Angelo Belleri
Angelo Belleri
Angelo Belleri
La Resistenza nella media e bassa Valtrompia fu segnata dalla presenza, inizialmente del gruppo
Russi, poi dalla 122a brigata Garibaldi. Lino Belleri attraversò ambedue queste esperienze, da
protagonista, ed è una delle figure più rappresentative della lotta di Liberazione nella nostra
provincia. Raccogliere la sua testimonianza è allora doveroso, oltre che un dono alle nuove
generazioni perché possano raccogliere qualche eredità meritevole di essere custodita.
La sua narrazione è stata anche l’occasione per riprendere ed approfondire alcune questioni
controverse, dibattute nella recente storiografia resistenziale.
La scelta
La vicenda di Lino Belleri è straordinariamente emblematica del dramma che vissero tutti quelli
della sua generazione: non ancora ventenni costretti a decidere della propria vita, a scelte che anche
ad un adulto farebbero tremare le vene nei polsi. Lo storico Claudio Pavone ha raccolto una
vastissima galleria di casi1. Belleri in qualche modo rappresenta per intero la difficoltà della scelta,
ma nello stesso tempo la tremenda assunzione di responsabilità che la stessa comportava. Si sente
dire, in questi tempi in cui troppi fanno a gara nello screditare o anche solo banalizzare la
Resistenza, che spesso questi giovani divennero partigiani quasi per caso, perché, stanchi della
guerra o sfiduciati dagli evidenti rovesci su tutti i fronti, non comprendevano più il senso di
rimanere sotto le armi o di arruolarsi e quindi da renitenti per necessità si sarebbero spontaneamente
e quasi inconsapevolmente trasformati in resistenti. La stessa argomentazione viene usata sul fronte
opposto per sostenere che altri, anch’essi per caso, per diverse circostanze della vita, si trovarono a
combattere con i fascisti ed a fianco dei nazisti, per malinteso senso dell’onore, e quindi parimenti
meritevoli di essere riconosciuti soldati della Patria.
L’itinerario tormentato di Lino dà pienamente il senso, invece, di una scelta costruita attraverso un
percorso sofferto di assunzione consapevole della responsabilità di decidere da che parte schierarsi.
In un primo tempo è in preda all’incertezza sul da farsi, combattuto tra l’obbedienza al padre
preoccupato per le possibili ritorsioni fasciste e il sentimento di insofferenza al regime già maturato
ascoltando le conversazioni dei suoi compagni di lavoro alla Beretta. E il pendolo per tre volte
oscillante fra arruolamento e renitenza riflette questo lacerante conflitto, ma indica anche come la
scelta finale non sia stata casuale, bensì a lungo ponderata, sofferta, maturata interiormente.
Ma non basta. Chi oggi, seguendo lo spirito del tempo anti-antifascista e anti “vulgata
resistenziale”, tende a sminuire il valore dell’essere partigiani, non tiene conto che quella scelta di
stare dalla “parte” giusta non era e non poteva essere mai definitiva, compiuta una volta per tutte. Il
giovane, come Belleri, che decideva di salire in montagna non si arruolava in un esercito regolare,
fatto di caserme, disciplina militare, codice di guerra (e anche armi, divise e vettovagliamento
garantiti), per cui da quel momento non doveva far altro che ubbidire agli ordini e rispettare le
regole. Quel giovane si aggregava ad un gruppo costretto a vagare in condizioni difficili da una
località impervia all’altra, a procurasi le armi e le munizioni, a cercare ogni giorno il cibo, ad
affrontare il pericolo delle delazioni e dei conseguenti rastrellamenti, ad accostarsi alla morte (il
rischio della propria, o la necessità di uccidere il nemico) non perché spinto da ordini superiori che
ne annullano il tabù, ma in solitudine con la propria coscienza e la propria responsabile volontà.
Quindi quel giovane doveva ogni giorno mettere alla prova la scelta inizialmente compiuta,
decidere se riconfermarla o tornare indietro, e questo per giorni, settimane, mesi. Belleri racconta di
giovani che erano saliti in montagna con ingenuo entusiasmo e di tanti fra questi che alle prime
1
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994 (prima
edizione 1991), pp. 3-62.
1
difficoltà si sono smarriti o perché incapaci di sostenere la durezza di quella vita, o perché non
sopportavano la pratica, purtroppo necessaria, di uccidere o perché semplicemente ed umanamente
avevano paura.
Belleri non ha mai tentennato, dopo quel 19 maggio in cui diciannovenne sale al Roccolo dei tre
piani, neppure nei momenti più difficili: un esempio di coerenza e rigore, virtù oggi non proprio di
moda e anche per questo poco apprezzate. Ma sono persone come Belleri che hanno restituito una
qualche dignità al nostro Paese.
Nella Resistenza, i temi della violenza, della morte, della paura e del coraggio, assumono una
dimensione del tutto nuova per i giovani partigiani. Quei giovani, ricordiamolo, rappresentavano
l’ultima generazione di uomini che fin da piccoli avevano introiettato la guerra come elemento
costitutivo e necessario del loro percorso esistenziale, come un dato antropologico. Si perdeva nella
notte dei tempi la pratica della guerra come evento che prima o poi sarebbe toccato a tutti: nessuna
generazione precedente vi si era potuta sottrarre. Mai. E il fascismo, trasformando la società in una
grande caserma, li aveva preparati ogni giorno appunto alla guerra. E la guerra, quella dichiarata
dagli Stati e combattuta dagli eserciti regolari, libera le coscienze da tutti i dilemmi, i dubbi, gli
scrupoli, perché semplicemente annulla le coscienze individuali e le affida alla “catena di comando
gerarchica”, perché cancella d’un sol colpo quel perentorio comandamento “non ammazzare”, tabù
sacro in ogni religione, fondativo della convivenza umana. E in quel contesto al povero soldato non
rimaneva che fare i conti dolorosamente con la propria paura, esorcizzandola con lo stordimento
dell’alcol o come diceva don Abbondio, scacciandola con una paura ancora più grande, quella del
plotone di esecuzione per “codardia in faccia al nemico”. A tutto questo erano preparati i giovani
ventenni in quegli anni terribili.
Ma la guerra partigiana è del tutto diversa, perché non è un obbligo, perché non sottostà alla ferrea
disciplina militare, perché è un atto volontario, e anche per questo una scelta di libertà. E quindi
anche di terribile responsabilità.
Belleri si trova immediatamente a vivere il giorno stesso del suo ingresso nella Resistenza uno dei
drammi più difficili, l’esecuzione di prigionieri. Il problema del trattamento dei prigionieri da parte
dei partigiani non fu risolto in modo univoco nel corso della Resistenza. In generale era impossibile
per ragioni pratiche e logistiche predisporre una normale detenzione dei prigionieri, come avrebbero
potuto fare i nazisti e i fascisti, che, invece, a scopo intimidatorio o per pura ferocia preferirono
ricorrere ad esecuzioni sommarie dei partigiani catturati. “Nelle azioni antiribelli, le squadre non
fanno prigionieri”, disponeva esplicitamente il partito fascista come norma di comportamento delle
brigate nere, all’atto costitutivo delle stesse2. Nel caso dei partigiani l’alternativa era la liberazione
dei prigionieri dopo averli disarmati o la loro immediata fucilazione. Questa seconda opzione,
comunque drammatica, in molte circostanze fu imposta per salvaguardare le proprie posizioni o la
semplice possibilità di continuare la lotta. Va ricordata la prima amara esperienza del gruppo di
Lorenzini e di Gheda che subì un terribile e tragico rastrellamento l’8 dicembre 1943 proprio in
seguito alla delazione di due militi fascisti precedentemente lasciati liberi sotto giuramento di non
tradire3.
L’esecuzione del capitano Martini, ex comandante partigiano passato con i fascisti, e del milite
della questura che lo accompagnava rappresenta una prima dura prova per il giovanissimo Belleri.
Non vi è dubbio che Martini avesse tradito e fosse salito in montagna per indicare ai fascisti i luoghi
dove si trovavano i partigiani4. Ma Martini ed il milite che lo accompagnava erano stati disarmati e
2
Documento “segreto” del Quartier generale del 25 giugno 1944, in “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1972, n. 3,
p. 151
3
A. Fappani, La Resistenza Bresciana, vol. II, Squassino, Brescia 1965, pp. 99-101 e 123-124
4
Gli interrogativi che su questa versione vennero sollevati per mettere in dubbio la legittimità dell’esecuzione di
Martini (Cfr. L. Tedoldi, Uomini e fatti di Brescia partigiana, Brescia, Brescianuova, 1980, pp. 121-122) non sembrano
2
a quel punto erano prigionieri. L’ordine di fucilarli portato da Antonio Forini a nome del Cln di
Brescia è molto improbabile che fosse stato emesso effettivamente dal Cln che attraversava un
periodo piuttosto difficile dopo l’uccisione di Armando Lottieri. Inoltre, riconosce lo stesso Belleri,
“c’è da dire che Martini non ha ammazzato Berto, quando l’aveva disarmato [un partigiano
incontrato lungo il percorso dal Martini. nda], ed è stato un fesso poi a portarselo dietro perché
avrebbe potuto metterlo nei guai, come poi è successo”. Effettivamente Martini, in quel giorno per
lui tragico, tenne un comportamento del tutto contraddittorio rivelatore forse di un drammatico
conflitto interiore, di un’indecisione: sembrerebbe agisse in lui anche un incoercibile senso di colpa
verso gli ex compagni di lotta che gli impedì di agire con freddezza e senza scrupoli. Tuttavia la
logica delle guerra partigiana non permetteva di trattenere reclusi i due, mentre una loro liberazione
sarebbe stata nefasta: da qui la decisione condivisa, ed eseguita congiuntamente, dal gruppo della
54a brigata Garibaldi di Gino Boldini e dal gruppo Russi di Nicola Pankov di giustiziarli. Per
Belleri, giovanissimo ed inesperto di guerra partigiana, fu quella una prova decisiva, come
riconosce lui stesso: Superata la “prova del fuoco” dell’esecuzione da parte di Nicola a sangue
freddo di Martini e poi delle guardie della Gnr di Brozzo, uno ha imparato a guardare la morte in
faccia. Del resto per fare la resistenza armata il coraggio era indispensabile, non potevi farti
paralizzare dalla paura. Anche allora vi era chi aveva capacità politiche, magari antifascista da
vecchia data, ma non aveva coraggio e capacità militari. D’altro canto Tito “Tobegia”, coraggioso
e capace di usare il mitra, mancava totalmente di senso politico; l’ideale era avere coraggio,
capacità militari, ma anche testa politica, come Verginella e Gheda”
Emerge qui un altro aspetto, su cui forse per pudore o per diffidenza ideologica si è poco indagato:
il coraggio5. Il fascismo era intriso della retorica dell’ardimento e forse anche per questo vi è stata
nella storiografia della Resistenza una certa reticenza ad affrontare questo tema. Inoltre, oggi, per
nostra fortuna si è ampiamente diffusa la cultura della non violenza, anche grazie ai 60 anni di
sostanziale pace di cui abbiamo goduto in questa parte del mondo, e si è sempre tentati a guardare
retrospettivamente anche quegli anni con gli occhi di oggi, a svalutare quindi la lotta armata e
sopravvalutare la cosiddetta resistenza civile o anche il semplice “né aderire né sabotare”. Tuttavia,
senza la resistenza armata, senza le brigate partigiane inquadrate nel Corpo volontari della libertà e
sotto la direzione politica del Cln, senza le insurrezioni nelle città del Nord in gran parte liberate
prima dell’arrivo degli Alleati, probabilmente il nostro Paese avrebbe subito l’umiliazione di una
lunga occupazione e il nostro popolo non avrebbe potuto determinare il proprio futuro
sbarazzandosi dell’ingombrante monarchia ed elaborando una costituzione democratica fra le più
avanzate.
Ma la guerra partigiana aveva bisogno di giovani coraggiosi. Non a caso, ci racconta Belleri, nel
gruppo dei Russi, che tutti riconoscono valorosi e determinati, il coraggio (o al contrario la paura)
era il tema consueto di conversazione, era il metro di giudizio nei confronti dei veri o presunti
comandanti o commissari politici delle formazioni ufficiali, aggregate al Cln, ed era discriminante
per essere accettati nel gruppo al punto che la paura poteva essere anche motivo di eliminazione,
come previsto dal codice militare di guerra.
Ma il coraggio, uno non se lo può dare, si giustificava Don Abbondio ed è probabilmente vero. Ed
è vero che, come il coraggio da solo non bastava per una lotta di Resistenza efficace anche
politicamente, la voglia di fare qualcosa contro l’occupazione nazista e contro i fascisti della Rsi
poteva essere fortemente limitata e condizionata dalla paura o anche dalla semplice ripulsa
personale ad usare le armi. In questi casi ci si rifugiava spesso in ruoli di supporto logistico o
puramente politici. Non per questo poco importanti o privi di rischio, anzi. E la paura poteva allora
tradursi anche in tragedia terribile, come nel caso dell’ispettore delle brigate Garibaldi di Brescia:
fondati essendo attestato da fonti Gnr che “la sera del 18 corr., in Brescia, il noto capo banda Martini si è consegnato
nelle mani del Capo della Provincia, che lo tiene sotto la sua protezione”. Cfr. Notiziario della Gnr del 19 maggio 1944,
in Archivio della Fondazione Micheletti.
5
E’ un aspetto trascurato anche nel monumentale lavoro di Claudio Pavone, da cui a mio parere non si può prescindere
quando si tratta il tema della moralità nella Resistenza, quindi della scelta o della violenza.
3
catturato dai fascisti e probabilmente torturato, ma soprattutto ricattato con la detenzione della
moglie, crolla e si fa delatore: ne seguiranno la cattura del comandante della 122a brigata, Giuseppe
Verginella, la sua detenzione e, dopo feroci torture, la morte.
Certo, è sicuramente sfortunato quel paese che ha bisogno di eroi, ma l’Italia della Rsi e
dell’occupazione nazista era dannatamente strapazzata dalla cattiva sorte, da un destino che se non
fosse stato sconfitto avrebbe condotto il mondo sotto il “nuovo ordine” dell’oppressione planetaria,
del genocidio e della schiavizzazione delle razze inferiori, dell’annullamento di ogni libertà.
Abbiamo quindi avuto bisogno, allora, di giovani coraggiosi, dotati però anche di cuore e di
intelligenza politica, come Giuseppe Gheda, come Giuseppe Verginella e come tanti altri tra cui,
aggiungo io, Lino Belleri.
L’esperienza partigiana di Lino Belleri si dipana, come già si è accennato, in due momenti
fondamentali che peraltro hanno caratterizzato la Resistenza in particolare nella media Valtrompia:
il gruppo autonomo dei Russi e la 122a brigata Garibaldi. Proprio per questo ci permette di
riprendere uno dei temi controversi oggetto di polemiche spesso eccessive, strumentali e molto
ideologizzate, quello del difficile rapporto tra queste due distinte fasi della Resistenza valtrumplina.
Anche attraverso la testimonianza di Belleri ci è possibile innanzitutto inquadrare con esattezza le
caratteristiche del gruppo dei Russi, fortemente determinate, almeno dal maggio 1944, dalla
personalità di Nicola Pankov.
I russi che si ritrovano a combattere nella Resistenza bresciana sia in Valtrompia che in
Valcamonica formavano uno dei tanti gruppi di russi che si schierarono a fianco dei partigiani in
varie parti d’Italia, disertando dalla Whermacht o dalla Speer, corpo ausiliario armato dell’esercito
tedesco anch’esso a volte impiegato in azioni antipartigiane. Fatti prigionieri nella campagna di
Russia avevano scelto in qualche modo di collaborare e furono colti dall’armistizio dell’8 settembre
al seguito dell’esercito tedesco in Italia. Alcuni di loro disertarono e si unirono alla Resistenza, o
perché ritenevano fosse ormai vicina la fine della guerra o perché non disponibili ad essere
impiegati in funzione antipartigiana o per cercare di riscattarsi agli occhi dell’Unione sovietica in
cui difficilmente sarebbero potuti rientrare se sospettati di collaborazionismo. In generale
combatterono valorosamente a fianco dei partigiani italiani6.
I russi che si ritrovarono in Valtrompia nel 1944, nella maggior parte, avevano disertato da Brescia
il 5 dicembre del 19437 ed inizialmente avevano girovagato a cavallo tra Valtrompia e
Valcamonica.
Quando Lino Belleri entra nel gruppo il 19 maggio 1944, questo era comandato da Nicola (o
Nicaolaj) Pankov (o Pancoff), ex sottufficiale, che lo dirigeva con stile militare, disciplina ferrea e
grande attenzione alla massima efficienza operativa, mentre sembrava estraneo alla dimensione
politica, anzi piuttosto diffidente nei confronti dei “politici”, mentre l’unico comunista del gruppo
era, secondo Belleri, Stefano Rudenco.
Fondamentale per inquadrare la figura di Nicola Pankov è lo “stralcio di diario di un russo”
recuperato da Dario Morelli delle Fiamme verdi e depositato presso l’Isrb, oggi presso l’Università
cattolica. Si tratta di un documento di straordinario interresse non solo storico, ma anche letterario:
ci presenta il gruppo dei russi che operò nel 1944 in Val Trompia da un punto di vista interno al
gruppo stesso e senza particolari censure; dalla lettura risulta evidente che si tratta di un diario
riservato e personale in cui l’autore, dimostrando una particolare attitudine espressiva e una certa
6
In totale i partigiani russi sono stimati in oltre 5.000, provenienti prevalentemente dai reparti ausiliari della Wehrmacht
(come la Speer), o dalle organizzazioni di lavoro, come la Todt. Cfr. M. Galleni, Ciao, russi. Partigiani sovietici in
Italia, 1943-1945, Marsilio, Venezia 2001.
7
Stralcio di diario [di un partigiano russo], “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974, n. 5.
4
vena poetica, si soffermava anche su descrizioni ambientali bucoliche8; mentre esprimeva
un’esplicita insoddisfazione nei confronti dei comunisti italiani9, annotava anche rilievi fortemente
critici sullo stesso gruppo di appartenenza, ad esempio sul fatto che non operava come banda
partigiana, con uno spirito “sovietico” ma sostanzialmente si preoccupava della propria
sopravvivenza con azioni di puro banditismo10 e quindi auspicava che ci si decidesse rapidamente a
spostarsi a Sud verso il fronte per partecipare attivamente alla guerra contro i nazifascsiti11.
Stabilirne la paternità è quindi decisivo per definire la stessa figura di Pankov . Santo Peli, senza
alcuna titubanza e discernimento critico, sposa l’ipotesi che l’autore fosse per l’appunto Nicola
Pankov12. Senonché vi sono troppe incongruenze perché si possa accettare questa versione. Un
primo elemento problematico va individuato nel fatto che Belleri, arrivato nel gruppo dei russi dopo
circa un mese dall’ultima data annotata nello “stralcio”, il 16 aprile 1944, e rimastovi praticamente
fino ai primi di settembre, non ha mai visto Nicola prendere un appunto o scrivere alcunché, come
neppure altri del gruppo russi. E’ del tutto evidente che chi intraprende una scrittura così
impegnativa, con passione ed indubbio estro narrativo, è consapevole di compiere un’opera
importante che non può in nessun modo interrompere in primavera proprio nella fase in cui la tanto
attesa lotta partigiana finalmente entra nel vivo. Inoltre non si comprende come il diario possa
essere pervenuto ai fascisti se l’autore fosse Nicola: chi lo scriveva, in quelle condizioni,
evidentemente lo portava sempre con sé ben custodito in una tasca degli abiti, ma Nicola non è mai
caduto nelle mani dei fascisti13, è stato ucciso da un gruppo della costituenda 122a brigata che l’ha
anche perquisito dopo la morte, tanto da prelevargli “un mitra, una pistola, un paio di scarponi, un
cinghione, un orologio da polso e un portafogli che non conteneva denaro”14. E del diario nessuna
traccia.
Ma se queste incongruenze non bastassero, infine vi è un’obiezione oggettivamente insormontabile:
l’autore scrive in prima persona e proprio nelle prime pagine cita in terza persona Nicola Pankov 15,
come cita tutti gli altri membri del gruppo, elencati alla fine con riferimenti anagrafici precisi, meno
uno, quello che come vedremo è con ragionevole certezza il vero autore del diario. Vi sono in verità
tipologie diaristiche in cui l’autore viene citato in terza persona e si immagina una sorta di
narratore neutro esterno alla vicenda: basta pensare al De bello gallico di Cesare o, per la resistenza
bresciana, alle memorie partigiane di Piero Gerola. In questi casi però si tratta non di appunti stesi
giorno per giorno, ma di memorie elaborate a posteriori in cui il narratore immaginario è in terza
persona e, ovviamente, l’autore, pure citato con il nome ed in terza persona compare come
personaggio protagonista. Nicola, invece, viene citato una sola volta, anche perché il quel periodo
non era il comandante del gruppo, individuato in un certo Prossin.
8
“Il sole scotta, la neve si scioglie, finalmente viene di nuovo la primavera, fioriscono i bucaneve che assomigliano a
narcisi bianchi, solo che sono più grandi e senza profumo. Veramente quelli che trovai sulle pendici sud, difese dal
vento, fiorivano anche in dicembre!” (24 febbraio 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 71.
9
“Sperare nella collaborazione del Comitato comunista italiano non ci conviene. Gli italiani non sono una razza
guerriera ed il Comitato è composto di elementi artigiani” (2 marzo 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 74.
10
“Ieri parlavo con Ivanoff e Schulga sulla necessità di incominciare la vita dei partigiani, perché così non si può fare la
vita di banditi! Salvarsi e procacciarsi da mangiare! Nessuno di noi è adatto a far la vita del partigiano e solo loro unico
pensiero è quello di salvare la propria pelle. Dai discorsi uditi e dai ragionamenti fatti in proposito non mi sembra che
abbiano desiderio di ritornare nell’Urss!! E questi che così parlano per ora preferisco non nominarli” (27 febbraio
1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 72.
11
“Ho chiesto quando inizieremo a fare i partigiani; forse in estate? Ho quindi proposto di formare diversi gruppi di
cinque o sei persone ed andare verso il sud. La mia proposta è stata accettata, così con me verranno Ivanoff, Turcowsky,
Vorona, Rudenco, Stucalov” (24 marzo 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 77. In realtà il progetto non avrà seguito.
12
S. Peli, Il primo anno della Resistenza. Brescia1943-44, “Studi bresciani”, n. 7, Fondazione Micheletti, Brescia 1994,
p. 84 e n. 17 p. 117.
13
Un’ipotesi potrebbe essere la perdita del diario da parte di Nicola nel concitato scontro con i fascisti tra il 13 ed il 14
maggio 1944 in una cascina a Gabbiole di Agnosine, ma in questo caso lo stralcio sarebbe arrivato per lo meno al 10
maggio, mentre si interrompe il 16 aprile.
14
Dichiarazione di Tito, in Archivio Fondazione Micheletti, Fondo Resistenza, faldone 17 (segnatura provvisoria).
15
“Alla sera il nostro gruppo si spostò marciando in direzione sud. Rimasero con Gergorio Novicki (regime di Ninitz),
ex sergente Pkka, anche i compagni Prossin, Pancoff e Stepnoff” (!9 gennaio 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 66.
