PDF M. Gallina ''Bisanzio, Storia Di Un Impero (Secoli Iv-Xiii) ''

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I) EREDITÀ E MUTAMENTI: GLI ECHI DELL’ANTICO,

I SEGNI DEL NUOVO

Nel IV secolo sorge sulle rive del Bosforo la città di Costantinopoli: la nascita
della nuova capitale, voluta da Costantino, è percepita storicamente come
una data talmente simbolica, da venire considerata il punto di inizio della
storia bizantina, anche se essa assume i suoi connotati peculiari solo nei secoli
seguenti).
La società bizantina non percepì mai la peculiarità dei propri tratti, e questo
perché le sue istituzioni, da noi chiamate ‘’bizantine’’, ai suoi membri
apparivano ‘’romane’’.
Il funzionario Giovanni Lido (490-557 d.C.), un contemporaneo di
Giustiniano, raccoglie nel suo De magistratibus populi romani gli ordinamenti
amministrativi e quelli dell’antica Roma, assimilandoli per dimostrare la
continuità della pars orientalis.
Questo senso di continuità rimane in vita, e si acuisce, nel corso del XII
secolo, quando il principato augusteo comincia a divenire il modello di
governo di riferimento; lo storico greco Giovanni Zonara (?-? XII secolo)
parla di come questo ‘’fece assurgere lo stato romano a perfetta monarchia’’.
Ancora nel XV secolo gli abitanti dell’Impero chiamavano se’ stessi
‘’Ρωμαιοι’’ (da leggere ‘’Romei’’, come vuole la pronuncia del greco
medievale).
E l’Impero era conosciuto infatti come ‘’Ρωμανια’’, la terra dei Romani, che i
Latini chiamavano ‘’Romània’’ e i Turchi ‘’Rum’’.
Nonostante queste formule ideologiche, di fatto in Oriente la commistione tra
il modello imperiale romano, il pensiero cristiano e la cultura greca diedero
vita ad un nuovo ordinamento statale.
Questo modello non solo fu in grado di superare la crisi tardoantica, ma
riuscì anche a consolidare le strutture interne, che sopravvissero anche dopo
la fine del millennio bizantino (si parla infatti di ‘’Bisanzio dopo Bisanzio’’).
La memoria della grecità medievale ebbe un’eco lunghissima: nel XIX e nel
XX secolo fu decisiva nella costruzione dell’identità nazionale greca, i popoli
slavi (dai Balcani alla Russia) ereditarono la sua cultura religiosa ortodossa e
il suo modello di monarchia.
Gli intellettuali dell’Europa Orientale da sempre guardarono all’Impero
Bizantino come ad un punto di riferimento, al contrario di quelli occidentali,
che lo percepivano come una realtà aliena.
Ancora nel XX secolo un intellettuale russo, Josef Brodskij (Nobel per la
letteratura nel 1987), è costretto a sottolineare quanto antistorica fosse la
pretesa di alcuni intellettuali sovietici di individuare una continuità tra
l’Impero Bizantino e l’Unione Sovietica.
Risulta però innegabile l’impatto che il mondo bizantino ebbe sull’Europa
Orientale, che eredita la prospettiva culturale del primo.
Per comprendere quanto netta sia la distinzione tra Est e Ovesti si pensi a
questo: nel 1791 Kant pubblicava la Critica della ragion pura, in cui si riflette
sulla natura libertaria dell’anima umana; due anni dopo (1793) il monaco
russo Passi Velitckovshi pubblica le Preghiere del cuore, in cui si esalta l’unione
tra spiritualità e sapere.
Come giustamente sostiene Aldo Schiavone dunque, delle due parti
dell’Impero solo quella ‘’non toccata dalla lunga continuità di Bisanzio e dalla
folgorante ascesa dell’Islam (avrebbe) conosciuto più tardi, la rinascita della
modernità’’.

PRESUPPOSTI IDEOLOGICI E FONDAMENTI GIURIDICI


DELL’IMPERO BIZANTINO

La storia di Bisanzio è caratterizzata dalla continuità, data da un persistere


della cultura classica scolpita nella mente dell’uomo bizantino.
Questa continuità non esclude una rottura, ma vi convive; a rendere meno
evidente la rottura è il fatto che questa sia avvenuta, a differenza che in
Occidente, senza sovversioni o rotture istituzionali.
Il mondo bizantino fu sempre caratterizzato da una dialettica tra
conservatorismo e rinnovamento, con quest’ultimo che non si frappose mai
alla ‘’ταξις’’, l’ordine tradizionale che si contrappone all’idea di rivolgimento
(‘’ταραχη’’ o ‘’νεωτερισμος’’).
Questo modo di misurarsi con la tradizione trova sviluppo nell’elaborazione
dell’ideologia imperiale, che si basava sulla concezione stoica di uomo
divino (‘’θεος ανηρ’’).
Questa concezione si legò poi alla visione cristiana del sovrano come ‘’sole e
salvatore’’, a cui si lega il culto della Τυχη imperiale: insomma l’imperatore
diviene l’eletto dalla Provvidenza a regnare su un Impero che diviene vera
città di Dio.
Importantissimo in questo senso fu l’apporto dell’Impero Romano, che
tradusse la monarchia in istituzioni politiche e strutture sociali.
Queste erano controllate da un sovrano che governava grazie alla propria
autorità morale, l’unico in grado di opporsi agli abusi dell’oligarchia e della
democrazia.
Come spiegato da Ronald Syme la stabilità e la concordia potevano essere
raggiunte proprio solo attraverso un sovrano che riunisse i poteri divisi
all’interno dell’ordinamento repubblicano.
Nel momento in cui Ottaviano, che sostiene di aver restaurato la repubblica,
diventa Augusto, nei suoi confronti si prova una devozione diversa da quella
che si nutre per un mortale.
Egli, artefice della pax deorum, si presenta come un rector e un moderator rei
publicae, ma la sua preminenza è dovuta da un aumento della sua auctoritas,
che si basa, come osserva Cicerone, ‘’sulla base delle proprie qualità spirituali e
morali’’.
Il princeps augusteo basa dunque il suo potere sulla combinazione tra
auctoritas e poteri legalmente conferiti; questa situazione cambia con la crisi
del III secolo d.C., quando dal ‘’principato’’ si passa al cosiddetto
‘’dominato’’.
Il principe smette di essere un primus inter pares, e diviene un ‘’dominus’’, il
depositario di un potere assoluto che non deriva più da una nomina terrena,
ma da un’investitura ultraterrena.
Si tratta di una concezione ripresa dal mondo ellenistico (che a sua volta
l’aveva mutuata dal mondo orientale), che fa venire meno la dialettica tra
principe e istituzioni.
Prende piede l’idea di sovrano come regolatore del mondo, ‘’Βασιλευς
ανηρ’’, che accentra su di se’ un potere autocratico: si tratta di una evidente
solennizzazione dell’elemento extramondano.
Questo comporta in primo luogo l’introduzione di un’etichetta, un insieme di
regole da osservare in presenza dell’imperatore: la προσκυνεσις orientale al
posto della salutatio romana.
Questa liturgia imperiale serviva, secondo Michael McCormick, ad unificare
il consenso tramite l’elaborazione di un linguaggio simbolico dello Stato; un
processo avviato già sotto Alessandro Magno e ripreso anche dalla dinastia
Sasanide in Persia (III secolo d.C.).
L’aura sacrale che ora avvolge il sovrano fa sì che entri in campo anche il
problema della trasmissione del potere.
Era infatti evidente, per chi riteneva la sovranità un’istituzione divina, che il
potere si sarebbe trasmesso per diritto di nascita.

LA TEORIA DEL POTERE IMPERIALE IN EUSEBIO DI CESAREA

Questa nuova concezione del potere si afferma definitivamente con l’avvento


del Cristianesimo, che accelerò la creazione di una ‘’teologia imperiale’’.
Il sovrano diveniva non solo il garante dell’ortodossia, ma anche il difensore
della nuova fede; ovviamente questo comportava una maggiore
intromissione in ambito religioso.
Costantino è il primo a convocare un concilio, quello di Nicea del 325 d.C.,
per risolvere alcune controversie religiose.
Costantino è il primo a capire che la nuova fede poteva essere la il mezzo per
risolvere la crisi morale e materiale della società.
Le persone vengono dunque poste all’interno di un nuovo orizzonte
cosmico, a cui senza dubbio deve molto la formulazione teorica di Eusebio
vescovo di Cesarea (265-340 d.C.).
L’opera di Eusebio permette di creare un forte parallelismo tra l’autorità
monarchica e quella divina: egli in sostanza riuscì a adattare la nuova fede al
vocabolario stoico.
Lo stoicismo infatti incarnava quegli alti precetti morali che i governanti
dovevano seguire al fine di imitare la divinità nell’esercizio del potere.
Plinio il Giovane definiva Traiano come optimus princeps e diis simillimus, la
monetazione di Adriano presentava la scritta Previdentia deorum.
Il mondo cristiano, per quanto ostile a quello della cultura pagana, aveva da
sempre cercato di inserire l’Impero all’interno della prospettiva tracciata dalla
Provvidenza (Tertulliano).
Alla minaccia esterna rappresentata dai barbari al confine, e agli elementi di
disgregazione interna, rispose il Cristianesimo, che riuscì a recuperare gli
ideali della Roma Aeterna.
Come ha osservato dunque Helene Ahrweiler, l’Impero divenne il baluardo
più sicuro contro il regno dell’Anticristo.
Alla base del concetto di autorità politica e di potenza imperiale la riflessione
di Eusebio pone il concetto di ‘’μιμεσις’’, la perfetta corrispondenza tra il
mondo celeste e quello terreno.
L’imperatore è il vicario di Cristo, una sorta di ‘’υπαρχος (luogotenente) del
Gran Re’’ e ‘’υποφετης (interprete) del Verbo divino’’; così l’ordine della terra
ripete quello del cosmo, inserendo l’Impero nell’οικονομια (economia) della
salvezza.
Nel trattato anonimo di età ellenistica Sulla regalità (II secolo d.C.) si può
leggere che ‘’Dio è il primo sovrano e capo per natura e per essenza; il re lo è per
divenire e imitazione. L’uno regna sul mondo intero, l’altro sulla terra’’.
Questi concetti vengono ripresi da Eusebio per definire una realtà precisa, che
come ha osservato Gilbert Dagron ‘’cessa di essere retorica per divenire politica e
storica’’.
Il sovrano ha in qualche modo il dovere di imitare Dio, in quanto, come
spiega Agapeto Diacono nelle sue Esposizioni di capitoli parenetici, chi
raggiunge un grande potere deve imitare ‘’Colui’’ che gliele ha elargite.
Tra ‘’Autocrate’’ e ‘’Pantocrate’’ esiste dunque un rispecchiamento: è Dio che
garantisce legittimità al potere del principe, che non è dunque solo il vertice
della società civile, ma anche il primo cittadino della società cristiana (votato
alla salvaguardia dell’ortodossia e alla difesa della vera fede).
Questa regalità sacerdotale, a cui si deve attribuire il prestigio di cui gode
l’Impero durante il Medioevo, porta il sovrano bizantino ad autoisolarsi
sempre di più dal resto della società.
Il sovrano si allontana dai comuni mortali, che davanti a lui erano obbligati a
rispettare quel cerimoniale descritto dall’imperatore Costantino VII
Porfirogentino (913-959 d.C.).
Con l’opera di Eusebio il sovrano romano acquisisce dunque una natura
sacrale che vedeva il Cristianesimo coincidere con la maestà di Roma.
La Chiesa ortodossa agì sempre in armonia con il potere imperiale,
contribuendo a rendere l’obbedienza mondana una forma di obbedienza
ultraterrena.

I LIMITI DELL’AUTOCRAZIA

Con l’avvento del Cristianesimo l’istituzione imperiale si trasformò dunque


in un’autocrazia, che però non assunse mai i tratti di un dispotismo, in quanto
continuarono ad esistere limiti e correzioni al potere del princeps.
Il potere imperiale conosceva un primo limite nel diritto romano, secondo cui
la res publica rappresentava un patrimonio politico più antico dell’Impero, che
doveva dunque tutelarlo.
Le leggi sono dunque, come afferma anche l’imperatore Leone VI nel IX
secolo, ‘’dottori e custodi della nostra esistenza’’.
L’imperatore secondo la legge è chiamato a governare una comunità, non a
guardare ad essa e alle sue risorse come ad un bene proprio: esso dunque
non è ‘’legibus solutus’’.
Il sovrano è sottoposto inoltre alle leggi naturali e divine: violarle equivale
alla formazione di un dispostismo; il compito del sovrano è quello di
‘’mantenere saldamente il volto della costituzione’’ scrive Giovanni Lido.
L’altro elemento temperante per il potere del sovrano è rappresentato
dall’esercito, che ebbe sempre un ruolo determinante al momento di eleggere
un nuovo sovrano.
Altrettanto importante fu ovviamente il ruolo del senato, i cui membri erano
nominati dall’imperatore, e che sempre più nel corso del millennio assume
importanti funzioni burocratiche.
Nonostante la libertà d’azione del senato era comunque molto limitata, esso
rimaneva comunque una compagine compatta e con ampia coscienza di se’.
L’altro elemento di limite per il potere imperiale era ovviamente
l’aristocrazia, che rappresentava una sorta di elemento di mediazione tra il
sovrano e il resto della popolazione.
All’interno dell’aristocrazia rimase poi in voga l’istituzione del patronato,
πρωστασια in greco, con cui membri di ceto medio si offrivano i loro servigi
agli aristocratici in cambio di favori e protezione.
La rete di clientele generata da questo fenomeno non comprometteva il
corretto funzionamento del governo, ma andava anzi a temperare
ulteriormente il potere del sovrano.
Si deve comunque ricordare che i sovrani bizantini ebbero sempre piena
coscienza del carattere legale della propria autorità, che conferiva loro il
compito di mantenere funzionante l’amministrazione e proteggere l’Impero
dalle minacce esterne.

NASCITA DI UNA CAPITALE

L’11 Maggio del 330 d.C. sorse sulle rive del Bosforo la ‘’nuova Roma’’, la
nuova capitale imperiale voluta da Costantino e destinata a portare il suo
nome: Costantinopoli.
La dedicatio della città permise alla piccola cittadina di Bisanzio (in origine
una colonia della polis greca di Megara), che Settimio Severo aveva posto
sotto il controllo della capitale provinciale (Eraclea), di elevarsi a nuovo
centro focale del Mediterraneo.
La scelta di Costantinopoli fu sicuramente dovuta a motivi strategico-
militari, anche se a differenza di quanto sostenuto da G. Dagron nel suo
Nascita di una capitale non si può sostenere che la fondazione della città avesse
fin da subito l’obiettivo di soppiantare Roma.
Alla data del 330 d.C. Costantino aveva già sconfitto definitivamente Licinio,
ma non aveva certo portato a termine il progetto di rinnovamento urbano che
avrebbe reso Costantinopoli la città più importante dell’Europa.
In origine la città non esercita alcuna funzione egemonica, e questo perché
l’Impero non è ancora una realtà divisa in due parti.
La fondazione della città ha originariamente uno scopo puramente pratico: il
primo imperatore cristiano voleva ricucire la dicotomia culturale tra le due
parti dell’Impero (quella latina e quella greca).
Costantinopoli non era stata pensata come ‘’rivale di Roma’’, bensì come suo
naturale prolungamento.
La fondazione è il mezzo con cui l’Imperatore rende però anche evidente la
crisi dell’Occidente e dell’Italia in primo luogo.
Oltre a ciò vi erano delle ovvie motivazioni economiche (l’Oriente era molto
più ricco dell’Occidente) e militari (la nuova capitale era più vicina alla
pericolosa frontiera mesopotamica, minacciata dai Persiani).

IL RUOLO DEL SENATO

Un ruolo decisivo nella nuova capitale venne esercitato ovviamente dal


senato, la cui presenza, assieme alla prefettura del pretorio, conferiva alla
nuova capitale uno status paragonabile a quello di Roma.
In nessun’altra delle capitali avute dall’Impero nel IV e nel V secolo d.C. vi
sarebbe stato un senato: questo ci dice molto sull’importanza che la città sul
Bosforo acquisisce.
In origine però quello di Costantinopoli non è un vero senato, quanto
piuttosto il ‘’senato di Costantino’’, un’assemblea di supporto all’imperatore
composta da quei senatori romani che provenivano dalle province orientali.
Con Costantino non ci sono ancora due assemblee senatorie, ma come detto
vi è solo un prolungamento di quello romano nella nuova capitale, che solo
nel corso degli anni successivi si trasforma da assemblea cittadina di 300
membri divine assemblea senatoria di 2000 componenti.
Inizialmente il senato di Costantinopoli ha ovviamente un prestigio minore
rispetto a quello di Roma: i suoi membri sono infatti detti clari, mentre quelli
romani clarissimi.
L’evoluzione del senato costantinopolitano terminerà solo nel IV secolo d.C.,
quando la βουλε cittadina diventa un senato parallelo e distinto da quello di
Roma.
A Costantinopoli l’accesso al senato avveniva per cooptazione degli altri
senatori o per nomina imperiale.
Se a Roma i senatori cooptavano tradizionalmente solo i loro figli, a
Costantinopoli i senatori erano scelti tra quei funzionari che rivestivano un
ruolo cruciale all’interno della burocrazia; ciò ha come conseguenza il fatto
che tra senatori e burocrati non vi sia una grossa differenza.
Si tratta di una differenza fondamentale, in quanto non è più un titolo che
determina una carica, ma una carica che determina il titolo.
Il senato di Costantinopoli non presentava un nucleo composto da grandi
famiglie aristocratiche, bensì i suoi membri sono fin da subito collegati con il
comitatus dell’imperatore.
La speranza di ottenere un incarico pubblico, condizione necessaria dunque
per accedere al senato, spinse numerosi membri della curia (i cosiddetti
curiali) a ricercare un incarico nell’amministrazione.
I consigli curiali, preposti all’amministrazione della giustizia e alla
manutenzione delle opere pubbliche, persero così i loro componenti più
facoltosi.
Questo obiettivo venne perseguito da tutti i membri dell’aristocrazia della
pars orintalis: così ‘’l’Impero delle città divenne l’impero di Costantinopoli’’.
Altra grande differenza rispetto all’Occidente è rappresentata dai mutamenti
che caratterizzano il ceto dirigente, che in Oriente è composto sia da
aristocratici che da membri di classi sociali più umili.
In Oriente si formarono due classi: quella degli illustres, superiore e che
avrebbe ottenuto il privilegio di accedere al senato; quella degli spectabiles e
dei clarissimi, i membri dell’aristocrazia di provincia.
Si riesce così ad individuare l’embrione di quel nucleo sociale
successivamente dominante nell’Impero, quello dei ‘’δυνατοι’’, che tramite
l’occupazione di incarichi amministrativi riuscivano ad espandere il proprio
patrimonio fondiario.
Nel momento in cui l’assemblea cittadina di Costantinopoli divine senato
anche la città cambia status: i suoi abitanti ottengono lo statuto di ‘’popolus
Romanus’’, addirittura alla metà del IV secolo d.C. nella città è presente
anche l’istituto del Prefectus Urbis (questo sovrintende gli uffici di polizia e i
lavori pubblici).
Anche il popolo di Costantinopoli riceve l’eredità di Roma: esso partecipa
allo spazio politiche durante il rituale di Palazzo per cui l’imperatore è
incoronato nell’ippodromo.
Il popolo concorre anche alla proclamazione tramite la pratica costituzionale
dell’acclamazione (‘’ευφεμια’’) o della deprecazione (‘’δυσφεμια’’), necessari
alla creazione del consensus omnium.
Con la successiva estensione a Costantinopoli delle antiche istituzioni
annonarie di Roma, che prevedevano la distribuzione gratuita del grano, la
città raggiunse la stessa posizione verticistica della città laziale.
Se dunque Roma era stata l’Urbs per l’Occidente, Costantinopoli diveniva ora
la Πολις per l’Oriente.

SVILUPPI DOTTRINALI E ORIGINE DEL PATRIARCATO DI


COSTANTINOPOLI

Divenuta residenza stabile dell’imperatore, sede di un senato, città persino


più popolosa di Roma, Costantinopoli era ormai posta sullo stesso piano
delle altre grandi metropoli dell’Impero.
Quello che però ancora le mancava era senza dubbio la consacrazione come
centro episcopale cristiano, che arriverà solo con il Concilio di Calcedonia
del 451 d.C., con cui Costantinopoli venne posta sullo stesso piano, in termini
di autorità religiosa, di Roma.
Il prestigio della capitale aumentò ulteriormente nel 476 d.C., quando la
deposizione di Romolo Augustolo ad opera dello sciro Odoacre pose fine alla
pars occidentalis; in questo modo la dignità imperiale rimase solo a
Costantinopoli.
Per quanto riguarda l’ascesa religiosa della città, essa ebbe inizio nel corso del
IV secolo d.C., quando ormai l’ordinamento religioso cristiano si era formato
sul modello dell’organizzazione politico-istituzionale imperiale.
Il sistema episcopale inizialmente riproduceva la rete delle città antiche,
mentre in seguito alla riforma di Diocleziano le province furono raggruppate
in dodici diocesi, che avevano per capitale la metropoli più importante della
provincia.
I seggi episcopali delle città metropolite divennero ben presto quelli più
importanti, i cui vescovi godevano dunque di un’autorità maggiore.
Le sedi metropolite più importanti erano quelle di Antiochia, Gerusalemme,
Roma, Costantinopoli e Alessandria: nacque così il cosiddetto sistema della
‘’pentarchia’’.
Inizialmente però Costantinopoli, quando ancora era ancora Bisanzio, era
posta sotto l’autorità di Eraclea: solo dopo il Concilio di Costantinopoli del
381 d.C. e quello di Calcedonia del 451 d.C. la città assunse uno status
verticistico.
Il percorso che porta a questa affermazione è però caratterizzato da profonde
controversie e dispute dottrinali, che portarono alla formazione di una
dottrina ortodossa di cui poi la Chiesa d’Oriente e l’istituzione imperiale si
sarebbero resi i principali custodi.

