi
erano poco apprezzati dagli storici in quanto basati ancora su un tipo di
metodologia ‘’antiquata e dilettantesca’’.
Egli dunque consigliava agli antropologi quattro modelli virtuosi: il primo
era ovviamente Ladurie; il secondo David Sabean (1939), che aveva
pubblicato lavori di orientamento antropologico su famiglia e proprietà
nell’Europa preindustriale.
Gli altri due nomi erano invece due demografi storici, Peter Laslett (1915-
2001) e Tony Wrigley (1931-2022).
Laslett era principalmente uno storico del pensiero inglese del Seicento, in
primo luogo di Locke e di Robert Filmer, teorico e apologeta di una visione
patriarcale delle relazioni sociali.
Desideroso di constatare quanto la società inglese corrispondesse al modello
di Filmer, Laslett decise di studiare due elenchi degli abitanti di Clayworth,
una cittadina del Nottinghamshire, redatti tra il 1676 ed il 1688.
I risultati a cui portò la minuziosa analisi dei documenti fu che non vi era
traccia delle grandi famiglie patriarcali di cui aveva parlato Filmer.
Mentre Laslett arrivava a questi risultati, Wrigley andava a studiare la
popolazione di Colyton, un villaggio del Devon, partendo dai registri
parrocchiali, dai quali non emergevano tracce delle spose bambine a cui
alludeva Shakespeare nelle sue tragedie (l’età media con cui si giungeva al
matrimonio si aggirava trai 25/30 anni).
Laslett e Wrigley fondarono nel 1964 il Cambridge Group for the History of
Population and Social Structure , che si sarebbe imposto come uno dei centri
di ricerca storico-demografica più prestigiosi.
Nel 1965 Laslett pubblicò The World We Have Lost, in cui erano presentati i
primi risultati del Gruppo di Cambridge; solo l’anno successivo Ladurie
avrebbe pubblicato un articolo (‘’Da Waterloo a Colyton’’) in cui riassumeva il
percorso dalla storia positivista del XIX secolo fino alla ‘’resurrezione
silenziosa e matematica del passato’’ resa possibile dalla demografia storica.
Gli ‘’storici-matematici’’ del Gruppo di Cambridge vengono giustamente posti
all’interno del filone della storia quantitativa, anche alla luce del fatto che
diressero alcuni dei più monumentali lavori di ricerca del XX secolo: la
ricostruzione della popolazione inglese dal XIV al XIX secolo, che comportò
lo spoglio di 400 archivi parrocchiali.
Ingiustamente si direbbe che il lavoro quantitativo di Laslett e Wrigley non
abbia avuto nulla da offrire agli antropologi.
Essi infatti si occuparono di aree centrali per gli antropologi, ma ignorate
dagli storici, come la storia della famiglia/parentela/matrimonio.
The World We Have Lost fornì un controbuto decisivo alla nascita di un nuovo
campo di studio, la storia della famiglia.
Anche se il Gruppo di Cambridge si sarebbe lanciato negli anni successivi al
1965 in progetti di mole immensa, si deve notare che i suoi studi avevano
sempre nel ‘’piccolo’’ il proprio inizio.
L’essenzialità degli studi microstorici non venne mai rinnegata: per Wrigley a
distinguere una ricerca priva di importanza da una significativa non erano le
‘’dimensioni dell’unità studiata’’.
Un altro tipo di documentazione di cui si cominciò ad apprezzare il
contributo furono gli ‘’status animarum’’ (gli ‘’stati delle anime’’), che dal 1614
tutti i parroci erano obbligati a redigere.
Questi consistono in un elenco di nomi dei parrocchiani, raggruppati però in
base al criterio della coresidenza; questo tipo di fonte, che gli antropologi
aveva a lungo ignorato, a partire dagli anni Settanta divenne ricercatissima.
Intorno al 1950 il numero di antropologi che imitava Laslett era divenuto così
numeroso soprattutto perché quello lo studio della famiglia era un ambito di
contatto interdisciplinare con la storia.