5
Chi è allora l’autore del diario? Certamente un russo che, quando giunge Belleri nel gruppo, se
n’era già allontanato. Effettivamente Belleri ricorda che nel gruppo, alcune settimane prima del suo
arrivo16 vi era stato un scontro violento da cui il capo, Prossin, era uscito gravemente ferito, mentre
5 o 6 avevano deciso di andarsene e spostarsi verso la Valcamonica nella zona dove operava la 54a
brigata Garibaldi o verso la Svizzera. Probabilmente è in seguito a questa vicenda che Nicola
diventa comandante del gruppo rimasto in Valtrompia, mentre Prossin veniva soccorso da alcuni di
Gardone Valtrompia e, con il decisivo aiuto dei Beretta, ricoverato in un ospedale dove poté essere
curato e tenuto nascosto17.
Quindi l’autore non poteva che essere uno di quelli passati in Valcamonica, tenendo conto che lo
stralcio è la traduzione di quelle sole parti del diario che hanno interesse militare per i fascisti che
si occupano della Valtrompia (infatti vi è un primo vuoto tra il 21 dicembre 1943 - p. 25 - ed il 18
gennaio 1944 - p. 4118 -, in cui tutto il gruppo dei russi, dopo la dispersione seguita al primo grande
rastrellamento del Guglielmo si era spostato in Valcamonica per verificare se vi fossero le
condizioni per svernarvi)19; lo “stralcio” fu trasmesso, dopo traduzione, dai fascisti della “Tognù”
operanti in Valcamonica al battaglione “Adamello”, distaccato nella media Valtrompia,
appartenente anch’esso alla brigata nera “Tognù”, per utilizzarne le indicazioni contenute per
l’attività antipartigiana. Ed effettivamente risulta che fu utilizzato da parte del comando fascista
operante in Valtrompia, a partire dal gennaio 1945, come attestano due documenti del 10 e del 13
gennaio 1945, in cui si fa esplicito riferimento al “diario dei russi”20.
Si tratta quindi di uno dei russi trasferitisi dalla Valtrompia alla Valle Camnonica presso la 54a
brigata Garibaldi a fine aprile 1944 e forse caduto nelle mani dei fascisti. Dario Morelli ipotizza che
sia “Aceef Paolo Ivanovic nato nel 1924 a Charkow, Smiewschoe scosse n°. 200; padre Aceef Ivan
Feodorovic”21 essendo l’unico non citato per nome nel diario dei russi e quindi probabile narratore
in prima persona. L’ipotesi è confortata dalla testimonianza di Belleri attestante il fatto che detto
Aceef non era più presente nel gruppo russi al suo arrivo e che era uno di quelli trasferitisi in
Valcamonica. Ebbene il 17 dicembre 1944 in un’azione condotta dal gruppo russi della 54a brigata
Garibaldi che portò all’uccisione di Alberto Boniotti, che da Sellero guidava l’organizzazione
zonale fascista, cadde ferito mortalmente un certo “Ivan”22, ricordato da Gino Boldini come “Paolo
Akeer (Carcov)” e così inserito nell’elenco dei 22 caduti della 54a brigata Garibaldi23. Il giorno
dopo il corpo di questo russo ferito a morte, che, con ogni evidenza data la quasi perfetta omonimia,
è Aceef Paolo Ivanovic nato a Charkov nel 1924, probabile autore del diario, venne trovato dalla
brigata nera “Tognù” in azione di rastrellamento24.
16
Va annotato che già il 13 maggio, quando il gruppo russi si scontra con i fascisti a Gabbiole di Agnosie, è ridotto di
numero (7-8 membri) rispetto a quello originale del diario (15 componenti) e che nello stesso “stralcio” si denunciava
una certa tensione interna: “Bisogna dire che i rapporti che intercorrono fra i membri del nostro reparto sono
discretamente tesi in quanto il comportamento di Prossin, Scieremetieff, Stepnoff e Cogiemiacin non è sovietico!” (20
marzo 1944). Cfr. Stralcio di diario… cit., p. 76.
17
Prossim, nel dopoguerra tornerà a Gardone a ringraziare quei cittadini ed i Beretta che gli avevano salvato la vita.
Testimonianza di Lino Belleri.
18
Va tenuto presente che è il traduttore e copista fascista che indica in calce stralcio di diario e che annota
meticolosamente i numeri delle pagine, corrispondenti all’originale e tradotte nello stralcio: pp. 23-25; pp. 41-53; pp.
64-72.
19
Diario di Luigi Levi Sandri, comandante del distaccamento C3 della brigata Fiamme verdi “Tito Speri”, operante
nella Media Valcamonica, alla data del 6 gennaio 1944, citato nelle note di commento di Dario Morelli a Stralcio di
diario [di un partigiano russo], “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974, n. 5, p. 66.
20
Nota storica di D. Morelli, a Stralcio di diario [di un partigiano russo] , “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974,
n. 5, p. 82.
21
Stralcio di diario [di un partigiano russo], “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974, n. 5, p. 79.
22
M. Franzinelli, La baraonda. Socialismo, fascismo e resistenza in Valsaviore, Grafo, Brescia 1995, vol. 1°, p. 229.
Con il nome di Ivan è citato nel mattinale della questura di Brescia del 24 dicembre in M. Franzinelli, La baraonda.
Socialismo, fascismo e resistenza in Valsaviore, Grafo, Brescia 1995, vol. 2°, p. 177.
23
M. Franzinelli, La baraonda. Socialismo, fascismo e resistenza in Valsaviore, Grafo, Brescia 1995, vol. 2°, p. 64
(10° fotografia) e p. 215.
24
Mattinale della questura di Brescia del 24 dicembre, cit.
6
Dal 19 dicembre 1944 la brigata nera “Tognù”, in possesso del diario, avrebbe provveduto alla
traduzione dello stralcio interessante la zona della Valtrompia, dove lo avrebbe fatto pervenire per
competenza al relativo distaccamento “Adamello” ai primi di gennaio del 1945, distaccamento
presso cui venne trovato dopo la Liberazione.
Questa lunga analisi critica delle fonti applicata all’autore dello “stralcio di diario” ci serve ad
inquadrare con più rigore il gruppo dei russi operanti in Valtrompia ed il suo comandante Nicola
Pankov: infatti, sia le sommarie condanne25 che le acritiche agiografie26 non aiutano a comprendere
la complessità e contraddittorietà di un gruppo autonomo che, invece, Paolo Aceef nel suo diario ci
rappresenta con penetrante analisi critica. Paolo Aceef, va anche ricordato, ha dimostrato fino alla
fine una coerenza ammirevole con la sua volontà di “fare il partigiano” annotata nel diario,
continuando la lotta armata, fino al sacrificio della vita, anche nel difficilissimo inverno 1944-45,
quando i suoi ex compagni si erano quasi tutti trasferiti in Svizzera27 e la stessa 54a brigata
Garibaldi, come anche la 122a, aveva pressoché sospeso ogni attività.
La questione dei gruppi autonomi. Il conflitto con Nicola Pankov e la formazione delle 122a
brigata Garibaldi
Il gruppo russi, quindi, rimasto in Valtrompia nella primavera del 1944 sotto il comando di Pankov
si configura come una banda autonoma, con un profilo squisitamente militare, ben armata e con
notevoli capacità operative come si dimostreranno in particolare nell’azione di Brozzo. Ma anche
un gruppo, in particolare nel comandante Pankov, refrattario alla politica ed all’integrazione nelle
formazioni ufficiali facenti capo al Clnai. Questo è dimostrato dai tentativi di inquadramento operati
senza alcun risultato, sia dalla progettata brigata Matteotti28, sia dalle Fiamme Verdi29, sia infine dai
Garibaldini. Con questi ultimi, in particolare, dopo la fuga dal carcere di Brescia, il 13 luglio 1944,
di Leonardo Speziale e Giuseppe Gheda, si apre un conflitto di difficilissima soluzione: la nascente
brigata Garibaldi, che a questo punto i comunisti sono in grado di costituire, entra inevitabilmente
in rotta di collisione con il gruppo Russi, sia perché ambedue agiscono nella comune zona
operativa, sia perché le retrovie e le basi d’appoggio (i comunisti della Media Valtrompia, in
particolare Cecco Bertussi) sono le stesse. Nel momento in cui si va costituendo una brigata
Garibaldi e il gruppo di Nicola insiste a rimanere autonomo, è del tutto ovvio che i comunisti locali
sono portati a sostenere lo sforzo per la creazione di una formazione garibaldina e lo spazio per il
gruppo autonomo dei Russi di fatto si restringe.
La situazione che si crea nella tarda estate del 1944 nella media Valtrompia è quindi estremamente
difficile, oggettivamente complicata, per motivi politici evidenti, ma anche per fattori personali che
hanno a che fare con i temperamenti dei protagonisti, in particolare dei due principali contendenti,
Nicola Pankov e Leonardo Speziale. A distanza di sessanta anni, anche con l’aiuto di Belleri,
davvero testimone imparziale, si può tentare una valutazione serena.
Per questo, preliminarmente è opportuno prendere le distanze da alcune distorsioni della realtà dei
fatti che non fanno onore ad un metodo storico rigoroso. Per sostenere le ragioni di Nicola Pankov,
25
“Nicola era stato uno sbandato che, insieme ad alcuni altri compagni commetteva rapine e terrorizzava i contadini,
gettando discredito sul movimento partigiano”. Cfr. I. Nicoletto, I briganti diventano eroi per gli alfieri
dell’anticomunismo, in “La verità”, 24 marzo 1975.
26
“Nel caso del gruppo russo, una fisionomia da ‘compagni’ è chiaramente visibile” e “Quindi, per i protagonisti, e per
gli storici della resistenza bresciana non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che fino alla fine di agosto Nicola è
considerato a tutti gli effetti un capo partigiano autorevole”. Cfr. S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 94 e
p. 101.
27
Quasi tutti i russi che erano rimasti ad operare in Valtrompia, nel settembre 1944, dopo i grandi rastrellamenti di fine
agosto attorno alla Corna Blacca, si aggregarono ai distaccamenti della Fiamme verdi della Valcamonica, C3, C4 e C5,
per poi trasferirsi tutti, salvo alcuni catturati dai tedeschi, in Svizzera nel novembre 1944. Cfr. Nota storica di D.
Morelli, a Stralcio di diario, cit. p. 81.
28
Relazione di Arnaldo Carli [Alberto Leonesio] com. brigata “G. Matteotti” del 22 agosto 1944, in R. Anni, Storia
della brigata Perlasca, Isrb, Brescia 1980, pp. 201-202.
29
R. Anni, Storia della brigata Perlasca, cit., p. 85.
7
eroe popolare senza macchia, contro il commissario politico comunista Leonardo Speziale mero
“interprete della linea del partito”, sono state scritte alcune falsità che non aiutano a costruire quel
giudizio ponderato di cui si diceva.
Non corrisponde alla realtà l’affermazione che la riunione alla Garrotta di condanna di Nicola
Pankov “vanifica, anzi fa scomparire, anche storiograficamente [corsivo nostro, nda], tutta l’attività
partigiana del gruppo russo, occultandola, seppellendola sotto le spoglie di generiche ‘scorrerie’”30.
Nell’unico lavoro storiografico che ha trattato organicamente la Resistenza in Valtrompia furono
dedicate circa 15 pagine alla ricostruzione storica dell’attività del gruppo dei russi31, nelle quali più
volte si afferma che l’unico gruppo operativo nell’inverno-primavera 1943-44 era quello di Nicola
Pankov32 , che fu protagonista dell’azione decisiva di Brozzo33 e si prendono le distanze dal
giudizio negativo formulato sul gruppo russo dal comando regionale delle Brigate Garibaldi il 22
luglio 1944: “Giudizio in verità troppo pesante e ingeneroso nei confronti del gruppo russi che, se
era costretto per sopravvivere nei momenti difficili ad azioni non troppo ‘ortodosse’, era pur sempre
l’unico nucleo partigiano attivo in tutta la valle”34.
Nella foga idealizzante della figura di Nicola succede che gli si assegni erroneamente il merito di
aver “catturato” Martini35, innescando una polemica pretestuosa nei confronti di Speziale, anche qui
non fondata sui dati di fatto. Martini ed il questurino che era con lui furono catturati da partigiani
garibaldini della Valcamonica, al roccolo dei Tre piani sopra Cesovo, su segnalazione del
comunista Forini, informato del suo tradimento, come attestano due protagonisti della vicenda, Lino
Belleri e Gino Boldini, commissario della 54a brigata Garibaldi36.
Così, per sminuire il ruolo della 122a brigata Garibaldi si accredita una presunta storia della stessa
falsata a posteriori per ingigantirne artatamente il peso: “Il gruppo che diverrà la 122a brigata
Garibaldi, alla stessa data [22 agosto 1944. nda] è noto come il gruppo Bruno, anche se poi diverrà
usuale datare al ’43 la nascita della Garibaldi”37. Ma, a costo di apparire pedante, nell’unica storia
della 122a si racconta, con precisione di date e di numero di effettivi, la travagliata e difficile
gestazione della brigata Garibaldi in Valtrompia, fino alla sua costituzione ufficiale il 4 ottobre
1944: “il 4 ottobre la nuova brigata, col numero 122, viene formalmente incorporata nel comando
generale delle Brigate d’Assalto Garibaldi e quindi nel Corpo Volontari della Libertà”38.
Infine è semplicemente falso che in quel lavoro sulla storia della 122a, per quanto riguarda la
tragedia dell’uccisione di Bertussi, vi sia stata una “reticenza assoluta sulle modalità”39. A supporto
di questa perentoria affermazione si cita solo quanto è riportato nell’appendice nella biografia di
Cecco Bertussi, ignorando del tutto quanto è invece scritto nel testo, dove si indica chiaramente il
contesto in cui morì Bertussi, cioè l’eliminazione di Nicola Pankov da parte di un gruppo della
122a: “A seguito della discussione [fra esponenti delle brigate ufficiali alla Garotta agli inizi di
settembre del ’44. nda], fu emessa, di comune accordo, la sentenza di condanna a morte di Nicola,
da eseguirsi ‘da parte di chiunque lo potesse reperire’. Questa sorte sarebbe toccata ai garibaldini
della 122a brigata Garibaldi il 18 dello stesso mese. Fu una vicenda drammatica che costò, tra l’altro
la vita al quadro più capace ed esperto del Partito comunista in tutta la Valtrompia, Cecco
Bertussi”40.
30
S. Peli, Il primo anno della Resistenza…,cit., p. 100.
31
M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi e la Resistenza nella Valtrompia, Nuova Ricerca, Brescia 1977, pp. 21-28,
pp. 39-48
32
Ivi, pp. 22, 39, 40.
33
Ivi, p. 27.
34
Ivi, p. 40.
35
S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 101.
36
Si veda di seguito la narrazione di Lino Belleri e al testimonianza di Gino Boldini rilasciata al curatore.
37
S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 102.
38
M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi, cit., p. 55.
39
S. Peli, Il primo anno della Resistenza…, cit., p. 66.
40
M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi, cit., p. 48.
8
Sgombrato il campo dalle pretestuose forzature dei dati di fatto, la riflessione non può innanzitutto
prescindere da una considerazione difficilmente contestabile. La svolta che si operò nell’estate 1944
in tutta l’Italia occupata, con il passaggio dalle bande autonome, costituite localmente su iniziative
spontanee, ad un organizzazione in brigate aggregate in formazioni che facevano capo
politicamente al Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, e poi militarmente al Corpo
volontari della libertà fu assolutamente necessaria e strategicamente decisiva. Quale peso avrebbe
avuto nella Liberazione del paese e nelle vicende dell’immediato dopoguerra un movimento
ribellistico fatto di bande locali autonome, senza alcuna direzione militare e strategia politica
unificate a livello nazionale?
Superare la fase dei gruppi autonomi era dunque inevitabile, anche se è del tutto comprensibile che
questa preoccupazione, prioritaria nella concezione di un comunista come Speziale, fosse
completamente estranea a Nicola Pankov. Il vero problema su cui ci si deve interrogare è se questo
processo non potesse maturare anche in Valtrompia evitando un esito così drammatico. Lino Belleri
a questo riguardo non ha dubbi: Certo se ci fosse stato Gheda o Verginella a gestire la faccenda, si
sarebbe risolta in un altro modo. Ed è un peccato per noi, soprattutto, che abbiamo perso Bertussi.
Già. Infatti Bertussi fu doppiamente vittima, sia perché inerme e indifeso venne proditoriamente
ucciso, sia perché la sua figura davvero straordinaria ne è uscita sfumata, schiacciata dai due
protagonisti-antagonisti (Leonardo Speziale e Nicola Pankov) che si contendevano allora la
leadership nella lotta armata in Valtrompia, e che avrebbero occupato successivamente la scena
delle contese storiografiche.
E’ questa dunque l’occasione, anche per riparare a un’ingrata disattenzione, di riconsiderare la
vicenda con occhi più sereni e dedicando spazio soprattutto al vero protagonista, Cecco Bertussi.
Lui più di tutti merita finalmente attenzione, essendo, per riconoscimento unanime, il personaggio
positivo, la cui lezione umana e politica ci può ancora oggi insegnare molto, in un periodo in cui la
politica è ridotta ad artificio del potere e scarnificata di ogni tensione etica.
Non è di particolare rilevanza entrare nel dettaglio della possibile ricostruzione degli attimi
drammatici della sua uccisione, della traiettoria delle pallottole che l’hanno colpito alle spalle e
dell’arma che le ha sparate. Neppure è utile riprendere e entrare nella polemica se le maggiori
responsabilità della morte di Bertussi siano imputabili a Leonardo Speziale, per la sua inflessibile
logica di partito e per aver sottovalutato la determinazione spietata di Pankov e la generosità dello
stesso Bertussi, oppure a Nicola Pankov, per il suo temperamento energico e impietoso, per la sua
concezione irriducibilmente individualista della lotta armata e del suo ruolo esclusivo di
comandante.
In queste vicende dobbiamo anche accettare un limite insuperabile nel comprendere fino in fondo la
complessità di dinamiche relazioni e di conflittualità che furono politiche e militari, ma anche
umane e psicologiche: vi è sempre una soglia oltre la quale si apre l’insondabile e rispetto a cui con
modestia e senso del limite lo storico deve fermarsi.
Ciò che qui interessa, invece, riconoscere è che Bertussi fu vittima di quel terribile corto circuito,
che fu anche scontro estremo ed inconciliabile di potere tra due leadership: l’una, gelosa della
propria autonomia e del proprio ruolo indiscusso conquistato sul campo (“ha in mano il gruppo”,
aveva scritto allora di lui “Arnaldo”), ma nel nuovo contesto di fine estate ’44 disperatamente priva
di prospettiva41; l’altra, forte di un passato di combattente comunista e dell’investitura del Cln, che
ad ogni costo intendeva imporre la propria supremazia sul movimento resistenziale triumplino;
ambedue, per carattere e formazione militare/politica, refrattarie alla mediazione e, forse, troppo
allenate all’uso della violenza, senza eccessivi scrupoli. Un’altra soluzione poteva darsi,
41
Non solo perché a fine agosto la maggior parte dei russi dopo i rastrellamenti del 26 agosto attorno alla Corna Blacca
si erano spostati in Valcamonica ed aggregati alle Fiamme Verdi, per poi passare in parte in Svizzera, ma perché, con
l’orientamento assunto dai comunisti nei confronti dei gruppi autonomi, in Valle a Nicola Pankov mancava ormai il
sostegno decisivo delle basi logistiche di cui aveva goduto nei mesi precedenti.
9
probabilmente, ma occorreva una maggiore capacità di mediazione e la rinuncia ad impartire una
lezione, doti che non appartenevano certo a Speziale42.
E Bertussi fu la vittima illustre ed incolpevole, una figura grande di uomo e di partigiano, che,
potremmo dire senza retorica, ha incarnato la dimensione morale nella Resistenza. Una figura
emblematica di quella solidarietà diffusa nei confronti dei renitenti e dei resistenti da parte dei
contadini, che, ricordiamolo sempre, erano allora la stragrande maggioranza degli italiani. Il viaggio
di Lino Belleri, nella primavera del 1944, dal centro Italia a Marcheno è una convincente
testimonianza di quale fosse l’atteggiamento di fondo e ampiamente diffuso dei nostri contadini nei
confronti dei renitenti e dei partigiani. Ci dice Belleri che i contadini facevano spesso a gara ad
offrire riparo e cibo: senza quella solidarietà e quel sostegno variamente motivati, non sarebbero
state possibili la renitenza e la Resistenza di tanti giovani.
Ma Bertussi non fu solo questo. Tutte le testimonianze convergono nell’indicare Bertussi come la
colonna portante della Resistenza comunista: è lui, in particolare nel ’44, il responsabile per i
comunisti del coordinamento della lotta armata per tutta la Val Trompia. Dunque anche comunista.
Ma un comunista per molti versi anomalo. Non solo per la formazione cattolica, ma soprattutto per
l’estrazione sociale. La sua era una famiglia benestante che non poteva non stupire Lino Belleri,
proveniente da un altro mondo, quello degli ultimi, quando fu indirizzato proprio da lui e trovò nella
sua casa il comunista Forini a discutere come riorganizzare i gruppi della montagna.
Come sarà diventato comunista Cecco Bertussi? E’ un interrogativo affascinante, perché è
certamente più facile capire perché, attraverso la tragica esperienza della guerra, abbia maturato,
come molti altri, un atteggiamento antifascista, convinto ed irriducibile. Ma un possidente, perché
diventa comunista, a quei tempi, quando comunismo significava nell’immaginario, abbattimento di
ogni privilegio, giustizia ed eguaglianza, “collettivizzazione”? Qui non c’è altra spiegazione che la
motivazione etica, capace di guardare oltre i propri interessi particolari e la propria condizione
sociale. L’occasione di incontrare il comunismo può essergli capitata in diversi modi: alcuni amici
della Valle, come abbiamo ricordato nella nota biografica, ma forse anche la ripulsa per le
nefandezze compiute dall’Italia fascista nella “guerra sporca” della Croazia a cui aveva partecipato
e la suggestione degli echi che gli giungevano delle formidabili imprese dell’esercito popolare di
Tito.
Ma rimane il dato centrale e pregnante della sua personale scelta, dettata probabilmente da un senso
di giustizia profondo, tutt’altro che incompatibile con la sua formazione cristiana, in qualche modo
prepolitico, e forse anche dalla convinzione che in quella terribile temperie il comunismo
rappresentasse la forza più determinata e conseguente nella lotta contro la rinata dittatura di Salò.
La dimensione morale, dunque. Ed è ciò che emerge prepotente nell’episodio conclusivo della sua
vita. Tutte le testimonianze su questo concordano: “Quando viene avvertito che c’è il russo
Michele morente al Dosso si reca da lui armato di due fasce bianche, quelle che servivano per
avvolgere il figlio Giovanni di sette mesi: tutti le vedono lì vicino al suo corpo in terra”. E va,
nonostante sapesse del grave pericolo cui andava incontro e di cui aveva avvertito sia Belleri che
Zoli, ordinandogli di sparire, di stare rintanati e nascosti.
Andando con la mente a quel tragico evento, vien da pensare ad Antigone di Sofocle, forse la più
grande e complessa figura della tragedia greca. Antigone sfida le leggi degli uomini, le logiche del
potere, impersonate dal re di Tebe, lo zio Creonte, che vorrebbero insepolto e abbandonato agli
insulti delle fiere suo fratello Polinice, morto da traditore combattendo contro Eteocle, eroico
difensore di Tebe, in uno scontro fratricida letale. Antigone, dunque, “non nata per condividere
42
Va considerato infatti che la situazione di Nicola in quel momento era oggettivamente precaria, difficilmente avrebbe
potuto riportare in Valtrompia i suoi compagni dispersi presso le Fiamme verdi della Valcamonica e quindi la questione
si sarebbe potuta risolvere quasi da sé, per la forza delle cose.