EBRAISMO, ELLENISMO E CRISTIANESIMO

La grande attenzione prestata alle relazioni tra paganesimo e cristianesimo


hanno relegato in secondo piano l’Ebraismo.
Come ha osservato Guy Stroumsa (1948), fu ‘’con armi ebraiche che il
cristianesimo conquistò l’impero romano’’.
Stroumsa osserva che l’identità religiosa del mondo tardoantico si costruì in
primo luogo tramite una rivoluzione antropologica ed etica attuata in primo
luogo dal popolo ebraico.
Il Cristianesimo, a differenza delle religioni antiche, non prevedeva
l’integrazione di altri culti (che comunque non dovevano contrastare quello
promosso dallo Stato): ciò determinò in primo luogo la nascita di un nuovo
‘’uomo religioso’’.
L’azione del Cristianesimo è però preceduta in qualche modo da quella
dell’Ebraismo, che però sarebbe rimasto confinato in Palestina.
Il Cristianesimo fu in grado di superare il particolarismo ebraico, ma allo
stesso tempo anche di integrare il pensiero pagano tardo antico e soprattutto
l’intellettualismo greco, acquisendo così un linguaggio sofisticato.
Questa capacità di conformarsi al quadro ideologico-istituzionale dell’Impero
fece sì che letteratura, retorica e filosofia greca divenissero parte del discorso
cristiano.
Ciò avvenne però a prezzo di profonde lacerazioni all’interno della Chiesa
stessa, che venne frammentata proprio a causa dell’esposizione ad un così
grande numero di diversi influssi culturali.
Anche se il messaggio della fede rimase unico, diversa risultò invece la
sistemazione intellettuale e terminologica.
Il Cristianesimo originario era più interessato all’affermazione della fede
(πιστις), che a quella della credenza (δοξα), in quanto alla prima erano
ovviamente connessi i contenuti salvifici.
In una comunità d’amore fraterno, espressa nell’eucarestia e nell’attesa
dell’avvento del Signore, il bisogno di redenzione trovava giustificazione
anche senza un apporto logico-filosofico.
Di fatto i primi cristiani erano credenti della persona divina di Gesù e della
sua divina missione, volta a liberare l’umanità dal peccato e all’aspettativa i
rivivere nel regno celeste.
La necessità di legittimarsi agli occhi dei ceti orientali porta però alla
necessità di definire il proprio corpo dottrinale rispetto a quello pagano e a
quello ebraico.
I cristiani cominciarono dunque a riflettere tradizionalmente sui contenuti
della propria fede.
Questa necessità emerse soprattutto a causa della paura dello gnosticismo,
che rileggeva i testi del Cristianesimo (sacri, apocrifi, canonici)
reinterpretandoli alla luce di una concezione dualistica basata sullo scontro
tra bene e male, con cui si superava il paradosso di un dio buono e del suo
mondo imperfetto.
Con il fine di ‘’creare un’aristocrazia dell’anima’’ (Giovanni Filoramo) lo
gnosticismo era in grado di supportare aspirazioni popolari e aristocratiche.
Per questo motivo il Cristianesimo fu costretto ad un duplice sforzo: insistere
su un insieme di testi canonici e allo stesso tempo contrastare le dottrine orali
ed esoteriche degli gnostici.
La base teoretica creata dal Cristianesimo, intrisa anche del pensiero delle
altre dottrine spirituali e filosofiche, riuscì così ad attirare verso di se’ quelle
élite cittadine e fondiarie che costituivano l’aristocrazia dell’Impero: ‘’il
risultato di questi processi culturali e istituzionali fu un sistema cattolico di
impronta aristocratica’’.
Il Cristianesimo si legava così a quell’aristocrazia che era allo stesso tempo la
componente della società più impegnata nella difesa dell’Impero, e che ora
diveniva anche una componente importante all’interno della struttura
ecclesiastica.
Sono numerose le storie di laici che, in alcuni casi ancora non battezzati o non
del tutto convertiti, vengono eletti vescovi a causa della loro capacità
intellettuali: si pensi a Sinesio (373-414 d.C.), eletto vescovo di Tolemaide a
causa della sua abilità nella difesa dell’Africa romana: ‘’non fu scelto l’uomo di
religione….bensì il soldato capace’’.
La Chiesa cristiana, nata inizialmente come forma di assemblea (εκκλησια),
diveniva così una parte integrante dell’organismo sociale: oltre a promettere
la vita e la salvezza dopo la morte, essa ora offriva anche possibilità di vita
pubblica.
Uomini come Sinesio, o Ambrogio (339/340-397 d.C.), vedevano nella carriera
ecclesiastica una valida alternativa a quella nelle strutture imperiali ormai in
decadimento.
La perfetta simbiosi tra l’aristocrazia e le strutture ecclesiastiche permise la
diffusione nelle città dell’impero del messaggio cristiano, ma allo stesso
tempo ciò permise la nascita di lacerazioni nella comunità cristiana.
Il dilagare di controversie tanto accese contribuirono, tra il IV e il V secolo
d.C., portò alla definizione di un’ortodossia capace di scontrarsi
dialetticamente con le posizioni eterodosse.
Nelle dispute non si poteva vedere solo il grande sforzo del Cristianesimo di
assimilare la cultura classica, ma erano messe in scena le dispute tra le
maggiori città del Mediterraneo.
I contrasti dottrinali condizionavano l’attività teologico-pastorale delle
principali sedi episcopali, ma acquisivano anche un’immediata valenza
politica, che spesso costringeva lo stesso imperatore ad intervenire.
Di fatto tra IV e V secolo d.C. le vicende interne dell’Impero possono
confondersi con la storia della Chiesa cristiana; da questa problematica
emerse la necessità di una episcopato dotato di istituzioni proprie.

LA CONTROVERSIA ARIANA E L’INTERVENTO IMPERIALE

L’esempio più celebre di intervento imperiale nelle controversie insite nella


Chiesa è quello del Concilio di Nicea del 325 d.C., indetto da Costantino, che
nel 313 d.C. aveva concesso (assieme al collega Licinio) la libertà di culto ai
cristiani.
Per evitare di creare faide capaci di sfociare in scontri aperti e di rendere il
Cristianesimo un elemento di discordia.
Dopo alcuni vani tentativi di risolvere le controversie, Costantino decise di
indire un concilio a Nicea (ai partecipanti fu permesso di viaggiare verso la
città con la posta imperiale), assumendo così in maniera definitiva al nuovo
ruolo di imperatore-cristiano obbligato a difendere l’unità dei cristiani.
Anche se la partecipazione del clero d’Occidente fu minima, al Concilio
presero parte anche vescovi provenienti da regioni non sotto il diretto
controllo dell’Impero, come Scizia e Persia.
Oltre che ‘’santo’’, il Concilio si definì anche ‘’grande’’, in quanto voleva
ribadire la sua valenza ecumenica.
Il tema più importante affrontato dal Concilio di Nicea fu senza dubbio la
dottrina di Ario (256-336 d.C.), influente membro del clero di Alessandria.
Questi, ricorrendo a delle posizioni razionaliste (influenzate anche dal
pensiero neoplatonico), aveva risolto il problema della Trinità sostenendo la
minore importanza del Figlio rispetto al Padre, a cui il primo era addirittura
subordinato.
Con questa posizione, che arrivava a mettere un grande limite alla divinità
del Cristo, non fu possibile trovare una mediazione, nonostante gli sforzi di
Costantino.
Dopo cinque settimane si arrivò ad un accordo secondo cui il Figlio era
ομουσιος (‘’consustanziale’’) al Padre, ma soprattutto si arrivò alla condanna
degli ariani, che venivano esclusi dalla liturgia eucaristica.
Sul piano dogmatico il concilio di Nicea fu fondamentale, mentre sul piano
amministrativo esso non apportò grandi novità: era stato Costantino infatti a
convocare l’assemblea, non un’autorità religiosa, e allo stesso tempo a
nessuna sede (nemmeno a quella di Roma) venne attribuito un prestigio
particolare.
Il concilio arrivò comunque a deliberare sulla disposizione organizzativa
della Chiesa, che arriverà alla sua forma definitiva solo sotto Giustiniano nel
VI secolo d.C.
Con i canoni IV e VI si ribadiva l’autonomia dei vescovi e le prerogative dei
vescovi di Antiochia e Roma.
La Chiesa antica aveva dunque organizzato la propria amministrazione su
base politica e non apostolica, un qualcosa che emerse chiaramente al tempo
del Concilio di Calcedonia del 381 d.C., in cui l’imperatore Teodosio I ribadì
la condanna dell’arianesimo e proclamò la divinità dello Spirito Santo.
A Calcedoni venne attribuita a Costantinopoli una posizione verticistica come
sede episcopale: il canone II infatti, oltre a confermare i privilegi dei vescovi
di Alessandria e Antiochia, si ribadiva il principio secondo cui ‘’i vescovi
assegnati ad una sede non debbono occuparsi delle sedi esterne ai confini a loro
assegnati’’, e si attribuiva al vescovo di Costantinopoli ‘’il primato d’onore
dopo il vescovo di Roma’’ (la Νεαν Ρωμην vedeva dunque riconosciuto il
proprio τιμη).
Il vescovo doveva dunque il suo rango alla maestà imperiale della città
fondata da Costantino, e per la prima volta si parlava di essa come ‘’Nuova
Roma’’: questo non solo esplicitava il progetto di renovatio imperii elaborato
da Costantino, ma ridimensionava le ambizioni di Alessandria, che a lungo
era stata il centro della cristianità più importante dopo Roma.

LE DISPUTE CRISTOLOGICHE TRA ESIGENZE SPIRITUALI E


AMBIZIONI POLITICHE

Nei settant’anni che separano il Concilio di Calcedonia da quello di


Costantinopoli (381 d.C. e 451 d.C. rispettivamente) si potette assistere al
trionfo della nuova capitale su Alessandria.
Questi decenni furono caratterizzati da grandi dispute teologiche e
dall’esuberanza delle sedi metropolite, che cercarono di imporre la propria
egemonia sulle altre.
Alle questioni trinitarie si aggiunsero in questi anni quelle cristologiche,
complesse in quanto coinvolgevano direttamente l’idea di redenzione del
messaggio cristiano.
L’idea di salvezza passava dalla visione di un Dio che, fattosi uomo, riesce
tramite la sofferenza a riscattare l’umanità dal peccato originale.
I dibattiti del IV secolo d.C. partirono da questa visione, facendosi di volta in
volta più sottili e complessi.
Pur vedendo in Cristo due nature, la scuola di Alessandria ne sottolineava la
la natura divina, mentre la scuola di Antiochia ne sottolineava la natura
umana.
Queste posizioni nel V secolo d.C. avevano cominciato a scontrarsi, e questo a
causa delle posizioni dell’antiocheno Nestorio (381-451 d.C.), patriarca di
Costantinopoli.
Egli proibì di chiamare Maria ‘’θεοτοκος’’ (‘’Madre di Dio’’), in quanto questo
tipo di espressione sconfinava per lui nel politeismo; per questo motivo egli
suggerì la definizione ‘’Χριστοτοκος’’ (‘’Madre di Cristo’’).
In questo modo Nestorio si inimicò la devozione popolare, che era molto
affezionata al culto di Maria, che in qualche modo aveva posto le sue basi su
quello della Grande Madre generatrice degli dei professato nel II secolo d.C.
Nestorio riconosceva in Maria solo la generatrice della natura umana di
Cristo, che si univa a quella divina in una sola persona (‘’προσωπον‘’) dotata
di entrambe.
Nestorio, che godeva dell’appoggio imperiale, venne condannato dal
Concilio di Efeso (431 d.C.), presieduto da Cirillo patriarca di Alessandria,
che si avvalse dell’appoggio degli inviati del vescovo di Roma.
I seguaci di Nestorio furono costretti a scappare nell’Impero Sasanide, dove
trovarono un regime tollerante e capace di far convivere i nuovi venuti con la
religione zoroastriana.
La questione delle nature di Cristo era però tutt’altro che risolta: gli sforzi
dell’imperatore Teodosio II per risolvere le contese non valsero a nulla, anzi,
il Concilio di Efeso non risolse le controversi, ma favorì il distanziamento
dottrinale delle sedi.
Alessandria infatti si arroccò sempre di più nella sua posizione che
privilegiava la natura divina di Cristo, che avrebbe assorbito la natura
umana: da qui nacque la dottrina monofisita.
Il monofisismo, inizialmente accolto da un concilio ad Efeso, venne in seguito
condannato come eresia dal Concilio di Calcedonia del 451 d.C., in cui per la
prima volta fu vigorosamente presente la sede romana.
Roma, Antiochia e Costantinopoli erano così unite nella lotta con la dottrina
monofisita alessandrina.
A Calcedonia si ribadì la duplice natura di Cristo, ‘’inseparabili’’, che
generano una sola persona e una sola ipostasi.
Questa armonia tra Occidente e Oriente permise di condannare la posizione
di Nestorio e costituire un equilibrio delicato, raggiunto tramite il ricorso alla
filosofia di Aristotele (talvolta improprio e confuso), riguardo la natura di
Cristo.
Nonostante ciò il Concilio di Calcedonia non fu in grado di evitare il primo
scisma nella comunità cristiana: quello tra dottrina diofisita e monifisita.
La causa della separazione va però ricercata in ragioni politiche, piuttosto
che in motivazioni dogmatiche.
Ciò appare evidente soprattutto quando si nota che fu proprio a Calcedonia
che si impose quella nuova organizzazione della pars orientalis basata sulla
supremazia di Costantinopoli, che mortificava nuovamente le ambizioni di
Antiochia e Alessandria.
Il canone XXVIII recita che la ‘’santissima nuova Roma’’ doveva ricevere
‘’privilegi uguali a quelli dell’antica città di imperiale di Roma, uguali in privilegi in
campo ecclesiastico’’.
Si riconosceva dunque al vescovo di Roma il primato onorifico nella Chiesa,
ma si sanciva anche l’equiparazione della sede romana a quella
costantinopolitana.
Veniva nuovamente relegato in secondo piano la tradizione apostolica, infatti
era la presenza dell’imperatore e del senato che rendevano Costantinopoli
degna di essere sullo stesso piano di Roma; inoltre la città era ora a capo di
un’ampia circoscrizione ecclesiastica.
In questo modo la nuova capitale fu in grado di far convergere su di se’ le
istituzioni politiche e quelle ecclesiastiche, ponendo le basi per la nascita dei
futuri patriarcati, nati al tempo di Giustiniano.
Dunque alla base dell’insuccesso del concilio calcedonese vi furono queste
motivazioni politiche, che di fatto causarono l’acuire del regionalismo, che
era nutrito dalle controversie religiose.
Di fatto già nel corso del V e del VI secolo d.C. era possibile cogliere un
embrione della cultura siriaca e di quella copto-egiziana, sviluppatesi proprio
a partire dalla diversa esperienza culturale.
Dopo Calcedonia più che alla riunificazione della Chiesa, si assistette alla
nascita del contrapposizione tra l’ortodossia costantinopolitana e le chiese
d’Egitto, d’Etiopia, di Siria e quella nestoriana in Armenia.

L’ASCESI MONASTICA

Mentre la Chiesa istituzionale cercava di imporre un dogma comune, mistici


e asceti si recavano nei deserti della Siria e dell’Egitto per ricercare una
maggiore comunione con la divinità.
Il primo monachesimo fu quello degli ‘’anacoreti’’ (αναχορησις,
‘’separazione’’), ovvero di coloro che si allontanavano dal mondo urbano,
rompendo totalmente con la società profana.
Partito da queste forme di eremitismo, il monachesimo cristiano si diffuse in
tutto il Mediterraneo, giungendo tra il V e il VII secolo d.C. anche in
Occidente.
Le manifestazioni monastiche non erano però proprie solo del mondo
cristiano, infatti già in Estremo Oriente, nel corso del V secolo a.C., la
meditazione buddista si era tradotta in un atto di distacco dalla realtà
materiale.
Senza volersi sbilanciare in un raffronto tra i monaci cristiani e gli antichi
monaci indiani (noti fin dai tempi di Alessandro Magno), si possono invece
sottolineare le somiglianze (evidenti anche a livello lessicale) con il pensiero
stoico.
Come dimostrato da Pierre Hadot, il rapporto tra la pratica monastica e i testi
sacri deriva direttamente dal rapporto tra i filosofi della Tarda Antichità con i
testi delle loro scuole.
Gli esercizi monastici recuperano dalla meditazione filosofica tardo-antica
l’idea di ‘’pratica di esercizi spirituali’’, ovvero la costante attenzione alla vita
interiore e alla meditazione sui precetti divini (in questo senso l’ascesi è una
pratica, intesa come ‘’allenamento’’).
L’esperienza monacale cristiana rispondeva inoltre a diverse esigenze insite
nella società, presenti soprattutto in quelle élite sociali formatesi nella
tradizione pagana e neoplatonica, le stesse che avevano accusato la nuova
fede cristiana di non avere una componente ascetica.
L’idea di ‘’resurrezione del corpo’’, che aveva un’importanza decisiva nel
mondo cristiano in quanto questo è ‘’ad immagine e somiglianza di Dio’’, era
contestata sulla base di quanto scritto da Plotino (203/205-270 d.C.), per cui il
risveglio dell’anima non avviene ‘’col corpo’’, ma ‘’dal corpo’’.
Il monachesimo cristiano fu in grado di mediare tra queste due tensioni, in
quanto capace di unire la meditazione filosofica ai motivi penitenziali di
tradizione ebraica.
La vita del monaco andava però oltre la semplice ricerca della solitudine e
l’abbandono della vita mondana, infatti egli infatti doveva porsi in un
atteggiamento di totale disprezzo del mondo.
Il monaco era un ‘’σολος’’, un folle, che rideva del mondo per criticare la
vanagloria; fu grazie a questo tipo di atteggiamenti che quella monacale
divenne l’esempio stesso di vita indirizzata alla perfezione, a cui invece non
poteva arrivare la Chiesa istituzionale, sempre troppo compromessa con il
mondo.
Inizialmente lo statuto esistenziale del monaco non era molto chiaro: monaco
era chi semplicemente abbandonava casa per vivere come il Signore, che
aveva affrontato le tentazioni del demonio nel deserto.
La ricerca di una forma di dominio e di autoperfezionamento rendeva il
monaco partecipe della guerra cosmica tra Bene e Male.
Un esempio molto celebre di vita eremitica è quello di Sant’Antonio (la cui
biografia è raccontata da Atanasio), ma si deve ricordare anche quello di
Pacomio, grazie al quale negli anni Venti del IV secolo d.C. nacque il modello
cenobita (κοινος-’’comune’’, βιος-’’vita’’).
Questo comportava l’abbandono della libertà individuale, sostituita da forme
di organizzazioni di tipo comunitario, il cui rispetto era controllato da un
abate.
I cenobi si moltiplicarono velocemente per tutto l’Egitto, e successivamente si
diffusero anche in Palestina e in Siria (anche se qui continuò a prevalere
l’anacoresi).
Successivamente, grazie all’opera di San Basilio di Cesarea (329-379 d.C.),
che accentuò il significato del vivere comune come contesto naturale della
vita monastica.
Secondo Basilio il modello cenobita era superiore in quanto esso rispecchiava
l’ideale della primitiva comunità di Gerusalemme, mentre nella solitudine il
monaco poteva commettere errori.
Basato sulla quiete interiore (ησυχια), il modello di Basilio, pensato di cenobi
di modeste dimensioni, prevedeva una vita basata sulla preghiera e su
attività manuali, oltre sullo studio della filosofia antica.
Si deve però notare che si trattava di un modello ancora molto aristocratico,
che permetteva ai monaci di poter divenire lo stesso vescovi.
Le esperienze cenobitiche non rimasero confinate nei deserti di Siria, Egitto e
Palestina, bensì conobbero una grande diffusione nell’Europa occidentale
nel IV e nel V secolo d.C.
Fu proprio qui, alla metà del VI secolo d.C., che essa conobbe l’originale
istituzionalizzazione nella Regola di San Benedetto da Norcia (480-547 d.C.),
grazie al quale i monasteri divennero centri di irradiazione religiosa e
culturale.

BISANZIO, PARS ORIENTIS DELL’IMPERO: DA COSTANTINO A


GIUSTINIANO

Mentre Costantinopoli si imponeva come seconda capitale, cominciando a


rivaleggiare con Roma, nel IV e nel V secolo d.C. tre questioni cominciarono a
tormentare l’Impero: la fine del paganesimo, le incertezze riguardo le forme
di successione al potere imperiale, il problema dei barbari.