Anche se gli storici continuavano ad utilizzare una documentazione più
varia, nell’ambito della famiglia le ricerche storiche degli antropologi non
erano più discriminate.
Gli stati delle anime, e altri censimenti simili, erano fonti che permettevano
un’esposizione analitica delle ricerche, come avveniva in tutti gli altri settori
della storia quantitativa.
Essendosi occupati da sempre dell’argomento della famiglia, gli antropologi
avevano acquisito un prestigio notevole; questo può essere notato nell’analisi
del numero di articoli scritti da antropologi negli ultimi vent’anni sul ‘’Journal
of Family History’’, la più importante rivista del settore.
Molto più utilizzati degli stati delle anime sono i registri parrocchiali, che lo
stesso Wrigley aveva interrogato attraverso il metodo della ‘’ricostruzione
delle famiglie’’ elaborato da un archivista, Michel Fleury, e da un demografo
Luis Henry.
Questo consisteva sostanzialmente nel raccogliere in un’unica scheda tutte le
informazioni contenute nei registri riguardo una coppia sposata.
La forza di questo modello sta nella possibilità, ricostruendo storie
individuali, di calcolare le misure dei principali fenomeni demografici.
Esempio: ‘’combinando le esperienze di fecondità di tutte le donne appartenenti a un
determinato insieme, si potrà calcolare il tasso di fecondità per le donne di quella
coorte in quella particolare classe di età’’.
Anche se i progressi teorici hanno reso più rapide operazioni come questa, al
demografo/allo storico/all’antropologo si impone ancora oggi di valutare pro
e contro.
Le stesse ipotesi ‘’ecosistemiche’’ avanzate da Geertz e Roy Rappaport arrivano
ad una verifica soddisfacente in un sistema demografico che sia seguito sul
lungo periodo, potenzialmente per due o tre secoli; uno studio esemplare
rimane quello di Robert Netting sulla comunità Torbel, nel cantone svizzero
del Vallese.
Questo metodo, così squisitamente demografico, poteva essere utile anche
all’antropologia storica secondo John Davis, secondo cui il metodo utilizzato
da Davis poteva essere usato anche per informazioni rinvenute in altri
documenti.
Un tentativo importate era stato quello portato avanti da Alan Macfarlane nel
suo lavoro sulla stregoneria, che avevamo definito un’anticipazione della
‘’ricostruzione totale’’.
Fu lo stesso Macfarlane a perfezionare questo metodo di ‘’record-linkage’’,
che nel 1977 aveva suscitato l’interesse anche dello stesso Davis; anche nel
resto d’Europa questo metodo riscosse successo: in Italia per esempio era
consigliato dai microstorici.
Ginzburg e Carlo Poni (1927), in un breve saggio del 1979 destinato a
divenire il più lucido manifesto del programma della microstoria italiana,
spiegavano che a differenziare storia e antropologia era soprattutto la
documentazione.
Lo storico infatti, a differenza dell’antropologo che aveva la possibilità di
ricostruire le reti dei rapporti sociali sul campo, doveva accontentarsi di
fonti unilaterali.
Anche fonti ricche di informazioni come i processi inquisitoriali, ‘’quanto di
più vicino abbiamo all’inchiesta sul campo di un moderno antropologo’’ (Ginzburg-
Poni), erano in realtà insoddisfacenti.
Questo tipo di problematica era stato avanzato in precedenza da Bernard
Cohn, che non vedeva per essa alcuna soluzione.
Al contrario Ginzburg e Poni credevano che a suggerire l’esistenza di una
soluzione era proprio il metodo di ricostruzione delle famiglie, che essi al
pari di Davis ritenevano estendibile anche a fonti non demografiche.
‘’Se l’ambito della ricerca è sufficientemente circoscritto, le singole serie documentarie
possono sovrapporsi nel tempo e nello spazio in modo tale da permetterci di ritrovare
lo stesso individuo in contesti sociali diversi’’.