10
odio, ma per condividere amore”, va consapevolmente incontro alla morte in nome della pietà
umana e dell’amore fraterno.
Come Antigone, Bertussi probabilmente ha vissuto un conflitto interiore lacerante: sottostare alle
regole ferree della lotta armata, della disciplina del Cln e del partito (il “potere” in qualche misura,
anche se alternativo, antifascista), della necessaria autotutela del combattente, o disporsi, a costo
della propria vita, alla pietà umana, al dovere di solidarietà e di soccorso del morente, al legame di
amicizia di un recente passato condiviso, cioè alle “leggi - dice Antigone - non scritte, ma infallibili,
degli dèi. Non da oggi, non da ieri, ma da sempre esse sono vive; e nessuno sa da dove attinsero
splendore”.
Bertussi ha scelto di andare e ha scelto, da comunista anomalo, i valori “eterni” e fondanti del
nostro essere uomini e donne, andando così incontro alla morte, come Antigone. Ed è una grande
lezione anche per noi, oggi.
Infine, alcune annotazioni conclusive sulla personalità di Lino Belleri, così come emerge dalla sua
testimonianza.
Lino è un uomo di poche parole, quindi quelle che ci ha consegnato in queste sue memorie sono
ancor più preziose, essenziali, senza fronzoli e superflue divagazioni, senza retorica ed enfasi.
Sono parole che nel contesto attuale possono leggere ed apprezzare solo coloro che sono riusciti a
mantenere fermo un rapporto di verità tra la parola e la realtà. Impresa non facile di questi tempi!
Anche perché, come in un mondo di zoppi si è portati tutti a zoppicare, così in un mondo di
spudorati dicitori di bugie si è tentati di raccontarle ancora più grosse, per trovare ascolto ed
attenzione.
Nell’immediato dopoguerra, quando ben presto si è potuta percepire la distanza tra i progetti
rivoluzionari della Resistenza e la realtà della ricostruzione moderata all’insegna della Democrazia
cristiana, Carlo Levi, in un suo romanzo, che è anche un polemico pamphlet, mette in evidenza
come in Italia si scontrino da sempre due antiteche tradizioni, quella dei Luigini e quella dei
Contadini.
I Luigini ben presto giungono al controllo di tutte le sedi istituzionali poiché posseggono in modo
straordinario il potere illimitato del linguaggio, che per loro è sempre fraudolento, astutamente
ipocrita, necessariamente ingannatore, “i Luigini […] posseggono tutti i segreti di questa virtù che
trasforma le cose in parole e si impadronisce delle parole per stravolgerne il senso a piacere”43. E
quando come oggi un sommo Luigino, mentre comanda il Paese incarna anche la mission del
marketing, per sua natura mistificante, abbiamo il “luiginismo” spinto a livelli eccelsi, imprevedibili
anche per lo stesso Carlo Levi.
Al contrario i Contadini si preoccupano solo di lavorare e di svolgere, con coscienza e
responsabilità, il proprio compito. Sono coloro per i quali la coerenza è un valore e la cui parola
possiede un significato preciso, che non può essere manipolato a piacere. Per i Contadini le parole
sono pietre, ed il loro autonomo, libero e schietto linguaggio è fatto di realtà concrete, di lavoro, di
sacrifici, di dedizione ai valori in cui credono, di impegni e assunzioni di responsabilità, di verità.
Naturalmente per i contadini “vincere è difficile”, infatti, dice Levi, “è successo una volta sola in
tutta la storia d’Italia, e questa vittoria è finita. L’abbiamo vista, l’abbiamo vissuta: la Resistenza è
stata una rivoluzione contadina, la sola che ci sia stata mai”44.
E Lino Belleri è un bell’esempio di questa figura di “contadino”, così come Levi la tratteggia. Un
artefice e artista del “fare”e del “costruire”: da operaio specializzato responsabile della mansione
più delicata, quella che decide delle dirittura della canna del fucile; da combattente contro il
fascismo e l’occupazione nazista, determinato, meticoloso, efficace anche nei momenti più difficili,
consapevole che giorno per giorno, in quella stagione drammatica, si costruiva la nuova società
43
C. Levi, L’Orologio, Einaudi, Torino, 1950, (nuova edizione 1989, da cui si cita), p. 187
44
Ibidem, p. 170.
11
democratica; infine da operatore del patronato Inca, in attento ascolto dei diversi tribolati percorsi
esistenziali e lavorativi, scrupoloso, puntiglioso nel compilare quelle pratiche da cui dipende il
futuro da pensionati dei propri compagni di lavoro.
Insomma, una vita spesa per tessere pazientemente e nell’ombra la tela della convivenza civile
democratica, riscattata dall’odiosa e avvilente tirannide fascista e rifondata, ricordiamolo, sul
lavoro.
Marino Ruzzenenti
12
I RICORDI DI “LINO”
Appunti di vita di Angelo Lino Belleri
tra lotta partigiana, lavoro, assistenza agli operai45
Sono nato a Magno il 21 gennaio 1925 da Giuseppe e Angela Pintossi, quinto di 10 fratelli, 7
maschi e tre femmine. La mia vita di ragazzo è segnata dalla fame in una famiglia numerosa. Mio
padre fa il contadino prima a Inzino alla Bresciana (di fronte alla Manèta), poi al Ruc (Rocca ) a
Marcheno.
In questa cascina c’era un po’ di terra, ma si andava in prestito di mucche, perché ci volevano i
soldi ad acquistarle. Erano due le mucche. E poi ci si metteva a lavorare un po’ la terra: il prato
per il fieno e patate e fagioli per la nostra alimentazione. Eravamo più che poveri: eravamo dieci
fratelli con la fame che superava ogni misura. Appena arrivati, c’era una pianta di ciliegie, e
prima di tutto l’abbiamo pelata. Al momento nessuno lavorava, dei miei fratelli: Pietro era
chiamato militare, Giacomo era a Rodi nel mar Egeo e Lorenzo era stato portato in Germania a
lavorare. Se si riusciva ad avere un po’ di farina si faceva la polenta. Una sera, siccome era poca,
per farla bastare abbiamo aggiunto dei radicchi. E, con la polenta, un po’ di latte o di stracchino
che ci fornivano le mucche. Per non pesare troppo sulla famiglia si andava in altre cascine a fare il
famèi46: non ti pagavano, ma almeno mangiavi là. Io l’ho fatto per tre anni, in Valle di Gardone
da Cico Bonsi, invece di andare a scuola: come compenso polenta dura, formaggio, latte.
La nostra cascina era formata da due camere, con dei letti a castello e poi una stalla con sopra il
fienile. Piano piano abbiamo procurato due pecore e anche le galline.
Io poi sono stato fortunato perché ho trovato lavoro presso un fornaio e finalmente ho potuto
mangiare pane tutti i giorni. Perché, con la razione della tessera, il pane era raro, la pasta
addirittura non la vedevi.
A scuola ci vado poco, perché devo lavorare, andare nel bosco a procurare la legna per il fuoco
con cui si preparavano i cibi e ci si riscaldava. Del resto allora la legna era una risorsa
fondamentale, una fonte di economia e capitava che nei boschi privati ti facevano correre quando ti
trovavano a prelevare la legna. Andavamo fino in valle di Inzino a prenderla e poi si faceva una
lunga fascina che si appoggiava su un cavalletto attaccato alle spalle e si trascinava lungo il
sentiero.
L’acqua corrente invece l’avevamo in una fontana nel cortile, mentre ovviamente non c’era il
bagno se non un casottino collocato sulla concimaia del letame, con un buco a mo’ di water.
Poi nel periodo delle castagne ne mangiavamo in quantità, fatte bollire, erano una risorsa
importante. Ma anche un po’ di funghi e tutto ciò che offriva il bosco. Nei piedi portavamo delle
scarpe con la suola di legno.
Era insomma la sopravvivenza, perché la cascina non dava reddito, ma solo da mangiare; anche
se eravamo fortunati, perché avevamo un po’ di terra che ci permetteva di alimentarci.
In queste condizioni la scuola è un problema. Ripeto tre anni la terza, a Marcheno (dove c’è solo la
terza), poi faccio la quarta a Inzino, dove ho trovato un maestro fascista, Zanoletti, che poi è
entrato nella Rsi, è andato in Jugoslavia ed è stato ucciso dai partigiani di Tito; mentre per la
quinta vado a Gardone VT. Per raggiungere la scuola tutti i giorni si andava a piedi da Marcheno
ad Inzino e a Gardone
45
Le interviste si sono tenute il 2 e il 29 settembre, il 22 ottobre e il 16 novembre 2004 in casa di Angelo (Lino)
Belleri.
46
Il famiglio era un bracciante giovanissimo che andava a vivere con la famiglia del contadino per il quale lavorava e
che, come retribuzione, riceveva un pagliericcio e qualcosa da mangiare.
13
La licenza di quinta è un problema:è necessaria per andare a lavorare, ma il maestro Bertaccini
ce l’ha con la mamma non iscritta al partito fascista e vengo rimandato a ottobre
Tutti i maestri erano fascisti. Ma mia madre non voleva iscriverci al partito fascista perché non
aveva soldi. Era andata giù dal Prefetto: “Dieci figli, come faccio a pagare la tessera per tutti?” E
lui le ha risposto: “Che vuoi mai pagare! Va’ pure a casa”.
A ottobre ho trovato un altro maestro, il Coccoli, che era un cacciatore e aveva un roccolo su in
montagna. Io sono andato su a trovarlo con mio padre e ho preso un merlo dal nido e gliel’ho dato.
Lui non sapeva più come ringraziarmi, perché i merli come richiamo sono i migliori cantori, se ben
allevati . Questo viene a farmi gli esami. Figurati se sono andati bene gli esami: promosso! Il papà
lo ricordava sempre: “Hai comprato la quinta col merlo”
Superata la quinta, ho potuto iscrivermi all’ufficio di collocamento per trovare lavoro.
Ma è iniziata un’altra storia, perché il collocatore non è che ti fa il nulla osta subito:vado avanti e
indietro per sei mesi tutte le mattine per venir giù a vedere se me lo faceva. Ho perfino aiutato il
collocatore, fascista anche lui, a portare legna, mentre il papà portava lo stracchino, per entrare
nelle sue grazie.
Intanto facevo il garzone dal fornaio, da Telò Gelindo a Gardone. Il fornaio mi aveva preso una
bicicletta per permettermi di andare giù al mattino presto in orario. Questo mi è servito perché per
un anno mi sono tolto la fame (facevo colazione e anche il pranzo) ed ho imparato a fare il pane.
Sono capace ancora oggi. Poi, finito lì, al pomeriggio andavo a imparare a tirare le canne,
ovviamente gratis ( allora si pagava per imparare a lavorare), in una piccola officina, anzi una
casa privata, alla Bresciana dal Gioanì Consoli: lavoro manuale e pesante, perché si usava la
lima, ed era anche un lavoro di precisione. Stavo lì un tre ore e poi tornavo a casa dove, magari,
davo una mano al papà nel prato.
Finalmente a 15 anni arriva il sospirato nulla osta del collocatore ed entro alla Beretta nell’aprile
1940, anche se ho fatto fatica perché non avevo mai fatto il “premilitare”, perché non avevo mai
avuto la divisa dei balilla e non avevamo i soldi e il tempo per partecipare ai sabati fascisti47.
E’ venuto a prendermi in portineria Giovanni Cvagnis48: “Guarda che andrai a fare un bel
mestiere” e poi mi ha accompagnato nel reparto canne, dove c’era Luigi Amadini, di Marcheno,
addetto al collaudo. Imparo il difficile ma prestigioso mestiere del “leelòt”, livellatore di canne,
decisivo per il corretto tiro del fucile. Sono ancora tanto piccolo che per arrivare al bilanciere
(che dà i colpi sulla canna traguardata contro luce per sceglierne il punto esatto) mi mettono sotto
i piedi una pedana. Il maestro era Luigi Zambonardi, che successivamente è morto per cui mi
danno tutto il blocco delle sue canne in lavorazione da finire e così completo la mia preparazione.
Potrei quindi considerarmi ormai “promosso” sul campo, ma devo aspettare di fare il
“capolavoro”, la prova per il definitivo inquadramento nella qualifica di specializzato in fabbrica.
Intanto continuo con il trattamento di apprendista, con una paga irrisoria, per 10 ore su sei giorni
alla settimana. La paga era a cottimo e in fabbrica il sindacato fascista si occupava solo di
problemi individuali e di assistenza. Dovrò attendere il 1943 perché Piero Riviera, caporeparto,
finalmente mi faccia fare il capolavoro: lo supero e divento operaio specializzato con una paga di
500 lire di acconto e 500 a saldo a fine mese. Pagavo la bottega per tutta la famiglia. Ora sono un
livellatore specializzato, un operaio prezioso per la Beretta, perché il mio lavoro è determinante
per la qualità del fucile.
47
Erano esercitazioni premilitari, organizzate dal regime, a cui i ragazzi erano obbligati a partecipare per prepararsi
all’inevitabile guerra.
48
Giovanni Cavagnis, diventerà durante al Repubblica sociale un ufficiale delle brigate nere, opererà nella casermetta
della Stocchetta a Brescia, partecipando direttamente alla tortura ed alla fucilazione di partigiani (Cfr. Dichiarazioni di
Mondinelli Giovanni di Francesco, nato a Ome il 29 dicembre 1916, appartenente alle brigate Nere Quagliata
dall’ottobre 1944, 29 maggio 1945, in Archivio della Fondazione Micheletti). Dopo la guerra fuggì all’estero.
14
Fra i compagni di lavoro c’erano Pietro Sartori (futuro sindaco di Gardone VT), Ippolito
Camplani, Paolo Belleri e Innocente Belleri, che avrebbero dato vita ad una cellula comunista,
anche se io allora non ne sapevo nulla, mentre Giovanni Rizzinelli di Marcheno era socialista.
Mi capita di sentire i loro discorsi sui bombardamenti, su come va la guerra, sulla situazione
dell’Italia (Camplani e Sartori ascoltavano Radio Londra).Sono curioso di capire.
Verso la fine del 1942, si avvicina per me la “visita militare”. Gli amici cominciano a dirmi: “Non
devi andare militare…”
Il 2 Dicembre ‘42 mio fratello Pietro, marinaio, è “disperso” nel canale di Sicilia imbarcato su un
cacciatorpediniere silurato dagli inglesi. Questa tragedia familiare, nel gennaio ’43, quando mi
presento alla visita, mi spingerà a chiedere di essere militare di “terra” e non marinaio, come
prevedeva una vecchia tradizione di chi lavorava alla Beretta (e praticamente tutti questi operai
destinati alla marina, come Poppi Sabatti, non sarebbero stati mai richiamati in servizio).
Dovevo fare la “premilitare”, l’istruzione in paese al sabato, ma era il periodo della gran fame e
non mi era possibile, perché dovevo andare a prendere la legna e aiutare a casa. Non vado mai al
campo di Gardone VT per le esercitazioni, anche se vengo richiamato perché mancavo. Così nel
luglio ’43, con il coscritto Dino Baresi, ricevo il “foglio di via” dalla sezione del partito fascista
del paese per scontare tre giorni in prigione al Castello di Brescia: è il 26 luglio quando partiamo
da Marcheno col tram, ma a Gardone VT incontriamo un corteo: “Morte al duce” , “E’ caduto il
fascismo”49. Vengono sul tram e ci chiedono: “Dove andate voi?” “Andiamo in prigione a
Brescia” “Andate a casa, che non c’è più il fascismo!”. Ci fanno scendere e torniamo a casa.
Così, anche in fabbrica, sono venuti allo scoperto tutti gli antifascisti, mentre i fascisti “hanno
messo le pive nel sacco”
Dopo l’8 settembre sembrano davvero vicini il crollo definitivo del fascismo e la fine della guerra.
Il 7 ottobre del ‘43 c’è il “colpo alla Beretta” dei partigiani che si stanno organizzando50. Fra gli
operai della Beretta c’è un grande entusiasmo per questa azione.
Tutti parlano, in fabbrica, dove nel frattempo sono già arrivati i tedeschi, e si discute che fare.
La Repubblica di Salò si riorganizza col partito fascista repubblicano . Tutto diventa difficile:
giungono le notizie sul disastro di Croce di Marone del 9 novembre51 e la conseguente dispersione
dei primi gruppi di partigiani a dimostrare la drammaticità del momento a chi non l’avesse capito.
Cerco di prepararmi ad ogni evenienza, compresa la necessità di scappare anch’io in montagna.
Con Luigi Amadini decido di portarmi a casa le armi: al reparto collaudo ci sono Riccardo Peli e
Giovanni Mondinelli che mi indicano i mitra pronti. A 20 minuti alle 4, prima del turno, entro in
fabbrica, prendo due mitra e li nascondo sotto il mantello. Scavalco la recinzione dove Luigi
Amadini mi aspetta fuori del cancello del Banco di prova. Alle 4 rientro in fabbrica per il turno. I
mitra li sotterriamo al Ruc e quindi ci portiamo fuori anche le munizioni52.
Tra arruolamenti falliti e renitenza: il viaggio di andata e ritorno in Umbria, verso il fronte Sud.
Alla fine del mese di novembre viene chiamata la leva per la classe del ‘25 .
“Non devi andare - mi dicono nel reparto -, chiedi la proroga”. Sono importante in fabbrica, per
la produzione, ed il capo Piero Riviera mi fa ottenere un rinvio per un mese. Mio padre è
impaurito (Consoli Maffeo, capo dei fascisti, faceva velate minacce): “Mi bruciano la casa…”
Se avessi avuto il coraggio di andare dal Gianni Cavagnis mi avrebbe tenuto in fabbrica perché
ero necessario, ma ero una ragazzo, timido, mi veniva quasi da piangere a presentarmi di fronte ad
49
Il corteo era probabilmente successivo al comizio tenuto in piazza da Francesco Cinelli, comunista di Gardone, che
diventerà uno dei primi capi partigiani, pagando con la vita la sua scelta antifascista. Cfr. M. Ruzzenenti, La 122a
brigata Garibaldi …cit. p. 120.
50
M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi …cit., pp. 19-20.
51
Sulla battaglia di Croce di Marone si veda: 60° anniversario della 1a battaglia della Resistenza nella provincia di
Brescia, Comunità montana della Vallle Trompia, Comune di Gardone Valtrompia, Anpi, Gardone Vt (Bs) 2003.
52
Questi mitra, all’insaputa di Belleri, verranno poi consegnati alle Fiamme Verdi di Pierino Gerola dallo stesso
Amadini, mentre Belleri era al fronte.
15
un’autorità. Del resto io non avevo rapporti con i miei coetanei e dovevo decidere in solitudine che
cosa fare. In quel momento il movimento partigiano era del tutto sbandato53 ed era difficile, anche
per la stagione, pensare di rifugiarsi in montagna. Ormai scadeva la proroga e Piero Palì mi
disse: “Vai che ti fai le ossa!”. Intanto il 27 dicembre, in seguito a tradimento, era stato preso a
Castenedolo anche Francesco Cinelli, capo partigiano a Croce di Marone54. La prima idea era di
andare in una cascina in montagna, ma io ero solo: come avrei fatto con i contatti, con i
rifornimenti, il vettovagliamento; se fossimo stati in due... E con il papà che era ossessionato dal
terrore.
Così mi sono presentato, anche se un po’ a rate: andavo giù e scappavo…
Nel gennaio 1944, nonostante la grande incertezza e con tanti dubbi, mi presento alla caserma
“Papa” a Brescia. Uno di Serle scappa di notte, mentre bombardano la stazione: me ne vado
anche io con due coperte (lasciate in una osteria a Brescia) e torno a casa . Mio padre, come mi
vede, si dispera:ha paura per la casa, per le rappresaglie. Mia mamma Angela era morta nel ‘38 e
tutta la casa era sulle spalle di mia sorella Maria di 16 anni.
“Mi tocca andare” , dico tra me rassegnato e torno alla “Papa”: il mio battaglione è già partito
per l’addestramento in Germania. Veniamo allora inquadrati come “salmerie” e torno nuovamente
a casa per 7 giorni. Quando rientro di nuovo alla “Papa” veniamo tutti portati a Grumello al
Piano in provincia di Bergamo, a sorvegliare un campo di concentramento dei tedeschi.
Vediamo il campo, i fili spinati, i tedeschi; il sergente che ci accompagnava, chiaramente
antifascista, ci fa fermare tutti fuori ed entra da solo a parlare; poi esce con la scusa di chiamarci
e ci dice: “Ragazzi, andiamo tutti a casa, scappiamo, perché lì è un campo di concentramento di
antifascisti e partigiani”.
Quindi torno a Brescia per l’ennesima volta, con il padre sempre più allarmato, e del resto
bisognava capirlo. Ma ormai sono un sorvegliato, che posso fare? Torno ancora a Bergamo, dove
vi erano alcuni rastrellati. Dopo sette giorni arriva una corriera comandata da un
caporalmaggiore tedesco che ci fa salire e ci porta verso Bologna, poi agli Appennini. Noi non
siamo in divisa e neppure armati, perché dovremmo poi essere aggregati al nostro reggimento per
le salmerie e carreggio, per i servizi logistici. Fino a quel momento, non avevo dimestichezza con le
armi: avevo solo provato ad usare a casa i due mitra prelevati dalla Beretta, ma non avevo alcuna
istruzione militare. Comunque in quelle zone, in gennaio, si combatte già tra partigiani e fascisti
sostenuti dai tedeschi, in Toscana, dalla Versilia al Senese55. Ma non avevo grande preoccupazione
di dover far la guerra, perché di fatto non eravamo armati. Semmai avevo paura dei
bombardamenti. Arriviamo a Guardea (Terni), ad 11 km dal Tevere, a 30 km da Orvieto: monti e
valli dell’Appennino con la neve. I bombardamenti sono già martellanti: linee interrotte, ponti sul
Tevere abbattuti, gallerie ferroviarie crollate.
A Ficulle (Terni), avevano chiuso le gallerie da ambedue le parti per i bombardamenti e i treni non
passavano: quindi dovevamo scaricare i materiali dai treni per caricarli sugli autocarri che
dovevano superare per strada l’interruzione. Tutti i giorni arrivavano treni e noi eravamo
impegnati in questo lavoro di facchinaggio, comandati da un caporale tedesco, dal quale prendeva
gli ordini anche il nostro colonnello.
Un giorno arriva un treno di sigarette tedesche, con il filtro: belle, mai viste prima, “buone,
buone” e così ho imparato a fumare. Noi facciamo man bassa e ci riempiamo camicie e pantaloni
legati alle caviglie. Poi andiamo su in paese in collina e chiedo ad un tabacchino se le voleva; ci
dava poco e niente, ma comunque riesco a mettere insieme 5.000 lire. A quel punto giunge un
bombardamento: quando vedi arrivare gli apparecchi, essendo la stazione in un fondo valle
53
Nel novembre del 1943, una serie di massicci rastrellamenti dei nazifascisti avevano quasi del tutto disperso le prime
bande partigiane che si erano spontaneamente costituite dopo l’8 settembre attorno al monte Guglielmo, tra la media
Valtrompia e la Valcamonica. Cfr. M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi …cit., p. 20.
54
Fu fucilato il 27 gennaio 1944, giorno della liberazione di Leningrado. Cfr. M. Ruzzenenti, La 122a brigata
Garibaldi …cit. p. 120.