PAGANI E CRISTIANI

Dal regno di Costantino in poi, fatta eccezione per il regno di Giuliano (360-
363 d.C.), i cristiani godettero di un appoggio sempre più esclusivo da parte
dell’autorità imperiale.
Questa tendenza conobbe il proprio apice con gli editti di Teodosio I, sotto
cui lo Stato cominciò a finanziare la Chiesa con numerose sovvenzioni; già
alcuni anni prima si era arrivati a dire che ‘’la nostra res publica è sostenuta con
più efficacia dal servizio di sacerdoti’’.
Le chiese episcopali cominciarono così ad accumulare gradi proprietà
fondiarie per esempio, che il potere pubblico cominciò a tutelare tramite
leggi e decreti.
I cristiani non vennero solo svincolati, nel 313 d.C., dai munera (i servizi
obbligatori per la manutenzione di strade/ponti/frotificazioni), ma gli
vennero attribuiti anche speciali competenze giurisdizionali.
L’inalienabilità del patrimonio ecclesiastico venne stabilita infine nei canoni
XXIV e XXV del Concilio di Calcedonia.
A ciò si aggiunse però l’aggravarsi delle misure oppressive contro i non-
cristiani, i cui culti, animati da una profonda religiosità, vennero addirittura
proscritti.
Vi fu comunque un tentativo di opporsi a questa rivoluzione religiosa,
operato dall’imperatore Giuliano, che portò avanti un programma di ripresa
dell’ellenismo, con cui tentò di impedire il trapasso dell’antica sensibilità
religiosa.
Giuliano era uno degli uomini più colti del suo tempo e anche un fervente
neoplatonico, si era convinto che il Cristianesimo avesse minato il progresso
civile dell’Impero.
Alla morte di Costantino, il padre e il fratello di Giuliano erano stati uccisi nel
337 d.C. (anno della morte di Costantino) da Costanzo II (337-361 d.C.), che
era stato poi eliminato dal generale barbarico Magnezio.
Giuliano venne proclamato imperatore nel 361 d.C. dalle legioni che aveva
condotto alla vittoria nella battaglia di Strasburgo (357 d.C.).
Giuliano aveva rinunciato al Cristianesimo, a cui era stato educato, per
portare avanti una nuova forma di politeismo, capace di adottare alcuni
aspetti della fede cristiana, come la gerarchizzazione dei sacerdoti.
Il ragionamento che Giuliano faceva nei confronti dei cristiani, secondo lo
storico Ammiano Marcellino (330-400 d.C.), era di questo tipo: essendo gli
antichi dei inscindibili dall’antica letteratura, chi non credeva in questi non
poteva insegnare il loro pensiero (egli infatti aveva in programma di
escludere i cristiani dall’insegnamento).
Lungi dall’essere accusabile di ‘’passatismo’’, la riforma di Giuliano cercò di
creare una convergenza tra il pensiero classico e l’antica religione olimpica,
cercando di unirle nel segno della conoscenza del divino.
Giuliano cercò anche di acuire i contrasti tra i cristiani e gli Ebrei, avviando
nel 361 d.C. il progetto di ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.
Nonostante il numero dei politeisti fosse ancora elevato, la riforma di
Giuliano non conobbe il successo che l’imperatore si augurava, a vincere
furono i vescovi, ormai utili (se non indispensabili) strumenti del potere
politico.
Il successo del Cristianesimo riuscì a vincere lo scontro con il progetto di
Giuliano in quanto meglio organizzato e soprattutto coordinato al potere
imperiale.
L’organizzazione della Chiesa cristiana si dimostrò un alleato valido: essa
infatti sovraintendeva la costruzione di ospedali, rifugi, ospizi.
Il progetto filantropico cristiano si inseriva in un clima di grande sensibilità
nei confronti delle categorie più deboli; un qualcosa che era stato notato dallo
stesso Giuliano, che su questo tema aveva discusso con Gregorio di
Nazianzio (329-390 d.C.).
Il primo sosteneva che le iniziative caritatevoli dei cristiani non fossero altro
che motivi di appariscenza, mentre il secondo rispondeva screditando le
iniziative filantropiche imperiali.
Da questa disputa emergono due considerazioni: l’edilizia filantropica
cristiana non si innesta su un vuoto culturale; il Cristianesimo, attraverso i
suoi istituti caritativi, riuscì a penetrare nel tessuto sociale.
I successori di Giuliano adottarono una politica di tolleranza dei culti antichi,
ma quando il trono passò nelle mani di Teodosio I la situazione divenne di
aperta persecuzione.
Nonostante Peter Brown (1935) abbia proposto di non enfatizzare la violenza
del processo di cristianizzazione, sono numerosi gli studiosi che hanno
osservato come un pensiero religioso indipendente fosse divenuto
impossibile.
L’Impero cristiano codificò tramite leggi la repressione del paganesimo, leggi
che resero impossibile quella coesistenza religiosa tipica del paganesimo.
Con l’editto di Tessalonica (380 d.C.) si negò ai non cristiani, indicati come
‘’malati di mente e pazzi’’ (‘’dementes vesanique’’), la possibilità di riunirsi in
templi o santuari pubblici.
Nel 381 d.C. venne addirittura vietato ai non cristiani di pubblicare testi e di
ereditare; a queste misure si oppose fortemente il principale esponente del
partito pagano, Aurelio Simmaco (340-402 d.C.).
I cristiani, divenuti da perseguitati a persecutori, adottarono misure sempre
più intransigenti nei confronti dei pagani, a cui Teodosio I nel 392 d.C.
impedì persino la pratica dei culti domestici, quelli dei lari e dei penati.
SUCCESSIONE DEL PRINCIPE E RIORDINAMENTI INTERNI

L’assetto statale bizantino aveva mutuato da Roma un sistema di trasmissione


del potere che teneva poco conto dell’ereditarietà, e che dunque rendeva la
situazione politica sempre potenzialmente instabile al momento della morte
di un sovrano.
Le norme stabilite da Diocleziano alla fine del III secolo d.C. rimanevano di
fatto in vigore: ogni imperatore (Augustus) si associava un erede designato
(Caesar), scelto tra i collaboratori più capaci.
Il successivo sistema della tetrarchia, basato su questo stesso principio ma
riferito ad un Impero di fatto diviso, inizialmente sembrò assicurare una certa
stabilità politica, ma alla fine non riuscì ad impedire situazioni di interregno,
causate spesso dalla sempre maggiore influenza dell’esercito.
Nonostante la propensione degli imperatori per un principio di ereditarietà,
nessuna legge riuscì a disciplinare la trasmissione del potere.
Solo con i successori di Basilio I, nel corso del X secolo d.C., riuscì ad imporsi
la concezione dinastica del potere imperiale, che si consolidò in maniera
definitiva con la dinastia dei Comneni.
Tra la morte di Costantino (337 d.C.) e l’avvento di Giustiniano nel VI secolo
d.C. si succedettero venti imperatori, una problematica che venne
compensata da un sistema burocratico ancora capillare e capace di ancora di
collegare il centro alle periferie.
La compattezza burocratico-militare che permise all’Impero di sopravvivere
risaltava parecchio, soprattutto se paragonata alle strutture tribali basate su
clan e nuclei parentali proprie delle popolazioni nomadi.
Costantino perfezionò il sistema elaborato da Diocleziano, caratterizzato
dalla separazione tra incarichi militari e civili, distinzione che aveva come
scopo quello di evitare che nella figura di un funzionario si concentrassero
troppi poteri.
Per quanto riguarda la sfera militare, ai limitanei, i soldati dislocati lungo il
confine (di solito truppe poco addestrate), si affiancarono i comitatenses,
ovvero le truppe che costituivano il comitatus, l’esercito permanente formato
da professionisti.
L’exericitus comitatensis era posto al comando di un magister militum e di
un magister equitum (uno al comando della fanteria e uno al comando della
cavalleria).
L’amministrazione civile venne invece organizzata sulla base delle province,
raggruppate in dodici diocesi, riunite in quattro prefetture: Oriente, Illirico,
Gallie e Italia; queste erano poste sotto l’autorità dei prefetti.
Questi magistrati provvedevano al funzionamento della pratica politica nelle
varie province, in quanto ‘’servitori del sovrano e al contempo servitori dello Stato
e del bene comune’’.
Essi erano proposti alla riscossione delle tasse e al corretto funzionamento
della posta e dei lavori pubblici, erano poi privi del comando militare e del
vettovagliamento dell’esercito.
Alle prefetture rispondevano i funzionari distrettuali, le cui figure ovviavano
al decentramento regionale.
Ai prefetti si affiancavano i titolari dei dicasteri di corte:

- Magister officiorum, preposto al controllo di tutto l’apparato amministrativo


imperiale e alla sicurezza personale del sovrano.

- Comes sacrarum largitionum, ufficio che ci conferma il progredire del volto


sacrale della corona, e il comes rei privatae: il primo era preposto alla
gestione del denaro appartenente alle casse dello Stato, mentre il secondo era
all’amministrazione del patrimonio privato del principe.

- Quaestor sacri palatii, responsabile delle questioni legali.

L’autonomia imperiale conosceva dei limiti, come ci è confermato ancora da


Giovanni Zonara (1074-1130) nel suo Epitome di storia, in cui biasima
l’imperatore Romano IV per aver trattato il tesoro dello Stato come un bene
proprio; questa è la conferma che non vi era una completa identificazione tra
Impero e imperatore.
Tornando ai funzionari citati sopra, essi rappresentavano i dignitari di rango
più elevato, alle cui dipendenze vi erano circa trentamila persone in grado,
grazie alle loro conoscenze giuridiche (acquisite in scuole di diritto come
quella di Beyritus, l’attuale Beirut), di far funzionare correttamente la
cancelleria imperiale.
Il mantenimento di questa articolata burocrazia era permesso da una forte
pressione fiscale sulle campagne e dall’introduzione dell’annona, che
prevedeva una tessa personale (capitatio) e una tassa di carattere fondiario
(iugatio).
Per consentire una preciso calcolo di quest’ultima era anche nato un catasto
generale, soggetto tra l’altro a controlli quindicennali; i funzionari bizantini
continueranno ad aggiornarlo fino alla fine dell’Impero.
L’ammontare totale dell’annona di un fondo era ottenuto sommando
l’imposta fondiaria con quella personale; per assicurare il pagamento gli
uomini erano vincolati al suolo.
Si veniva così a creare una nuova categoria sociale , quella del colono
(γεοργος), che si sarebbe estesa molto nel V secolo d.C. (anche se in Oriente
essi non divennero la classe maggiormente rappresentata).
L’obbligo che legava il coltivatore alla terra fu aggravato poi
dall’introduzione dell’adiectio sterilium (επιβολη των απορων), per cui le
terre incolte (adiectae) ai fondi produttivi con l’obbligo di coltivarle affinché
anche su di esse si pagasse l’imposta fondiaria.
Questo complesso sistema, formale espressione di quella responsabilità
collettiva fiscale, rese i membri di una medesima unità (tra l’VIII e il X secolo)
garanti per il pagamento delle imposte inevase.
Questo severo inquadramento trovava il suo corrispettivo nella severa
regolamentazione delle professioni cittadine, che divenivano addirittura
ereditarie.
Questi collegia (corporazioni) in origine avevano una connotazione
economica, ma con gli sviluppi del V secolo d.C. acuirono il loro elemento
coattivo.
Esse, da Costantino in poi, erano tenute al pagamento (in oro e in argento)
della χρυσοναργυρον ο lustralis collatio.
Questo tipo di riorganizzazione istituzionale e di pianificazione economica
produsse un irrigidimento della società, anche se ebbe diversi esiti in
Oriente e in Occidente.
In Occidente il rapporto tra città e campagna portò ad un deperimento della
prima, mentre in Oriente l’urbanesimo romano rimase vitale, e questo anche
perché la riforma monetaria bizantina produsse realmente una moneta
solida, in grado di dare stabilità al commercio.
In Oriente l’amministrazione centrale rimase in controllo delle province e dei
grandi proprietari terrieri: in sostanza il potere non si dissolse in una
pluralità di centri.

LE GRANDI MIGRAZIONI BARBARICHE

Nel IV secolo d.C. il mondo romano sembrava ancora in grado di resistere


alla pressione dei popoli barbarici, anche se già nel Le cose della guerra, scritto
al tempo di Costanzo II ( figlio di Costantino ) si diceva che l’Impero era
‘’minacciato da ogni lato’’.
L’Impero cercò di assorbire la spinta dei popoli esterni attraverso le solite
modalità politiche e militare, cercando di sfruttarne il potenziale bellico: i
barbari venivano reclutati come foederati nell’esercito romano.
Talvolta venivano anche accolti nelle campagne, una soluzione molto gradita
ai proprietari terrieri, che riuscivano così a ripopolare le campagne: in Tracia,
Macedonia e Nord Italia per esempio vennero stanziati trecentomila sarmati.
L’integrazione dell’elemento barbarico scatenò due reazioni: la prima fu
quella di chi, sviluppando un’ostilità etnica e culturale, si oppose
all’integrazione dei barbari; la seconda fu quella di chi, come il senatore
Temistio, sostenne con favore l’integrazione dell’elemento esterno.
Questo antagonismo coinvolse, alla fine del IV secolo d..C, anche il senato di
Costantinopoli; nel frattempo cominciarono a svilupparsi per tutto l’Impero
teorie apocalittiche per cui Unni e Goti erano portatori del male (i mostri
biblici Gog e Magog).
La situazione cambiò definitivamente a seguito della disfatta di Adrianopoli
del 378 d.C., in cui i Visigoti sconfissero e uccisero l’imperatore d’Oriente
Valente, costringendo il suo successore Teodosio I a venire a patti per salvare
l’Illirico.
Ai Visigoti fu permesso di rimanere all’interno dell’Impero, tra il Danubio e i
Balcani, come foederati che si impegnavano a sostenere, dietro compenso,
l’imperatore in caso di guerra.
Il programma di Teodosio venne ovviamente sostenuto da Temistio, che lodò
l’imperatore per aver ‘’riempito la Tracia di uomini anziché cadaveri’’ e per aver
dotato l’Impero di giovani forti e coraggiosi.
Nonostante gli sforzi di Teodosio (che diede in moglie la nipote al generale
vandalico Stilicone), questa politica di integrazione non funzionò in Oriente
anche a causa dell’ostilità della romanità ortodossa, che criticò la scelta di
accogliere all’interno dei confini un elemento di fatto autonomo.
Nel 395 d.C., alla morte di Teodosio I, l’Impero venne diviso tra i figli Onorio
(), che ottenne l’Occidente, e Arcadio (395-408 d.C.), che ottenne l’Oriente;
una soluzione che di fatto sembrava adattarsi al modello dioclezianeo
(commune imperium tantum sedibus).
Inizialmente dunque la separazione non fu avvertita come definitiva, infatti
lo divenne solo nel periodo successivo, a causa della disgregazione
dell’Occidente.
L’elemento germanico cominciò a divenire preponderante nell’esercito, come
dimostra la figura di Stilicone , che era stato nominato tutore dei figli di
Teodosio e magister utriusque militae.
Agendo come signore d’Occidente, Stilicone si attirò l’antipatia della pars
Orientis; egli venne infine eliminato quando, rimasto con pochi uomini dopo
aver sconfitto Radagaisio (capo di una coalizione di popoli barbarici) nel 405
d.C., cercò di accordarsi con il re dei Visigoti Alarico (370-410 d.C.).
Sospettato di volersi accordare con Alarico per sottrarre l’Illirico all’Oriente,
Stilicone venne assassinato nel 408 d.C.
Alarico, che era stato nominato da Arcadio magister militum dell’Illirico
(nonostante a Costantinopoli avesse prevalso ormai la posizione anti-
barbarica), si rivolse allora contro l’Occidente, che si era privato del suo
miglio difensore, e saccheggiò Roma (410 d.C.).
Il gesto ebbe un grande valore simbolico, come si può leggere nelle pagine
della Città di Dio di Agostino, in cui il vescovo di Ippona voleva rispondere a
chi accusava il Cristianesimo di essere la causa di questa rovina.
All’inizio del V secolo d.C. la crisi barbarica in Oriente era di fatto superata,
sia grazie alle maggiori risorse economiche e di difesa.
Seguendo le parole di Sinesio, che aveva spiegato che non si doveva
‘’scambiare i lupi per cani da guardia’’, in Oriente ai barbari non vennero più
riconosciute autonomie istituzionali.
Le popolazioni più minacciose, come Unni (prima) e Ostrogoti (poi), vennero
semplicemente pagate e dirottate in Occidente.
A Costantinopoli la cultura antica sopravvisse nella ben salda autorità del
principe, mentre in Occidente si assistette alla formazione dei cosiddetti
Regni romano-barbarici, i cui capi cercarono di favorire la collaborazione
dell’elemento germanico con quello romano.
Quando nel 476 d.C. il capo degli Eruli, lo sciro Odoacre (433-493 d.C.),
depose l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augusto e mise fine ‘’senza
rumore’’ alla romanità occidentale, ciò non comportò alcuna trasformazione
delle strutture tradizionali (come dimostra la vicenda di Sidonio Apollinare).
I Regni romano-barbarici si inserirono di fatto in un più ampio contesto di
trasformazione del mondo romano; allo stesso tempo, inviando al sovrano
d’Oriente Zenone le insegne imperiali, egli compiva un gesto simbolico
decisivo: egli voleva essere riconosciuto come restauratore dell’unità romana.
Egli per tredici anni governò l’Italia autonomamente, senza però mai ambire
ad un’aspirazione imperiale, attraverso una politica prudente, basata sulla
collaborazione tra le milizie germaniche (ariane) e l’aristocrazia senatoria
romana (ortodossa).
Odoacre , seguendo il principio dell’hospitalitas, concesse un terzo di tutte le
terre d’Italia ai suoi soldati e allo stesso tempo prese il titolo di patricius,
dietro cui si nascondeva l’intento di mantenere in vita la burocrazia composta
da funzionari imperiali e senatori.
Odoacre governò in questo modo sino al 488 d.C., quando Zenone gli inviò
contro gli Ostrogoti guidati dal loro capo Teoderico (454-526 d.C.), a cui era
stato attribuito il titolo di magister militum.
Teoderico sconfisse Odoacre definitivamente nel 493 d.C. e in seguito portò
avanti la sua politica di collaborazione, anche se con più successo e coerenza
(non senza che vi fossero frizioni con Costantinopoli).
Teoderico era di fatto rex per le sue genti e allo stesso tempo rappresentante
del potere imperiale per la romanità d’Italia: egli affidò dunque le cariche
militari e politiche all’elemento germanico, mentre quelle amministrative e
burocratiche ai Romani, come Cassiodoro, Severino Boezio (appartenente
alla nobile famiglia degli Anici) e il vescovo di Pavia Epifanio.
La raffinata burocrazia costruita da Teoderico è visibile all’interno delle
Variae, la raccolta delle sue lettere curata da Cassiodoro, in cui è evidente che
il re ostrogoto non volesse sovvertire l’ordine sociale, quanto piuttosto di
dotare il suo popolo della stessa cultura dei Romani (nella sua Historia
Gothorum, Cassiodoro scrive che Teoderico cercò di ‘’rendere romana l’origine
dei Goti’’).
Teoderico era stato educato a Costantinopoli, dove aveva subito la
fascinazione della cultura classica e del mito di Roma, che lo avevano spinto a
circondarsi di intellettuali nella sua corte di Ravenna.
Il tentativo di emulare Roma si poteva notare anche nell’attività edilizia, a
Ravenna/a Pavia/a Verona, dove egli cercò di porsi in continuità con quel
glorioso passato.
Si deve inoltre ricordare che Teoderico, ariano, trattò con il massimo rispetto
la Chiesa Romana.