Ciò che permetteva di ricollegare i documenti era ovviamente il nome: è
evidente dunque che si trattava di un metodo ‘’nominativo’’, necessario nella
ricostruzione delle famiglie.
Questo metodo si differenzia totalmente dal metodo ‘’aggregativo’’, in cui i
dati vengono raccolti senza il filo conduttore rappresentato dal nome.
I due metodi sono anche asimmetrici: mentre i dati nominativi possono
venire raggruppati e trasformati in dati aggregati, non vale l’inverso.
Il metodo nominativo suggerito da Ginzburg e Poni permette di raggruppare
intorno ad un nome dati quantitativi e qualitativi, un sistema che ricorda
quello della prosopografia, un metodo elaborato dagli storici dell’Antichità.
La prosopografia antica si concentrava però su individui appartenenti alle
élites, ma per il mondo moderno vi era una documentazione differente, che
permetteva l’esistenza di una ‘’prosopografia dal basso’’.
Questi metodi di ricostruzione potevano funzionare però per i due storici
italiani solo in un contesto circoscritto a sufficienza: si imponeva così quella
riduzione a scala propria della microstoria.
È stato rilevato che da un punto di vista teorico che ad essere importante non
è tanto la riduzione, ma la variazione della scala; allo stesso tempo si deve
ammettere che la ricostruzione totale è possibile solo a livello microscopico.
Nella scelta della microstoria italiana, come ha fatto notare anche Edoardo
Grendi (1932-1999), era implicata però anche la volontà di far appropriare la
lezione dell’antropologia sociale al lavoro storico.
L’antropologia a cui Grendi guardava con ammirazione era quella elaborata
da Firth negli anni Cinquanta , che avrebbe conosciuto uno sviluppo decisivo
con il lavoro di Barth, Bailey e soprattutto di Jeremy Boissevain (1928-2015),
che avrebbe opposto al modello strutturalista il paradigma ‘’individualista’’,
basato sul concetto di ‘’homo strategicus’’, il quale era in grado di sottrarsi
alle norme sociali tramite le proprie scelte.
L’attore sociale cerca sempre dunque di agire a proprio vantaggio.
A livello teorico questo modello prevedeva l’analisi dei reticoli sociali di cui
un individuo era al centro, e a livello metodologico imponeva all’antropologo
di ricostruire questi reticoli.
Il principale testo di Boissevain, Friends of Friends (1974), costituiva un vero e
proprio manuale di antropologia ‘’transazionalista’’.
Non a caso i microstorici videro nella ricostruzione nominativa uno
strumento analogo a queste tecniche di ricerca sul terreno.
Ad attirare questi era soprattutto l’idea di potersi concentrare su una pluralità
di punti di vista/obiettivi e sulle contraddizioni che rendevano fluido un
sistema.
Per Levi ‘’I mutamenti avvengono per mezzo di strategie e scelte’’, una posizione
che l’aveva naturalmente messo in contrapposizione con Geertz e Darton, che
si muovevano in un sistema culturale immobile.
Critiche pesanti vennero rivolte anche a Laslett, accusato di utilizzare una
nozione statica di struttura sociale/familiare.
Laslett aveva proposto nel 1972 di classificare i gruppi domestici in cinque
tipi per analizzare le informazioni presenti in fonti come gli stati delle anime:
semplice (nucleare), esteso, multiplo, senza struttura, monopersonale.
Già nel 1972 però lo storico americano Lutz Bekner aveva sostenuto che fosse
scorretto presentare ‘’famiglie nucleari’’ e ‘’famiglie estese’’ (ecc..) come cose
come opzioni esclusive.
Alla staticità di Laslett, Bekner opponeva il concetto dinamico di ‘’ciclo di
sviluppo’’, divenuto fondamentale nella metodologia della storia della
famiglia, oltre che un punto di raccordo per storici e antropologi.