55
Il 22 gennaio gli alleati erano sbarcati ad Anzio.
16
stretto, hanno già sganciato le bombe. Erano le fortezze volanti, con un rumore impressionante, e
vengo buttato indietro dallo spostamento d’aria, facendomi male ad un dito. Marco visita, ma mi
dicono che non è nulla. Allora parlo con diversi amici di Brescia e di Bergamo: “Ragazzi,
scappiamo. Che ci facciamo qui?”. Insomma li convinco e approfittando della libera uscita, una
sera, andiamo. E’ il 18 aprile. Eravamo in 25-26, ma non potevamo andare così in tanti, per di più
con le camicie che ci avevano dato e che ci facevano riconoscere. Allora decidiamo di dividerci in
piccoli gruppi. Io rimango con altri due: direzione Val Trompia. Con me c’è un Giuliano Piotti di
Bovegno e Giuseppe Moreschi di Bovezzo. Eravamo a Ficulle e partiamo così alla cieca, verso il
Nord. Comincia il ritorno e possiamo contare solo sull’aiuto dei contadini e della gente che
incontriamo lungo il cammino ( i soldi li voglio conservare per necessità particolari, come
l’attraversamento del Po). Chiediamo da mangiare e di solito tutti ci danno qualcosa (ero sempre
io a chiedere perché quello di Bovegno non apriva bocca e quello di Bovezzo era timido, e quindi
sono stato obbligato a diventare disinvolto). Siamo costretti a fidarci, anche se non conosciamo
nessuno: di fatto tutti ci hanno aiutati, anche quando sull’Appennino incontriamo un vecchio
pastore con le pecore che ci fa un discorso celebrativo del duce e del fascismo; la cosa ci
preoccupa, però anche lui ci ha dato qualcosa da mangiare. Camminiamo di giorno e di notte,
cerchiamo di riposare in qualche cascina; passiamo da Montepulciano.
In quel di Arezzo, mentre beviamo ad una piccola fontana, veniamo accostati dai partigiani.
“Potrei andare con loro”, ma poi penso ai miei mitra nascosti a casa e decido di continuare, di
tornare a Brescia.
Sempre in Toscana finiamo, per caso, in una splendida tenuta che è di due fratelli Bonomi di
Lumezzane. Mi dicono. “Ah, a sei di Marcheno. Io ho un cugino che è prete lì”56. Veniamo
rifocillati, aiutati. Inizialmente loro vorrebbero portarci in macchina a casa, ma il passo della Futa
è già bloccato dai tedeschi e le figlie li convincono a non farlo. Comunque ci danno una cartina su
cui cerchiamo di tracciare il percorso verso Brescia.
Ripartiamo, salendo verso Bologna: io vorrei passare lì coi partigiani, ma gli altri due non ci
stanno.
Di fronte abbiamo l’Appennino, il passo della Futa con la neve .Ci ritroviamo a Borgo San
Lorenzo (Firenze), dove il giorno prima avevano fucilato sei partigiani, i cui corpi erano ancora lì
nel cimitero. Gli Appennini davanti a noi formano come una muraglia di roccia ripida e non si
capiva come passare. Un tipo che incontriamo ci dice che non può tenerci, perché temono ancora
rappresaglie, però ci indica un sentiero che porta sopra dove c’è una strada che da Falconara
collega l’Adriatico al Tirreno, una strada tutta fortificata, percorsa in continuo da camion e
camionette di tedeschi. Allora noi andiamo su e arriviamo alla strada, dove vedo tre tedeschi che ci
vengono incontro. Due con i mitra vanno giù, mentre uno viene contro di noi con un mauser, ma
non ci spara, perché probabilmente ha avuto paura, pensando che fossimo armati, e va a chiamare
gli altri.
Allora noi ci buttiamo giù per la scarpata e troviamo una grotta in cu ci nascondiamo. I tedeschi
arrivano lì vicino, vedo una pianta che si muove, e veramente lì ho avuto un po’ di paura, perché se
ci avessero preso… Stiamo lì fino alle sei di sera, dalle otto del mattino. “Ragazzi, qui bisogna
uscir fuori”. Mettiamo fuori il naso, non si vede più nessuno e quindi siamo tornati indietro per lo
stesso sentiero. Alla notte abbiamo trovato un’altra famiglia che ci ha ospitato e ci ha dato da
dormire. Il giorno dopo ci indicano un fiumiciattolo che risaliamo finché giungiamo di nuovo alla
solita strada fortificata che dobbiamo superare. Aspettiamo un po’ che non arrivi nessuno e ad uno
ad uno saltiamo di là, svelti. Lì troviamo una famiglia che ci ferma e ci chiede: “Dove andate?”,
“Siamo scappati”. “Venite qua!”, e subito ci portano in casa e ci danno da mangiare. I due erano
in luna di miele, appena sposati, e lui faceva il pastore con delle pecore. E’ lui stesso che ci
accompagna verso il crinale degli Appennini, dove c’era ancora un metro di neve, pur essendo
aprile inoltrato, e da lì vediamo Bologna.
56
Don Severino Cardoni, parroco di Marcheno.
17
Pian piano scendiamo nei pressi di Loiano verso Bologna, e qui succede l’altro episodio in cui ce
la vediamo brutta. Noi andiamo giù per un castagneto e troviamo un uomo anziano che aveva lì tre
o quattro mucche e ci dice “Stanno bombardando Bologna”. E si sentiva il calore delle bombe che
arrivava fin sulla montagna: un bombardamento terrificante. E vediamo un apparecchio che è
stato colpito e che continua a girare come avvitato e si avvicina. “Non verrà addosso a noi?!”
Perché il penultimo giro l’ha fatto proprio sopra di noi e se l’avesse completato ci sarebbe caduto
addosso. Era una fortezza volante e aveva tutti i motori da un lato in fiamme. Abbiamo visto che si
sono gettati i piloti con il paracadute. “Adesso, come facciamo a passare che è caduto proprio qui
davanti?” Il contadino che ci aveva ospitato ci dice: “Non potete passare” e così ci ha tenuto lì
ancora una notte e il giorno dopo ci ha insegnato un’altra strada. In Emilia, non si poteva
camminare senza che, passando davanti ad una cascina, ti chiedessero: “Dove andate? Che cosa
fate? Venite qua a mangiare!”. Una roba incredibile, aiutavano tutti, anche perché non eravamo in
pochi gli sbandati e non ho mai sofferto la fame.
Superato Carpi, avvicinandoci al Po nella zona di Guastalla, un uomo ci ha visti arrivare e ci
viene incontro con una forca in mano, preoccupandoci anche un po’, e ci dice: “Siete scappati,
voi?”. E poi ci ha portato a casa dove ci ha dato da mangiare (tre bei panini grossi, è andato a
prenderci in cantina un salame e un fiasco di vino) e ci ha indicato come poter attraversare il Po.
Aveva un figlio in alta Italia, probabilmente nei fascisti, ci ha detto:“Se passa per le vostre case
anche voi gli darete da mangiare!”. Ci conduce lui da un vecchio con la barca: il traghettamento,
che avviene di notte, ci è costato 500 lire ciascuno.
Ma poi dopo il Po bisogna attraversare anche l’Oglio e qui è un problema, perché dobbiamo
evitare i ponti. Qui, ancora una volta, me la son vista brutta: non è molto largo, ma mentre stiamo
scendendo per attraversarlo vediamo 7-8 persone che stanno tagliando l’erba, giù nell’area
golenale, e si mettono a gridare. “Adesso che facciamo?”. C’era quello di Bovegno che non era
capace di nuotare, ma neanche l’altro, mentre io almeno era capace di stare a galla (l’avevo
imparato nel Mella). Vedo lì vicino una barca, la prendo e saltiamo su; abbiamo trovato una
pertica, ma la corrente ci portava in giù, e con la pertica abbiamo cercato di dirigerla verso l’altra
riva. Ma quello di Bovegno non ha lasciato che toccassimo l’altra sponda e negli ultimi metri si è
buttato, per la paura dell’acqua. Allora ho dovuto gettarmi anch’io e portarlo a spalle fin sulla
riva.
Il 12 maggio siamo a Calvisano dove incontriamo un contadino. C’era una festa e lui girava con
carretto su cui aveva una ragazza: “Dove andate? Che cosa fate? Venite a casa mia!”. Ci porta in
una “bella casa”: racconta del figlio repubblichino, morto, mostrandoci il ritratto in divisa. Ci fa
comunque dormire e noi accettiamo, anche se con qualche timore, ma non avevamo alternativa. La
mattina la moglie va dal fornaio e gli dice “Ho là tre che sono scappati” e lui le ha dato del pane
per noi. Il contadino aveva lì un cane lupo e ci propone di prenderlo con noi. Così ripartiamo con il
pane offerto dal fornaio e con il cane che se l’è mangiato quasi tutto. Siamo saliti a Serle e quello
di Bovezzo taglia e va a casa. Noi scendiamo sulla strada e camminiamo tranquilli con il nostro
cane, che se fosse passata una macchina di fascisti o tedeschi ci avrebbero preso (che rischio, a
pensarci dopo!). Attraversiamo Caino e arriviamo ad Odolo, dove beviamo un quartino di vino in
un’osteria. Poi tagliamo su per Bione e troviamo una stalla per dormire, ma i cani del circondario
sentono il nostro, forestiero, e cominciano tutti ad abbaiare. Allora, via, verso Casto, poi la Cucca
di Lodrino, dove mi saluta quello di Bovegno ed io scendo giù a casa. Il ritorno è durato 26 giorni,
camminando sempre a piedi e confidando sull’aiuto della gente, dei contadini in particolare, sia
per dormire che per mangiare.
A casa l’accoglienza è a dir poco sconfortante. Mio papà all’inizio non mi riconosce. Poi
spaventatissimo mi dice: “Che fai qui?”. La brutta cera di mio padre è impressionante. E’ il 14
maggio. Il mattino dopo viene su in cascina un fascista di Marcheno, certo Valentini che faceva il
guardaboschi: veniva a controllare la mungitura perché il latte venisse consegnato tutto
18
all’ammasso57 e dice a mio padre di portare giù il cane ai tedeschi che gli serve per i
rastrellamenti. Mio papà lo ha lasciato andar via e poi ha strangolato il cane per non darlo ai
tedeschi. Io intanto sto nascosto nel fienile:ma un giorno mi vede da lontano un certo Mazzoldi, un
“ruffiano” che lavorava alla Beretta, il quale sicuramente mi aveva riconosciuto.
A quel punto bisogna andare via. Ricontatto il cugino Paolo Belleri: “Ti porto da Cecco Bertussi”.
Ovvia la meraviglia, lo conoscevo come di famiglia benestante di Marcheno, il fratello Giuseppe
che gestisce il Consorzio, con diverse proprietà: osteria, cascine e case… Il 18 maggio mi
accompagna da lui il cugino Paolo Belleri, in Calchere, una cascina sopra Aleno di sua proprietà.
Sono stupito che fosse un antifascista, anche se non so che è anche comunista: la mentalità della
gente è che se hai i soldi non puoi andare con i partigiani. Lo trovo lì che mi aspetta, insieme a
Forini, che poi saprò essere un dirigente comunista, e un Richiedei detto” Carnealì” di Marcheno,
amico del Cecco, che è accompagnato da un certo “Giacomino”, di Lonato, che era stato
sbandato con i gruppi del Guglielmo di Martini e che ora si era rifugiato nella sua casa. Cecco,
una persona di poche parole, energica, che trasmetteva molta fiducia, ci dice: “Stasera vi fermate
qua alla stalla a dormire che domani mattina partiamo e vi porto dai partigiani, dai russi, vedrete
che sarete al sicuro…”
Paolo Belleri se ne va. Noi siamo lì nella stalla, che è comunicante con il cucinino dove sono
rimasti il Cecco e Forini, e sentiamo la loro discussione su Martini e Forini che dice: “Siamo stati
informati che Martini ha tradito58. Bisogna catturarlo prima che scopra tutti i nascondigli ed i
collegamenti che esistono qui a Marcheno e altrove. Bisogna informare subito i russi e gli altri
partigiani”.
Il mattino dopo, Bertussi rivolto a noi due dice: "Andiamo a raggiungere il gruppo" e si parte in
direzione di Cesovo, un paesello sopra Marcheno. Strada facendo il Bertussi comincia a parlare
dei partigiani, degli alleati che si avvicinano e del fatto che bisogna andare in montagna a
combattere; ci chiede se sappiamo usare le armi. "Vi accompagno al gruppo dei Russi, non vi
preoccupate, sono gente in gamba, con fegato, con loro imparerete come si fa la guerra; poi è da
parecchio tempo che loro si trovano in montagna e presto ne arriveranno degli altri". Arriviamo al
Roccolo dei tre piani, che diventerà famoso come centro di collegamento; Cecco mi dice: “Siamo
arrivati, qui c’è un gruppo di partigiani e state qua” e ci presenta agli altri. Ci viene incontro il
comandante del gruppo, Luigi, un siciliano, che con il commissario Gino Boldini, un certo Bigio, e
altri due o tre era venuto a prendere delle armi per conto della 54a brigata Garibaldi; c’erano
anche Aldo Casari, Ottorino Moretti. Ci dicono che dovrebbe arrivare il gruppo dei Russi.
Mi danno un moschetto e qualche cosa da mangiare; poi Bertussi fa gli auguri e se ne torna
indietro, mentre Forini resta, perché avrebbe dovuto raggiungere la Valcamonica.
Due ore dopo il nostro arrivo, mentre ci troviamo tutti al primo piano del roccolo, scorgiamo dalla
finestrella qualcuno avvicinarsi. Dalla finestrina vediamo tre uomini in borghese armati. "Saranno
partigiani" - io penso - Si avvicinano alla porta e uno di loro dice. "Siamo partigiani. Aprite!". Al
che Luigi ci avverte di stare attenti e di preparare le armi. In questi attimi che trascorrono prima di
aprire la porta, dalla finestra vedo uno dei tre farsi avanti agli altri facendo dei segni con la bocca
e strizzando continuamente l'occhio come per far capire che qualche cosa non andava (Questi è un
certo Berto di Ospitaletto che sarà decisivo in quello che succederà poi). A Giacomino, che era
57
Si trattava di una requisizione forzata delle produzioni agricole da parte del governo della Rsi a prezzi calmierati,
finalizzata alla distribuzione controllata e razionata dalla cosiddetta tessera degli stessi prodotti alla popolazione. Il
sistema veniva spesso aggirato dal “mercato nero”, dove i prezzi spesso raddoppiavano o triplicavano.
58
Bisogna riconoscere che in questa occasione il “controspionaggio” comunista fu straordinariamente efficiente. Infatti
risulterebbe, dal notiziario della Gnr del 19 maggio 1944, che proprio “la sera del 18 corr., in Brescia, il noto capo
banda Martini si è consegnato nelle mani del Capo della Provincia, che lo tiene sotto la sua protezione”. Notiziario della
Gnr del 19 maggio 1944, in Archivio della Fondazione Micheletti.
19
vicino a me, è sembrato di capire dalla bocca di questo tale, il nome di Martini, e difatti guardando
bene l'ha riconosciuto, perché l'aveva visto una volta in montagna parecchio tempo prima.
Nell'udire questo nome tutti si guardano; a questo punto Gino Boldini, che aveva il mitra, è
incaricato di scendere giù ad aprire la porta. All'entrata, Martini esclama: "Che diffidenza, siamo
partigiani. Non mi conoscete? Sono Martini" e infilando la scaletta si porta al primo piano con
dietro gli altri. Vedendoci con le armi puntate esclama di nuovo: "Che paura, siamo partigiani!".
Così dicendo si va a sedere vicino ad una finestrina dove erano appoggiate delle bombe a mano
balilla. E appoggia il mitra con sei caricatori e la pistola con altrettanti. Armato di tutto punto era
anche l’altro “partigiano” che accompagnava Martini e che noi non conoscevamo, mentre il Berto,
quello che prima ci faceva i segni, era disarmato. E la storia del Berto ora va raccontata, perché è
interessante. Lui era nel gruppo Russi, dal quale era passato Martini prima di arrivare da noi. I
Russi si trovavano in quel momento a Spiralunga, sotto il Sonclino, dall’altra parte della Valle, e
forse si erano un po’ insospettiti, perché aveva offerto le sigarette “Africa”, quelle dei fascisti, a
tutti. Poi Martini chiede al Berto: “Vieni con noi che andiamo a trovare i partigiani”. Dopo che si
sono incamminati, Martini si ferma e si rivolge al Berto: “Fammi un po’ vedere il tuo mitra, che
mitra è?”. Quando l’ha preso in mano gli ha fatto alzare le mani intimandogli: “Adesso sei mio
prigioniero”. “Cosa dici poi?”. Allora gli fa vedere un documento di Sorlini 59, che lo
autorizzava a circolare armato per tutta la Provincia. Berto si mette a piangere e ad implorarlo:
“Che vuoi fare? Io sono sempre stato tuo amico, non uccidermi”. Allora Martini gli dice: “Vieni
con noi”, gli prende il mitra e attraversano la valle a Brozzo per raggiungere il roccolo dei Tre
piani60.
Dunque, arrivati da noi, Berto si avvicina a me e a Luigi per farsi medicare una ferita di striscio al
braccio e, mentre mi dice: “Mi puoi medicare?”, mormora sotto voce e ripete: "Martini è una spia,
ha tradito". Passa qualche attimo e Berto chiede a Luigi di seguirlo nella stanza di sotto che gli
doveva parlare. A questo punto Martini insospettito dice: "Vengo giù anch'io".
Sotto c'è un piccolo tavolo in mezzo alla piccola stanza, con il fuoco acceso, e Martini vi si siede
sopra. Con uno scatto Berto gli afferra le braccia, Gino gli punta il mitra e Luigi la pistola
gridando: "Ti abbiamo scoperto, traditore!". A quel punto abbiamo fatto alzare le mani all'altro
complice (certo Nino della guardia della questura).
Martini, prima si mette a implorare che ci siamo sbagliati, che non aveva tradito: “Cosa fate? Non
sapete che io sono un capo partigiano?” Al che Berto: “Tira fuori il documento che hai lì e che mi
hai fatto vedere” e perquisendolo gli trova in tasca il documento firmato da Sorlini attestante che
il camerata Martini era autorizzato a circolare armato in tutta la provincia in missione di guerra.
Ormai smascherati, i due scoppiano a piangere; Martini dice che gli avevano promesso che
l'avrebbero mandato a casa, nelle Marche, dopo aver compiuto la missione affidatagli e cioè
l'arresto dei partigiani italiani e russi e di due francesi nonché di tutti i membri del Cln di
Marcheno e di Gardone. Continuando a piagnucolare Martini dice che si sarebbe ribellato a
questa prospettiva: "Portatemi da Nino61, vi dimostrerò che sono ancora un partigiano". Mentre
vengono legati, una staffetta porta a Marcheno il documento di Martini. Questa fu la mia prima
esperienza da partigiano, e non fu facile. Anche se io avevo fiducia, innanzitutto in mio cugino che
mi aveva indirizzato e poi in Cecco Bertussi. Stavo lì: vediamo che cosa succede.
Dopo qualche ora si parte per il Colle di S. Zeno con meta la Valcamonica. Passando per
Pontogna, arriviamo quindi dietro il Guglielmo, a nord, e ci fermiamo alla cascina Gale perché
59
Ferruccio Sorlini, primo commissario del partito fascista repubblicano a Brescia, sarà poi il capo delle brigate nere
che con più ferocia si accanirà contro il movimento partigiano. Processato nel dopoguerra, verrà giustiziato nel corso di
un’udienza in tribunale a Brescia da un carabiniere di guardia, ex partigiano. Cfr. Sorlini ucciso da un carabiniere di
servizio, “Giornale di Brescia”, 29 luglio 1945.
60
Paradossalmente se Martini avesse ucciso lì sul posto Berto avrebbe evitato il rischio di essere smascherato, come
effettivamente è poi avvenuto. “Non so, in quel caso, come sarebbe andata a finire, è difficile saperlo”, ammette lo
stesso Lino Belleri.
61
Nino Parisi, comandante della 54a brigata Garibaldi, dislocata in Valsaviore, sotto l’Adamello. Cfr. M. Franzinelli, La
baraonda. Socialismo, fascismo e resistenza in Valsaviore, Grafo, Brescia 1995,
20
pioveva e forse perché c’era l’accordo con i Russi di ritrovarsi lì, ma io non lo sapevo questo. Lì
viene messo fuori di guardia uno della Valcamonica, giovane, con il moschetto: passano due o tre
corvi e questo, incosciente, gli spara. Scatta l’allarme e tutti prendono le armi , anche Martini
stava prendendo il mitra e Luigino gli dice: “Te no, eh!”. “Ma, magari vi occorreva aiuto”. Dopo
un po’ arriva lì anche Cecco Bertussi, con un certo Moretti Ottorino, per verificare se era stato
eseguito l’ordine di eliminare Martini. “Non l’avete ancora ammazzato?” e è andato in
escandescenze. “Guardate di non lasciarlo scappare. Fucilatelo”, e poi se ne è ritornato via e
dietro il Cecco se ne è andato anche Ottorino Moretti: “Vengo anch’io”, e tremava di paura
all’idea di assistere alla fucilazione. E pensare che poi Moretti sarebbe finito a Mauthausen dove
sarebbe morto pochi giorni prima della liberazione. Dopo un po’ arriva il gruppo russi; erano in
quindici o sedici. Il mattino seguente, Nicola, che comandava il gruppo dei russi, prende una
corda con cui lega i polsi a Martini e se lo tira dietro. Lì Martini ha cominciato a perdere le
speranze di salvarsi, perché per lui l’obiettivo era di andare in Valcamonica e poi di cercare di
evitare la fucilazione. Facendo tutte le creste, superata la cima del Monte Muffetto, arrivati su uno
spiazzo largo appena sotto, Nicola si ferma un momento e chiama vicino a sé Luigi e parlano;
Martini insospettito, gli si avvicina, e chiede: "Mi fucilate qua?". "Sì", rispose Nicola. Allora
Martini tira fuori i suoi oggetti personali chiedendo che siano inviati alla moglie che ne ha bisogno
(un portasigarette d'argento, e 35.000 lire, estratti dalla fodera della giacca, da una tasca creata
apposta), poi con atteggiamento severo chiede a tutti di ascoltarlo e afferma: "Ragazzi, non fate
come ho fatto io, che ho tradito la causa, continuate a combattere fino alla vittoria finale". Io mi
sono anche un po’ meravigliato: forse è stato un ripensamento62, o forse un ultimo disperato
tentativo di salvarsi, anche se in mano ai russi non c’era gran che possibilità di scampo. Poi
rivolto a Nicola: "Adesso sparatemi una raffica di mitra al cuore". Nicola gli risponde che i colpi
costano cari e che ne basta uno. Allora Martini gli chiede di sparargli un solo colpo nelle orecchie.
Così Nicola procede all'esecuzione. Nel frattempo il suo complice si getta ai piedi di uno e
dell'altro implorando il perdono, piangendo: “La mè Nina che l’è incinta, la mè Nina”, e chiede il
conforto di un prete, che però lì non poteva esserci, bisognava farlo fare apposta, anche se poco
dopo, fortuitamente e incredibilmente, alla stanga di Bassinale abbiamo proprio incontrato un
prete che dalla Valcamonica veniva a Bovegno. Fucilati tutti e due 63, gli hanno tolto gli scarponi
belli e le giacche di velluto e i corpi sono rimasti lì. Verranno recuperati nel pomeriggio da dei
valligiani che li hanno trovati. Per me era la prima volta che vedevo ammazzare e mi ha fatto una
certa impressione, mi è venuta la pel de capù.