LA RESTAURAZIONE GIUSTINIANEA

Salito al potere nel 527 d.C., l’imperatore di origine illirica Giustiniano (527-
565 d.C.) elaborò fin da subito il progetto di ricostituire l’unità dell’Impero.
Egli venne inizialmente associato al potere dallo zio Giustino (518-527 d.C.),
un oscuro soldato di origine macedone elevatosi grazie alle proprie abilità
personali fino ad essere nominato imperatore dal senato.
L’obiettivo di Giustiniano era quello di restituire all’Impero le regioni cadute
nelle mani dei popoli germanici, che avevano formato dei Regni come detto.
I territori rimasti invece sotto il controllo dell’Impero d’Oriente erano: l’Asia
Minore, la penisola balcanica sino al Danubio, il Chersoneso nel Mar Nero, la
Mesopotamia, l’Egitto, la Siria, la Palestina, l’Anatolia e la Cirenaica.
Anche in queste regioni esistevamo comunque degli elementi disgreganti,
come l’instabilità religiosa e la tensione sociale: inquietudini visibili
soprattutto a Costantinopoli, in primo luogo nell’Ippodromo.
Questo rappresentava il punto di raccordo tra il popolo e l’imperatore, e
quindi il luogo in cui il primo esprimeva il proprio assenso o dissenso nei
confronti del secondo.
Altrettanto grave era la tensione religiosa: con la scomparsa del paganesimo
non si era infatti assistito alla formazione di una società compatta
religiosamente.
La riflessione teologica cristiane e l’intensa attività di traduzione delle
Scritture incoraggiarono la competizione tra i centri culturali dell’Impero,
rafforzando le identità locali e minando la compattezza dell’ecumene
cristiano.
La chiesa nestoriana, accolta in Persia, si era di fatto dotata di una struttura
propria, che aveva al vertice il patriarca di Seleucia.
Molto preoccupante era anche la situazione in Egitto, dove l’ortodossia
calcedonese (detta anche ‘’melchita’’) si scontrava con la corrente monofisita,
che alla fine del VI secolo d.C. diede vita ad una Chiesa copta autonoma (il
cui esempio venne preso dai monofisiti di Siria, detta ‘’giacobita’’ dal
vescovo Giacomo Baradeo che l’organizzò).
Questa frammentazione religiosa arrivò a compromettere la stessa unità
imperiale, visto che interessi politici ed economici arrivarono ad intrecciarsi
con le rivalità tra le varie correnti.
A questa situazione di disgregazione cercò di porre rimedio proprio
Giustiniano, sotto cui l’Impero Bizantino raggiunse la sua massima
espansione nel segno della tradizione romana e dell’universalismo cattolico.
Se in politica estera l’obiettivo dell’imperatore fu quello di recuperare a se’ la
pars occidentalis, in politica interna egli cercò di limitare il regionalismo
attraverso un’intensa attività legislativa.
Giustiniano governò la chiesa con intransigenza, come dimostra il rapporto
con il vescovo di Roma: formalmente ossequioso nei suoi confronti, ma di
fatto pronto ad uniformare il papa al proprio volere (come dimostra la
vicenda di papa Vigilio), che come si legge nella Novella VI (535 d.C.) è
garante della ‘’massima sollecitudine circa i veri dogmi di Dio’’.
L’UNIFICAZIONE RELIGIOSA

Il tentativo operato da Zenone di riunificare il mondo cristiano tramite il


‘’Decreto di unione’’ (Ενωτικον) non aveva ottenuto il consenso di Roma, non
riuscendo dunque a porre fine alle discordie religiose, acuitesi poi al tempo di
Giustino, che aveva perseguitato gli anticalcedonesi.
Giustinaino, per superare le contese, cercò di arrivare ad un compromesso tra
calcedonesi e monofisiti proponendo un diofisismo attenutato, espresso
nell’editto imperiale del 543 d.C. noto come Editto dei Tre Capitoli, in cui erano
condannati i testi di Teodoro di Mopsuestia/Teodoreto di Ciro/Iba di Edessa,
che erano stati riabilitati a Calcedonia nel 451 d.C.
Contro questa decisione si scagliarono però le chiese occidentali, che difesero
il dogma calcedonese.
Nonostante questa opposizione Giustiniano procedette ostinato nella sua
posizione e decise di convocare un concilio ecumenico a Costantinopoli nel
553 d.C., dopo la quale ottenne anche l’adesione, seppur forzata, del vescovo
di Roma.
Il concilio ebbe comunque delle gravi conseguenze: papa Vigilio venne
scomunicato dalla Chiesa africana (occidentale) in quanto colpevole di aver
appoggiato l’imperatore.
Altro motivo di contesa provenne dalla Novella CIX, con cui veniva stabilita
definitivamente la struttura della pentarchia: Roma, Antiochia, Alessandria,
Costantinopoli e Gerusalemme.
Questo modello si scontrava però contro la vocazione primatista di Roma,
sede che contestò la scelta di indicare il patriarca di Costantinopoli come
‘’patriarca ecumenico’’ (a Roma spettava un primato etico e morale).
A partire dal V secolo d.C. però la chiesa orientale e quella occidentale
cominciarono a distinguersi, in quanto nella prima la suprema giurisdizione
ecclesiastica spettava solo al vescovo di Roma.
Con la propria azione Giustiniano andava ad integrare la chiesa nello Stato,
arrivando ad affermare che ‘’impero e sacerdozio non differivano di molto l’uno
dall’altro’’ (Novella VII) e che si trovavano in perfetta ‘’armonia’’ e
‘’coesistenza’’.
Non deve stupire che in una società così sensibile all’esperienza religiosa la
difesa dell’ortodossia avesse un ruolo politico; nella Novella CXXXII si
affermava che ‘’Noi crediamo che il primo e sommo bene di tutti gli uomini sia
la vera professione della retta e pura fede dei cristiani’’.
Nasceva così un Impero ortodosso in cui i canoni dogmatici e disciplinari
arrivavano ad avere valenza legislativa.
In questa nuova realtà ortodossa si era ortodossi solo se si seguivano i precetti
della religione e si viveva un’autentica vita cristiana anche in ambito laico.
Questa identificazione tra sfera laica e religiosa portò però a numerosi
equivoci e soprattutto ad importanti scontri teologici a causa di un potere
centrale sempre più pressante.
La pressione teologica determinata da un’intolleranza sempre maggiore ebbe
come conseguenza la creazione di quello che Hans-Georg Beck ha definito un
‘’sistema tirannico’’, in cui esistevano sudditi di seconda categoria, ovvero
quelli non-ortodossi.
Lo stesso sovrano si trovava però con le mani legate, in quanto costretto ad
utilizzare la persecuzione religiosa come strumento politico per contrastare
gli eretici, che divenivano di fatto nemici dello Stato in quanto contrari
all’ortodossia difesa da quest’ultimo.
Le province non ortodosse cominciarono così a privare della propria lealtà il
principe, così come le comunità ebraiche, anch’esse perseguitate almeno fino
all’epoca di Eraclio.
Alla posizione intransigente del defensor fidei Giustiniano si opponeva quella
quella di Cassiodoro, secondo cui non si dovrebbe imporre a nessuno di
credere in una religione.
La Novella CXLVI imponeva addirittura agli Ebrei di leggere l’Antico
Testamento dalla versione greca dei Settanta piuttosto che dalla versione
ebraica del Deuteronomio.
In questo modo si arrivò alla condanna violenta del Talmud, che ancora nel
1240 a Parigi continuerà ad essere bruciato pubblicamente.
In questo modo le comunità ebraiche, come quelle monofisite, cominciarono a
sentirsi estranee all’Impero; tutto questo mentre in Persia i nestoriani
potevano professare la loro fede in modo pacifico e allo stesso tempo
condannare nettamente il dogma della Trinità, influenzando così il
monoteismo islamico.

L’UNIFICAZIONE DEL DIRITTO

Giustiniano era grande eversore della filosofia ellenica, da lui ritenuta la


maggior responsabile delle eresie, motivo per il quale egli vietò a coloro che
fossero ‘’vittime della follia sacrilega degli elleni’’ di insegnare e chiuse
l’Accademia di Atene nel 529 d.C. (un atto puramente simbolico).
Nonostante quello che scrive Procopio nella sua Storia segreta, in cui si dice
che l’insegnamento del trivio (grammatica, retorica, dialettica) subì un
declino, il cristianesimo non si privò dei tradizionali mezzi espressivi.
Rimase in vigore l’insegnamento giuridico di alto livello, possibile
soprattutto grazie ad uno dei grandi prodotti dell’età giustinianea: il Corpus
Iuris Civilis.
Importanti scuole di diritto si trovavano a Costantinopoli, a Roma e a Beirut,
dove insegnavano professori pagati dallo Stato.
Dal tempo di Teodosio II a Costantinopoli esistevano tre cattedre di retorica e
dieci di grammatica greca, propedeutiche all’insegnamento universitario vero
e proprio di filosofia (una cattedra) e di diritto (due cattedre).
Sotto Giustiniano le cattedre di giurisprudenza divennero quattro, numero a
cui arrivò anche la scuola di Beirut.
Il desiderio di riorganizzare il diritto romano deve essere visto come il
momento più solenne del tentativo restauratore di Giustiniano, nonché come
il suo lascito più grande alla posterità, senza il quale non sarebbe stata
possibile la rinascita del diritto nell’XI secolo.
La necessità di mettere ordine nel diritto e nell’attività legislativa imperiale al
fine di snellire l’amministrazione della giustizia ispirò il Codex, la prima parte
del CIC, in cui sono presenti le principali costituzioni imperiali dell’epoca di
Adriano sino al 529 d.C.
La commissione di sette membri incaricata di raccogliere il materiale, guidata
dall’eminente giurista Triboniano (nominato quaestor sacrii palatii), presentò
al sovrano il lavoro proprio nel 529 d.C.
Seguirono i lavoro alle Digesta/Pandectae e alle Institutiones nel 533 d.C.: le
prime erano organizzate in cinquanta libri organizzati secondo il loro
contenuto (si tratta di testi o citazioni dai principali giureconsulti).
Il principio che aveva mosso i compilatori era l’idea che solo la legum
auctoritas potesse garantire un’ordinata vita sociale; lo scopo era invece
quello di garantire la certezza del diritto tramite i classici, e allo stesso
tempo recuperare la parte migliore del diritto romano.
Va comunque ricordato che delle duemila opere su cui lavorò la commissione
solo un ventesimo venne utilizzato per la redazione finale (più importanza
venne data ai giureconsulti d’età imperiale del II e III secolo d.C.).
I quattro libri delle Institutiones vennero compilati da una commissione di soli
tre membri, che cercò di canonizzare i testi per l’apprendimento
universitario (una finalità dunque didattica).
Nel 534 d.C. si arrivò ad una seconda stesura del Codex, mentre in seguito si
aggiunsero le Novellae Costitutiones, ovvero tutte le costituzioni emanate (in
greco) dall’imperatore dal 534 d.C. in poi.
Le Novellae Constitutiones rappresentano dunque l’unica parte non-latina del
CIC.

L’UNIFICAZIONE POLITICA

Il progetto di Giustiniano venne portato a termine con la riunificazione


(parziale) dell’orbis Romanus, ovvero la riconquista di quelle posizioni in
Occidente un tempo appartenute all’Impero di cui le aristocrazie della
‘’Nuova Roma’’ volevano divenire eredi.
Con una brevissima campagna nel 533-534 d.C. il generale romano Belisario
(500?-565 d.C.) conquistò il Regno dei Vandali (fondato un secolo prima da
Genserico) e portò a Costantinopoli lo sconfitto re Gelimero, che venne
risparmiato e a cui vennero donate terre in Galazia dove vivere con la
famiglia.
La facilità con cui la guerra vandalica fu vinta si spiega attraverso due
osservazioni: l’abilità militare di Belisario e l’incapacità dei Vandali di
fondersi con l’elemento romano, che avevano al contrario perseguitato in
quanto di fede cristiana-ortodossa (i Vandali erano ariani).
I Vandali avevano inoltre abbandonato alcune posizioni ritenute poco
difendibili (Numidia e Mauretania) in quanto troppo esposte agli attacchi
delle popolazioni berbere.
Dunque incapaci, a differenza degli altri Stati romano-barbarici, di fondersi
con l’elemento locale, odiati dall’aristocrazia romana (contro cui avevano
condotto diverse espropriazioni) e privi di strutture amministrative robuste, i
Vandali non furono in grado di contrastare l’azione militare romana.
Molto più lunga fu la campagna contro gli Ostrogoti in Italia, quella che è
passata alla storia come la guerra greco-gotica (535-553 d.C.), narrata da
Procopio nella sua Guerra Gotica.
Il pretesto utilizzato da Giustiniano per attaccare gli Ostrogoti fu lo
spodestamento dei legittimi eredi di Teoderico: ovvero la figlia Amalasunta
(figlia di Teoderico) e il di lei figlio Atalarico, eliminati politicamente dal
fratello del grande re, Teodato, nel 535 d.C.
Le cause della guerra vanno ricercate negli anni precedenti al 535 d.C.,
quando ormai i rapporti tra Teoderico e l’Impero erano già molto
compromessi a tal punto che lo stesso grande re cominciasse a sospettare
degli elementi romani della sua corte.
Questi furono imprigionati o addirittura uccisi (come Boezio), ed in seguito
sostituiti da personaggi delle élites gotiche, che cominciarono a guardare a se’
stesse come a degli elementi italici.
La resistenza dei Goti durò per vent’anni, durante i quali essi dimostrarono
grande abilità politica e diplomatica, arrivando anche ad offrire a Belisario il
titolo di imperatore d’Occidente, ma arrivando anche a concepire
l’instaurazione di nuovi rapporti sociali (un espediente utilizzato dal grande
re Baduila, detto ‘’Totila’’, per ottenere l’appoggio delle classi più umili
contro i Bizantini).
Dopo aver ottenuto diverse vittorie, Belisario subì la controffensiva di Totila,
che riuscì anche a riconquistare Roma nel 550 d.C., che Belisario aveva
occupato ancora nel 538 d.C.
Belisario, sospettato di tradimento, venne richiamato a Costantinopoli ed
inviato sul fronte persiano; il comando della guerra passò nelle mani
dell’eunuco Narsete (478-574 d.C.).
La guerra greco-gotica ebbe effetti devastanti sull’Italia ‘’impoverita di uomini
ancor più della Libia’’, soprattutto dal punto di vista economico, visto che di
fatto il ceto senatorio si era estinto nel corso del conflitto.
Per cercare di sollevare la situazione economica dell’Italia Giustiniano, su
richiesta di papa Vigilio, emanò nel 534 d.C. la Pragmatica Sanctio, con cui
venne avviata l’opera di riordino amministrativo dell’Italia.
Dopo aver restaurato l’autorità imperiale in Italia e Africa, Giustiniano si
rivolse alla Spagna, dove era appena scoppiata una crisi dinastica all’interno
del Regno dei Visigoti.
La campagna terminò nel 554 d.C. e portò alla conquista della Spagna sud-
orientale, da Valencia a Cadice; molto importante fu anche al riconquista di
Septem (l’odierna Ceuta),posta sulla costa africana, con cui l’Impero si
rimpossessava dello Stretto di Gibilterra.
L’Occidente non era però stato riconquistato del tutto: il Regno dei Franchi
non venne attaccato, anzi se ne ricercò l’alleanza; si deve comunque
sottolineare che le campagne giustinianee restituirono all’Impero il controllo
assoluto sul Mediterraneo e sul Mar Nero (cosa che agevolò il commercio che
andava verso Est e che arrivava in Cina).
Anche se Georg Ostrogorsky è arrivato a definire Giustiniano come ‘’l’ultimo
imperatore romano sul trono di Bisanzio’’, si deve sottolineare che seppur
restaurato, l’Impero Romano nei suoi ordinamenti politico-territoriali/
religiosi/ortodossi gravitava ormai intorno a Costantinopoli.
La riconquista dell’Italia, avvenuta secondo Paolo Cesaretti ‘’a danno
dell’Italia’’, portava alla riduzione dell’Italia a semplice provincia (cosa
avvenuta già al tempo di Diocleziano) priva degli antichi privilegi.
La perdita d’importanza dell’Italia si può cogliere sia nella nomina di prefetti
del pretorio e funzionari greci, sia nell’invito fatto nella Pragmatica Sanctio ai
senatori di raggiungere, senza restrizioni, la sede imperiale.
Il prestigio imperiale fu invece accresciuto dalla cristianizzazione: il concetto
di imperium coincideva ora, per l’imperatore e le aristocrazie, con l’ecumene
cristiano; la pax romana diveniva ora la pax christiana.
Questa maturazione della coscienza imperiale in senso cattolico si può notare
anche nella volontà del potere centrale di autorappresentarsi: si pensi ai
mosaici di San Vitale a Ravenna, dove Giustiniano è posto accanto a Cristo,
a Maria e agli apostoli.
A Costantinopoli, presso Santa Sofia, si affermò un fastoso cerimoniale
liturgico, denso di simboli e di lunga durata, in cui l’imperatore era posto
vicino al patriarca in tutta la sua maestà di autocrate del mondo cristiano
ortodosso.

I LIMITI DELL’UNIVERSALISMO GIUSTINIANEO

La restaurazione giustinianea aveva al suo interno delle lacune e dei difetti


non da poco, che sarebbero divenuti evidenti negli anni immediatamente
successivi alla morte di Giustiniano.
Il grande imperatore commise il grande errore di sottovalutare i Sasanidi e
anche la minaccia slavo-bulgaro.
I Sasanidi nel VI secolo d.C. si rafforzarono molto, soprattutto a livello
ideologico, dal momento che i sovrani persiani cominciarono a riprendere le
tradizioni degli Achemenidi e degli Arsacidi.
Il sovrano sasanide Cosroe I (531-579 d.C.) aveva rafforzato lo Stato
dotandolo di una chiesa mazdeista ufficiale (incentrata sul confronto tra tra
Ahura Mazdah, il creatore dell’universo, e il principe del male Ariman), di
una corte tollerante, fastosa e aperta al pensiero ellenico come a quello
indiano.
L’apparato amministrativo e quello fiscale furono riorganizzati nella capitale
Ctesifonte intorno alla persona del re.
Cosroe I si presentò dunque come il grande antagonista dell’Impero
d’Oriente, attuando contro Giustiniano una politica militare di aggressione
perenne, che costrinse i Romani a pagare ingenti tributi per ottenere una
pace umiliante per il prestigio dell’autocrazia bizantina.
La politica giustinianea ebbe conseguenze molto più drammatiche nei
Balcani, dove, nonostante la costruzione di fortezze e l’attività diplomatica, la
frontiera rimase debole.
Essa infatti era stata svuotata di uomini, che erano stati inviati a combattere in
Italia, dove la distruzione del Regno Ostrogoto causò la rottura di decisivi
equilibri politici.
Gli Ostrogoti erano infatti gli ultimi baluardi che ostacolavano l’avanzata dei
Longobardi in Pannonia e Italia.
Per quanto però effimeri e ineguali erano stati i principi della restaurazione
giustinianea, essi divennero un modello costante per l’Impero d’Oriente,
nonostante il suo destino per molto tempo si sarebbe giocato nei Balcani.
Il mondo bizantino non avrebbe mai smesso di guardare all’Occidente, forse
per il fascino del mito dell’antica Roma rispetto al quale la Nuova Roma aveva
ereditato le pretese universalistiche.
Questo divenne vero soprattutto alla fine del X secolo d.C., al tempo della
massima espansione medievale di Bisanzio, quando l’ideale di romanità
divenne qualcosa di più di un semplice strumento ideologico.
2) LA CRISI DEL SECOLO VII E L’EQUILIBRIO
SPEZZATO NEL MEDITERRANEO

Il VII secolo d.C. rappresenta uno dei momenti di massima difficoltà e di


maggiore rinnovamento della storia bizantina.
La Tarda Antichità si conclude con il lunghissimo regno di Eraclio I (610-641
d. C.), il momento in cui l’Impero diviene effettivamente ‘’bizantino’’,
smettendo di essere romano.
Il legame con il passato non si interrompe con Eraclio, tuttavia è proprio che
si generano i primi embrioni della Bisanzio medievale; una conseguenza a cui
contribuirono le migrazioni-invasioni slave e la nascita dell’Islam.
Le istituzioni e il territorio bizantino vennero trasformati da questi eventi, che
modificarono soprattutto la geografia del Mediterraneo, causando la
spartizione delle sue sponde tra la fede islamica (dalla Siria alla Spagna,
passando per l’Africa del Nord) e quella cristiana (area settentrionale).
Entrambe le fedi cominciarono proprio in questi secoli ad inoltrarsi in quelle
aree in cui nemmeno Roma si era spinta: oltre il Reno e il Danubio, poi fino in
Siberia nel XVI secolo il Cristianesimo; in Asia centrale sino all’India e al
Golfo di Guinea e nell’Africa Nera l’Islam.
Il VII secolo d.C. rappresentò un momento di grande difficoltà per Bisanzio,
ma non di ripiego assoluto, durante il quale l’Impero divenne ‘’bizantino’’
(Michael Hendy) e concentrò le sue forze nel Levante e in Asia Minore, le
aree vitali per la sua sopravvivenza.
Alla fine del VII secolo d.C. l’Impero non aveva perso solo Alessandria e
Antiochia, le sedi religiose rivali della capitale, ma vedeva anche ridotte le
sue posizioni in Occidente: fu così che nacque l’Impero greco, a metà tra
l’Occidente latino-germanico e l’Oriente islamico.
Nell’Impero continuarono a vivere popolazioni di origine differente, tuttavia
tra esse divennero dominanti la lingua e la cultura greca; questo non impedì
che all’interno delle alte gerarchie imperiali continuasse a rimanere in vita
l’ideale dell’universalismo giustinianeo , per cui l’imperatore era punto di
riferimento per tutta la cristianità.