Il confronto decisivo tra le due posizioni avvenne al convegno internazionale
‘’Strutture e rapporti familiari in epoca moderna’’ di Trieste, in cui Laslett e Levi
si scontrarono.
Levi mise in discussione il privilegio concesso alla dimensione strutturale,
proponendo come alternativa il concetto di ‘’strategia’’.
Per il microstorico italiano era necessario indagare il ‘’rapporto tra la famiglia e
il contesto, le scelte di alleanze’’.
Il contrasto tra Levi e Laslett era emblematico delle tensioni che stavano
attraversando l’antropologia storica , che erano a loro volta un riflesso degli
scontri tra lo ‘’strategismo’’ di Bordieu e lo strutturalismo di Lévi-Strauss.
Il paradigma strategico era divenuto in effetti un modo per limitare lo
strapotere dei modelli strutturalisti, come quello che aveva costituito Braudel,
criticato fortemente da un antropologo storico come Gert Dressel che
accusava il modello dello storico dell’Annales di aver ‘’ridotto gli esseri umani a
marionette manovrate da circostanze esterne’’.
La polemica contro una storiografia passivizzante pervadeva uno dei testi
più importanti di Levi, L’eredità immateriale (1985), in cui si narrava
dell’arresto in un piccolo villaggio piemontese di un prete accusato di aver
praticato esorcismi di massa nel 1697.
Questa vicenda permetteva a Levi di ricostruire la rete dei rapporti inter-
personali e di alleanze tra famiglie che ricopriva il villaggio.
Il testo di Levi era la dimostrazione che i modelli strategici necessitavano una
ricostruzione nominativa.
Se in Italia la microstoria ha smesso di essere una moda come era stata negli
anni Ottanta, all’estero (in Francia e nel mondo tedesco soprattutto) essa è al
centro di un interesse crescente.
Il trionfo della microstoria è stato sancito dalla pubblicazione dei testi di
Sabean e del tedesco Hans Medick (1939).
Questo trionfo è stato però un ‘’trionfo europeo’’; esemplificativo il titolo
della raccolta di saggi che permise la diffusione della microstoria italiana
all’estero: Microhistory and the Lost Peoples of Europe.
Il titolo sottolineava quale fosse stato il principale obiettivo (poi raggiunto)
della microstoria: reintegrare le classi inferiori, dimostrando l’esistenza di
una pluralità di storie parallele a quelle dei ‘’grandi’’.
La rapida crescita dell’etnostoria e della storia africana negli anni Sessanta era
legata all’emergere di nuovi soggetti politici: i paesi dell’Africa, dell’Asia e
dell’America Latina.
Molti di questi paesi erano appena usciti dal contesto coloniale, altri invece
(quelli dell’America Latina) avevano ottenuto l’indipendenza ancora nel XIX
secolo.
Ad accomunare le loro differenti esperienze era la condizione di
sottosviluppo, che economisti/politologi/sociologi avevano attribuito a fattori
culturali come il tradizionalismo, il familismo amorale e il particolarismo.
Questo tipo di visione cominciò ad essere messa in discussione da André
Gunder Frank (1929-2005), economista e sociologo neomarxista che a metà
degli anni Sessanta avanzò la teoria secondo cui sviluppo e sottosviluppo
erano strettamente connessi.
Secondo Frank il capitalismo aveva trasformato le colonie in satelliti
dell’economia europea attraverso una relazione di sfruttamento e di scambio
ineguale: la formula dello ‘’sviluppo del sottosviluppo’’.
La teoria del sistema mondo elaborata qualche anno dopo dall’economista
Immanuel Wallerstein (1930-2019) può essere vista come un’estensione delle
tesi di Frank.
La più importante opera di Wallerstein, The Modern World-System (1974), era
un grande affresco storico di lungo periodo, scritto con un’impostazione
braudeliana.
Molti furono gli antropologi che rielaborarono i loro dati alla luce di queste
nuove considerazioni, e altrettanti quelli che cominciarono a chiedersi quanto
fosse utile condurre ricerche su lontani e piccoli villaggi (che Wallerstein
aveva definito ‘’trascurabili variabili dipendenti’’).