Quindi abbiamo continuato il nostro percorso verso la Valcamonica tutti insieme. Ci siamo trovati
in una valle stretta, sopra Biennio, dove c’era una cascina gestita da una donna, che aveva il
marito in Russia, con il fratello ed un ragazzo. Ci fermiamo lì per bere e mangiare qualcosa ed
anche a dormire. Questo Berto si intende subito con questa donna, dorme assieme con lei ed il
fratello. Il mattino dopo vedo che discutono, Berto e i russi, e alla fine lui decide di fermarsi lì e
convince anche il “Pastorì” che era con il gruppo della 54a. Noi ce ne andiamo, e poi abbiamo
saputo che Berto, per non pesare sul misero bilancio familiare di quella gente, si era dato ad azioni
di banditismo in giro; per questo le Fiamme Verdi, che controllavano quella zona, l’avrebbero fatto
62
L’animo umano è insondabile, a maggior ragione in un contesto drammatico come quello qui narrato. Tuttavia
sembrerebbe che Martini, pur avendo deciso di tradire la resistenza, fosse intimamente combattuto, incerto sul da farsi,
incapace di andare fino in fondo nel lavoro “sporco”: non se l’è sentita di eliminare a sangue freddo il Berto, come
avrebbe dovuto per portare a compimento con il minor rischio la propria missione di spia. E, forse, proprio questo
residuo scrupolo di coscienza, paradossalmente, lo portò alla morte.
63
Il milite della questura fu fucilato da uno del gruppo della 54a brigata Garibaldi: avevano concordato con Nicola di
procedere alle esecuzioni in un luogo lontano dalle malghe ed isolato, che poi fu individuato appunto in uno spiazzo
sotto la cima del Muffetto. Testimonianza di Gino Boldini rilasciata al curatore.
21
fuori, un certo “Carolì” l’avrebbe eliminato: così per correre dietro ad una donna il Berto ci ha
lasciato la pelle.
Io, sono rimasto unico italiano con i Russi, mentre Giacomino, ad un certo punto, ancora prima, se
ne era andato. I russi mi hanno accolto bene, sono cordiali, dimostrandomi amicizia, mi
raccontano delle loro vicende in guerra. In particolare, c’era un capitano della marina mercantile
che parlava bene l’italiano, con accento napoletano, probabilmente Pietro Scieremietieff
Lischhianovic di Sebastopoli64. E’ servito, perché Nicola sapeva qualche parola in italiano, ma non
sempre riuscivi a capirlo. Avevano da sempre rapporti con Cecco Bertussi, Oreste Zubani, e
Ottorino Moretti che li hanno aiutati a sopravvivere in montagna e gli davano indicazioni dove fare
colpi, nei confronti di ricchi fascisti, per procurasi il cibo. Quando c’ero io nel gruppo non ho mai
visto nessuno scrivere un diario e non saprei chi fosse stato l’autore dello “stralcio di diario di un
partigiano russo” 65.
Non mi hanno mai detto come Nicola era diventato comandante66. Mi hanno raccontato che
avevano subito un forte rastrellamento nella zona del passo del Cavallo, alla fine di aprile o
all’inizio di maggio67.
Loro erano lì in una cascina, con una terrazza sopra, con il fuoco acceso e venivano da Odolo per
dirigersi verso Lumezzane. Ad un certo punto picchiano alla porta. “Chi è?”. “Siamo fascisti.
Aprite, se no buttiamo giù la porta!” Al che Nicola68, penso, che era il più coraggioso, si mette in
posizione con il mitra spianato e dà ordine di togliere la stanga alla porta. Parte una raffica e ha
preso il maresciallo e altri due uccidendoli tutti. Quindi tutti escono e sparano agli altri mettendoli
in fuga, mentre “Nicolino”, (Nicola Stucalov Nicolaevic, diciottenne) rimane ferito e lo portano a
spalle fino a Speralonga, sotto il Sonclino e poi, su indicazione di Oreste Zubani, lo lasciano alla
casa dei Paterlini, all’inizio di Val del Lembro, dove viene medicato e curato. I Paterlini hanno
sempre fatto tantissimo per i partigiani, hanno sostenuto anche la 122a. Anche gli Zubani sono
stati una base d’appoggio importante: hanno tenuto nascosto anche Michaele Ivanov, molto a
lungo di fatto fino alla fine della guerra, dopo la tragica vicenda dell’uccisione di Nicola nel
settembre del 1944; lì si è fidanzato con una ragazza della famiglia, la figlia di Oreste Zubani, che
era stata prima la morosa dell’altro Michele ucciso con Nicola.
Una vicenda in particolare dà l’idea di chi era Nicola: dopo l’azione di Brozzo, di cui parleremo
poi, siamo andati a finire in un canale a nasconderci ed in giro c’erano tutti i fascisti che
sparavano appena vedevano qualcosa muoversi. Un certo “Saska”, il più anziano, [probabilmente
Nicola Dimitrevic Zusckowsky, 49 anni] non riusciva a star fermo, continuava a muoversi per la
64
Viene così indicato nello Stralcio di diario [di un partigiano russo] , “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile 1974, n.
5, p. 79.
65
Questa testimonianza di Belleri, certamente attendibile, contribuisce ad escludere che l’autore del diario fosse Nicola.
66
Nello Stralcio di diario [di un partigiano russo] , il capo è indicato nella persona di Prossin Nicola Ivanovic, che
comandò il gruppo almeno fino al 16 aprile 1944. Tra questa data ed il 19 maggio vi fu il cambio di comando che
avvenne, probabilmente, in seguito ad uno scontro interno sanguinoso, (si disse per questioni di donne), in cui Prossin
rimase gravemente ferito. Alcuni valligiani, vicini ai russi, lo soccorsero ed intervennero presso i Beretta perché
rendesse possibile un suo immediato ricovero in un ospedale. Effettivamente Prossim fu ospedalizzato e riuscì a
salvarsi. Sarebbe tornato nel dopoguerra a Gardone per ringraziare chi lo aveva aiutato e la stessa famiglia Beretta.
(Ricordi dello stesso Lino Belleri).
67
In realtà l’episodio avviene nella notte tra il 13 ed il 14 maggio 1944 in una cascina a Gabbiole di Agnosine. Ricordo
del comandante partigiano Giuseppe Verginella e dei caduti di Lumezzane per la libertà, Comune di Lumezzane, 1985,
pp. 38-40.
68
Secondo la testimonianza di Michele Ivanoff, che fu presente all’azione, ad affrontare con il mitra i fascisti sarebbe
stato un altro russo, Stefano. In quell’occasione perse la vita Tranquillo Bianchi di Lumezzane, che era uno degli
antifascisti locali che sostenevano il gruppo dei russi: ignaro di quanto era successo, mentre si stava dirigendo verso la
cascina dei russi con zaino in spalla pieno di viveri e medicinali, veniva sorpreso dai fascisti e catturato. Dopo sevizie e
torture perché rivelasse i luoghi dove si rifugiavano i partigiani, viene rinchiuso nelle scuole elementari di Binzago di
Agnosine, da dove tenterà di fuggire: subito scoperto, rincorso, viene ucciso con una scarica di mitra dai militi della
Gnr. Ibidem. Altre notizie su questo scontro a fuoco in cui, secondo fonti fasciste, caddero il brigadiere Fermo Raccagni
ed il milite della Gnr Eugenio Zanardelli, mentre altri due rimasero feriti, in “La Resistenza bresciana”, Isrb, aprile
1973, n. 4, pp. 82-83 e 85-86 e in Notiziario della Gnr del 15 maggio 1944, in Archivio Fondazione Micheletti.
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paura. Ho sentito Nicola che gli ha detto: “Guarda che fai una brutta fine se fai così!”. Questo qui
è tornato su, e dietro lui un altro, due metri di altezza, che aveva perso l’arma, il fucile
mitragliatore. Allora Nicola mi ha incaricato di accompagnarli il giorno dopo, insieme ad un altro,
a cercare il mitra. Prima Nicola mi ha chiamato da parte: “Guarda che se questi tentano di
scappare, falli fuori!”. Nello scendere giù è andato tutto liscio, io ero dietro con il mitra e loro
davanti disarmati; ma nel posto dove eravamo il giorno prima non abbiamo trovato l’arma; ora
bisognava tornare indietro e quello grande e grosso, che faceva paura alla morte, era tutto agitato.
“Torniamo su che parlo io con Nicola”, ho cercato di rassicurarli. Siamo arrivati al gruppo e
Nicola voleva fucilare i tre, questi due e l’anziano “Saska” che il giorno prima aveva avuto paura.
Allora sono intervenuto io: “Ma perché vuoi fucilarli? Mandali piuttosto in Svizzera”. E mi ha
ascoltato. Sono partiti: uno si è fermato con la 54a in Valcamonica, mentre gli altri due comunque
sono riusciti a tornarsene a casa. Questo della 54a l’ho trovato nel 1975 e faceva i salti alti così nel
vedere me e Boldini; in qualche modo gli ho salvato la vita. Nicola in effetti era molto rigido, se
vuoi, militarmente, era anche a posto, perché se uno perde l’arma il codice di guerra è chiaro, e lui
era intransigente. Era molto coraggioso, non aveva mai paura, sempre sicuro di sé. Non scherzava,
per questo avevo un po’ timore, un po’ schifo di lui, perché era determinato e se uno sgarrava non
guardava in faccia a nessuno. Era un sottufficiale, quindi abituato ad esercitare l’autorità, e
imponeva la massima disciplina: io il militare non l’ho fatto, ma lì era come essere militare.
L’unico dei russi che poteva dirgli qualcosa era Alessandro Vorona Dimitrevic, che aveva una
certa confidenza. Un po’ come noi italiani, io e Zoli: in qualche modo eravamo considerati da
Nicola, perché conoscevamo i luoghi e la gente, e poi Zoli era bravo a cantare insieme ad
Alessandro. Di solito mi ascoltava nei consigli, anche se poi a decidere era lui; del resto era
innanzitutto lui che ci metteva la ghigna. Comunque con i russi mi sentivo sicuro perché era gente
capace militarmente. Nel gruppo l’unico comunista dichiarato era Stefano Rudenco Marcovic. Io
allora non ero comunista anche se avevo saputo da mio cugino Paolo Belleri che Bertussi lo era.
Io ero contro il fascismo perché avevo imparato quanti disastri aveva provocato, ascoltando quello
che dicevano i compagni di lavoro in fabbrica. Ma con i russi di discorsi politici non se ne
facevano: si parlava delle azioni militari, di chi aveva paura, del coraggio e della determinazione
nell’affrontare le situazioni difficili. C’era quel capitano di marina, che aveva paura, ed era
continuamente preso in giro (gli facevano lavare le stoviglie), anche se l’hanno sempre salvato,
perché conosceva bene l’italiano ed era l’unico a fare da interprete. La paura è una brutta bestia e
uno quando ce l’ha non riesce a controllarla: trema, continua ad agitarsi, a muoversi.
Con i russi, ho imparato a sparare, anche se un po’ mi ero già esercitato a Ficulle, quando mi
mandavano di guardia.
Dopo l’esecuzione di Martini, lasciati quelli della 54a, siamo andati giù a Prestine a prendere un
po’ di sigarette e qualcosa da mangiare, ma poi all’inizio della piazza di Bienno troviamo i fascisti
che cominciano a sparare. Nicola ha preso di forza uno dei russi e lo ha buttato avanti: “Dove
scappi? E’ qui che devi sparare”. Abbiamo sparato colpendo alcuni militi fascisti e poi ci siamo
sganciati.
Tornando indietro verso le Colombine, mentre camminiamo in cresta, incontriamo in una valletta
tre delle Fiamme verdi, fra cui Gamba: “Dove andate? Non sapete che questa è la zona delle
Fiamme verdi?”. Al che Nicola dà disposizione ai suoi, che subito caricano il mitra e risponde:
“Siamo qua a fare i partigiani”, “Ma non potete, perché questa è zona delle Fiamme verdi, siamo
qua noi” e mentre si discute il cerchio dei russi si allarga attorno ai tre e allora questi, vista la
situazione, se ne sono andati. Una vicenda che si è ripetuta successivamente anche a Livemmo, con
le Fiamme verdi della Per lasca, con un certo maestro di S. Eufemia.
23
Quindi ci siamo portati di nuovo in Valtrompia, agli Stalletti alti sotto il Guglielmo verso Pezzoro,
Qui vediamo passare una cicogna che butta dei volantini con il bando del 25 maggio e
commentiamo il fatto.
Siamo sempre agli Stalletti, quando, il 17 giugno, arrivano due gruppi di giovani delle classi
chiamate alle armi: l’uno proveniente da Anveno era formato da giovani di Inzino e di Gardone ,
l’altro era formato da ragazzi di Marcheno, fra cui c’era anche Zoli. Noi gli andiamo incontro
verso Caregno e li vediamo venir su in colonna, erano venti o trenta. La cosa mi interessa perché
fra questi c’era anche quel mio amico che aveva fatto il colpo alla Beretta con me portando fuori i
due mitra, che poi aveva ceduto alle Fiamme Verdi: nel vedermi è diventato tutto rosso. Gli ho
detto: “Vieni qui adesso, eh?”. Poi è arrivato anche un altro gruppo ma tutti senza armi, senza
mangiare, senza comandante. Si sono messi in giro ad occupare le varie cascine. Il giorno dopo
arriva Marchina, garibaldino in Spagna, che Cecco Bertussi presenta come comandante: anche lui
senza armi e poi anziano, avrà avuto più di quarant’anni69.
Si sistemano un po’ di qua e un po’ di là, fanno una grande polenta con la farina portata da quelli
di Marcheno, prendono del latte dai malgari. Saranno stati in tutto 150. Erano convinti che ci
sarebbero stati dei lanci di alimenti, materiali e armi da parte degli Alleati. Abbiamo acceso tre
fuochi tra gli Stalletti alti quelli bassi. Effettivamente abbiamo sentito arrivare un aereo, si è anche
abbassato, ma poi si è spostato verso la Valcamonica dove ha fatto il lancio. Là si sono trovati
pieni di bombe sippel. So che poi è andato Nicola a cercare un po’ di armi da loro e ha dovuto
insistere con forza per ottenere 4, 5 bombe. Quando Marchina con una sessantina si è avviato
verso la Valcamonica, fra cui Zoli che aveva il mitra, al Muffetto sono stati attaccati dai tedeschi e
17 sono stati fatti prigionieri e mandati in campo di concentramento (molti non sono più tornati),
altri feriti ed altri sono scappati. Di questi, dopo due o tre giorni sono ritornati solo Mario Zoli e
Ferraglio, più anziano, che era un po’ sordo e dopo un po’ di tempo se ne è tornato a casa, perché
non adatto alla montagna. Di Marchina non si è più saputo niente e penso sia tornato a casa.
Una settimana dopo, ci troviamo in Gale e arriviamo presso un casinetto, dove abbiamo dormito
all’aperto, sulle pietre. Al mattino ci ha svegliato il canto di una ragazza che era su con le capre.
Zoli, sentita la voce di una donna, subito vuole andare a vedere: andiamo su, beviamo il caffè, e poi
ci mettiamo di nuovo in cammino, e andiamo giù sul versante della Valcamonica a Passabocche.
Lì c’è un certo Damiani che ha una villa e poi ha fabbricato una casa con una chiesetta. Lui
abitava in città e facciamo telefonare al contadino a Brescia: “Guarda che qui ci sono degli armati
che gli servono i soldi, altrimenti salta per aria la tua casa”. Ovviamente di soldi non ne sono
arrivati, ma è venuto su il rastrellamento il giorno dopo. Io e un altro russo eravamo andati giù a
prendere le sigarette a Grignaghe, una frazione di Fraine, verso Pisogne, abbiamo preso un po’ di
farina e le sigarette e torniamo verso Passabocche. Ma i fascisti erano giù là e stavano uscendo
verso di noi sul prato da dietro una siepe; uno di questi appena ci vede spara e colpisce il sacco di
farina che avevo in testa. Paolo grida: “Siamo attaccati”. Lascio giù il sacco di farina e scappiamo
su dove ritroviamo il gruppo e c’era lì un russo che sparava con la pistola; finite le cartucce l’ha
lanciato contro i fascisti, i quali, credendo che fosse una bomba, non sapevano dove scappare. I
russi erano davvero coraggiosi e i fascisti avevano paura di noi.
Io ogni tanto venivo a casa per lavarmi, farmi la barba, cambiare i vestiti, e mio padre sempre si
spaventava. Dopo Passabocche, dove avevo preso una sveglia con i numeri fosforescenti, ero
tornato di notte a casa ed ero andato a dormire nel fienile senza svegliare i miei. Mio padre al
mattino prima di tutto sente il tic tic e chiama mia sorella: “Vieni a vedere chi c’è là!” Mia sorella
ha visto le scarpe e mi ha riconosciuto. Mi sono svegliato: “Dai, dammi qualcosa da mangiare”.
Il colpo alla caserma Gnr di Brozzo libera tutta l’alta Val Trompia
69
Si trattava di Angelo Marchina di Gussago, uno dei 37 bresciani che nel 1937 parteciparono alla guerra civile
spagnola come volontari nella difesa della Repubblica contro il colpo di stato fascista di Franco. Cfr. I. Nicoletto
(Andreis), Anni della mia vita, Micheletti, Brescia 1981, p. 92 e n. 26 a p. 355.
24
Dopo abbiamo avuto contatti con degli italiani che si aggregheranno a Jimmi, paracadutista
inglese. C’era uno di Ospitaletto che aveva con lui un gruppetto di uomini con cui concordiamo il
colpo di Brozzo, alla caserma della Gnr, del 28 giugno.
C’era un anziano, Giacomo Scansi, di famiglia comunista, carbonaio, che ci dava tutte le
informazioni, faceva da staffetta per il gruppo russi; eravamo d’accordo che lui veniva incontro a
noi mentre noi scendevamo da Cesovo lungo la mulattiera che va giù a Brozzo: noi l’abbiamo
incontrato un po’ prima di giungere in paese e lui ci ha fatto il segno con le mani, che erano solo in
due lì in paese, all’osteria che c’è lì di fronte al bivio per Lodrino. Nicola decide: “Andiamo!”, e
ci dirigiamo all’osteria, Nicola, io e Paolo, quello alto. Entrano Nicola e Paolo e uno dei due, che
stava giocando a carte, tenta di alzarsi e prendere le armi. Allora Paolo, grande che faceva paura,
lo prende così e lo sbatte contro l’altro. E gli dice “Venite con noi!” e andiamo verso la caserma.
Prima di arrivare alla caserma, io giro dietro per mettermi di guardia. Nicola suona, viene uno ad
aprire, entriamo e li abbiamo disarmati tutti. Erano sette o otto: due li abbiamo lasciati liberi
subito, perché avevamo un segnalazione che erano carabinieri e non erano fascisti. Il maresciallo
non voleva venire con noi e allora è stato giustiziato subito lì da Nicola. Era lo stesso maresciallo
che aveva cercato di organizzare un rastrellamento, senza successo, nei confronti del gruppo dei
russi, a febbraio-marzo70. Allora prepariamo gli zaini, carichiamo il materiale e le armi prelevate e
ci incamminiamo verso Cimmo attraversando la strada per prendere poi la mulattiera. Siamo
passati tra due ali di folla che batteva le mani e Alessandro in testa cantava la canzone: “Nella
dolce Primavera, nella dolce Valle Trompia, guardia rossa si è accampata, del ribelle
innamorata”71. Da quel giorno per circa due mesi l’alta Val Trompia fu libera da presidi
nazifascisti. E lì era venuto fuori a spiare un “brigante nero”, un fascistone del luogo, che aveva
subito telefonato ai tedeschi i quali sono intervenuti per bloccare la provinciale.
Ma noi avevamo già preso la mulattiera per Cimmo, per raggiungere poi gli Stalletti. Dopo un po’
ci fermiamo a riposare, ed io lì mi conquisto il mitra e mi libero del moschetto. I fascisti, nostri
prigionieri, cominciano a rendersi conto che verranno uccisi, cercano di giustificarsi, uno tira fuori
un orologio e ce lo regala. Comunque, mentre noi ci incamminiamo, Nicola li ha giustiziati tutti e
cinque.
Abbiamo poi saputo che quello spione aveva telefonato ai tedeschi e allora dopo alcuni giorni
siamo tornati giù per prenderlo assieme al bottegaio, un altro fascista.
Siamo andati giù in un bel gruppo con due muli che ci aveva prestato quello della malga e li
abbiamo caricati con farina, formaggi ed altri alimenti prelevati da quel bottegaio fascista.
Mandati su i muli, Nicola ha fatto telefonare giù ai tedeschi: “Ci son qua i partigiani!” e poi ha
strappato i fili. Sono arrivati i tedeschi: in testa una camionetta con gli ufficiali e dietro un camion
di soldati. Noi ci siamo spostati verso Marcheno ad aspettarli, in un prato dietro ad un dosso.
Come arrivano su, uno di noi, il russo grande, si lascia scappare troppo presto una raffica sulla
prima macchina, dando il tempo ai tedeschi di bloccarsi e correre tutti a ripararsi. Così noi da
dietro il dosso non riusciamo più ad inquadrarli e a colpirli. L’azione quindi non solo non va a
buon fine, ma veniamo noi a trovarci in una situazione difficile, perché i tedeschi erano molti di
più. Allora ci ritiriamo e ci nascondiamo in un canale scavato da un torrente e lì ci rintaniamo,
acquattati, con il favore anche della notte, che nel frattempo era calata. Attorno a noi tutta la zona
era crivellata dai colpi sparati dai tedeschi e la nostra salvezza era affidata solo al fatto che non ci
trovassero. E’ lì che accaddero gli episodi del russo che tremava per la paura e di quell’altro che
aveva perso il mitra, comportamenti che avrebbero potuto mettere a repentaglio l’intero gruppo e
che Nicola, se non fossi intervenuto io, avrebbe voluto punire anche con la fucilazione.
70
L’episodio è avvenuto il 25 gennaio 1944, in località Corti Secondi (quota 1600m) del Comune di Tavernole, quando
i russi, inizialmente sorpresi da 5 carabinieri e militi della caserma di Bozzo, li costrinsero a precipitosa fuga. Cfr.
Stralcio di diario [di un partigiano russo] , cit., p. 68. Cfr. anche: Notiziario della Gnr del 28 gennaio 1944.
71
Secondo Belleri non si trattava quindi di “Bandiera rossa”, come si afferma in S. Peli, op. cit., p. 94.
25
Io ho saputo che c’era il gruppo di Speziale e Gheda solo il 15 agosto, quando c’è stato l’eccidio di
Bovegno72 e noi ormai c’eravamo già spostati verso il versante opposto della Valle, nella zona
della Garotta, tra Bovegno e Marmentino: ci eravamo stanziati al roccolo che è lì vicino, dove
abbiamo piazzato un cannocchiale preso ai fascisti, con cui si vedeva benissimo Bovegno e
dintorni.
Lì viene su anche un certo Arnaldo, l’ispettore che andava a visitare tutti i gruppi per le Fiamme
verdi, accompagnato da un avvocato, [Brunelli. Nda ], 73sempre delle Fiamme verdi.