PRIMI SINTOMI DELLA CRISI: SPINTE CENTRIFUGHE E CREAZIONE


DEGLI ESARCATI

Nel 610 d.C. come detto ebbe inizio il regno di Eraclio, circa un cinquantennio
dopo la morte di Giustiniano, un periodo durante il quale si era assistito alla
fine del progetto universalista, mandato in frantumi dalla crisi economica
(contro cui fu inefficace l’alterazione della moneta) causata dalle spese di
guerra (addirittura i mercenari non vennero pagati).
Il potere centrale era ora minacciato da spinte centrifughe, provenienti dalle
regioni monofisite, dal difficile rapporto con la cristianità occidentale, da
nuovi nemici esterni, come i Longobardi.
I successori di Giustiniano (Giustino II, Tiberio II e Maurizio) riuscirono a
resistere alle pressioni esterne, ma furono costretti a sacrificare buona parte
dell’Italia.
I Longobardi, che nel 568 d.C. invasero l’Italia guidati dal loro re Alboino
(530-572 d.C.), occuparono velocemente la maggior parte della Pianura
Padana, espandendosi successivamente verso Sud attraverso spedizioni
autocefale, che giunsero in Calabria e nel Bruzio.
La conquista longobarda ebbe delle conseguenze decisive per la società della
penisola, che vide definitamente rotto il suo legame col passato romano,
anche a causa dell’eliminazione quasi totale dell’antica aristocrazia terriera di
rango senatorio (quella dei possessores), che aveva continuato ad avere
rapporti con Bisanzio.
I Longobardi a differenza dei popoli precedenti non erano guidati da capi che
volevano il riconoscimento dell’imperatore, ma volevano solo conquistare,
anche se oggi gli storici cercano anche di sottolineare gli elementi di
continuità con il periodo precedente.
I possedimenti in Italia, ora una serie di territori discontinui e inframezzati
dal potere longobardo, vennero riorganizzati dall’imperatore Maurizio (582-
602 d.C.) nell’ultimo ventennio del VI secolo d.C.
Il potere in Italia venne organizzato intorno al ducato di Roma e all’esarcato
di Ravenna, e al suo vertice aveva un magister militum Italiae che divenne
exarchus Italiae, che riuniva in se’ poteri civili e militari.
Anche in Africa, per affrontare le incursioni berbere, venne creata la figura
dell’exarchus Africae; si deve sottolineare che già al tempo di Giustiniano, in
regioni come la Frigia, i poteri civili e quelli militari erano stati accorpati.
Fu però solo con Maurizio che i poteri militari accentrarono su di loro anche
quelli civili; questo sviluppo dell’istituzione esarcale portò alla riduzione del
potere della prefettura del pretorio, a cui vennero lasciate esclusivamente
funzioni finanziarie.
Questo tipo di sviluppo prefigurava l’affermazione di quello che nel VII
secolo sarebbe divenuto il sistema tematico.
La militarizzazione politico-amministrativa si accompagnò all’alterazione
dell’assetto della società italiana, dovuta in primo luogo alle necessità
difensive, che portarono alla costituzione di milizie italo-bizantine reclutate
su base locale dagli αρχοντες (gli ‘’arconti’’), termine con cui si indicavano i
membri di quel ceto medio di possessori di origine orientale stabilitisi in
maniera permanente nell’esarcato.
Questo intreccio tra possesso fondiario e gerarchie militari portò alla nascita
di una nuova aristocrazia, insofferente nei confronti del governo imperiale e
della Chiesa di Roma.
Nell’esarcato sorsero addirittura ambizioni ecclesiastiche autonomiste, nel
666 d.C., quando la chiesa di Ravenna chiese di ottenere l’αυτοχεφαλια
(‘’l’autocefalia’’), ovvero l’indipendenza giurisdizionale dal patriarcato
romano.
Questo peculiare sentimento, di cui ha parlato molto Andre Guillou, non
caratterizzava però solo l’Italia, ma interessava anche le altre chiese
mediterranee, desiderose di svincolarsi dal potere di Costantinopoli.
Questo sentimento autonomistico, fortissimo in Palestina/Siria/Egitto/Africa,
favorì senza dubbio la conquista araba, fece crollare il sistema universalistico
elaborato da Giustiniano, accelerando la transizione al Medioevo.

L’INSEDIAMENTO DELLE POPOLAZIONI SLAVE NEL TERRITORIO


BIZANTINO

Gli interessi di Bisanzio erano concentrati soprattutto nell’area balcanica,


minacciata fin dal tempo di Giustiniano dalle popolazioni slave, insediate
nell’area compresa tra il fiume Vistola e i Carpazi.
Oggi gli studiosi sono concordi nel sostenere che l’invasione degli Slavi e dei
Bulgari ebbe conseguenze decisive per la storia dell’Europa e di Bisanzio.
Queste erano cominciate già nella prima metà del VI secolo d.C., come
ricorda Procopio nella sua Storia segreta , in cui ricorda che Tracia e Illirico
erano state devastate da ‘’un’orda di sclaveni’’ nel 549 d.C.
Un’altra testimonianza, di qualche decennio successiva, è quella di Giovanni
di Efeso, che nella sua Storia della Chiesa scrive che gli Slavi erano dilagati in
Grecia nel 581 d.C. e che ‘’vi si installarono con la forza e senza alcun timore...E
ancora oggi sono costì impiantati e stabiliti’’.
Fino all’ultimo ventennio del VI secolo d.C. si costituirono, dalla penisola
balcanica sino al Sud del Peloponneso, le sklavinie, ovvero insediamenti
territoriali limitati e privi di scopi politici, che dunque lasciarono intatto il
limes danubiano.
Solo all’inizio del VII secolo d.C. le invasioni slave assunsero tratti realmente
minacciosi: l’entrata in campo dei Bulgari e degli Avari (una popolazione di
origine turca organizzata intorno ad un khan) fece crollare definitivamente la
frontiera.
L’efficacia dell’apparato difensivo fu ulteriormente messa in crisi dalla rivolta
di Foca (602-610 d.C.), un generale che si era impossessato del potere
imperiale con la forza, rovesciando (e successivamente eliminando)
l’imperatore Maurizio e i suoi seguaci.
Attiratosi l’antipatia dell’aristocrazia, Foca, che era stato incapace di difendere
la frontiera danubiana, venne rovesciato da Eraclio, figlio del patriarca di
Cartagine, appoggiato dal senato e dall’aristocrazia provinciale.
Eraclio si trovò a fronteggiare una situazione molto complessa: gli Avari
avevano appreso l’arte della navigazione (le loro imbarcazioni, le moxila,
erano scavate in un unico tronco), penetrando così nell’Adriatico/nell’Egeo/
nel Bosforo.
In questo modo un esercito composto da Avari/Gepidi/Bulgari giunse ad
assediare Costantinopoli nel 626 d.C., mentre ad Est le città e le campagne
dell’Impero erano devastate dai Sasanidi.
La capitale, assalita da Oriente da un esercito sasanide, riuscì a sopravvivere
grazie alla superiorità della flotta e alle difese terrestri, ma anche grazie
all’azione del patriarca Sergio I (565-638 d.C.), che secondo la leggenda
dispiegò sulla città la protezione della Vergine Maria.
Si deve segnalare che nel mondo orientale la venerazione mariana conosceva
sempre più seguito; in Occidente invece il culto di Maria si sarebbe imposto
solo dopo il IV Concilio Lateranense (1215).
Oltre al culto mariano trovava seguito anche quello dei patroni locali, alle cui
immagini miracolose (‘’αχειροτοιηται’’, ovvero ‘’non fatte da mano umana’’) ci
si raccomandava nei momenti di massima difficoltà militare.
Dopo la sconfitta sotto le mura di Costantinopoli , gli Avari scomparvero
dall’orizzonte bizantino, mentre i Bulgari (di origine mongolico-turanica)
accrebbero la loro forza e diedero vita, in Mesia, ad un regno bulgaro
indipendente controllato da un’aristocrazia militare ristretta, a cui nel 681
d.C. Costantino IV dovette pagare un tributo.
Contro questa realtà Bisanzio non utilizzò solo la forza delle armi, ma anche
la diplomazia, comprendendo che il prestigio che la propria cultura e la
chiesa ortodossa avevano un certo ascendente sui popoli stranieri.
Paul Lemerle ha sostenuto che la slavizzazione dei Balcani sia stato l’evento
più importante dell’Europa Orientale durante il VII secolo d.C., e sembra
quasi impossibile negare ciò, soprattutto perché ancora nel X secolo d.C. un
imperatore brillante come Costantino VII Porfirogenito scriveva che ‘’l’intera
regione fu εσθλαβωθε (‘’slavizzata’’) e di venne barbara’’.
Questa trasformazione determinò però un mutamento ‘’capitale e
misconosciuto’’, in quanto di fatto risolse uno dei problemi più grandi
dell’area balcanica: la penuria di uomini.
Lo spostamento degli Slavi ebbe tra le varie conseguenze anche quella di
rinnovare i rapporti di produzione agraria.

LA FALLITA RICERCA DELL’UNITÀ RELIGIOSA

Mentre gli Slavi si espandevano nell’area balcanica, in Asia lo shah sasanide


Cosroe II (590-628 d.C.) condusse una grande offensiva in Asia col pretesto di
vendicare l’assassinio di Maurizio da parte di Foca.
Cosroe II riuscì a conquistare in rapida successione la Siria, la Palestina ed
infine anche l’Egitto (613 d.C.), delle perdite che sconvolsero il mondo
religioso, soprattutto a seguito della perdita di Gerusalemme (614 d.C.).
Eraclio riuscì però a riunire attorno a se’ le forze vitali restanti dell’Impero:
egli riuscì ad ottenere, in modo forzoso, un prestito dalla Chiesa ortodossa
che gli permise di condurre una nuova campagna militare.
La guerra del 622-629 d.C. portò alla conquista di Ctesifonte e
all’annichilimento del potere sasanide, che perse anche tutti i possedimenti
precedentemente acquisiti.
Eraclio riconquistò dunque Gerusalemme e si rimpossessò delle reliquie
della Vera Croce, con cui sfilò all’interno della città santa (il primo imperatore
a visitarla fu proprio lui).
L’enorme ammirazione e prestigio che ottenne Eraclio lo resero agli occhi del
popolo il ‘’nuovo Davide’’ , il vincitore del secolare nemico persiano, il sovrano
che aveva permesso l’apparente vittoria totale della cristianità e della
grecità.
Il grande prestigio di Eraclio non pose però fine alle controversie religiose,
che continuarono a logorare l’Impero, che ora si trovava a fronteggiare anche
la nuova religione islamica.
In Siria, Egitto (cuore del monfosisismo) e Palestina la popolazione provava
una tiepida lealtà nei confronti del potere centrale, rispetto al quale provava
invece una certa ostilità.
Consapevole di questi problemi, Eraclio cercò di usare la propria influenza
come mezzo per giungere ad un compromesso teologico, che cercò di
proporre anche tramite l’appoggio dell’influente patriarca Sergio.
I due vollero superare le dispute facendo leva sulla forza agente di Cristo
(ενεργεια), distogliendo dunque l’attenzione dal discorso sulle due nature.
Il progetto ottenne inizialmente anche l’appoggio del papa di Roma Onorio I
(625-638 d.C.), che pretese, e ottenne, che si passasse dalla forza agente alla
volontà (Θελημα).
La proposta monotelista venne proposta da Eraclio nel 638 d.C. con un
‘’Esposto di fede’’ (‘’Εχθεσις της πιστεως’’), con cui si aggiungeva al dogma
calcedonese l’affermazione di una sola volontà.
Il compromesso di Eraclio non incontrò però il favore sperato, infatti il
monotelismo non fece altro che rinfiammare gli scontri: i calcedonesi
sostenevano che fosse un cedimento nei confronti dei monofisiti, mentre
questi rifiutarono nettamente la proposta eracliana.
Anche la Chiesa di Roma alla morte di Onorio I si oppose nettamente
all’Esposto: il successore del defunto papa, Severino, si rifiutò di appoggiare il
monotelismo.
Il successore di Eraclio, il nipote Costante II (641-668 d.C.), si scontrò
duramente con papa Martino I (649-655 d.C.), che era stato consacrato senza
il beneplacito bizantino e che aveva fatto condannare il monotelismo da un
concilio di vescovi italiani e africani riunitisi in Laterano.
Costante II rispose con un’ordinanza nel 648 d.C., il Τυπος, con cui si
proibiva di discutere ‘’intorno a due volontà’’; all’interno del clero africano si
distinse la figura di Massimo il Confessore, che distingueva in Cristo una
volontà umana e una divina.
Massimo, senza dubbio la figura più eminente a livello intellettuale, era tra
l’altro fautore dell’indipendenza della chiesa dal potere politico; una proposta
che inconciliabile con il tentativo bizantino di riaffermare il prestigio della
propria autocrazia , in cui l’imperatore reggeva il potere in comunione con il
Cristo pantocratore.
Molto importante ricordare il ruolo del senato in questa vicenda: esso infatti
era riuscito ad allontanare dal trono quelli che Eraclio aveva indicato nel suo
testamento come legittimi successori (la moglie e il figlio).
Nell’area italica la controversia monotelita aggravò una situazione già difficile
a causa della pressione longobarda e del malcontento a cui Roma non
riusciva a porre rimedio.
La difficoltà degli imperatori bizantini nel contenere le minacce esterne
favorirono poi i tentativi di emancipazione, come quello tentato dall’esarca
di Ravenna Olimpio nel 652 d.C.
Olimpio era stato inviato da Costante II a Roma per arrestare papa Martino I,
colpevole di non sostenere il monotelismo, tuttavia l’esarca rivelò lo scopo
della sua missione e cercò di impossessarsi dell’Italia.
A questo punto Costante II ebbe un pretesto per intervenire in Italia: inviò a
Roma il nuovo esarca Teodoro Calliopa (Olimpio era morto di peste mentre si
preparava ad affrontare gli Arabi in Sicilia) a catturare Martino, che venne
portato in catene a Roma.
La successiva conquista araba delle regioni orientali fece in seguito venire
meno l’esigenza di un compromesso religioso, e così nel IV Concilio
Ecumenico di Costantinopoli (680-681 d.C.) venne condannato il
monotelismo e restaurata l’ortodossia.
Nonostante questa disposizione fosse stata accettata dalla Chiesa di Roma, i
contrasti tra Occidente e Oriente erano diventati evidenti e in seguito
irreversibili.
Il conflitto tra papa di Roma e imperatore nascondeva una diversa concezione
del ruolo di quest’ultimo nelle due parti del mondo cristiano: ad Oriente esso
era il difensore dell’ecumene cristiana e aveva il potere/dovere di intervenire
in materia di fede, mentre nel mondo occidentale si stava sviluppando l’idea
che egli non dovesse avere voce in queste ultime.
A Oriente vi era dunque una ‘’chiesa d’impero’’, mentre ad Occidente una
‘’chiesa del papato’’.
Il contrasto si manifestò chiaramente nel corso dei secoli seguenti, quando
sulle questioni di fede il potere secolare venne subordinato a quella
religioso.
Il distacco fu dunque un processo progressivo, in cui ebbe sicuramente un
ruolo importante anche la conquista araba, con cui aveva fine anche il
sistema della pentarchia elaborato da Giustiniano.
Si costituì una diarchia Roma-Costantinopoli che avrebbe finito per favorire
l’ascesa della Roma papale.

IL TRIONFO DELL’ISLAM

Alla fine del primo trentennio del VII secolo d.C., grazie alle campagne di
Eraclio, era venuta meno definitivamente la minaccia persiana.
Un nuovo nemico però si era affacciato all’orizzonte: gli Arabi, che grazie alla
fede islamica si erano riuniti in un potente Stato teocratico (Dar al-Islam), che,
nel giro di qualche decennio, sarebbe arrivato ad occupare Siria/Palestina/
Egitto/Africa/Persia/Spagna (quest’ultima l’unica regione in cui la fede
islamica non si impose per la maggiore).

LA NASCITA DI UN NUOVO MONOTEISMO

Fino al VII secolo d.C. l’Arabia era solo un’estesa area geografica, le cui
popolazioni non avevano mai raggiunto una piena maturazione politica.
La penisola era abitata da popolazioni nomadi che si muovevano lungo le
grandi vie carovaniere, ma su di essa sorgevano anche dei grandi centri
urbani come la Mecca e Yathrib (la futura Medina).
La Mecca era una città densamente popolata e molto ricca in quanto centro
religioso comune (era infatti sede del culto pagano della Ka’ba, una pietra
nera di provenienza meteoritica esistente da tempo immemorabile).
Già prima della predicazione di Muhammad/Maometto (569/571-632 d.C.), il
mondo arabo stava ricercando delle forme di religiosità meno elementari, e la
prova di ciò sta nella diffusione dell’Ebraismo e del Cristianesimo nella zona.
Nell’oasi di Yathrib si era formata una grossa comunità ebraica, che era
divenuta dominante; mentre il Cristianesimo (monofisita) aveva attecchito
soprattutto presso le tribù beduine di frontiera.
Quest’ultimo però non era riuscito ad inserirsi a fondo nella società araba,
anche se esso, con la sua pietà escatologica, alimentò il desiderio di una
religiosità più profonda.
Kenneth Cragg, autore di un’importante storia dei cristiani arabi, sottolinea
come l’Islam riuscì, grazie ad un teismo più forte, ad affermare una ‘’fede
semitica tradita dalla teologia cristiana’’.
Oltre alle due grandi religioni del Libro però, esistevano anche le figure degli
hanife (‘’cercatori di Dio’’) , uomini dalla vita ascetica delusi dal politeismo
tradizionale, indicabili come ‘’musulmani ante-litteram’’.
Maometto nacque nel 569/571 d.C. alla Mecca, membro della potente famiglia
dei Quraishiti, che di fatto aveva in mano il traffico economico della città; va
detto che il futuro profeta apparteneva ad un ramo decaduto della famiglia.
Intorno ai quarant’anni (612 d.C.), mentre si trovava sul monte Hira per
pregare, Maometto ricevette la visita di un inviato del Signore, poi
identificato come l’arcangelo Gabriele, che gli ordinò di ‘’recitare, leggere ad
alta voce’’.
Da qui il termine ‘’Corano’’ (da al-Qu’ran, da qara’a, ovvero ‘’recitare’’), il testo
che riportava direttamente il ‘’Verbo di Dio’’, a differenza della Bibbia in cui il
λογος divino era divenuto uomo.
La chiamata divina portò Maometto a cominciare predicare il Corano, che
inizialmente venne solo recitato oralmente (la prima redazione scritta dei
6666 versi, ordinati in 114 sure/capitoli, risale al tempo del califfo Utman,
ovvero 644-656 d.C.).
La predicazione di Maometto entrò in contrasto con l’attività dei Quraishiti,
che con spirito sincretico volevano assorbire tutte le divinità adorate nel
tempio della Mecca, per realizzare intorno ad essa una sorta di unità politica
ed economica.
Maometto venne escluso dai diritti tribali e dalla vita sociale, e così nel 622
d.C., sentendosi minacciato, egli si diresse presso Yathrib, che assunse il
nuovo nome di Medina (‘’al-Madinat an-nabi’’, ovvero ‘’la città del profeta’’).
L’egira (higra o ‘’migrazione’’), l’evento da cui parte la computazione islamica
del tempo, segnò una svolta nella predicazione di Maometto, che cominciò ad
assumere toni politici e sociali.
Egli si pose al vertice di un nuovo genere di comunità, la umma, capace di
integrare gruppi etnici in una compagnia più ampia; a differenza della chiesa
cristiana delle origini, che era sorta al di fuori dello Stato romano, la comunità
musulmana fu il pilastro del potere politico islamico.
Se dunque, seppur con grande difficoltà, nel mondo bizantino imperium e
sacerdotium erano distinti, nel mondo islamico questa distinzione non
esisteva, in quanto si era generata una peculiare compagine teocratica, in cui
la fede islamica era la giustificazione del potere politico (questo comportò in
seguito grandi problemi di legittimazione).
Nel corso degli anni successivi all’egira, si andarono a chiarire sempre di più i
rapporti con il Cristianesimo e con l’Ebraismo, rispetto ai quali il Profeta
immaginava l’Islam come sintesi (nel senso hegeliano di superamento).
Inizialmente Maometto ricercò l’alleanza della comunità ebraica di Medina,
ma non la ottenne; per quanto riguarda invece il Cristianesimo, egli rimase
deluso dalla dottrina trinitaria.
Allo stesso modo però egli sancì che le ‘’Genti del Libro’’, Ebrei e Cristiani,
sebbene miscredenti potessero praticare la loro fede dietro il pagamento di
un compenso.
Dunque il mondo islamico, almeno nella sua fase embrionale, è caratterizzato
da una dimensione di tolleranza che manca nel mondo cristiano; solo nel
XVIII secolo, con il trionfo del wahabbismo () anche in Arabia si affermò una
forte e intransigente ortodossia.
Tuttavia per tutto il Medioevo il mondo islamico offrì rifugio a comunità
ebraiche perseguitate dal mondo cristiano e da cristiani dissenti.
Maometto portò fino alla sua morte avanti l’idea che anche gli Ebrei e i
Cristiani potessero partecipare all’umma.
L’Islam introdusse anche una nuova concezione di rapporti sociali, basata
non più sul vincolo di sangue e sulla solidarietà tribale, ma sulla qualità di
credente nel Dio unico.
All’interno di questa nuova società vi era anche una forte vocazione
guerriera, in cui l’entusiasmo religioso si fondeva con il ricorso alla razzia
tipico delle tribù beduine.
Nel 630 d.C. Maometto entrò a la Mecca, dove riuscì ad ottenere l’appoggio
dei Quraishiti, che riconobbero la nuova fede islamica e purificarono dai culti
politeistici la Ka’ba al fine di mantenere l’egemonia economica.
La fede islamica si basava in primo luogo sulla fede ab aeterno in un Dio
unico, onnipossente, non generato e non generante, ineffabile, totalmente
trascendente e non rappresentabile.
Nonostante la nuova fede andasse subito a polemizzare con la cristologia
classica (attaccando soprattutto la dottrina dell’incarnazione), essa
riconosceva a ‘’Gesù figlio di Maria’’ un ruolo significativo come ‘’messaggero e
messia’’, anche se ovviamente ne rifiutava l’equiparazione a Dio.
L’apparente semplicità dottrinale si accompagnava poi all’assenza di una
vocazione sacerdotale e alla sobrietà di culto, basato sulla preghiera
individuale e quella collettiva.
L’Islam si basava su cinque pilastri:

1) Professione di fede.
2) Preghiera individuale e collettiva.
3) Obbligo di corrispondere l’elemosina legale per l’assistenza ai poveri.
4) Digiuno diurno nel mese sacro di Ramadan.
5) Pellegrinaggio obbligatorio, per chi ne abbia l’opportunità, verso la Mecca.