Una visione realmente alternativa venne presentata da Eric Wolf, condirettore
della rivista ‘’Comparative Studies in Society and History’’, nel suo libro Europe
and the People Without History (1982).
Wolf era rimasto stupito della grande resistenza che molte popolazioni
contadine, in primo luogo quella vietnamita, avevano opposto al predominio
militare ed economico occidentale.
Il libro di Wolf si distingue da quello di Frank e Wallerstein (anche se tutti e
tre vengono di solito indicati come testi di storia globale) perché esso si pone
in una prospettiva non eurocentrica.
Wallerstein e Frank avevano analizzato le ragioni che permisero ai centri di
soggiogare le periferie, trascurando le reazioni delle popolazioni locali,
mentre Wolf si era concentrato sul grado di successo avuto da queste ultime
nel contrastare gli Europei.
Wolf si avvalse ovviamente di molti lavori etnostorici: per questo motivo la
sua opera non si presenta come un lavoro minore su popoli esotici, ma come
una storia globale non caratterizzata solo dall’espansione europea.
Non esistevano dunque ‘’popoli senza storia’’ (espressione usata da Lévi-
Strauss) nella visione di Wolf.
Il libro di Wolf sarebbe dovuto diventare il modello teorico di riferimento per
lo studio storico-antropologico delle popolazioni extraeuropee, se non fosse
stato per due conferenze di Marshall Sahlins, confluite poi nel suo Islands of
History (1985).
Il tema di cui trattavano le conferenze era la morte del capitano Cook, ucciso
il 14 Febbraio 1779 presso Kealakekua, nell’isola di Hawaii (la più grande
dell’omonimo arcipelago), durante uno scontro coi nativi.
Lo scopo di Sahlins era quello di trovare il colpevole e soprattutto il movente;
il primo obiettivo venne raggiunto facilmente, il colpevole materiale sarebbe
stato un nobile locale, Nuha.
Mancava però il movente, e soprattutto capire se l’omicidio fosse una
conseguenze dei soprusi dei marinai inglesi oppure un’azione degli
Hawaiani.
Attraverso una ‘’lettura antropologica di testi storici’’ Sahlins era arrivato alla
conclusione che gli Inglesi erano giunti sull’isola assieme ad una serie di
coincidenze uniche.
Cook giunse ad Hawaii il 17 Gennaio 1779, quando ormai era cominciato già
da Novembre/Dicembre il ‘’Makahiki’’, la celebrazione annuale della
rinascita della natura.
Questa cominciava quando divenivano visibili le Pleiadi, assieme alle quali
arrivava anche Lono, il dio della fertilità esiliato nei mesi precedenti, con cui
il re dell’isola avrebbe in seguito inscenato un combattimento rituale al
termine del quale il corpo di Lono morente veniva riportato su una canoa
nella mitica terra di Kahiki.
Cook si era presentato all’orizzonte proprio quando era atteso Lono, e
proprio come lui egli era giunto costeggiando l’isola in senso orario.
Cook era stato accolto trionfalmente dagli Hawaiani, che lo ‘’venerarono come
un dio’’, salutandolo festosamente al momento della sua partenza.
Gli Inglesi furono però costretti a ritornare sull’isola a causa di una tempesta,
suscitando stavolta la reazione contrariata dei locali, per cui il ritorno di
Lono significava la rottura dell’ordine cosmologico.
Il risultato di questo fu l’inevitabile uccisione di Cook, che sarebbe stata
dunque un atto rituale.
Cook per Sahlins rappresentava le forze espansive dell’Occidente, che era
entrato a contatto con una società ‘’periferica’’, che una volta incontrati gli
Inglesi era stata inserita nel sistema mondo dominato dall’Europa.
Con il suo volume Sahlins voleva dimostrare che quella dei testimoni europei
non era l’unica versione della vicenda della morte di Cook: poteva esserci
una diversa storicità, una ‘’codificazione parallela’’ (François Hartog).