Di politica non se ne discuteva nel gruppo russi e neppure se era il caso di aggregarsi o no alle
formazioni ufficiali, quelle riconosciute dal Cln: nel gruppo non se ne parlava, Nicola diceva che
gli italiani erano tutti paurosi, ma non abbiamo mai discusso di questi problemi. Probabilmente se
ne occupava Nicola che andava ai vari incontri e ne discuteva forse solo con Alessandro il suo
compagno fidato. In quel periodo, comunque, non abbiamo mai avuto rapporti come gruppo con il
distaccamento di Gheda74.
A Bovegno c’era stata una riunione tra i vari capi partigiani: noi avevamo incontrato, lì all’inizio
della strada che entra in Bovegno, un certo “Topolino”, uno piccoletto che faceva parte del
gruppo dei Vivenzi, che ci ha accompagnato all’osteria dove si teneva la riunione con Speziale75,
alla quale ha partecipato Nicola, ma io non so che cosa si siano detti.
A Nicola non piaceva il ruolo del commissario politico, e quindi anche per questo non gli piaceva
Speziale. La guerra, secondo lui, la dovevano fare i militari e i commissari politici, prima dovevano
dimostrare di saperci fare, di avere coraggio e non venir lì e pretendere di dare ordini. Nicola si
era legato al dito la vicenda di Marchina, che era stato presentato come comandante e poi al primo
rastrellamento era sparito. Prima di riconoscere uno che comandasse sopra di lui doveva
dimostrare la sua autorità sul campo di battaglia. Del resto anche nel gruppo c’era il capitano di
Marina, di grado superiore a Nicola, che era solo sottufficiale: ma Nicola gli faceva lavare le
pentole, perché aveva sempre dimostrato di aver paura e lo teneva solo perché sapeva parlar bene
italiano.
Verso la fine di agosto iniziano i rastrellamenti e la controffensiva dei nazifascisti. Il 21 i fascisti
per rappresaglia arrestano 4 fratelli Fiori, antifascisti di Mura, e li mandano in Germania, dopo
avergli bruciato la casa e portato via le mucche76; in quella tragica vicenda, ha trovato orrenda
morte un partigiano di Salò, certo Bruno Benetti, catturato dopo essere stato ferito e gettato dentro
la stalla in fiamme dai fascisti; i fratelli Fiori riusciranno poi a fuggire prima della Liberazione.
Poi accade l’episodio dei fratelli Vivenzi che per fare i “bulli” il 23 agosto sequestrano circa 20
camion che servivano a prelevare i materiali dalle miniere e li portano su in Vaghezza77. Lì ci
troviamo anche noi, ospiti dell’albergo che c’è su, dove abbiamo mangiato e dormito. Loro
sostenevano di aver minato la strada. Noi eravamo d’accordo con una maestria di Marmentino che
quando passavano i tedeschi e i fascisti ci avrebbe telefonato. E così ha fatto: “Son passati adesso,
due, tre camion”. Allora siamo usciti fuori, ma i Vivenzi sono spariti, e ad affrontarli e a
combattere siamo stati noi: i russi hanno piazzato un mitragliatore e dall’alto abbiamo cominciato
a sparare. Poi man mano loro avanzavano, noi ci siamo ritirati verso Piazze e poi siamo saliti al
72
Su questa vile e barbara rappresaglia messa in atto dai fascisti e dai nazisti si veda l’ottimo recente lavoro di
ricostruzione curato da V. Maffina, Bovegno per la libertà. 1943 – 1945. Fatti e testimonianze della Resistenza, Istituto
comprensivo “Caduti per la Libertà”, Bovegno 2004.
73
Si trattava di Francesco Brunelli. Cf. R. Anni, Storia della brigata Perlasca, Isrb, Brescia, 1980, p. 84.
74
Giuseppe “Bruno” Gheda, operaio dell’Om, oggi Iveco, comunista, uno dei primi partigiani combattenti con il gruppo
Lorenzini dopo l’8 settembre, fuggito dalle carceri il 13 luglio 1944 si era subito portato in Valtrompia per dar vita ad
una nuova brigata Garibaldi. All’epoca il gruppo era costituito da circa 20 elementi. Cfr. M. Ruzzenenti, La 122a
brigata Garibaldi …cit., p. 46.
75
Leonardo “Carlo” Speziale, comunista, anch’esso fuggito dalle carceri il 13 luglio 1944, era il commissario politico
del gruppo di Gheda e quindi della costituenda 122 a brigata Garibaldi.
76
Vedi anche Questi miei figli li ho fatti e li devo vedere ammazzati…”Bresciaoggi”, 25 aprile 1981.
77
Bovegno per la libertà, cit., pp. 35-36.
26
Pian di bene. Ma la mattina dopo sono venuti su di nuovo i tedeschi a fare il rastrellamento in
grande stile. Si sentiva dire che sarebbe venuto giù Gerola78 dall’alta valle con 40 uomini, ma non
abbiamo visto nessuno. Abbiamo trovato invece il gruppetto delle Fiamme verdi che stava lì nella
zona della Garotta. Noi ci ritiriamo verso Pezzeda sera, dove incontriamo Gimmj che si ferma a
discutere con Nicola, non so di cosa, e arriviamo dove ci sono le Fiamme verdi della Margheriti,
verso sera, per vedere se ci danno qualcosa da mangiare: erano là con le loro brandine, con i loro
letti con i materassi. E io gli dico: “Fate così voi a dormire, vi spogliate tutto: capita qui il
rastrellamento, dovete andare a cercare mutande e braghe, intanto vi fanno fuori”. Noi eravamo
abituati a dormire vestiti, con accanto sempre il mitra pronto a sparare. Comunque la mattina
Nicola chiama me e Paolo perché andiamo a fare un’ispezione al monte Ario: con il binocolo
vediamo i tedeschi in forze che stanno venendo su dal Pian del bene. Torniamo indietro al volo e
andiamo da quelli della Margheriti: “Ci sono qua i tedeschi” e questi non capivano più nulla,
avevano perso la testa. “Andiamo di qua, andiamo di là!”. Nicola chiede di indicargli un sentiero,
ma non ha risposta. Allora prendiamo una mulattiera dentro la pineta e arriviamo ad un certo
punto dove c’è una malga. Vediamo che ci sono due mastelle di latte e io con un russo andiamo giù
a berne un po’: “E’ buono questo!”. Torniamo su e il gruppo non c’è più, si è già spostato. “Che
facciamo?” Andiamo su, fischiamo, nessuno risponde. Ci spostiamo verso Pezzeda mattina e lì
incontriamo uno che sta cacciando con le reti: ci dà qualcosa da mangiare e poi per dormire ci
porta nel fienile: “Pota, qui ce l’ho il posto, però qui non c’è tanto da dormire!” La mattina presto
ci sveglia e di nuovo ripartiamo verso la Garotta, per vedere se c’è il nostro gruppo. Troviamo il
mandriano che ci dà da mangiare polenta e formaggio, pieno di vermi, e il russo aveva schifo a
mangiare. Da lì veniamo giù verso Marmentino, attraversiamo la valle, saliamo a Nasego e poi
alla Cucca di Lodrino per andare a casa. Arrivo a casa e fischio ai miei fratelli che erano lì con le
pecore e vengono su: “Che fai, qui?”, “Portami da mangiare”. Anche il russo si nasconde lì nelle
vicinanze. Quindi prendo contatto con Paolo Belleri, Silvio Ruggeri ed Ippolito Camplani e gli
chiedo di andare con la Brigata Garibaldi79.
Per due giorni rimango isolato con gli italiani della 122a al Roccolo Tre Piani. Mi arriva l’ordine
di Speziale: “Lascia lì il mitra e scendi disarmato ad Aleno”. Il mitra lo consegno al russo che era
con me. Incontro Cecco Bertussi , sotto “Sèret” a cento metri dalla casa di questo nella sua
proprietà, che ha assieme mio cugino Paolo Belleri : “Adesso vai a casa a riposare”. “Come -
rispondo quasi rabbioso - a riposare ?” Mi convincono, anche perché intuisco che il commissario
Carlo Speziale è in frizione coi russi e torno a casa (con la pistola nascosta) rifugiandomi nel
fienile a Ruc con grandi timori perché ormai tutto il paese sa tutto.
Nicola, nel frattempo, è rientrato con Zoli e Michele Ivanoff, dopo aver lasciato il gruppo, che,
sfuggito al rastrellamento, era andato verso la Valcamonica80. Nicola era tornato per riprendere
l’altro Michele Onopreiciuk, che era stato ferito e si trovava presso gli Zubani, e anche per
incontrare la sua morosa che era figlia dei Paterlini. Nicola allora mi fa sapere a casa di
accompagnarlo a parlare con Cecco. Avevamo l’appuntamento lì al ponte di Marcheno a
mezzanotte e probabilmente Nicola pensava che, essendo uno dei suoi, potevo fare da
intermediario. Io però non sono entrato, sentivo che gridavano, ma non ho capito che cosa si siano
detti. Del resto Bertussi aveva anche lui un carattere forte e quando Nicola è uscito era molto
alterato e mi ha detto: “Meriterebbero una pallottola in testa”. Nicola comunque pensava di
andare in Valcamonica con Zoli e i due Michele. A me non l’ha chiesto e comunque io sentivo che
c’era qualcosa nell’aria anche se non sapevo fino a che punto era ormai giunto lo scontro tra
Nicola e Speziale. Quindi io chiedo di tornare in brigata.
78
Pierino Gerola, comandante della brigata “Margheriti” delle Fiamme verdi dell’Alta Valtrompia. Cfr. P. Gerola,
Nella notte ci guidano le stelle, Brescia nuova, Brescia, 1987.
79
Per essere esatti formalmente la 122a brigata Garibaldi “Marino Micheli” non era ancora costituita: ciò avverrà
ufficialmente il successivo 4 ottobre 1944. Cfr. M. Ruzzenenti, La 122a brigata Garibaldi …cit., p. 55.
80
L’ormai ex gruppo dei russi verrà disgregato e inserito in tre diversi distaccamenti della brigata. “F. Lorenzini” delle
Fiamme verdi della Valcamonica. Cfr. R. Anni, op. cit., p. 100.
27
La mia opinione è che la colpa di quel che è successo sia stata di Speziale che non poteva andare
da Nicola ed imporgli la sua volontà, magari dicendogli che altrimenti alla fine della guerra non
gli avrebbe più certificato la sua attività partigiana, non permettendogli di tornare in Urss. Lui
doveva dare la possibilità a Nicola di operare con il suo gruppo con una certa autonomia e con un
coordinamento con la brigata Garibaldi. Io credo che Nicola avrebbe potuto accettare un simile
compromesso. Invece Speziale l’ha preso di petto: “Tu devi fare, tu devi fare…”. Non andava preso
così uno come Nicola, perché si sarebbe giunti inevitabilmente allo scontro. Nicola valutava le
persone sulla base del coraggio e della capacità militare, non perché avevano un incarico politico.
Nello mi ha poi raccontato come erano andate le cose: loro erano scesi con Tito da Paterlini e Tito
aveva detto: “C’è in corso un rastrellamento, non c’è qui Nicola, che dobbiamo avvisarlo?
Chiamalo!”. Nicola ha avuto qualche dubbio, ma viene fuori e avvicina il Nello: “Giurami sul
partito che non siete venuti ad uccidermi!”, ma non si fida e corre per prendere il mitra. Allora gli
sparano e l’uccidono81.
Prima avevano già tentato di ucciderlo, quando Nicola era andato a prendere Michele che era in
convalescenza da Zubani. Tito e gli altri, di notte, li aspettano per l’agguato, ad Aleno, vicino alla
casa di Bertussi, ma non sanno ancora se sono uno o due. Chi stava di sentinella doveva fare un
colpo di tosse se era uno solo oppure due. Erano in due, ma Nicola prudentemente era dietro,
anche perché aveva visto che non c’era Zoli all’appuntamento e si era insospettito. La raffica
colpisce mortalmente Michele e Nicola ha tempo di sparare a sua volta e di salvarsi. Una donna al
mattino che andava al lavoro vede Michele ferito che sta morendo e scende ad avvisare Bertussi,
che forse non pensava che Nicola sarebbe potuto arrivare a tanto: quindi andando a medicare
Michele morente viene ucciso a sua volta82. Nicola allora fa l’errore di non scappare subito e di
fermarsi dai Paterlini, dove alla fine troverà la morte.
Io questa vicenda l’ho saputa dopo alcuni giorni, quando sono tornato in brigata a Nasego. Qui
trovo i garibaldini comandati da Tito, con Speziale commissario e vice comandante Gheda.
Passano da lì quattro russi che conoscevo. Qui stavano facendo la polenta. Io allora ero solo con
la pistola, perché il mitra l’avevo lasciato al russo. Ho capito tutto quando ho visto il mitra di
Nicola al collo di Tito. Sono rimasto molto male, molto addolorato, perché poteva finire in un altro
modo. Con Speziale, comunque, non ne ho discusso perché non era possibile parlare con lui,
troppo autoritario; ti avrebbe liquidato: “Che vuoi sapere tu, ragazzo!”. Certo se ci fosse stato
Gheda o Verginella a gestire la faccenda, si sarebbe risolta in un altro modo. Ed è un peccato per
noi, soprattutto, che abbiamo perso Bertussi.
81
L’uccisione di Nicola ad opera di un gruppo delle costituenda 122a brigata Garibaldi è ricostruita da “Nello” in una
testimonianza pubblicata in Tra cronaca e storia, inserto speciale di “Bresciaoggi”, 25 aprile 1979, p. 3.
82
L’uccisone di Cecco Bertussi, avvenuta il 18 settembre 1944, non ebbe alcun testimone diretto, per cui è difficile
stabilire con assoluta certezza come andarono le cose. Secondo Santo Peli sarebbe stata opera di Nicola Pankov. Cfr. S.
Peli, op. cit., p. 75. Sulla vicenda di Bertussi si veda anche C. Bianchi (a cura di), La contrada del ribelle, Comune e
Anpi di Marcheno, 1985.
28
fascisti delle brigate nere per fare le manovre con mortai e mitraglie pesanti: infatti poco dopo si
sentono i colpi di mortaio che sparano verso le montagne sopra di noi.
Il commissario "Carlo" raduna gli uomini e decide di scendere a Mura per attaccare i fascisti,
predisponendo un piano di attacco che prevede innanzitutto di far deviare il gruppo per
oltrepassare il paese e non scontrarsi con i fascisti in prossimità del centro abitato per evitare
rappresaglie contro le case e la popolazione. Vengono formate tre squadre per entrare in azione
quando i fascisti sarebbero transitati al curvone della strada prima di Casto.
Difatti l'attacco viene effettuato tra Mura e Casto dove non ci sono abitazioni.
Una squadra è comandata da Carlo, la seconda da Tito, e la terza da Sandro Ragazzoni. Il gruppo
si apposta nel bosco in attesa che arrivino i fascisti. Tutto è predisposto per l'imboscata. "Carlo"
aveva ordinato agli uomini di sparare solo al segnale di Tito. I fascisti giungono incolonnati e
cantando con alla testa il loro comandante. Tito gli punta contro il mitra, ma si inceppa: il
capitano sente il rumore e guarda verso il bosco; in quel momento Tito grida: "Fuoco!".
Incomincia una furibonda sparatoria.
I fascisti colti di sorpresa si riparano contro il muro di protezione della strada e Tito, seguito dagli
altri, salta sulla strada sparando a raffica. I fascisti si trovano improvvisamente allo scoperto e
lasciano sul terreno 30 morti. Intanto quelli in coda alla colonna cercano di reagire, riescono a
piazzare le mitraglie pesanti e a far fuoco sui partigiani: questi vista la situazione aggravarsi,
raccolgono le armi dei morti, prendendo tre prigionieri che poi verranno fucilati, quindi si ritirano
e fanno perdere le loro tracce. Raggiungono rapidamente la brigata che nel frattempo si era
spostata in Vezzale sopra Marmentino; soltanto un partigiano rimane ferito leggermente
Il 4 ottobre il Delegato provinciale del Comando regionale “Oscar”, Robustelli, (lo stesso che poi
lo tradirà) presenta “Alberto”, Giuseppe Verginella alla brigata, che era appena stata
ufficialmente e formalmente incorporata nel Comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi
con il numero 122.
Verginella, appena assunto il comando militare, raduna gli uomini e verifica che mancano armi,
scarpe e risorse finanziarie sufficienti al buon funzionamento della brigata.
"La guerra partigiana - dice - non è da fare solo in montagna; bisogna attaccare il nemico anche in
città dove si sente più sicuro. A noi servono scarpe più adatte alla montagna e alla vita che
facciamo, armi automatiche in quanto il numero degli uomini che si uniscono a noi va sempre
aumentando, inoltre ci servono anche dei soldi per poter pagare i contadini che ci forniscono il
vettovagliamento".
Predispone quindi un piano d'azione per recuperare quanto è necessario a far fronte ai bisogni
della formazione, si dimostrandosi subito un abile stratega.
Sceglie 20 uomini più in gamba e parte da Visalla sopra Irma arrivando il giorno dopo in Valle di
Gardone, nei pressi del paese. "Alberto" si stacca dal gruppo e in pieno giorno scende nell’abitato
a prendere contatto con un gappista del posto, Angelo Marocchi, per studiare insieme l'attacco
alla fabbrica di armi automatiche Giandosa, che si trovava di fronte alle scuole professionali dove
vi erano accampati un cinquantina di tedeschi.
Quindi indossando una tuta da lavoro, aiutato dalla staffetta Marocchi, riesce ad entrare in
fabbrica e a vedere esattamente dove sono situate le armi; prende accordi con lo stesso Marocchi
che lavora in questa azienda e ritorna in fondo alla valle dove gli altri lo aspettano ansiosi.
Dà a tutti spiegazioni dettagliate: la dislocazione della fabbrica, la disposizione degli uomini in
piccoli gruppi e l'itinerario per arrivare sull'obiettivo.
All'ora stabilita, del 6 ottobre, camminando a fil di monte senza incontrare difficoltà, scendiamo
fino alla fabbrica: due gruppi ne presidiano i lati, mentre il grosso entra seguendo Verginella che
parlando in tedesco riesce ad ingannare la guardia e a disarmarla: nel giro di pochi minuti
raccogliamo una settantina di pistole automatiche con le munizioni, aiutati da Marocchi ed altri
compagni che lavorano in questa fabbrica83; quindi con il bottino si parte verso S. Maria. Arrivati
83
Fonti fasciste indicano un quantitativo di “100 mitra e 4.000 cartucce”. Notiziario della Gnr dell’11 ottobre 1944,
29
nei pressi della "Santella" sopra la frazione dei Convento, mentre ci fermiamo per riprendere fiato,
suona l'allarme, circa un'ora dopo il colpo, che solo allora i tedeschi hanno scoperto.
Verginella dà ordine di lasciare liberi i 5 operai della fabbrica che aveva prelevato per
precauzione e per farsi aiutare nel trasporto delle armi.
Mentre gli altri proseguono con un mulo su cui sono state caricate le armi, Verginella con 6 uomini
si dirige verso Brescia per ultimare il piano di rifornimenti, di soldi e di scarpe (azioni che
verranno puntualmente eseguite il 10 alla Società Elettrica Bresciana con il prelievo di Lit.
250.000 e l’11 al calzaturificio Alberti di S. Eufemia dove si impossessa di 250 paia di scarpe e
scarponi)84. Prima, il giorno 8, un gruppo di garibaldini a Brozzo aveva fatto saltare con la
dinamite le condutture della centrale elettrica della Redaelli85.
Con l’arrivo dell’inverno Verginella predispone una nuova dislocazione della Brigata più vicina
alla città, necessariamente più ridotta e più mobile, frammentata in piccoli gruppi, distesa lungo
una linea approssimativa che muove immediatamente a sud d'Iseo, per Provezze, passando a nord
di Ome e di Gussago-Cellatica, taglia la Val Trompia presso Concesio, risale le pendici dei monti
Predosa e Conche, raggiunge il passo delle Coste di S. Eusebio e discende per Vallio verso il
Chiese e sui monti di Serle, verso Botticino.
Lo schieramento è destinato ad affrontare, con maggiore capacità di manovra, i possibili
rastrellamenti e ad alimentare eventualmente colpi di mano in città.
Per questo gli uomini si dividono in tre distaccamenti di 30 uomini, suddivisi a loro volta in 3
gruppi ciascuno: il primo sotto il comando di Gheda prende posizione nella zona di S. Gallo, il
secondo, comandante Dario Mazza, si sposta verso Brescia e infine un terzo distaccamento diretto
da Ruggeri e Casari, di cui facevo parte anch’io, si attesta in località Quarone e Camaldoli sopra
Gussago. Una prima tragica avvisaglia dei grandi rastrellamenti in arrivo si ha il 26 ottobre
quando Mario Donegani in Nasego nei pressi di Mura, gravemente ferito, è bruciato vivo
nell'incendio appiccato dai fascisti ad un fienile nel quale lo avevano rinchiuso. Pochi giorni
prima a Pertica Alta era stato fatto prigioniero un garibaldino, Botti Raffaele di Iseo, che viene
torturato e quindi fucilato.
Subito dopo, il 27 e 28 ottobre, un forte rastrellamento ci investe da ogni direzione.
Pochi giorni dopo, il 27 e 28 ottobre, un forte rastrellamento investe da ogni direzione i
distaccamenti garibaldini: iI gruppo si era accampato nella cascina Fratta di S. Gallo per
trascorrervi la notte, fra il 27 e il 28 ottobre, viene colto di sorpresa, per una spiata (l’infame verrà
poi giustiziato), mentre si stanno asciugando i vestiti al fuoco, perché pioveva ed erano tutti
bagnati. Degli otto garibaldini che stavano all'interno tre, Biondi Giuseppe, Cavalli Beniamino e
Di Prizio Francesco, furono trucidati dai fascisti. Gli altri fortunosamente riuscirono a salvarsi.
Anche il gruppo del Quarone, formato fra gli altri da Zatti Giuseppe (Lino), Belotti Luigino
(Bigio), Bosio Giovanni (Nicola), Vianelli Egidio (Egidio) e Bernardelli, viene sorpreso
dall'attacco nemico, ma con la complicità di una nebbia fitta, riesce a rifugiarsi nel monastero dì
Camaldoli. Qui, però, vengono accerchiati dai tedeschi e mentre Bigio, Nicola, Egidio e gli altri,
dandosi alla fuga, riescono a salvarsi, viene ucciso Sante Moretti di Crema e un garibaldino,
Giuseppe Zatti, viene fatto prigioniero. Nella stessa giornata, mentre“Balilla”subisce una grave
ferita alla testa che lo renderà cieco, vengono catturati altri due del gruppo di Ruggeri, Mario
Bernardellie un ragazzo di 15 anni, un certo Torresani. Tutti e tre vengono portati alla Stocchetta
nella caserma delle brigate nere di Gianni Cavagnis: Bernardelli e Zatti saranno poi fucilati alla
Sella dell’Oca sopra al Quarone.
84
Notiziari della Gnr dell’11 e del 17 ottobre 1944.
85
L’azione avrebbe arrecato “danni rilevanti. La centrale elettrica ha avuto un diminuzione di mille Watt della sua forza
produttrice”. Notiziario della Gnr dell’11 ottobre 1944.