Non viene nominata dunque la jihad, termine erroneamente tradotto con


‘’guerra santa’’, che si riferisce alla ‘’tensione’’ verso la divinità, ovvero lo
sforzo morale per avvicinarsi a Dio.
All’interno del testo coranico sono comunque presenti dei passi in cui si
dichiara legittimo l’uso della violenza contro gli infedeli.
Alla morte di Maometto nel 632 d.C. il primitivo mondo arabico era ormai
stato soppiantato da uno Stato islamico in cui si era realizzata un’efficace
simbiosi tra nomadismo e vita sedentaria.
Lo Stato era l’esito di un monoteismo assoluto che era fondamento delle
istituzioni stesse (nell’Islam classico non esisteva distinzione tra Stato e
Chiesa); nell’Impero Bizantino invece il potere politico era preesistente al
potere religioso.
Il codice di comportamento islamico era riuscito dunque a creare una società,
la umma, in cui erano state riunite tutte quelle che in precedenza erano tribù
prive di stabili strutture e in continua lotta fra loro.

ARABI E BIZANTINI IN LOTTA PER IL CONTROLLO DEL


MEDITERRANEO

Dopo la morte del Profeta ebbe inizio, nel 633 d.C., la grande espansione
territoriale araba, condotta nella speranza di ottenere beni celesti connessi
all’esercizio della jihad.
La prima offensiva (le direttrici dell’espansione araba erano tre) venne
condotta in direzione dell’Eufrate: l’Impero Sasanide venne conquistato e
così l’Asia si aprì all’Islam (sino all’odierno Turkestan cinese),
La seconda offensiva puntò verso Nord, dove gli Arabi si scontrarono con i
Bizantini, che vennero disastrosamente sconfitti nella battaglia di Yarmuk
(636 d.C.); nello stesso anno i Sasanidi erano definitivamente sconfitti nella
battaglia di al-Qadisiyya.
La vittoria a Yarmuk aprì agli Arabi la via della Palestina e della Siria, e solo
quattro anni dopo venne avviata la campagna di conquista dell’Egitto,
conclusasi nel 642 d.C. con l’occupazione definitiva di Alessandria.
La conquista della costa africana spinse gli Arabi ad avere una vocazione
mediterranea: i conquistatori islamici si dotarono di possenti flotte grazie
all’appoggio dei popoli conquistati, che gli fornirono i mezzi per devastare
luoghi strategici come Cipro, la Sicilia e Rodi.
Una flotta musulmana riuscì addirittura a sconfiggere la flotta bizantina
(guidata dall’imperatore Costante II, che tra l’alto aveva stabilito la capitale a
Siracusa) poco dopo la metà del VII secolo d.C.
La vittoria araba e la conseguente nascita della talassocrazia musulmana
comportarono, secondo la celebre tesi esposta nel 1922 dallo storico belga
Henri Pirenne, la trasformazione del Mediterraneo in un ‘’lago islamico’’.
Ciò avrebbe comportato la distruzione dell’unità del Mediterraneo, lo
sconvolgimento degli antichi modi di vita e paralizzato i traffici tra Oriente e
Occidente, spostando a Nord i centri vitali della civiltà europea.
L’Occidente sarebbe dunque rimasto isolato rispetto a Bisanzio, ripiegandosi
così su se’ stesso e su un’economia senza scambi, in cui la terra era l’unica
fonte di ricchezza.
Il commercio marittimo tra i due mondi per Pirenne impedito dalla presenza
nel Mediterraneo di flotte islamiche, sempre pronte ad azioni di guerra e di
pirateria.
Secondo Pirenne tutto ciò non sarebbe stato possibile se Bisanzio fosse stata
più forte, in quanto essa avrebbe potuto respingere gli Arabi e riconquistare
tutto l’Occidente: da qui il titolo provocatorio dell’opera di Pirenne, Maometto
e Carlo Magno (1937), in quanto se non vi fosse stato il primo, allora non
sarebbe esistito nemmeno il secondo.
La tesi di Pirenne è stata oggetto di ampie critiche, soprattutto perché oggi gli
studiosi hanno sottolineato che in realtà l’espansione araba non cancellò il
commercio marittimo (fonti latine parlano di navi arabe che gettavano
l’ancora presso i porti meridionali).
Lo stesso Costante II riuscì per qualche anno a contrastare l’espansione araba
in Africa: egli riuscì a riconquistare Cartagine e riaffermare il potere bizantino
nel Sud Italia.
La sua politica mediterranea non gli sopravvisse però, egli venne eliminato
da una congiura mentre si trovava presso Siracusa, che come detto voleva
rendere la nuova capitale dell’Impero.
Dopo la perdita di Antiochia e di Alessandria, Costantinopoli, come ricorda
lo storico Teofane (758-817/818 d.C.), si affermò come unica fonte di potere
sociale e politico.
Il progetto di Costante II di ristabilire l’egemonia imperiale partendo dalla
Sicilia venne velocemente abbandonato, e la flotta bizantina si ritirò nell’Egeo,
lasciando la Sicilia e l’Africa Nordoccidentale esposte agli attacchi arabi.
L’attività d’espansione di questi non si frenò nemmeno dopo la crisi politica
che colpì il mondo islamico alla metà del VII secolo d.C., alla morte del terzo
califfo (da ‘’khalifat rasul Allah’’, ovvero ‘’successore dell’inviato di Dio’’)
Othman (644-656 d.C.).
A costui succedette Alì (656-661 d.C.), cugino e genero del Profeta, che però
venne abbandonato dai sostenitori di Othman che ritenevano che
quest’ultimo fosse stato assassinato proprio da Alì.
La scissione determinò una frattura irreversibile nel mondo islamico: vi era
chi riteneva che il califfo dovesse essere eletto dagli anziani della comunità tra
i membri della tribù di Maometto (seguaci della sunna, o ‘’sunniti’’), e vi era
che riteneva che il califfo dovesse appartenere alla famiglia del profeta
(seguaci della shi’a, o ‘’sciiti’’).
Vi erano in realtà anche i kharigiti (diffusi oggi in Oman e Zanzibar), che
sostenevano che il califfo dovesse essere scelto tra i musulmani migliori,
indipendentemente dall’appartenenza tribale/familiare.
La lotta per l’egemonia, che di fatto opponeva anche i Quraishiti meccani ai
medinesi, sorrise ad Mu’awiya (603-680 d.C.), appartenente al clan meccano
degli Ummaya, che riuscì a sconfiggere i seguaci di Alì dopo la morte di
quest’ultimo.
Mu’awiya diede inizio ad un califfato ereditario (la dinastia Ommayade),
organizzatosi intorno alla città di Damasco e capace di dotarsi di un efficiente
apparato amministrativo, grazie al quale fu possibile proseguire l’offensiva
nel Mediterraneo.
Costantinopoli venne costantemente attaccata tra il 674 d.C. e il 678 d.C.,
anno in cui Costantino IV (668-685 d.C.) riuscì a respingere l’offensiva araba,
precludendole di avere sfogo nei Balcani.
Il califfato ommayade portò avanti le proprie azioni militari anche in altre
zone, arrivando fino al cuore dell’Asia centrale, dove vennero occupate le
città di Bukhara e Samarcanda (gli Arabi sconfissero i Cinesi nella battaglia
del fiume Talas del 751 d.C.) , e alla Spagna, occupata tra il 711 e il 718 d.C.
Sebbene ridotto a realtà regionale, l’Impero Bizantino rimaneva in grado di
contrastare gli Arabi per mare.
Il califfatto ommayade era invece una grande realtà unitaria, caratterizzata da
una possente vita urbana e da tolleranza religiosa, infatti, come si era già
ricordato, gli Arabi permettevano la pratica di ogni culto tramite il
pagamento di un tributo.
L’Islam dunque non cercò mai di imporre conversioni forzate, ma preferì
assegnare ai non-musulmani uno status giuridico inferiore rispetto agli altri
sudditi, lasciando in ogni caso inalterato il modo di vivere.
Gli Ommayadi continuarono a servirsi dei funzionari bizantini, e questo
almeno sino all’VIII secolo d.C., quando ormai l’islamizzazione era
completata.
Il califfato si dotò anche di un’amministrazione provinciale che aveva al
proprio vertice gli emiri (‘’amir’’), governatori che disponevano di ampi
poteri civili e militari e da cui dipendevano i funzionari locali, tra cui i qadi
(‘’giudici’’) e i collettori di imposte.
L’arabo si sostituì progressivamente al greco come lingua franca e le città
cominciarono ad essere definite dalle sagome delle moschee; a ciò si deve
aggiungere lo sviluppo di un precoce capitalismo mercantile, che dal 695
d.C. contava su monete auree (dinar) e argentee (dirham).
La rapidità e la vastità dell’espansione araba può essere comprese attraverso
diverse spiegazioni, che vanno oltre il semplice fanatismo religioso.
Senza dubbio l’entusiasmo religioso rappresentò uno stimolo possente, ma si
deve sottolineare quanto l’espansione fu facilitata dalla fragilità bizantino-
sasanide, dovuta ad un secolo di confronti militari tra le due superpotenze.
Paradossalmente l’annichilimento del potere persiano si era rivelato non un
trionfo, come aveva sperato Eraclio, ma un’enorme disgrazia.
Senza dubbio poi la conquista venne favorita dai profondi dissidi religiosi
interni all’Impero, che se non causarono la disfatta, quantomeno la favorirono
di molto.
Le regioni orientali reagirono passivamente alla minaccia araba, specialmente
nelle zone in cui il monofisismo e il nestorianesimo erano più forti.
Indicativo è senza dubbio il fatto molte delle fonti principali del VII secolo
d.C. siano monofisite; si tratta di testi in cui emerge l’idea che la conquista
araba fosse una ‘’punizione divina’’.
Un tono del genere è riscontrabile nell’opera dello storico armeno Sebeos e in
quella del patriarca di Nikiu (Egitto) Giovanni, che attribuisce la colpa della
conquista ai calcedonesi.
Nonostante questa espansione, la formazione di una grande realtà politica,
l’annichilimento di due grandi imperi, gli Arabi non riuscirono a conquistare
Costantinopoli.
L’impero uscì molto rafforzato dalla vittoria del 678 d.C., che spinse Mu’aiya
a sottoscrivere una pace trentennale con Bisanzio, che ebbe modo di
recuperare il proprio prestigio nei Balcani (nella capitale giunsero
ambasciatori di principi slavi e del khan avaro per riconoscere la supremazia
romana).
La riconciliazione con la Chiesa di Roma nel 681 d.C. , avvenuta nel segno
della condanna del monotelismo, venne indicata da Teofane come un
momento di successo dopo il quale ‘’una pace imperturbata regnava allora in
Oriente e in Occidente’’.

SVILUPPI ISTITUZIONALI E TRASFORMAZIONI SOCIALI A


BISANZIO

L’ortodossia dopo il 681 d.C., liberata dalle dispute teologiche, si poteva ora
confondere con la nazionalità.
Tuttavia il passo di Teofane riflette anche mutamenti interni alle strutture
bizantine, novità che portarono al definitivo trapasso del mondo antico e
all’abbandono del sistema provinciale elaborato da Costantino.
L’antico ordinamento basato sulla divisione dei poteri civili e militari declinò
progressivamente, sostituito dalla combinazione dei due poteri nella figura
di uno stratego (dal termine si comprende la preminenza della sfera militare).
Questa evoluzione trova la sua espressione istituzionale più compiuta nella
creazione dei θεματα (‘’themata’’), termine utilizzato per indicare le nuove
circoscrizioni territoriali ed amministrative, entro cui erano reclutati i corpi
d’armata e formati i quadri del governo principale.

LA MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ

Per quanto riguarda i themata, essi sono attestati già in un documento di


Giustiniano II risalente al 687 d.C.
Per comprendere l’origine del nuovo sistema si deve fare riferimento alla
Cronaca di Teofane e al trattato che ad essi dedica, il De thematibus,
l’imperatore Costantino VII Porfirogenito.
La nascita dei themata è un tema attorno al quale si è verificato un ampio
dibattito storiografico, in cui a scontrarsi sono sostanzialmente due posizioni.
La prima è la versione classica, quella elaborata da Georg Ostrogorsky (1902-
1976), secondo cui i themata erano il risultato di una coerente e sistematica
riforma elaborata da Eraclio.
Lo scopo era quello di sostituire alle vecchie province costantiniane un nuovo
ordinamento capace di unire i poteri militari e civili in una solo persona, lo
στρατεγος (lo ‘’stratego’’), di nomina imperiale.
Eraclio avrebbe poi collegato a questa riforma la questione del reclutamento
delle milizie locali, risolto tramite la concessione di terre a particolare statuto
fiscale (i ‘’beni militari’’), inalienabili, ereditarie ed offerte in cambio del
servizio militare (l’inadempienza avrebbe portato ad una riassegnazione delle
terre).
Questo sistema fu la risposta alle minaccia araba, il mezzo attraverso cui la
cristianità riuscì a sopravvivere.
Divenuto struttura portante della geografia politico-amministrativa
dell’Impero, le nuove circoscrizioni e il rinnovato esercito imperiale
(composto da στρατιοται, ‘’stratioti’’, ovvero soldati-contadini) permisero a
Bisanzio di uscire rigenerata dalla crisi del VII secolo d.C.
L’ipotesi di Ostrogorsky pare però oggi superata da una posizione che
vedeva nei themata non un progetto coerente, quanto piuttosto il punto di
arrivo di un processo lungo e progressivo.
Il processo cominciò probabilmente proprio al tempo di Eraclio, a causa di
esigenze militari, ma solo nel X secolo d.C. il sistema tematico comprendeva
l’intero quadro amministrativo bizantino.
Dopo la sconfitta di Yarmuk (636 d.C.) l’esercito bizantino si ritirò ad ovest,
dove ricevette ordine di non tentare più nessuna azione in campo aperto.
La confluenza in Asia Minore di quattro unità militari, l’esercito anatolico al
comando del magister militum per Orientem/l’esercito di stanza in Armenia al
comando del magister militum per Armeniam/l’esercito di stanza in Tracia al
comando del magister militum per Traciam/l’esercito di stanza nell’Ospikion (o
Obsequium in latino) al comando dell’imperatore (ma di fatto guidato da tre
magistri militum praesentales) permisero all’Impero di respingere la pressione
araba.
Ogni comandante di corpo d’armata concentrò nelle proprie mani i poteri
amministrativi del distretto in cui risiedeva, cosa che ebbe come conseguenza
la fine delle tradizionali articolazioni civili: fu così che il termine thema subì
un’evoluzione semantica, passando dal significare ‘’corpo d’armata’’ a ‘’distretto
territoriale’’.
Nacquero così per esigenza militare, senza una reale corrispondenza tra
nome geografico e designazione amministrativa: il thema degli anatolici
fronteggiava le invasioni dalla Siria; quello degli armeniaci proteggeva i
confini verso l’Armenia; quello dei tracesi e dell’Opsikion presidiavano l’Asia
Minore occidentale e Nord-occidentale.
Questo fu il primo nucleo della nuova organizzazione provinciale, che segnò
una svolta nello sviluppo istituzionale dell’Impero; si deve ricordare che
almeno sino all’inizio dell’VIII secolo d.C. abbiamo ancora traccia dei sigilli
dei kommerkiarioi (‘’κομμερκιαροι’’), funzionari incaricati di supervisionare
il commercio.
La presenza di questi testimonia, ancora nell’VIII secolo d.C., la presenza di
una burocrazia autonoma, che doveva assolvere funzioni all’interno dei
nuovi distretti.
Alla metà dell’VIII secolo d.C. i themata furono ridotti ad unità intellettuali pià
modeste (quelli posti non al confine vennero ridotti ad unità distrettuali più
modeste).
In questo modo si procedette all’allargamento dei poteri militari a spese
dell’amministrazione civile, incorporata del tutto nella gerarchia tematica;
questo processo terminò solo alla metà del IX secolo d.C., anche se per l’843-
842 d.C. è citatati a Creta uno stratego e un arconte in contemporanea.
L’interdipendenza ipotizzata da Ostrogorsky tra servizio militare e possesso
della terra sarebbe a sua volta una posizione erronea, in quanto tra la
creazione dei themata e quella dei ‘’beni militari’’ non vi sarebbe una
dipendenza, ma solo un’evoluzione parallela.
Anche la formazione delle στρατιοται χτησεις (‘’proprietà stratiotiche’’) fu
dunque un processo graduale.
Fu sempre al tempo di Eraclio che i soldati delle armate provinciali
cominciarono ad essere reclutati su base locale (la difficile situazione
economica fece sì che gli eserciti dovessero autosostentarsi).
Questo sistema di reclutamento locale esisteva però già negli esarcati d’Italia
e Africa, dove il servizio militare era legato al possesso della terra, da cui
viene ricavato il denaro necessario per l’equipaggiamento.
Già Costante II aveva concesso alle truppe ausiliarie slave delle quote di terra
imperiale in Asia Minore, così da poter provvedere alla coltura di fondi
abbandonati.
Dobbiamo supporre che la perdita di Siria, Egitto e Africa costò all’Impero la
perdita dei ¾ delle risorse finanziarie dell’Impero, cosa che spinse gli
imperatori ad inviare nei themata uomini che provvedessero alla difesa e alla
coltura delle terre.
Queste terre erano esentate dalle corvée pubbliche e dalle soprattasse di
carattere militare.
Solo nei secoli successivi venne istituzionalizzato il legame tra beni fondiari e
prestazioni militari, registrando i primi in appositi registri (‘’εν τοις
στρατιωτικοις’’) posti sotto la supervisione dello stratega.
In questo modo vennero a costituirsi eserciti indigeni reclutati su base locale
(composti da sei a dodicimila uomini) , il cui mantenimento in misura ridotta
sulle finanze pubbliche.
Questi erano composti da un ceto sociale preciso, quello degli στρατιοτες,
piccoli e medi contadini in grado di sopperire al modesto soldo ricevuto per il
servizio militare con i beni patrimoniali, che venivano trasmessi in eredità ai
figli assieme alla professione militare.
Questo esercito romano era inoltre composto da soldati professionisti, che,
sebbene avesse dei tratti ‘’nazionali’’, non aveva la configurazione di ‘’nazione
in armi’’ come nel caso dell’esercito califfale.