Nella vicenda si confrontavano un modello occidentale, che vedeva l’evento
come unico e irripetibile, e il modello hawaiano, che considerava gli eventi
come ripetibili.
Il volume di Sahlins ebbe un’importanza decisiva nel convincere antropologi
e storici che non c’era una storia in cui confluivano tutte le altre, ma che
esisteva una pluralità di modi di pensare.
Queste posizioni fecero preannunciare allo storico Frank Ankersmit (1945)
l’arrivo di quello che lui chiamò ‘’l’autunno della storiografia occidentale’’.
Egli era portato a pensare ciò per due motivi: il primo era l’impossibilità che
gli storici avevano di completare la missione di Ranke di conoscere quanto
fosse realmente avvenuto (Ankersmit paragona la storia ad un albero, le cui
parti sono state oggetto di attenzioni delle diverse scuole storiografiche: gli
storici speculativi guardarono il tronco, gli storici scientifici i rami, quelli
postmodernisti le foglie).
Il secondo motivo che spingeva Ankersmit ad affermare ciò era la nuova
posizione assunta dall’Europa dopo il 1945.
Anche John Davis riprese le posizioni di Sahlins all’interno di un saggio
intitolato History and People Without Europe (1992), in cui è possibile notare
delle sfumature postmoderniste.
Per Davis gli Occidentali erano abituati a guardare alla storia come a ‘’ciò che
realmente è avvenuto’’, quando in realtà le cose potevano essere avvenute in
maniera diversa dalla narrazione occidentale, anche al di fuori di essa.
Le posizioni di Sahlins vennero duramente contestate dall’antropologo dello
Sri Lanka Gananath Obeyesekere (1930).
Le critiche di Obeyesekere furono particolarmente dure e mirate a smontare
del tutto le posizioni di Sahlins, che veniva accusato addirittura di essersi
inventato qualcosa.
La prima critica mossa a Sahlins è quella di aver offerto un’interpretazione
distorta della morte di Cook, che era posta al termine di una straordinaria
serie di coincidenze.
L’identificazione Cook-Lono era stata possibile perché il mito in Polinesia era
una guida per l’azione, un comportamento archetipico continuamente messo
in pratica dai viventi.
Allo stesso tempo l’antropologo statunitense aveva contrapposto una ragione
pratica occidentale ad una ragione simbolica propria delle popolazioni in cui
gli Europei si imbattevano: utilitarsimo storico occidentale contro mito-prassi
polinesiana.
La seconda critica di Obeyesekere riguardava proprio questo punto, che
sembrava all’antropologo singalese una reincarnazione della ‘’mentalità
primitiva’’ di Lévy-Bruhl.
Nella sua feroce risposta Obeseyekere sosteneva che i nativi non avevano mai
venerato Cook come un dio, e che questa era una teoria occidentale creata al
fine di rinforzare il mito della superiorità dell’uomo bianco.
Il dibattito si fece particolarmente acceso, spingendo Sahlins a scrivere un
nuovo volume nel 1995, all’interno del quale difendeva le sue posizioni e
rispondeva a Obeseyekere (il testo era caratterizzato da un uso molto più
preciso e attento delle fonti, cosa che ne diminuiva la leggibilità).
Nel 1997 Obeseyekere attaccò nuovamente Sahlins, invitando gli antropologi
ad ‘’desahlinizzare’’ l’antropologia; l’animosità del dibattito avrebbe offuscato a
lungo il senso della controversia.
Obeseyekere accusava dunque l’avversario di essersi inventato degli eventi,
mentre Sahlins accusava l’antropologo singalese di essere uno studioso di
bassa lega.
Il dibattito tra Sahlins e Obeseyekere ebbe il merito di far riflettere sui rischi e
le conseguenze in cui si incorreva nel progetto di sottrarre le storie degli altri
alla narrativa unica occidentale (la cosiddetta ‘’maitre-récit’’).