30
Durante il rastrellamento ai Camaldoli in Quarone io vengo tagliato fuori e rimango solo; mi
sposto per trovare qualche appoggio, per vedere se c’è ancora qualcuno dell’altro gruppo dei
nostri che era in un roccolo lì vicino, anche per avvertirli, ma lì non trovo più nessuno. Sento che vi
sono lì vicino delle persone, in un casinetto, ma come mi avvicino vedo che hanno le braghe alla
zuava:erano i fascisti. Allora mi sono buttato dietro a un muro e mi sono allontanato giù verso la
valle, sempre alla ricerca di qualcuno. Cerco di allontanarmi dal Quadrone in direzione nord e
giungo sul crinale, dove vedo alcuni della finanza che stanno controllando i cacciatori. Vado giù
verso una casina dove trovo una signora a cui chiedo se ha visto i miei amici. “Sono appena andati
via”, mi dice. Invece ho visto le tracce sul terreno ed erano quelle dei tedeschi, che avevano sotto il
tacco degli inconfondibili ferri. Più avanti incontro per caso Firmo Pozzi detto il “Catòlech”:
“Che fai tu qua? C’è il rastrellamento!”. Allora saliamo verso il cocuzzolo di Vesalla. Allora
decidiamo di andare a vedere dove di solito il nostro gruppo prendeva il pane, per controllare se
erano passati (ormai era già passato il mezzogiorno). Io avevo un impermeabile sul tipo di una
mantellina militare. Dal bottegaio mi faccio riconoscere e chiedo se son passati a prendere il pane,
ma lui mi risponde che non ha visto nessuno. Allora scendiamo giù verso Iseo, a Provezze e ci
nascondiamo per passare la notte da un contadino, un mezzadro che collaborava con noi, che ci
porta anche da mangiare nel fienile dove dormiamo ben al sicuro. Rimaniamo lì 2 o 3 giorni finché
arriva Verginella con la “Berta”, quella che diventerà mia moglie. Su un notes Verginella appunta
chi c’è e chi non c’è per verificare le perdite dopo il rastrellamento. Poi mi ordina di andare su a
Marcheno, al Ruc, la mia casa, lasciando lì il mitra e portandomi solo la pistola. Ho fatto la strada
di Polaveno che passa poi per Gombio, dove ai Beltramelli ho una cugina che abita e mi sono
fermato da loro, di notte. Mi sono fermato da loro e non mi ricordavo il tempo che dormivo in un
letto vero. Alle sei del mattino dopo avevo un appuntamento sulla provinciale a Ponte Zanano con
una staffetta, Zanoletti, che mi dava la bicicletta per raggiungere Marcheno, per cui alle quattro e
mezza sono partito a piedi. Alle sei precise, mentre c’è il cambio della guardia e c’è più
disattenzione, siamo spassati per la sbarra e abbiamo raggiuntola madonnina di Marcheno e sono
andato su alla casa di Zanoletti, in montagna poco lontano da Aleno verso Magno, dove mi sono
fermato per alcuni giorni, dove ho preso contatto con mio cognato.
La stasi dell’inverno
Poi sono andato a casa dove mio papà aveva costruito un piccolo rifugio dentro nel fieno, sopra la
stalla grande di assi: tagliando un quadretto di fieno, con dei pali e delle assi aveva ricavato una
piccola “stanzetta”, coperta dal fieno, con l’entrata attraverso un asse che si spostava, sopra la ma
testa della mucca, in cui si stava in quattro con le relative armi e dove mi nascondevo in caso di
pericolo. Dopo alcuni giorni mi arriva l’ordine di Verginella di andare giù, insieme a Moreni e alla
“Berta” e altri, con i mitra a Palazzolo a fare un colpo in una banca. Ma come si fa in bicicletta a
portare i mitra? E così siamo andati, però portando solo le pistole. Quando Verginella ci ha visti,
ci ha ordinato di tornare a casa perché di guardia c’era un gruppo di tedeschi che poteva essere
affrontato solo con i mitra. E pensare che se fosse andata in porto quell’azione, probabilmente non
sarebbe andato all’appuntamento - trappola di Provaglio del 24 dicembre, dove si doveva
progettare un attentato a Farinacci (Verginella pensava anche di preparare un attentato a
Mussolini!), anche perché la sera della vigilia di Natale lo aspettavano a San Gallo per una
pastasciutta con il salmì di gatto, una specialità. La “Berta” arriva a Cremignane di Iseo il 24
dicembre con un attimo di ritardo e vede Verginella, già circondato dai fascisti, e fra questi, con il
volto malamente nascosto da una sciarpa, Egidio Robustelli “Oscar”, l’ispettore comunista delle
brigate Garibaldi, portato lì, evidentemente per confermare l’identità di Verginella86. Robustelli
86
La vicenda del tradimento di Verginella presenta degli elementi che assumono il colore del giallo. Se non sembrano
esservi dubbi sulla responsabilità di Egidio Robustelli nell’aver collaborato con i fascisti al riconoscimento del
comandante della 122a all’atto della cattura, va chiarito come dallo stesso potesse provenire l’informazione sull’ora e
sul luogo dell’appuntamento, poiché Robustelli sarebbe stato catturato, tradotto in carcere e sottoposto a duri
31
però non tradì la “Berta”, sua compaesana, anzi alcuni giorni prima le aveva detto di presentarsi
per quella occasione con gli abiti cambiati, cappotto e cappellino, perché era stata individuata. In
ogni caso ai fascisti interessava la cattura del comandante della 122a , in cambio della quale
lasciarono poi libero Robustelli e con lui sua moglie, che pure era tenuta in carcere probabilmente
per utilizzarla come arma di pressione. Certo che come si fa a far prendere Verginella, porca
miseria! Io l’ho saputo, subito dopo, da Antonio Scalvini, che ci ha confermato che Verginella era
caduto, che Robustelli aveva tradito e che se lo avessimo incontrato sapevamo che cosa fare. Ma
Robustelli, fino a dopo la guerra, è scomparso dal Bresciano e più nessuno lo ha visto. Quando è
ritornato, dopo la Liberazione, si è iscritto comunque al partito comunista e ci fu una discussione
dura, perché qualcuno gliela voleva far pagare, ma poi è intervenuto Italo Nicoletto e non se n’è
fatto più nulla.
Tornando a noi, dopo l’azione andata a vuoto di Palazzolo, ci spostiamo verso Orzivecchi, dove
c’era il cugino del Moreni, che voleva venire in montagna; ma questo era appena scappato per i
campi perché c’erano i tedeschi che lo cercavano. Intanto siamo stati lì a cena e a dormire. Il
giorno dopo prendiamo il tram per rientrare a Marcheno, ma alla Stocchetta sale un gruppo della
brigate nere e noi uomini ci spostiamo verso le ultime carrozze, mentre la “Berta”, con
spregiudicata prontezza di spirito, intrattiene con chiacchiere e canzoni i fascisti che vengono
così distratti e non si accorgono di noi.
Scendiamo a Villa, dove io avevo una zia: vado da lei che, anche se spaventata, mi dà qualche
cosa da mangiare. Quindi siamo tornati a casa al “Ruc”, dove avevo il nascondiglio, dove ci
fermiamo in tre, io Emilio “Scarpulì” e la “Berta”.
Il Moreni l’avevano arrestato, perché aveva tenuto la commemorazione di Franco Moretti, il
giovanissimo partigiano ucciso dai fascisti il 2 settembre 1944 a Cesovo. Dopo quella
commemorazione, lo vengono a chiamare i fascisti e lui va giù da loro: il piantone lo fa attendere
un momento. Moreni ne approfitta, con la scusa deve andare a fare un bisogno, e scappa. Non
rientra in fabbrica e invece viene a Marcheno, dove si rifugia lì da noi. Quindi verrà anche Casari,
mentre Zoli era andato su da suo zio, dietro Croce di Marone, dove teneva delle capre. Per
svernare, il periodo più lungo l’ho fatto a casa mia al “Ruc”, anche se per un po’ sono stato anche
da un mio cugino a Croce di Marceino e prima ancora, per un mesetto, anche a Magno di Gardone
dalla zia di Zoli, dove per un pelo siamo sfuggiti al rastrellamento; non lo sapevamo, l’abbiamo
scoperto dopo perché è andata su una squadra di fascisti a fare una perquisizione, ma noi ce ne
eravamo già andati (la “Berta” invece rimane sempre a casa mia con mia sorella).
Alla mia casa, in febbraio 1945 vi era un metro di neve. Qualcuno sopra la nostra casa aveva
tagliato un castagno, ma poi l’aveva lasciato lì perché era nevicato; noi siamo andati su, l’abbiamo
fatto a pezzi per portarlo a casa per il fuoco. Faceva freddo e ogni giorno bisognava bruciare
legna. Abbiamo cercato di imbrogliare le impronte lasciate sulla neve per non destare sospetti.
Anche perché lì intorno girava sempre un tedesco che andava a cercare le uova nella cascine e
anche a casa mia. “Non ce le ho le uova”, diceva mia sorella per scoraggiarlo, anche se a volte
gliele dava perché aveva un po’ paura e poi sembrava che sospettasse qualcosa. Una volta
l’abbiamo visto che veniva da un prato vicino e allora in fretta e in furia io, Zoli “Scarpulì” e la
“Berta” ci nascondiamo nel rifugio. Arriva lì e apre la porta, ma all’interno avevamo chiuso il
catenaccio e mia sorella gli ha aperto solo quando noi ci eravamo messi al sicuro. Però lui,
attraverso la porticina che dalla cucina comunica con la stalla, ha sentito le pecore che si
interrogatori il 12 dicembre (Cfr. L. Tedoldi, Uomini e fatti di Brescia partigiana, Brescia, Brescianuova, 1980, p.
225), mentre dalle testimonianze sembra che quell’incontro con un certo Perla del partito comunista di Cremona fosse
stato concordato poco prima del 24 dicembre. L’apparente incongruenza si spiegherebbe con l’immediata liberazione
di Robustelli, mentre la moglie veniva trattenuta in carcere come ostaggio: avrebbe concordato con i fascisti, in cambio
della salvezza sua e della moglie, di fare il doppio gioco fino alla cattura di Verginella (si spiegherebbe così il fatto che
prima dell’incontro di Cremignane avesse avvertito la “Berta” di cambiare i vestiti usuali, evitando così di essere
riconosciuta e catturata). Del tutto fantasiosa è comunque l’ipotesi adombrata che potesse esservi stata una diretta
responsabilità di Speziale (Cfr. L. Tedoldi, Uomini e fatti di Brescia partigiana, cit. p. 226). Su questa tragica vicenda
si veda anche Ricordo del comandante partigiano Giuseppe Verginella…, cit. pp. 22-28.
32
agitavano: “Che cosa c’è qua?”, e mia sorella: “Ah, c’erano i miei fratelli che si sono lavati”,
perché ha visto le lamette e del sapone ancora bagnato. Il tedesco è andato via col dubbio, perché
si è diretto alla cascina dall’altra parte, fingendo di andarsene, ma improvvisamente è ricomparso
sul piano e mia sorella subito ci ha detto “L’è che, l’è che” in dialetto, è rientrata in casa
chiudendo di nuovo il catenaccio. Altrimenti sarebbe entrato e ci avrebbe sorpresi tutti lì in cucina.
Poi il tedesco ha chiesto a mia sorella: “Che cosa hai detto? L’è che, l’è che?” e lei ha spiegato
che l’aveva visto arrivare, ma lui se ne è andato poco convinto e infatti, arrivato a Marcheno, è
andato a chiedere che cosa voleva dire“L’è che, l’è che”.
Le donne hanno avuto un ruolo molto importante nella resistenza e voglio ricordarne alcune che ci
hanno aiutato molto. Ricordo che alla Beretta ce n’era un gruppo che portava fuori le armi a pezzi
e le consegnava ad Angelo Marocchi, partigiano della 122a, il quale le montava nella sua piccola
officina per poi farcela arrivare in brigata: Elena Casari, Teresa Tanghetti, le sorelle Giulia ed
Emma Bentivoglio e altre. Poi vi erano le staffetta: la Emma Pedretti di Cedegolo, La Maria
Belleri del Ruc di Marcheno, la Rosa Borghetti di Marmentino, la Bruna Berardi di Brescia, la
Ausilia Gabrieli di Tavernole, Lina Boniotti, e quelle di Mura, la maestra Maria Crescini, e Santa
Crescioni. Fondamentali anche le famiglie che rappresentavano sicure basi di appoggio: la
famiglia Belleri del Ruc di Marcheno, la famiglia di Moretti Sabatti di Aleno, le famiglie di Zoli e
di Moreni, quelle di Cecco Bertussi, di Oreste Zubani e di Paolo Belleri sempre di Marcheno, la
famiglia Paterlini di Lodrino, la famiglia di Gigi Fregoni di Mura, la famiglia di Faustino
Damonti a S. Eufemia, le famiglie dei Busi al Dos e dei Damonti al Monc di S. Gallo.
La Berta, infine, fu davvero una colonna portante della 122a brigata Garibaldi: la ragazza più
coraggiosa e furba di S. Eufemia, sempre in viaggio con la bicicletta, dalla città ai paesi dove si
trovavano i vari gruppi di partigiani, a portare notizie e conforto; giovane diciassettenne, la Berta
ha avuto contatti con “Carlo” Leonardo Speziale, commissario della brigata, con “Alberto”
Giuseppe Verginella, comandante, con “Bruno” Giuseppe Gheda, vicecomandante, con Sergio
Pedretti, vicecommissario, con “Ercole” Angelo Moreni, ufficiale di brigata, con Mario Zoli,
capogruppo, con Luigi Micheletti che poi darà vita all’archivio storico di Brescia, e con Firmo
“Catolech”.
Dopo febbraio comincia ad andar via la neve e allora cominciamo a preparaci per la ripresa:
c’erano gruppi un po’ dappertutto, oltre alla Valtrompia, ad Iseo, a S. Gallo, Tito era giù nella
Bassa, ma lui non si è mosso e la “Berta” non l’ha avvisato, e poi il gruppo di Gheda, che noi
avremmo voluto come comandante. Se non ci fosse stata la “Berta” che girando in bicicletta aveva
ripreso i contatti con tutti, non avremmo saputo come fare. Siamo così riusciti a mettere insieme un
bel gruppo, circa 25. “Adesso partiamo”, e ci portiamo in una cascina in Poffe, sulla cresta del
monte, sopra il “Ruc”, dove abbiamo ricostituito la brigata a fine febbraio e concordiamo tutti che
Gheda è il comandante e Casari il commissario. Successivamente è arrivato Tito che subito si è
imposto come comandante e Gheda, che era tanto buono, non ha detto nulla e ha accettato senza
protestare87. Tito faceva valere il fatto che era più vecchio, era del ’14, dieci anni più di Gheda e
di noi, e che aveva fegato da vendere, però poco cervello, anche come comandante: se fosse stato
uno capace militarmente nell’azione dove è stato ammazzato Gheda al Sonclino, da solo contro la
postazione tedesca, avrebbe dovuto fare in modo di assicurargli una copertura, invece non se ne è
preoccupato, anzi gli aveva dato del “gnaro”, indicandogli i tedeschi. Gheda risentito va allora
all’attacco, seguito all’inizio da un cecoslovacco, che poi si ferma, così prosegue da solo. Tito non
87
“Il 25 corr . alle ore 20,15 in S. Eufemia (Bs), due fuorilegge, armati di mitra, aggredivano proditoriamente i militi
della Gnr Cesare Cantone e Luigi Bandiera in servizio presso il magazzino vestiario, sparando contro di loro una raffica
di mitra. Il Cantone era ucciso e il Bandiera ferito gravemente. Compiuto il delitto i due banditi si davano alla fuga
riuscendo a dileguarsi”. Notiziario della Gnr del 25 marzo 1945.
33
doveva lasciarlo andare allo sbaraglio, senza un appoggio della brigata, in uno scontro troppo
impari.
Tornando alla brigata, in fase di ricostituzione, nel frattempo, mano mano erano arrivati altri
uomini, e ci siamo portati verso il Sonclino, alla "Cascina Bianca", nella valle del Lembro; ma
anche qui, poiché affluivano altri giovani, non c'era molto spazio, quindi ci siamo portati sul
Sonclino, occupando un vasto spazio che comprendeva alcune casine di cacciatori, dividendoci in 5
gruppi: uno al "Buco", uno al Sonclino nella cascina proprio sotto la cima, uno alla Piralunga, uno
alla cascina Guizzi e un altro nei dintorni.
Le armi che erano state sotterrate, per la stasi invernale, in una stalla in località Dossolino, furono
portate, con una bella azione, a Serradello dove furono rimesse in efficienza.
Il 25 marzo partiamo per un’azione da compiere a S. Eufemia al magazzino di vestiario e di
alimenti della Gnr che si trovava nella piazza al capolinea del tram proveniente dalla città. Per
giungervi passaimo da San Gallo di Botticino e ci fermiamo alla base d’appoggio della casa
Bardela, situata sopra la chiesa, dove la moglie ci prepara da mangiare polenta e salame.
Eravamo in 25 compresa anche la Berta. Qui la Berta, dopo avermi fatto tagliare i capelli da suo
zio Benedetto, mi invita a far visita alla cascina dei Monc, lì vicino, dove era nascosta sua mamma,
Maria Lonati, collaboratrice della nostra brigata, con l’ultima figlia che aveva neanche un anno.
Verso sera il gruppo con cautela scende verso S. Eufemia, mentre una pattuglia va avanti. Per
primi, Tito, “Vendetta” e Mario Zoli entrano nel paese. Qui Tito vuol fare lo spaccone, entra
nell’osteria “La concordia”, dove lui essendo di S. Eufemia conosce tutti, e chiede un caffè all’oste.
In quel mentre due fascisti armati che si trovavano nel locale reagiscono. Tito gli punta il mitra ma
uno dei due riesce a prendere con la mano la canna del mitra. Fortunatamente intervengono Zoli e
“Vendetta” con la pistola che cominciano a sparare ai due militi delle Gnr che si precipitano alla
porta per tentare la fuga e dare l’allarme. Uno viene ucciso sull’ingresso dell’osteria e l’altro
ferito gravemente88. A quel punto quelli del magazzino reagiscono cominciando a sparare, mentre
sopraggiunge anche un gruppo di tedeschi che spara verso la montagna da dove stiamo scendendo
noi. Così di corsa siamo costretti a ritirarci verso la Sella e poi a S. Gallo. Quindi, scendendo verso
Nave, prendiamo la strada per il roccolo di Bertù al Sonclino.
Nella notte fra il 13 e il 14 aprile 1945, un nostro gruppo aiutò una trentina di soldati e 5
sottufficiali dell'esercito della Rsi (che tramite due di loro avevano preso accordi con la 122 a per
disertare), a lasciare la caserma di Botticino con armi e viveri e dirigersi verso il Sonclino
accompagnati da 10 partigiani89. Fra questi militari vi era Pizzo, di chiari sentimenti antifascisti.
Dal Sonclino partì il 17 aprile l'azione contro la Bpd, produttrice di materiale bellico, che era stata
trasferita a Cogozzo, recuperando una mitraglia, munizioni e dei viveri (una grossa forma di
formaggio, che abbiamo faticato a portarla su, dei salami ed altro).
I fascisti e i tedeschi sentivano la liberazione vicina, quindi per avere la strada libera verso la Val
Sabbia ed il Trentino, decisero di effettuare il rastrellamento del 19 aprile. I fascisti erano irritati
anche per la fuga dei militari di Botticino e per un'azione dei partigiani pochi giorni prima, quando
erano riusciti a prendere una mitraglia da 20 millimetri posta su una torretta dei nazifascisti,
situata alla centrale Beretta di Marcheno. Ma forse anche perché i fascisti volevano vendicarsi
della brigata Garibaldi, che gli aveva dato molto fastidio e li aveva umiliati con la bruciante
sconfitta di Mura.
Il giorno 18, in una ventina "di quelli più in gamba" siamo scesi al posto di avvistamento di
Navezze a Ponte Zanano, poiché avevamo avuto una segnalazione, che quella sera sarebbe partito
88
Secondo fonti fasciste, esattamente “37 soldati e 5 sottufficiali si sono allontanati dalla propria caserma del 131°
battaglione Genio F. C. sita in Botticino Sera. Sembra in seguito a contatti avuti con ribelli e in particolare certo
Bardella da S. Gallo”. Archivio centrale dello stato, Presidenza del consiglio dei ministri – Segreteria particolare del
duce, busta 28, Appunto per il duce del 14 aprile 1945. Cfr. anche Notiziario della Gnr del 15 aprile 1945.
34
dalla Beretta un carico d'armi diretto alla stazione di Brescia. Dopo aver visto come sono andate le
cose c'è stato un po' di dubbio su questa segnalazione. La sera, scendendo da Navezze e non
conoscendo la strada, siamo arrivati sopra il paese dopo l'una, l'appuntamento era a quell'ora; se
arrivavamo in tempo, dovevamo bloccare il camion e deviarlo a Lumezzane Piatucco, dove
dovevano scendere i partigiani del Sonclino e prendere le armi. In realtà a Lumezzane erano già
arrivati i fascisti che avevano occupato alcune cascine, e se fossimo giunti in tempo
all'appuntamento sarebbe stato un disastro. Rientrando al Sonclino, alcuni uomini, specialmente
quelli di città, che non erano abituati a queste lunghe marce, per la stanchezza vollero fermarsi a S.
Emiliano. Chiesero a me e ad altri due uomini, di salire al Sonclino, alla località "Buco", e
prendere un po' di farina per fare la polenta. Era mezz'ora di strada, nell'incamminarsi, verso le
5,30-5,45, abbiamo sentito i primi spari ed è passata così tutta la voglia di mangiare. Abbiamo
raggiunto di corsa gli altri gruppi al Sonclino.
L’attacco veniva portato da diverse direzioni dai fascisti, circa 300 uomini in tutto, appartenenti ai
reparti della Decima Mas e della S. Marco e da un gruppo di tedeschi: circa 50 della Gnr di
Gardone, comandati da Bonometti, avanzavano da Sarezzo sul sentiero di S. Emiliano; da
Lumezzane sale il grosso dei fascisti, circa 250, lungo il crinale che da sud raggiunge direttamente
la cima del Sonclino, in seguito da Marcheno arrivano circa 50 tedeschi per la valle di Vandeno
che raggiungono Piralunga, da Alone (Val Sabbia) infine una ventina delle brigate nere di Salò;
viene esclusa solo la valle del Lembro, altrimenti eravamo circondati, e la ritirata avvenne proprio
di là.
A Lumezzane non avevamo staffette e comunque nessuno ci avvisò: qui mancò un po’ il nostro
sistema informativo e di sentinella, perché effettivamente fummo colti del tutto di sorpresa. Dopo il
primo contatto con i nazifascsiti, non ci siamo subito sganciati perché pensavamo di essere ben
armati, anche con una mitraglia, e di farcela, non avendo ben capito la reale consistenza del
nemico, per cui di mitraglie ce ne sarebbero volute tre, una per ogni direzione di attacco dei
fascisti e dei nazisti. Bisogna tener presente che eravamo anche in tanti, con i circa 40 nuovi
arrivati dalla diserzione della caserma di Botticino poco esperti della montagna, e la brigata non
era più così agile nel manovrare.
Il primo scontro lo ha avuto il gruppo del Sonclino. Da due o tre giorni avevamo in dotazione una
mitragliatrice pesante (Breda 37) che alcuni operai della Beretta avevano portato fuori pezzo per
pezzo. Dovevamo riceverne un'altra ma non ha fatto in tempo ad arrivare a causa del
rastrellamento. Questa mitragliatrice era piazzata al Buco, dove oggi sorge il monumento, ma vista
la provenienza dell'attacco fu portata su un dosso nelle vicinanze del Sonclino.