LA CRISI DELL’ORDINAMENTO URBANO


Il perdurante stato di mobilitazione portò ad un riordinamento interno
caratterizzato dalla crescita delle alte e medie gerarchie militari, sempre più
potenti e radicate alla proprietà fondiaria.
Questo rafforzamento comportò l’indebolimento dell’aristocrazia urbana e
senatoria.
La conseguenza principale della crisi economica fu però il collasso della vita
civica.
Si trattò di un fatto gravissimo, in quanto le città avevano conservato una
ruolo decisivo nella vita dell’Impero per il loro ruolo di intermediazione tra
provincia e centro dell’Impero.
Queste scomparvero quasi tutte, travolte dalla catastrofe del VII secolo d.C.;
una situazione degradante che coinvolgeva anche la capitale, divenuta ombra
di se’ stessa.
L’antico sistema di legami sociali e il carattere pubblico della vita quotidiana
che caratterizzava la dimensione urbana vennero dunque meno.
I dati archeologici confermano sulle sponde del Mediterraneo l’alterazione
del modello urbanistico greco-romano che nemmeno il Cristianesimo aveva
mutato significativamente.
La stessa Costantinopoli, sorta come Nuova Roma, era divenuto una capitale
cristiana senza che il tradizionale impianto urbanistico greco-romano venisse
traumatizzato.
Conosciamo ancora il programma edilizio di Giustiniano, grazie al De
aedificis di Procopio, che ci permette di inserire l’attività del grande sovrano in
una prospettiva ancora antica, per quanto fossero già presenti tensioni verso
il Medioevo; con l’VIII secolo d.C. l’assetto cittadino si trasformò.
I centri urbani sopravvissuti si trasformarono in castra fortificati, spesso in
concomitanza con l’abbandono della zona antica.
L’Impero smise di essere una costellazione di città e divenne un ‘’aggregato
di castra’’, di fortezze che avevano come scopo quello di ergersi a rifugio
della popolazione in caso di attacco nemico.
Un’involuzione urbana parallela al moltiplicarsi di centri urbani nel mondo
islamico.
La casa a peristilio (che spesso avevano anche cappelle private), il simbolo
della presenza aristocratica nella città, scomparvero del tutto al tempo di
Eraclio, quando cominciarono ad essere utilizzate come materiale di ripiego
o vennero suddivise in abitazioni individuali più piccole.
La pratica del riuso di centri civici e soprattutto la frequenza nelle abitazioni
di ergasteria, mescolati a case ricche a cortile (come emerso dagli scavi a Sardi
ed Efeso) provano la convivenza di ceti sociali assai diversi.
Notevole era anche il processo di trasformazione culturale, che fece venire
meno il significato simbolico che spazi ed edifici avevano nella città
protobizantina; si salvò parzialmente l’antico sistema viario (che venne
comunque complicato da strade e viuzze irregolari e costruite senza
maestria).
La crisi della città (che si cercò inutilmente di far rivivere nell’IX-X secolo
d.C.) rimane tutt’oggi un problema irrisolto, infatti si discute se questa fase di
decadenza portò ad una completa eclissi delle città o se invece riuscirono a
sopravvivere.
Oggi sembra più plausibile ritenere che rimase in vita una civiltà urbana
basata sullo scambio della moneta e dal rispetto di leggi e pratiche giuridiche;
una situazione differente rispetto alla coeva Europa occidentale.
Con la crisi dell’ordinamento curiale emerse una nuova organizzazione dello
spazio urbano e sociale, in cui si impose la figura centrale del vescovo, l’unica
figura in grado di inserire una gerarchia istituzionale nella città.
Questo è vero soprattutto alla luce del fatto che lo stratego non aveva una
sede fissa all’interno del thema, ma era sempre costretto a spostarsi per
esigenze difensive o di reclutamento.
La cultura urbana si sviluppò in modo unitario attorno all’ortodossia, che
permise di recuperare una forma di identità comune a tutti; non a caso il
Salterio sostituì Omero come testo per l’apprendimento della lettura.
In generale si assistette ad un regresso della letteratura secolare, riscontrabile
soprattutto nell’ambito della produzione storiografica: a scrittori come
Agazia Scolastico (536-582 d.C.) e Procopio si sostituirono alla fine del VII
secolo d.C. autori, provenienti dall’ambito monastico, di cronache scritte con
poca eleganza.
Esemplificative sono le parole di Giorgio Monaco (IX-X secolo d.C.), attivo
nel X secolo d.C., ‘’meglio balbettare secondo verità che seguire Platone con
inganno’’.
Questo regresso fu però temporaneo, infatti già alla metà dell’VIII secolo d.C.
e soprattutto nel IX d.C. si assistette al recupero della tradizione profana.
A Costantinopoli si assistette, alla metà del VII secolo d.C. alla scomparsa
dell’insegnamento universitario; quello elementare e quello superiore invece
continuarono ad esistere, ma cominciarono ad avere come fine quello di
formare funzionari statali che non avevano più a che fare con l’antica vita
municipale.
Con il tracollo urbano l’Impero da ‘’romano’’ diveniva realmente ‘’bizantino’’,
anche nella lingua: il greco infatti si era ormai imposto come lingua ufficiale
dell’amministrazione/dell’esercito/della corte, facendo dunque venire meno il
bilinguismo con il latino.
Fu proprio Eraclio tra l’altro a sostituire la titolatura imperiale latina con il
termine greco βασιλευς, a cui era di solito aggiunta l’espressione εκ θεου:
ovvero ‘’sovrano [per volontà] di Dio’’.

IL PREDOMINIO DELLE CAMPAGNE

L’altra grande trasformazione avvenuta nel VII secolo d.C. assieme alla
decadenza urbana è la ruralizzazione dell’Impero, in cui si moltiplicò
esponenzialmente la presenza della piccola proprietà agricola a conduzione
familiare.
Grazie a questo fenomeno l’Impero fu in grado di superare la crisi cerealicola
dovuta alla perdita dell’Egitto, il cui grano venne compensato tramite
l’espansione agricola in Asia Minore e Tracia; si leggano le parole del
patriarca Niceforo (758-829 d.C.) riguardo al VII secolo d.C., caratterizzato da
‘’fertilità della terra’’ e da ‘’basso prezzo delle merci’’.
Il rinnovamento rurale può essere spiegato attraverso due fattori: lo
sconvolgimento demografico dovuto ai movimenti di popoli e alla
liberazione di molti contadini dalla servitù della gleba.
Nel corso del VII secolo d.C. venne portata avanti una politica di
ripopolamento delle campagne tramite l’insediamento di popolazione slava:
al tempo di Giustiniano II vennero installati oltre trentamila Bulgari e Slavi in
Bitinia, in Tracia/Cilicia/Panfilia furono stanziati dei Mardaiti (gruppi tribali
montani di origine armeno-anatolica) , mentre a Mitilene furono dislocati
numerosi Armeni.
Questa mobilità demografica portò ad un aumento della mano d’opera
rurale, cosa che rese inutile vincolare il contadino al suolo.
In questo modo le campagne bizantine si riempirono di un ceto di medi e
piccoli proprietari terrieri indipendenti, debitori nei confronti del fisco
dell’imposta personale (καπτικον) e dell’imposta fondiaria (τελος).
Questa trasformazione accelerò la diffusione dei contratti d’enfiteusi, che nel
VII secolo d.C. divenne secondo Michel Kaplan il ‘’fatto dominante’’ assieme al
χωριον (‘’chorion’’), la comunità di villaggio.
L’enfiteusi, estesa a tre generazioni, era caratterizzata dalla totale
indipendenza del coltivatore, che era obbligato a pagare il proprio canone e
a pagare le imposte sulla terra, ma poteva decidere in totale autonomia
rispetto alla gestione della terra.
In questo modo l’enfiteuta poteva investire per migliorare il terreno,
divenendo proprietario delle migliorie stesse.
Questa situazione, in cui i piccoli proprietari terrieri aumentavano,
contribuiva all’aumentare delle entrate fiscali dell’Impero, in quanto rispetto
ai grandi possessori territoriali i contadini erano contribuenti migliori (cosa
che permetteva addirittura di abbassare l’imposta).
Ciò permise una crescita economica (che non produsse comunque un
perfezionamento delle tecniche agricole), su cui però si deve evitare di fare
generalizzazioni, in quanto su di essa si hanno ben poche fonti.
Gli studi di Michael Hendy hanno dimostrato la varietà della produzione nel
territorio imperiale: viti, olivi e cerali nelle zone costiere, allevamento nelle
zone dell’Asia Minore e dei Balcani.
La grande trasformazione rurale attraversata dall’Impero può essere colta
grazie ad una raccolta di giurisprudenza (di origine privata a redatta da un
compilatore anonimo) che la tradizione bizantina ha collegato all’attività degli
imperatori iconoclasti.
Si tratta del Νομος γεωργικος (‘’Codice rurale’’ o ‘’Legge agraria’’), una sorta di
guida pratica contenente consuetudini e casi concreti esposti in forma
semplificata.
All’interno del Codice emerge che alla base dell’organizzazione rurale vi fosse
il chorion, la ‘’comunità di villaggio’’, che determinava la struttura dello spazio
e dell’agro lavorativo.
Il chorion può essere definito come un habitat raggruppato in cui risiedevano
contadini liberi le cui dimore erano circondate da orti e proprietà individuali,
contigue tra di loro o incuneate tra possedimenti più ampi.
Sotto l’aspetto giuridico-istituzionale il chorion era un’unità contributiva
omogenea ne confronti del fisco pubblico circoscritta però da una
delimitazione ufficiale.
Il tratto peculiare del chorion bizantino stava nel fatto che i contadini traevano
sostentamento da fondi personali in loro possesso, per cui pagavano
individualmente gli oneri fiscali relativi.
Ma i contadini erano responsabili ‘’solidamente’’ verso lo stato dell’imposta
dovuta degli abitanti del villaggio che risultavano inadempienti nei confronti
del fisco.
Gli articoli 18 e 19 del Codice rurale riflettono bene questa realtà, in essi infatti
si spiega che se un contadino scappa per evitare il pagamento dell’imposta,
allora è lecito per chi reclama questa raccogliere i frutti del terreno senza che
il fuggitivo possa pretendere un risarcimento.
Le conseguenze principali di questo sistema furono: l’assimilazione del diritto
di proprietà al dovere del contribuente, il modesto rilievo attribuito
all’amministrazione pubblica alla resa economica della terra.
Nella prospettiva dello Stato bizantino definire l’assetto proprietario di un
fondo dal punto di vista giuridico è meno importante rispetto allo stabilire lo
statuto fiscale.
È lo Statuto fiscale infatti a governare la sorte del suolo, in quanto ‘’si
trasferisce la terra come conseguenza del trasferimento dell’imposta e non viceversa’’;
in altre parole,, è l’imposta dovuta a definire la superficie imponibile e non il
contrario.
Da un punto di vista istituzionale la solidarietà fiscale del chorion appare
come l’evoluzione della pratica dell’adiectio sterilium (), ma allo stesso
tempo, dal punto di vista economico, essa mette in evidenza le
diseguaglianze che esistevano tra i vari componenti della comunità.
Anche se di fatto queste cominciarono ad avere un reale peso solo nel corso
del X secolo d.C., quando il potere centrale fu costretto a definire con più
precisione i meccanismi della solidarietà fiscale.
Non esiste niente come un versamento collettivo dell’imposta, il pagamento
dell’imposta rimaneva un compito individuale e commisurato alla qualità e
alla quantità della terra posseduta.
Il villaggio era comunque dotato di una propria personalità giuridica e
morale (‘’η κοινοτης του χωριου’’), che gli consentiva di intentare processi,
reclamare e possedere terre (una sorta di fondo di riserva).
Esisteva dunque una sorta di minima organizzazione comunitaria, in grado
di superare i semplici legami di vicinanza: esisteva per esempio la figura del
mandriano comune.
Il chorion rappresenta dunque, dal VII secolo d.C., l’elemento costitutivo della
società rurale bizantina, anche se a livello produttivo esso non era l’unità di
base, che rimaneva l’azienda familiare.
Le indagini archeologiche condotte da George Tate e da Jean-Pierre Sodini
nella Siria del Nord, che hanno dimostrato materialmente come l’azienda
familiare fosse il cuore dell’attività rurale (gli scavi hanno infatti evidenziato
uno sviluppo del territorio basato su un tessuto continuo di isole abitative).
La casa contadina può essere vista come una sorta di unità chiusa in se’
stessa, distinta dal villaggio; senza dubbio questa compattezza familiare era
dovuta al controllo dell’autorità a livello fiscale.
La dimora rurale appariva conforme ai modi di sfruttamento del suolo: al
piano terra vi era la stalla, il ripostiglio e gli strumenti di lavoro; al piano
superiore vi erano invece le abitazioni.
L’espansione della piccola e medie proprietà terriera ebbe come conseguenza
la diminuzione del grande dominio fondiario, laico ed ecclesiastico, che
però non scomparve.
Il Codice rurale sottolinea anche il permanere della grande proprietà statale,
controllata tramite dei funzionari nominati dal potere centrale, ma la cui
conduzione era indiretta, in quanto affidata a contadini dipendenti, i
παροικοι (‘’paroikoi’’).
Legati alle terre da coltivare, questi avevano una grande capacità giuridica
grazie alla quale potevano potevano sposarsi liberamente e testimoniare, ma
potevano anche possedere animali.
Nel grande possesso fondiario dominava invece lo sfruttamento del suolo
attraverso la piccola azienda familiare.
Come i patrimoni statali ed ecclesiastici, anche i grandi fondi individuali
furono suddivisi in molteplici lotti, contraddistinti dalla conduzione
indiretta.
I membri dell’aristocrazia fondiaria, residenti quasi sempre nella capitale o
nelle grandi metropoli regionali, che erano interessati non ad investire nelle
terre, quanto piuttosto a trarre risorse da esse.
Questo ceto era presente sicuramente nell’VIII secolo d.C. (lo testimonia la
legislazione, ma anche l’Ecloga di Leone III), tuttavia essa ha cambiato natura,
a causa della crisi che aveva travolto l’aristocrazia senatoria e municipale.
La crisi di questa era dovuta anche all’enfiteusi, ma soprattutto alle
devastazioni belliche e dalla distribuzioni di lotti ai soldati presenti nei
themata.
La perdita dell’Egitto, la distruzione e le razzie in Asia Minore e nei Balcani
depauperarono e danneggiarono la grande proprietà.
L’aristocrazia tradizionale non sopravvisse alla rovina finanziaria, e così se
ne costituì una nuova, congiunta al sistema tematico.
Si trattava di un nuovo ceto aristocratico di origine provinciale, i cui membri
erano di derivazione armena, persiana e siriaca.
Si tratta di quella élite di alti dignitari e funzionari dello Stato abile nel trarre
ricchezza e potere dall’uso dell’autorità pubblica e dal legame con l’autocrazia
imperiale, che le fonti del X secolo d.C. descrivono come in competizione con
la piccola e media proprietà terriera (nell’VIII secolo d.C. essa però era
solidale con queste).
3) LA RICERCA DI DIFFERENTI EQUILIBRI NEI
RAPPORTI TRA AUTOCRAZIA E CHIESA:
LA CONTROVERSIA ICONOCLASTA (711-843 d.C.)

All’inizio del VII secolo d.C. l’Impero d’Oriente comprendeva ancora l’Africa
settentrionale, la Mesopotamia, la Palestina, la Mesopotamia e l’Asia Minore;
già però all’inizio di quello seguente, l’Impero aveva abbandonato ogni
ambizione universalistica.
Divenuto ‘’bizantino’’ l’Impero aveva spostato il suo centro in Anatolia, si era
arroccato intorno alla sua capitale, aveva concentrato le sue forze in Oriente e
aveva cominciato a guardare all’Occidente con un senso di estraneità (fatta
eccezione per Sicilia e Italia meridionale).
Nel tracollo della tradizione romana, l’Impero riuscì a rinsaldarsi nel
richiamo al modello imperiale ellenistico, grazie al quale l’autocrazia
bizantina riuscì a resistere ai nemici esterni (Slavi, Bulgari, Arabi) e a
confrontarsi con un nuovo rivale imperiale, il Sacro Romano Impero nato
nell’800 d.C. con l’incoronazione di Carlo Magno (742-814 d.C.) a Roma ad
opera di papa Leone III (795-816 d.C.).
Affrontato lo sfaldamento della società municipale, la trasformazione agricola
e la ricerca di equilibrio tra piccola/media proprietà terriera e latifondo,
l’Impero, a partire dal IX secolo d.C., passò dalla difesa alla riconquista dei
territori perduti.
Prima di ciò fu però necessario all’Impero ritrovare la propria unità religiosa
intorno al patriarca di Costantinopoli: solo allora, con la compenetrazione
della religione nella vita civile, la civiltà potette nuovamente passare ad una
fase di espansione politica e culturale (vera eredità della vicenda
iconoclasta).
PRIMI SVILUPPI ICONOCLASTICI

L’ultimo ventennio del VII secolo d..C. e i primi decenni dell’VIII furono
caratterizzati da una fase di grande debolezza interna ed esterna, a cui solo
l’imperatore Giustiniano II Rinotmeto , letteralmente ‘’naso tagliato’’(685-695
e 705-711 d.C.) era riuscito a porre un freno; le sue campagne nel 688-689 d.C.
avevano portato al contenimento del giovane Stato bulgaro.
Giustiniano II venne però detronizzato dal trono a seguito di una rivolta della
popolazione della capitale; all’imperatore venne fatto tagliare il naso, in
modo tale che non potesse più reclamare il trono, la legge bizantina proibiva
infatti di incoronare un mutilato (Giustiniano II si fece allora costruire un
naso d’oro).
Rientrò dal suo esilio in Crimea solamente grazie all’appoggio del khan
bulgaro Tervel (?-718 d.C.), a cui nel 705 d.C. concesse il titolo di Cesare, che
venne così attribuito per la prima volta ad uno straniero (in questo caso anche
pagano).
L’accordo stipulato con Tervel aveva come secondo fine quello di porre fine
alle incursioni bulgare nel Peloponneso, che gli eserciti bizantini, impegnati
contro gli Arabi, non potevano prevenire.
Nel 711 d.C. Giustiniano II venne deposto, e si aprirono così sette anni di
grave difficoltà per l’Impero, che riuscì a sopravvivere solo grazie alla solidità
del sistema tematico e all’abilità degli imperatori Leone III Isaurico (717-741
d.C.) e suo figlio Costantino V (741-755 d.C.).
Nonostante le fonti li giudichino in modo molto severo in quanto iniziatori
della controversia iconoclasta, si deve considerare l’attività di Leone III e
quella di Costantino V (definito addirittura ‘’Copronomo’’, letteralmente ‘’dal
nome di sterco’’) positivamente.
Nel 717 d.C. Leone III, un ufficiale di origine siro-armena divenuto stratega,
riuscì a farsi proclamare imperatore dalle truppa del thema anatolico.
Egli si trovò a fronteggiare una situazione drammatica almeno tanto quanto
quella che aveva preceduto l’incoronazione di Eraclio, aggravata in modo
ulteriore dalla conquista araba di Cartagine (698 d.C.), che rese vulnerabili le
posizioni imperiali in Sicilia e Italia meridionale.
Nel 705 d.C. gli Arabi erano riusciti anche ad avanzare verso il Mar Nero.
Leone III riuscì, grazie alle proprie abilità diplomatiche e militari, a
respingere l’attacco turco a Costantinopoli (718 d.C.), contro il quale ottenne
l’alleanza dei Cazari (una popolazione turco-caucasica), suggellata dal
matrimonio del futuro Costantino V con la figlia del capo cazaro.
Per difendere la capitale Leone III fu però costretto ad abbandonare agli Arabi
l’Asia Minore; solo negli anni finali del regno di Leone III, e solo dopo la
riorganizzazione dei themata, fu possibile alle forze imperiali riconquistare i
territori perduti.
Con la vittoria nella battaglia di Androikos (740 d.C.) Leone III colse una
vittoria decisiva per le sorti della cristianità, molto di più di quella ottenuta
da Carlo Martello a Poitiers (732 d.C.).
Costantino V ottenne poi delle vittorie fondamentali nelle battaglie di
Germanikea, Metilene e Teodosipoli, dopo le quali l’offensiva araba si arrestò
definitivamente (nell’827 d.C. essi comunque riuscirono a conquistare Creta).
La caduta del califfato Ommayade alla metà dell’VIII secolo d.C. portò
all’orientalizzazione del califfato, che sotto la guida della nuova dinastia
abbaside trasferì la capitale in Iraq, presso Baghdad.
Fu in questo contesto che nel 730 d.C. Leone III aprì ufficialmente la
controversia iconoclasta, che si risolse solo nell’843 d.C., quando venne
ufficialmente riconosciuto come parte dell’ortodossia il culto delle icone.
Ricostruire in modo oggettivo la vicenda iconoclasta è purtroppo molto
complesso, in quanto abbiamo perso le fonti di parte iconoclasta, cosa che si
costringe ad attingere a quelle iconodule, ovviamente di parte.
All’interno di queste si spiega che la decisione di proibire il culto delle icone
fu dovuta all’influenza islamica (si parla di ‘’σαρακενοφρων’’, ‘’mentalità
saracena’’), a cui gli imperatori isaurici, di origine orientale (armena?) e a
lungo impegnati nella lotto contro le forze islamiche, erano più sensibili.
Rispetto a questa tesi tradizionale si deve però usare cautela, soprattutto
considerando che il rigorismo religioso non caratterizzò solo il Mediterraneo
arabo, ma anche il mondo cristiano.
Oggi dunque gli studiosi hanno osservato che esistevano dei gruppi
iconoclasti all’interno del mondo ecclesiastico bizantino, quindi esisteva una
posizione iconoclasta di matrice cristiana.
Un’altra posizione vuole l’iconoclastia come un movimento nato in seno alla
chiesa ortodossa e originato a seguito di alcune vicende naturali (l’eruzione di
Thera) e sconfitte militari che avevano preceduto l’incoronazione di Leone III.
Queste vicende avrebbero spinto Leone III ad aderire a posizioni iconoclaste,
una sorta di reazione razionale alla degenerazione superstiziosa che aveva
investito il mondo bizantino.
Questa versione risulta però riduttiva, infatti non si può considerare il
fenomeno iconoclasta come una semplice reazione intellettuale, né tanto
meno si può considerarlo come una delle derive delle dispute cristologiche.
L’iconoclastia assume un senso solo se si attribuisce importanza all’intima
esperienza religiosa degli imperatori iconoclasti, che nel portare avanti la loro
azione avevano sicuramente anche obiettivi politico-economici.
Essi infatti volevano colpire quegli intercessori (icone, reliquie) dietro cui ci si
rifugiava nei momenti di massima disperazione e sfiducia nei confronti del
potere imperiale.
Per Costantino V e Leone III salvaguardare l’ortodossia era dunque qualcosa
di importante tanto quanto la lotta al nemico esterno, fu il mezzo attraverso
cui essi cercarono di controllare le forze centrifughe presenti nella società
bizantina.
L’iconoclastia fu dunque un tentativo autocratico di superare la chiesa nel
nome dell’impero, mentre l’iconodulia ne fu la risposta, concretizzatasi nello
sforzo monastico di di sottomettere l’idea di impero alla chiesa.