Questi tentativi di dimostrare l’esistenza di un pluralismo storico e
storiografico si devono in larga misura agli antropologi, in particolar modo
quelli americani.
Essi però non avevano avuto pieno successo in questo progetto, in quanto la
nozione stessa di ‘’storie degli altri’’ non poteva che suonare eurocentrica a chi,
come Obeseyekere, non era figlio dell’Occidente.
Si sarebbe dovuto parlare piuttosto di una ‘’storia degli altri’’, una condivisa
storia di oppressione che accomunava tutti i popoli soggiogati dagli Europei.
Si pone qui il problema dell’autorità: chi aveva tra Sahlins e Obeseyekere il
diritto di farsi portavoce di una popolazione non occidentale?
Una domanda che potremmo estendere anche al presente.
Sahlins aveva fatto valere la sua autorità di etnografo oceanista, mentre
Obeseyekere aveva rivendicato l’autorità che spetta all’indigeno come
portatore di una particolare cultura.
Questa rivendicazione aveva profondamente irritato Sahlins, che aveva
accusato il rivale di essersi sovrapposto alle voci dei locali e di aver fatto del
‘’pop nativism’’.
Questo problema continua ad esistere, soprattutto alla luce del fatto che
ormai anche nei paesi decolonizzati esistono studiosi in grado di affrontare il
dibattito da una prospettiva interna.
Secondo alcuni questa transizione porterà alla formazione di antropologi in
grado di parlare tra di loro delle proprie culture, mentre per altri erigerà delle
barriere quasi insormontabili per il dialogo.
La controversia sulla morte del capitano Cook si inserisce in un più vasto
processo di ‘’riappropriazione’’ del passato da parte dei popoli che erano stati
a lungo considerati privi di storia, ma rivela anche le profonde tensioni che
scandiscono questo processo.
Si può essere d’accordo sulla necessità di riscrivere la storia, mentre si può
obiettare sulle domande da rivolgere al passato.
Le critiche postmoderniste vedono nel passato soprattutto una costruzione
del presente, ma pare comprensibile che siano stati luoghi come Oceania e
Africa ad offrire esempi di questo fenomeno di ‘’creazione del passato’’.
L’interesse crescente per la storia come mezzo di legittimazione e
delegittimazione del passato pone interrogativi sul futuro dell’antropologia
storica.
Già Evans-Pritchard aveva distinto tra la storia ‘’vera’’, quella che emergeva
dalle fonti storiche, e la storia che era ‘’parte consapevole della vita sociale di una
popolazione e operante sulla vita sociale’’.
Evans-Pritchard aveva invitato gli antropologi a non limitarsi solo allo studio
di quest’ultima, tuttavia gli storici postmodernisti tendono come visto a
ribaltare il quadro.
Si tratta di un paradossale ritorno alle parole di Malinowski, che a cavallo
tra le due guerre mondiali affermava che l’unica storia importante era ‘’quella
che sopravvive’’ e che il passato si formava in base alle necessità del presente.
Se l’antropologia storica si concentrerà solo sull’uso strumentale del passato
allora vi sarà quasi senza dubbio un impoverimento.
Il testo di Viazzo voleva spiegare di come, grazie all’antropologia, gli storici
avessero potuto porre nuove domande alle fonti, grazie alle quali era
possibile ricavare nuove informazioni utili a ricostruire un passato ‘’più
oggettivo’’.
Questa linea non ha caratterizzato solo lo studio di popolazioni europee, ma
si è visto come sia stata utilizzata anche da Sahlins e Obeyesekere.
Il compito che l’antropologia storica si è data è quello di comprendere i
comportamenti e le credenze degli esseri umani lontani nel tempo.
Studiare il passato in funzione del presente è operazione legittima, ma non si
deve dimenticare che questo per l’antropologia storica porta con se’ il rischio
di anacronismi e distorsioni, subordinando ‘’il rispetto dei morti’’ (Ginzburg)
alle passioni dei vivi.