Noi non eravamo molto capaci di utilizzarla, ma fra quei soldati che abbiamo portato via da
Botticino, un sergente la mise a posto e ci insegnò come usarla, sparò anche la prima raffica, poi si
nascose perché aveva paura. Questa prima raffica falciò una decina di fascisti, perché loro erano
nei dintorni di una cascina dove si stavano appostando, forse non pensavano che noi disponevamo
di una mitragliatrice pesante. La mitragliatrice rimase quasi tutto il giorno lì: c'ero io, il mio futuro
cognato Piero Damonti (Spartaco), mio cugino Carlo e Antonio Pedretti90 che avevamo preso un
po' di esperienza. Poi arrivarono i tedeschi, una cinquantina, che salivano dalla valle del Vandeno.
Noi avevamo paura che utilizzassero le "cicogne" (piccoli aerei molto maneggevoli da
combattimento) come avevano fatto durante la battaglia a Croce di Marone, ma non lo fecero.
90
Antonio Perdretti, nato a Gardone Valtrompia il 2 febbraio 1925, impiegato presso l’Arsenale militare, dopo l’8
settembre è costretto più volte ad arruolarsi per poi disertare ed essere imprigionato come renitente, finché a La Spezia
abbandona definitivamente il copro dei bersaglieri e scappa in montagna dove si unisce alla brigata partigiana “Ugo
Muccini” e diventa capitano di un distaccamento della stessa compiendo diverse azioni militari. In una di queste, a
monte di Aulla in località Terrarossa, contro una colonna corazzata tedesca, il 22 novembre, viene gravemente ferito.
Si salva fortunosamente e riceverà per questa azione la medaglia d’argento al valor militare. Ricoverato nel Convento di
frati di Soliera, riesce a rientrare a Gardone nel febbraio del 1945 rimanendo nascosto fino alla guarigione in una
cascina in valle di Gombio. Tramite Aldo Casari e Carlo Buizza , collaboratori della Resistenza nelle fabbriche Om e
Beretta, raggiunge il 10 marzo la 122a brigata Garibaldi con la quale partecipa alla battaglia del Sonclino ed alla
Liberazione. Cfr. A Bianchi, Storia del movimento operaio di La Spezia, Editori riuniti, Roma 1975, p. 342.
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Verso Marcheno avevamo un gruppo che dominava tutta la valle che sale da Rovedolo, ma, quasi
per ironia della sorte, questi avevano dovuto ritirarsi qualche giorno prima perché non c'era
acqua; avevano bevuto quella di una cisterna che si trovava sotto il pavimento di una cascina.
C'era dentro di tutto e hanno dovuto filtrarla con uno straccio, così hanno preso tutti la dissenteria.
Quindi al momento dell'attacco non avevamo uomini in quella direzione, ce n'erano solo al Buco. I
tedeschi sono riusciti a prendere una importante posizione, quella dove ora sorge la croce di
Gheda, che si trova sopra il piano dei Grassi, e da lì ci sparavano senza tentare di avanzare perché
essendo quella montagna molto spoglia e senza alberi si correva il rischio di mettersi allo scoperto.
E’ qui che Gheda tenta di espugnare quella posizione, che ci disturbava molto, perché loro, col
fucile Mauser (carabina a ripetizione ordinaria) riuscivano a colpirci, noi armati di mitra e di
qualche fucile '91, che appartenevano ai soldati liberati a Botticino, e che erano sparsi per tutta la
brigata, eravamo in situazione di inferiorità. Gheda superò due colline; noi eravamo proprio di
fronte e lo vedevamo bene, e con il mitra con tutto l'alzo (maggiore inclinazione di tiro) gli
coprivamo le spalle. I tedeschi lo hanno sentito arrivare e Gheda, dopo aver lanciato una bomba
tedesca, di quelle con il manico, si lanciò all'attacco con il mitra in pugno ma i tedeschi furono più
veloci di lui e lo falciarono. Forse il suo errore fu quello di non aspettare qualche secondo lo
scoppio della bomba lanciata dietro ai tedeschi, perché come l'ha tirata si è alzato per sparare,
rimanendo così ucciso. Tutta questione di attimi. Erano forse le undici, per tutti noi fu un momento
di panico, perché era il vice comandante ed era uno dei partigiani più esperti della Brigata.
Abbiamo però continuato a combattere.
Due bombe lanciate dai tedeschi sono scese in una valletta incendiando gli arbusti e con l'andare
del tempo, dalle undici fino verso le tre pomeridiane e con il favore del vento, il fuoco avanzava
verso di noi, e dietro venivano i fascisti che avevano appiccato il fuoco anche in altri punti.
Per un po' abbiamo resistito al Buco, poi abbiamo dovuto ritirarci verso il "comando" con i
tedeschi alle calcagna, perché quando noi arrivavamo alla casina del Buco, loro erano già lì sotto.
Poi qui hanno piazzato una mitragliatrice per sparare contro la nostra mitraglia al Sonclino,
accorgendosi della provenienza dei colpi, siamo riusciti a girare l'arma azzittendo la mitragliatrice
tedesca. Poi anche gli uomini della posizione del Sonclino hanno dovuto ritirarsi, perché i colpi
cominciavano a provenire dalle loro spalle. Nel pomeriggio verso le tre il comando ha dato con un
razzo l’ordine di ritirasi. La ritirata è stata precipitosa. Al comando c'era una mucca appesa, che
stava per essere macellata, e c'era anche della carne sul tavolo, e mi ricordo che tutti se n'erano
già andati, io mi fermai qualche secondo per mangiare qualcosa perché era tutto il giorno che ero
a digiuno.
Il grosso degli uomini si era ritirato verso Lodrino, un gruppetto, nel quale c'era "Nello", prese,
sbagliando la strada, per S. Gallo-Serle, in quella direzione sentii poi un inferno di spari, in seguito
seppi che non era stato colpito nessuno. Mentre stavo osservando il gruppetto che scendeva, vedo
arrivare Carlo e Spartaco con la mitraglia a spalle, e mi unisco a loro. Prendiamo la valle che
scende a Casto e subito dopo troviamo un buco dove nascondere la mitragliatrice. Arrivati vicino
ad Alone, presso una fontana dove c'erano delle donne che lavavano, chiediamo se in paese c'erano
i fascisti, ci risposero di no ed invece c'era un camion carico di repubblichini. Allora ci siamo
nascosti in un canale, e qui, poiché io avevo prelevato dal comando prima di ritirarmi una borsa
con tutti gli elenchi e qualche altro documento della Brigata, nella previsione di essere presi li
abbiamo distrutti in tanti piccoli pezzettini. Verso le 6-6,30, all'imbrunire, ci avviciniamo al paese
cercando del cibo. Ci avviciniamo ad una casa e chiediamo un po' d'acqua. Qui non ci hanno fatto
neppure entrare! Ci hanno portato un secchio con un mestolo.
Abbiamo chiesto ancora se c'erano dei fascisti e ci hanno risposto di no! In realtà i fascisti erano ancora presen
La paura di questa gente era tanta.
Con il buio ci incamminammo verso la montagna per dirigerci in direzione di Lodrino. Arrivati
sopra Alone, sentiamo rumore di gente che arriva scendendo dalla valle, sentiamo piangere e
implorare pietà, erano dei prigionieri catturati dai fascisti al Sonclino. Venivano condotti al
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cimitero, che si trovava sotto il paese, poi abbiamo sentito una raffica (cadevano sotto il fuoco
fascista Giuseppe Calamini, Rodolfo Bestetti e Giovanni Gelmini).
Successivamente per la stanchezza ci siamo addormentati. Un gruppo di uomini che invece era
sceso dalla valle del Lembro, si era fermato per rifocillarsi presso la casa di montagna di Primo
Paterlini, che era base e punto di riferimento delle staffette. Era un gruppo di sette uomini tra
questi Angelo Moreni, "Nanni" e Pizzo. Qui vengono a sapere da una staffetta, che vi sono sei
prigionieri alla caserma di Brozzo. In realtà questi sei non erano stati fatti prigionieri, ma erano
sei dei militari di Botticino che con il grosso della Brigata, comandata da "Tito", si erano diretti
verso Lodrino. Qui chiesero a Tito di potersene andare, poiché avevano paura ed indossavano
ancora la divisa fascista. Essi pensavano di potersi consegnare ai fascisti, facendo credere di
essere stati prelevati dalla caserma dai partigiani e di essere stati costretti a seguirli in. Invece
furono fatti prigionieri dai tedeschi che li portarono a Marcheno presso il loro comando, e il
pomeriggio del giorno seguente furono fucilati. Quindi non si trovavano neppure a Brozzo. Tutto
questo Moreni e gli altri non lo sapevano e passando dalla strada si dirigono verso la caserma di
Brozzo, che si trovava di fronte alla centrale della Redaelli.
Il Moreni era molto euforico a causa del combattimento avvenuto. Di guardia c'erano cinque
tedeschi e due fascisti. Il Moreni va verso questi uomini, che gli chiedono di farsi riconoscere, ma
esso dicendo frasi incomprensibili si avvicina sempre più a loro. Pizzo che capiva il tedesco sentì
quando questi si stavano preparando a fare fuoco e gridò al Moreni di buttarsi a terra. I partigiani
rispondono al fuoco. La pattuglia di guardia è tutta a terra, infatti vi sono due morti fra questi, e
tra i partigiani nessuno. Il Moreni91 al momento della partenza tornò indietro per raccogliere delle
armi, ma un tedesco ferito gli sparò alcuni colpi ferendolo alla gamba; così dovettero trasportarlo
a Tavernole dove fecero intervenire il dott. Padula.
Il grosso del gruppo era nei dintorni di Lodrino, poi da qui attraversando la località "Pineta" e il
passo della Cavada (passo della Cisa) hanno raggiunto Marmentino, quindi Irma dove ci siamo
fermati fino al 26 quando ci giunse l'ordine di scendere a valle. In questo periodo un gruppo si
portò anche a Bovegno.
Tornando a me ed alla sera del 19 ad Alone, dove mi ero addormentato assieme a Spartaco e Carlo
ricordo che ci svegliammo la mattina del 20 verso le otto, poiché il sole era già alto. Dopo aver
passato una notte con delle pietre come cuscini, abbiamo fatto delle fascine per nascondervi i
mitra, in seguito ci siamo incamminati per la Cucca di Lodrino, perché sapevamo che il grosso
della Brigata era andato da quella parte, poi ci è venuto incontro un partigiano che andava in
cerca dei dispersi, e abbiamo raggiunto Tito e gli altri sopra la Pineta. Abbiamo mangiato
qualcosa offerto dai contadini. Ci premeva ora la mitragliatrice che avevamo lasciato sopra Alone,
allora Tito incarica tre uomini di andarla a prendere, ed incaricò me, Micheletti e Spartaco di
andare a prendere le munizioni. Nel ritorno siamo venuti giù verso Marcheno, alla mia casa e da lì
la sera ci siamo incamminati per Irma dove si trovava la Brigata.
Ad Irma il 23 aprile era avvenuto un incontro tra Tito ed il capitano delle Gnr di Gardone,
Bonometti. Questo incontro era stato possibile perché qui si trovava, sfollata, una parente del
capitano. Noi quella sera ci siamo messi a controllare la strada, per vedere se invece del capitano
sarebbero arrivati dei camion di soldati, tendendoci così un tranello.
Invece arrivò il Bonometti con l'autista e, dopo l'incontro con Tito, noi uscimmo dai nostri
nascondigli e lo raggiungemmo. Tito gli diede le sue condizioni e Bonometti promise che si sarebbe
consegnato con tutti i suoi uomini pur di aver salva la vita. Infatti il giorno della liberazione non ci
saranno resistenze da parte dei fascisti, tranne naturalmente qualche elemento sbandato. Questo
incontro evitò anche uno scontro tra partigiani e fascisti che sarebbe potuto avvenire a Gardone, se
questi ultimi fossero stati attaccati nella loro caserma che si trovava di fronte alla villa Beretta, in
91
Per questa azione Angelo Moreni fu insignito della medaglia di bronzo al valor militare. Moreni incontrerà, nel 1954,
una tragica e prematura morte sulla strada travolto da un’automobile. Cfr. Nel nome del compagno Angelo Moreni sia
rafforzata la lotta per la giustizia e la libertà, “La Verità”, 26 settembre 1954.
37
una posizione difficilmente circondabile e che in caso di combattimento, sarebbe stata a loro
vantaggio, causando molti morti tra i partigiani.
La Liberazione
Poi è arrivato l'ordine che dovevamo concordare con la 54a Garibaldi della Val Camonica l'entrata
a Brescia. Tito incaricò me e Giovanni Casari del compito.
La notte tra il 25 e il 26 aprile siamo scesi ad Aiale, poi da qui a Lavone e poi su, verso Pezzoro e il
Guglielmo. Avevamo l'appuntamento a Croce di Marone alle 12 e siamo arrivati alle 10-10,30.
Intanto abbiamo mangiato qualcosa. Nino della 54a doveva venire dalla Val Saviore e poi salire da
Zone. Aspetta, aspetta non arriva nessuno. Nel pomeriggio verso le 3 0 le 4 abbiamo deciso di
partire. Casari voleva andare a salutare sua madre che si trovava sopra S. Rocco mai pensando a
quello che stava succedendo, arrivati in Anveno abbiamo sentito degli spari e delle esplosioni, che
erano poi i "pugni corrazzati" (proiettili del panzer Faust, una sorta di bazooka tedesco) sparati
contro 1'OM.
Siamo arrivati a Gardone quando questo era già stato liberato dai patrioti, dagli operai delle
fabbriche e dai gappisti.
I garibaldini della 122a che erano scesi da Irma la mattina del 26, erano impegnati in un
combattimento sopra Lodrino con i Tedeschi mentre il gruppo che era ripartito da S. Gallo era
sceso direttamente a Brescia.
Come io e Casari siamo arrivati a Gardone, in via Guarda, ci è venuta incontro molta gente, forse
perché qualcuno aveva dato la notizia che stavamo scendendo in paese. Ci hanno accompagnato in
Comune dove si era insediato il Cln. C'era anche il nostro ispettore di Brigata Remo che era venuto
su qualche giorno prima da noi e che ci aveva detto: guardate che con la Liberazione avete poco
tempo per la resa dei conti nei confronti dei fascisti e dei padroni che si sono arricchiti con i
nazisti. Io sono rimasto stupito perché mi ha fatto specie vedere lì questo Remo seduto al tavolo con
i membri del Cln, ma anche con tutti i padroni delle principali fabbriche, i due Beretta. E io detto a
Casari: “Guarda qua!” Ebbi l'ordine di andare in perlustrazione verso Zanano, Sarezzo e la
Bresciana. I tedeschi presenti in paese avevano già preso la via di Lodrino. Mi dicevano gli
abitanti di quel paese, che un gruppo di tedeschi si era fermato presso un'osteria, ed ogni volta che
qualcuno entrava dalla porta, essi saltavano in piedi come a dire: "Ci arrendiamo!". Avevano
paura anche loro. Poi sono riusciti a scendere in Valle Sabbia e li hanno fermati a Vestone.
La mattina del 27 abbiamo preparato un camion di mitragliatori da mandare incontro alla Brigata
che stava scendendo da Lodrino. Io andai fuori in ispezione con una "Topolino", poi verso le 8, vidi
un razzo sparato sopra il paese, e da Inzino di sotto dove mi trovavo vidi passare nei pressi della
Bernardelli un camion di tedeschi a tutta velocità che sparavano all'impazzata. Esso era già
scappato da un posto di blocco. Comunque, fu fermato a Brozzo dagli uomini della 122 a, che si
erano piazzati con una mitraglia sul ponte che porta a Lodrino. Quando è arrivato essi hanno
aperto il fuoco contro il camion, uccidendo i tre della cabina, che quindi si è schiantato contro un
muro; una volta fermato, i soldati che si trovavano sul cassone e che sparavano dai fianchi furono
fatti scendere. Il comandante Tito li fece mettere al muro, perché voleva fucilarli, ma poi è
intervenuto un membro del Cln di Brescia e il parroco di Brozzo che lo fecero desistere dalle sue
intenzioni. Io, venendo da Inzino a Gardone, vidi sulla porta della Beretta un uomo morente che
era stato ferito dai tedeschi che sparavano dal camion, mentre questi era uscito, nel sentire gli
spari, per vedere quello che succedeva.
Quando la Brigata arrivò a Gardone siamo partiti per Brescia giungendovi nella tarda mattinata
del 27. Io ero sempre sulla “Topolino” guidata da una staffetta di Mura, con la mitraglia sul tetto
scoperto. In città siamo andati verso Porta Milano in piazza Garibaldi e ci siamo provvisoriamente
sistemati presso i pompieri, ma vi erano molti cecchini ancora che sparavano dalle finestre e c’era
il pericolo di essere colpiti. Poi siamo andati a Saiano a snidare con la mitraglia un gruppo di
fascisti e quando siamo rientrati in città la brigata si era già spostata alle scuole elementari di S.
38
Eufemia, dove ci siamo acquartierati per alcuni giorni, ed lì ho cominciato a corteggiare la
“Berta” la cui famiglia gestiva un’osteria in via Pila.
Ai primi di maggio, mi sono trovato alla Beretta con Zoli, tutti e due armati, ad “assistere” alla
trattativa tra Cesare Belleri e i Beretta per il premio Liberazione: abbiamo ottenuto circa 3.000
lire a testa, una bella cifra per quell’epoca.
Quindi io, su insistenza del partito comunista, sono entrato nella polizia. Finite le schioppettate
seguendo le disposizioni entriamo nella polizia. Siamo un bel gruppo: io, Zoli, Moreni, “Spartaco”,
uno di S. Eufemia e altri, in 7-8. Siamo stati arruolati presso l’ufficio centrale dove segretario del
nuovo questore, Bonora, c’era Giuseppe Berruti, anche lui comunista. Si trattava di andare a
vedere, verificare ed eventualmente fermare i fascisti più in vista. Abbiamo arrestato il direttore
della Beretta, l’ingegner Reboldi, a Porta Venezia, sul tram che veniva giù dal Garda: l’abbiamo
riconosciuto. Noi eravamo vestiti in borghese, con un tesserino della questura e armati di rivoltella.
Arriviamo a Porta Venezia, tiriamo giù le biciclette e gli diciamo: “Adesso lei viene con noi”. “Ma
che volete voi? Che tesserino è quello lì? Io non vengo con voi!”. Abbiamo tirato fuori la pistola ed
allora ha capito che facevamo sul serio. Lo portiamo in questura, seguito da suo cognato che si
agitava anche più di lui, gridando. Ippolito Campani è andato a raccogliere tutta la
documentazione e così si è preso 6 mesi di prigione. Sei mesi si sono presi anche i fascisti di
Marcheno che abbiamo portato giù. Poi ho prelevato alla Beretta, il mio vecchio capo, il Riviera,
che faceva finta di non riconoscermi, e ha fatto 6 mesi di galera anche lui. Svolgo questa attività
per due o tre mesi, e rimango presso la questura fino ad aprile del 1946: poi volevano mandarmi a
fare il corso a Roma, ma io e altri non ci stiamo e ce ne ritorniamo in fabbrica.
A questo punto io torno alla Beretta, perché fare il poliziotto non era il mio mestiere.
Alla Beretta sono andato a fare ancora il lavoro di prima. Entro subito nella commissione interna,
ero conosciuto, mi votavano tutti. Poi io davo le dimissioni perché non sono neanche capace di
parlare, così ho fatto per 3 volte; avevo paura di non riuscire a spiegarmi bene in pubblico. Poppi,
invece era bravo a parlare e a convincere la gente, ed è entrato lui.
Ero diventato comunista con Gheda che mi aveva iscritto al partito ancora durante la resistenza.
Mi sono sposato con la “Berta” il 6 novembre del 1948 ed abbiamo trovato casa a S. Eufemia da
dove andavo avanti e indietro con il tram. Prendevo 8 o 10, 20 unità a Porta Trento e poi le
portavo dentro in fabbrica da distribuire, facendo il viaggio con Varischi, un comunista di vecchia
data, che faceva sempre delle grandi discussioni politiche.
Per due anni siamo stati a S. Eufemia finché ci siamo trasferiti a Marcheno. Poi ho cominciato a
occuparmi con il patronato Inca delle pensioni, finché nel ’71 facciamo un bell’accordo aziendale,
in cui ci danno delle ore per preparare le pratiche delle pensioni. Poi le ore di permesso sono
aumentate, ma io ho sempre voluto rimanere anche nel reparto, perché mi piaceva lavorare.
Praticamente quasi tutte le pratiche di pensione della Beretta sono passate tra le mie mani.
C’era con me anche uno ella Cisl che voleva fare la permanenza insieme, ma non era capace. Io
allora non ero tanto disponibile a fare l’unitario e le pratiche me le sbrigavo io che ero sicuro di
farle bene e non fare pasticci; ero un po’ geloso del mio mestiere, avevo ormai un’esperienza e una
conoscenza della normativa che, insieme alla memoria, mi permetteva di non sbagliare. Così sono
andato avanti finché ho maturato la pensione. Coi 35 anni sono partito subito, il 1° aprile 1976, ho
fatto il “pesce d’aprile” fuori della fabbrica. Mi hanno conteggiato un anno di partigiano e un
anno nella polizia. Intanto ho sempre continuato a frequentare la sezione del Pci, ma non ho mai
pensato di far politica: ero stato eletto una volta anche come consigliere comunale, ma poi, come
con la commissione interna, mi dimettevo perché mi dava fastidio parlare in pubblico.
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Io avevo le idee chiare, ma me le tenevo per mio conto; la mia vita è sempre stata così: poche
parole ed impegno nel fare, sul lavoro, nella lotta partigiana, nell’assistenza pensionistica.
Mia moglie nel ’74, con suo papà, aveva preso tre stanzine a S. Gallo e questo mi ha raddoppiato
il lavoro. Perché dopo, tutto il paese mi ha conosciuto e così ho cominciato a fare le pratiche anche
a S. Gallo: tutte le domeniche venivano su 20-30 persone. Dopo il Comune mi ha addirittura messo
a disposizione una sala dove il mercoledì, quando sono andato in pensione, facevo permanenza,
mentre negli altri giorni continuavo qui in Valtrompia nell’ufficio della Cgil di Inzino. Eh, ne ho
fatte di pratiche e non solo di pensione, ma anche i 730. Praticamente sono andato avanti fino a
due anni fa quando sono stato operato la prima volta.
La Berta è morta purtroppo nel 1997, dopo che era stata operata al cuore nel ‘93 con l’innesto di
una valvola biologica. Aveva cominciato a star male nel 1992. Ma anche la valvola non funzionava
bene. E’ un peccato che sia morta così. E io sono rimasto solo.
Un po’ di lavoro di assistenza lo faccio ancora adesso qui a casa.
Sono soddisfatto della mia vita perché ho realizzato i miei sogni; ho dato, credo, a tanta gente;me
ne accorgo anche adesso: quando vado al ricovero, dove faccio il 730 per una decina di anziani, mi
vedono e mi dicono di venire sempre a trovarli, di seguirli. E come partigiano credo che l’Italia
della Repubblica e della Costituzione sia molto meglio di quella fascista contro cui abbiamo
lottato, e questo penso sia un po’ anche merito mio.
Estratto da
Marino Ruzzenenti e Roberto Cucchini (a cura di), Memorie resistenti. Angelo Lino Belleri.
Giovanni Battista Popi Sabatti, Spi Cgil, Brescia 2005.
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