L’ICONOGRAFIA IMPERIALE QUALE ALTERNATIVA ALL’ARTE


SACRA

Dopo il fallito attacco arabo del 718 d.C., Leone III e Costantino V poterono
portare la guerra anche in territorio islamico; il secondo riuscì anche ad
arrivare in Armenia e sino all’Eufrate nel 751 d.C.
Dopo il fallito assedio tra Bizantini e Ommayadi si impose un sostanziale
periodo di equilibri, in cui comunque le incursioni arabe continuarono a
minacciare il territorio imperiale, costringendo le popolazioni locali a trovare
rifugio nei castra.
Fu in questo modo che si diffuse il culto delle icone, che assunsero un valore
miracoloso in quanto gli si attribuiva il potere di difendere la popolazione
contro i nemici.
In questo delicato clima politico Leone III decise, con l’appoggio di una parte
dell’episcopato dell’Asia Minore, di rimuovere dalla porta bronzea
attraverso cui si accedeva al Palazzo Imperiale l’icona del Cristo (726 d.C.),
che era stata collocata nel VI secolo d.C.
In seguito la disputa divenne una contrapposizione insanabile tra iconoclasti
e iconoduli, ma solo dopo che l’imperatore depose il patriarca Germano e nel
730 d.C. impose l’iconoclastia con un editto sinodale.
Il motivo principale di questa decisione era quello di contrastare la
superstizione, divenuta di fatto idolatria, suscitata dal culto delle icone, che
nelle chiese cominciarono ad essere sostituite dalle immagini imperiali (esse,
nonostante non fossero più oggetto di sacrifici come in epoca pagana, erano
comunque venerate e celebrate durante le processioni).
Si trattava dunque di un problema disciplinare, che condannava l’uso
distorto delle icone, contro cui si scagliò dunque un imperatore amatissimo in
quanto vincitore degli Arabi e condottiero inviato dalla Provvidenza in un
momento di necessità.
Proponendo di sostituire le icone con la simbologia imperiale, Leone III
cercava di suscitare quella che Peter Brown definisce una ‘’reazione
patriottica’’, nel nome di un potere centrale che cercava di riaffermare la
propria centralità, messa in discussione dalle icone e ‘’dall’uomo santo’’, visti
come agenti destabilizzanti.
L’iconoclastia era dunque uno strumento (non innovativo) utilizzato
all’interno di un confronto ormai plurisecolare tra il potere spirituale e quello
ecclesiastico.
Senza voler negare l’intenzione genuina di un ritorno alla tradizione, al culto
della croce, è innegabile osservare che dietro il conflitto iconoclasta vi fossero
degli altri interessi.
L’iconoclastia non si presentava nelle sue forme come un’eresia, ma come un
movimento politico-religioso volto a riaffermare il valore dell’autocrazia e il
potere sacerdotale del sovrano (che agli occhi dei sudditi era come i re-
sacerdoti della Bibbia, Melchisedek e Davide).
La necessità di riaffermare il potere imperiale si avvertì già con la ripresa
dell’attività legislativa, con la pubblicazione da parte di Leone III e del figlio
dell’Ecloga (‘’Εκλογη των νομων’’), una selezione di norme provenienti dal
Corpus Iuris Civilis (dal Digesto e dal Codex).
Composta con scopi pratici per i giudici provinciali, l’Ecloga, deprivata della
terminologia giuridica latina, era una sorta di mediazione tra la legislazione
di Giustiniano e quella della successiva dinastia basilide.
L’Ecloga era la naturale evoluzione della legislazione giustinianea, modificate
dalla consuetudini cristiane soprattutto nell’ambito del diritto di famiglia e
del diritto penale.
Illuminante è soprattutto il Preambolo del testo, in cui l’imperatore e il figlio
rivendicano a se’ ogni potere civile e religioso, anche a costo di infrangere
quell’armonia che Giustiniano aveva utilizzato per riferirsi al rapporto tra
Stato e Chiesa (Novella VI).
Il testo si opponeva nettamente a quanto detto da papa Gregorio II (715-731
d.C.) per cui ‘’i dogmi non dipendono dagli imperatori ma dai vescovi’’; al
contrario l’Ecloga sostiene che Dio e San Pietro hanno attribuito ai due sovrani
il compito di ‘’pascere il gregge dei fedeli’’.
Almeno inizialmente la lotta per le immagini era dunque una nuova
occasione di confronto tra il potere secolare e quello ecclesiastico, ognuno
desideroso di riscrivere a proprio vantaggio i rapporti tra autocrazia e chiesa.
L’imperatore, come osservava Gilbert Dagron, ‘’si definisce una sorta di
vescovo scelto direttamente da Dio’’; mentre gli iconoduli, rappresentati dalle
parole di Giovanni Damasceno (dopo 650-750 d.C.), un cristiano di origine
araba che aveva servito presso la corte ommayade, che affermava che ‘’noi
non abbiamo bisogno di un imperatore che si impadronisca tirannicamente del
sacerdozio’’.

COMPLICAZIONI TEOLOGICHE E INTELLETTUALI

Solo con Costantino V la questione si complicò, entrando sul piano del


confronto dogmatico e della polemica cristologica conciliare.
Lo scontro tra iconoclasti e iconoduli raggiunse il suo apice e all’imperatore
servì un decennio per ottenere nel 754 d.C., solo dopo sette mesi di
discussione, la condanna formale del culto delle immagini da parte di un
concilio riuntosi ad Hirea (in cui erano assenti i rappresentanti del papa di
Roma).
L’opposizione maggiore venne però dagli ambienti monastici, di cui si cercò
di colpire sia l’enorme prestigio presso i fedeli di estrazione più bassa sia il
potere economico.
Possedere un’icona era qualcosa di molto importante per un monastero, in
quanto era garanzia di prosperità a causa dei pellegrinaggi e delle donazioni.
Fu negli anni intorno al 765 d.C. che avvennero le persecuzioni più dure
contro chiunque avesse rifiutato di aderire pubblicamente all’iconoclasmo; si
tratta di persecuzioni che non raggiunsero mai la violenza descritta dagli
iconoduli nei loro racconti.
Gli iconoclasti cercarono di screditare l’immagine dei monaci privandoli dei
loro connotati simbolici (vestito scuro, barba, castità) o forzandoli attraverso
le minacce ad abbandonare l’abito: ‘’alcuni lasciarono l’abito e si sposarono,
mentre altri, costretti alla fuga, trovarono rifugio presso il patriarcato di Roma’’.
La lotta contro i monaci e il loro intervento negli affari di stato era solo un
aspetto di un problema più evidente, quello delle immagini religiose e del
loro rapporto con il rappresentato.
Anche nel Cristianesimo orientale vi erano stati personaggi ostili al culto
delle immagini, come Eusebio, che si era duramente opposto al culto delle
icone; allo stesso tempo vi era stato chi, come Basilio di Cesarea o Gregorio di
Nissa (che aveva definito le immagini forme di επιστεμη, di conoscenza, e
non di τεχνη, tecnica), ne aveva sottolineato il valoe.
Allo stesso modo vi era chi si appellava alle condanne alla raffigurazione
divina insite nell’Antico Testamento, a cui si opponevano coloro che
sostenevano che il Cristo, facendosi uomo, avesse reso possibile la
rappresentazione.
I primi Cristiani in effetti avevano esitato a raffigurare Gesù, preferendo
attribuirgli una rappresentazione simbolica della sua divinità; solo negli
ultimi decenni del VI secolo d.C. si cominciarono a produrre icone.
Queste divennero velocemente degli elementi fondamentali nella devozione
popolare, e furono collegate a pratiche che ricordavano da vicino quelle
pagane per idolatria e valore superstizioso (si vedano le icone raffiguranti
Eraclio che, prima di partire per l’Oriente, affida la città/il figlio/il popolo alla
Vergine).
Fu Costantino V che trasformò questa problematica di disciplina ecclesiastica
in una questione teologica quando accusò gli iconoduli di nestorianesimo:
non essendo possibile raffigurare la divinità, essi ne rappresentavano solo la
parte umana.
Per Costantino V chi dipingeva un’immagine di Cristo non comprendeva il
dogma dell’unione delle sue due nature; solo nell’eucaristia questo dogma
ritrovava la sua purezza e poteva essere contemplato: ‘’il pane che noi
riceviamo è realmente un’immagine del suo corpo’’, in quanto carne e segno del
suo corpo.
Quest’idea di immagine come ‘’copia somigliante’’ era rifiutata duramente
dagli iconoduli, che basavano la loro difesa sulla ripresa di concetti
neoplatonici, che permettevano loro di ribaltare le accuse di Costantino V.
Era per loro possibile rappresentare il sacro in quanto, come affermato dal
Concilio di Calcedonia, in Cristo le due nature si fondono senza confusione
(‘’ασυγχτος’’), in quanto proprio la loro unione le salvaguarda entrambe.
L’immagine del Cristo era dunque il corpo deificato del λογος incarnato
nella sua ‘’pienezza ipostatica’’ (ovvero concreta).
Per quanto riguarda l’eucarestia, stando all’iconodulo Giovanni Damasceno,
non era un’immagine, bensì la verità stessa,
In sostanza per gli iconoduli era possibile raffigurare il Cristo, in quanto era
in quel modo che egli aveva voluto farsi vedere.
LA VITTORIA DEL PARTITO ICONODULO IN FATICOSO EQUILIBRIO
TRA POTERE E SPIRITO

L’avvento al trono del figlio di Costantino V, Leone IV il Cazaro (775-780


d.C.), portò ad un primo attenuamento dell’iconoclastia, la cui pressione si
affievolì ulteriormente quando salì al trono la moglie Irene (797-802 d.C.),
inizialmente reggente per il figlio Costantino VI (780-797 d.C.), che in seguito
spodestò; addirittura Irene si fece indicare sulle monete come ‘’βασιλευς’’ e
non come ‘’augusta’’.
L’imperatrice era di note tendenze iconodule, e soprattutto essa era vicina
agli ambienti monastici più intransigenti, grazie al cui appoggio cercò di
ripristinare il culto delle immagini destituendo vescovi iconoclasti con suoi
alleati iconoduli.
Ella si scontrò però con i funzionari del suo defunto marito, che avevano
avuto un ruolo decisivo nell’amministrazione sotto gli imperatori iconoclasti.
Dopo un primo tentativo fallito (il Concilio di Costantinopoli del 786 d.C.),
Irene fu in grado di ridefinire l’ortodossia con il II Concilio di Nicea (787
d.C.), che ottenne anche il consenso del papa di Roma.
Alle icone venne attribuito un valore ‘’simile a quello che si rende all’immagine
della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri’’.
Questa decisione cercò in primo luogo di conservare il ruolo preponderante
che le icone avevano nella pietà quotidiana, come ha osservato giustamente
Marie-France Auzépy.
Anche queste disposizioni causarono però delle gravi divergenze, infatti il II
Concilio di Nicea non riuscì ad imporsi all’interno del partito monastico, che
si considerava ormai vero tutore dell’ortodossia.
Al suo interno si distingueva la figura di Teodoro Studita (759?-826 d.C.),
membro autorevole del monastero di Studios, in cui vivevano più di mille
monaci.
Con Teodoro e i suoi seguaci la controversia si spostò su un piano
‘’scolastico’’, nel senso che per portare avanti le proprie ragioni, i membri del
monastero studita si avvalsero della filosofia e della logica aristotelica.
Il loro ragionamento rendeva l’immagine un prodotto della psiche umana,
che ovviamente non poteva conoscere e descrivere la natura divina, tuttavia
poteva, e doveva, raffigurarla sensibilmente.
Gli esponenti più intransigenti di questa posizione, gli zeloti, pretesero
addirittura una tutela da parte della chiesa sull’autorità del sovrano, che
doveva essere ridotto a semplice braccio secolare del potere che Dio aveva
conferito ai suoi ministri.
Questa questione delicata si prolungò per tutto il IX secolo d.C., toccando un
momento di tensione con l’elezione del laico moderato Tarasio (730-806 d.C.)
a patriarca.
La situazione si complicò ulteriormente quando Tarasio non si oppose alle
seconde nozze di Costantino VI con la dama di corte Teodota, che era ritenuto
scandaloso dagli zeloti.
Di questi si servì Irene per rovesciare il figlio, che venne accecato e in seguito
morì; si trattò però di una vittoria di breve durata, in quanto la politica di
munificenza che Irene portò avanti nei confronti dei monasteri le impedì di
riformare il reclutamento tematico, che necessitava di maggior regolarità
(oltre che di eserciti più grandi).
Gli Arabi vennero placati solo attraverso il pagamento di un umiliante
tributo, mentre i Bulgari, che avevano già sconfitto Costantino VI nel 792 d.C.,
attaccarono la fortezza di Serdica.
A ciò si doveva aggiungere il complicarsi dei rapporti con l’Occidente a
seguito dell’incoronazione di Carlo Magno nell’800 d.C.
Irene venne deposta ed esiliata dopo una rivolta di palazzo guidata dal suo
ministro delle finanze Niceforo I (802-811 d.C.), che si dimostrò un sovrano
capace e accorto.
Pur non riuscendo a sanare il conflitto tra il partito patriarcale e quello
studita, Niceforo I fu in grado di provvedere alla riorganizzazione del
reclutamento tematico.
L’imperatore estese il reclutamento anche ai contadini indigenti, che erano
impossibilitati a procurarsi a proprie spese equipaggiamento e sostentamento
(a pagare il loro equipaggiamento sarebbero stati i compaesani, tenuti a
pagare al fisco diciotto nomismata e mezzo l’imposta dei soldati).
Tramite queste misure drastiche venne assicurata la formazione di eserciti
regolari e costosi, che permettevano di sopperire alla crisi del ceto degli
stratioti.
Venne in seguito rinnovati il pagamento del tributo agli Arabi, mentre con i
Bulgari fu impossibile trovare un accordo almeno inizialmente.
Questi, guidati dal khan Krum (?-814 d.C.), misero a dura prova il dominio
bizantino nei Balcani a seguito della distruzione del potere avaro da parte di
Carlo Magno.
I Bulgari distrussero l’esercito imperiale, che era riuscito a saccheggiare la
capitale bulgara (Pliska), nell’811 d.C., dopo che questo si era addentrato
troppo nell’area montuosa a Nord della città.
Niceforo I e il figlio morirono in battaglia, mentre i Bulgari riuscirono a
dilagare dal Mar Nero sino alla città di Adrianopoli, giungendo poi a
Costantinopoli, che venne nuovamente minacciata.
In questa situazione di crisi gli zeloti cercarono di prendere il comando della
situazione e attaccare le misure iconoclaste degli imperatori, indicate da
Teofane come ‘’misfatti’’.
Ancora una volta però le loro aspettative vennero deluse quando al seggio
patriarcale fu eletto un nuovo laico moderato, Niceforo (758-828 d.C.); di
fronte a questo evento i monaci chiesero la mediazione del papa di Roma.

LA SECONDA PARENTESI ICONOCLASTA

La crisi apertasi con la morta di Niceforo I sembrava aver lasciato campo


aperto al partito monastico: alla morte di Strautacio (pochi mesi nell’811
d.C.) il nuovo imperatore, Michele I (811-813 d.C.), richiamò i monaci esiliati
come Teodoro Studita, che divenne un suo fidato consigliere.
Michele I cercò di risanare la frattura tra patriarcato e mondo monastico,
attuando nei confronti di quest’ultimo la stessa politica di larghe donazioni
attuata da Irene.
Questa scelta non fu però parallela a successi militari: Michele I venne infatti
deposto dopo essere stato sconfitto dai Bulgari (813 d.C.).
Al suo posto venne eletto Leone V l’Armeno (813-820 d.C.), stratego del tema
degli anatolici, che era riuscito a respingere il khan Krum e a stipulare con
esso una pace trentennale (816 d.C.).
Il regno di Leone V rappresentò un momento di ripresa dell’iconoclastia, che
di fatto non era mai del tutto scomparsa e che traeva ora nuovo vigore,
soprattutto in seguito alle sconfitte sulle varie frontiere (ancora una volta si
diffuse tra la popolazione l’idea di avere sovrani indegni).
Ancora una volta l’iconoclastia divenne il mezzo più efficace per cercare di
generare una sorta di patriottismo; anche le ostili fonti iconodule riportano
che durante l’assedio bulgaro dell’811-812 d.C. la popolazione sperava che
‘’arrivasse Costantino V su un cavallo bianco per lanciarsi contro i Bulgari’’.
Con il sinodo di Costantinopoli (815 d.C.) l’iconoclastia venne ripristinata in
forme più tolleranti: alle immagini venne attribuito un valore educativo, ma
esse non dovevano divenire oggetto di venerazione.
Nonostante la rinuncia ad ogni forma di violenza, il patriarca Niceforo (che
aveva un passato di violenza iconodula) abdicò nel momento in cui gli appelli
dei monaci al papa romano si intensificarono.
Lo stesso Teodoro Studita scrisse a papa Pasquale I (817-824 d.C.) per
ottenere la condanna del movimento iconoclasta; un’azione per colpire quel
potere imperiale che mirava a riaffermare il proprio ruolo di mediatore
privilegiato tra Dio e i fedeli.
Nella Vita di S. Niceta di Medikion si ricorda che Teodoro Studita scrisse a
Leone V dicendogli di ‘’lasciare la chiesa ai suoi pastori e ai suoi maestri’’.

IL DEFINITIVO SUCCESSO DEL CULTO DELLE IMMAGINI

La capacità dell’iconoclastia di imporsi egemonicamente si era molto ridotta,


e a rialzarne le sorti non bastò l’appoggio dato da figure importanti come
Giovanni il Grammatico, patriarca tra l’837 e l’843 d.C. e precettore del figlio
di Michele II (Teofilo), ed il suo allievo Leone il Matematico (790-869 d.C.),
arcivescovo di Tessalonica intorno all’840 d.C.
L’iconoclasmo aveva dunque cessato la propria ragion d’essere: la pressione
dei nemici esterni era stata ridotta e il potere economico/sociale dei monasteri
ridimensionato.
Di fatto l’iconoclasmo scomparve dopo che gli imperatori impedirono lo
stanziamento arabo in Asia Minore; tuttavia sorgevano nuove preoccupazioni
come il dilatarsi della potenza bulgara e l’ascesa in occidente del rivale Sacro
Romano Impero.
Michele II (820-829 d.C.) fu poi costretto a fronteggiare la rivolta di
Tommaso lo Slavo (?-823 d.C.), che era stato incoronato sovrano dal patriarca
di Antiochia con il consenso del califfo.
Tommaso assediò Costantinopoli sostenuto dagli Arabi e dalle popolazioni
iconodule che negli anni erano state duramente vessate nell’821 d.C.
La rivolta venne infine sedata dopo tre anni, anche grazie all’appoggio dei
Bulgari; dal conflitto l’autocrazia ne uscì grandemente indebolita.
I Bulgari continuarono ad assalire le frontiere imperiali nella speranza di
assorbire il mondo bizantino (ereditandone così il prestigio), mentre nell’826
d.C. l’isola di Creta venne occupata dagli Arabi, che nell’827 d.C. sbarcarono
anche in Sicilia.
Al tempo di Teofilo (829-842 d.C.) venne creato il thema di Cherson in Crimea
per ostacolare l’espansione bulgara nel Mar Nero; questi comunque invasero
la Macedonia nell’831 d.C.
Questi eventi non fecero altro che il discredito nei confronti degli imperatori
iconoclasti, ma soprattutto portò all’emergere di un sentimento moderato,
aperto al culto delle immagini.
Nell’830 d.C., mentre il potere era nelle mani di Teodora (vedova di Teofilo e
reggente per il figlio Michele III), una fervente iconodula che convocò un
sinodo a Costantinopoli (843 d.C.) in cui si proclamava il trionfo degli
iconoduli.
L’iconoclastia cominciò allora ad essere vista come l’ultima grande eresia, la
cui sconfitta doveva essere viene festeggiata tutt’oggi nella prima domenica
di Quaresima, la ‘’festa dell’Ortodossia’’.
Con la fine dell’iconoclastia si consolidarono la teologia dell’incarnazione e
la possibilità del divino di rendersi visibile: si sviluppò una teoria
dell’immagine che si era sviluppata attraverso il recupero del pensiero
aristotelico e neoplatonico.
Si ricordino le parole del patriarca Niceforo, che parlava di una realtà che non
può essere compresa intellettualmente se non è stata prima vista
sensibilmente.
In questo modo veniva ribadita la differenza tra Cristianesimo, religione
dell’immagine di Dio (che si è mostrato e si è fatto vedere), Ebraismo e Islam,
religioni della parola (Dio non si è mostrato in carne ed ossa).
Gli imperatori iconoclasti lasciavano un’eredità importante, quella di un
Impero in cui potere politico ed ortodossia erano di nuovo in equilibrio, una
condizione che permise la diffusione del messaggio cristiano al di fuori dei
confini bizantini.
La cristianizzazione delle popolazioni slavo-bulgare permise l’avvio di una
sorta di umanesimo bizantino, che toccò il proprio apice nel corso dei secoli
IX, X e XI, quando si assistette anche al massimo splendore della Bisanzio
medievale.
Al termine dell’età dell’iconoclastia si era infatti rinnovata l’attività culturale,
in quanto per un secolo due fazioni avverse (iconoclasti e iconoduli) avevano
perfezionato le proprie posizioni attraverso la ripresa di concetti appartenenti
alla filosofia antica.
Venne così a formarsi un’estetica cristiana, basata sull’ellenismo cristiano
elaborato dai Padri della Chiesa nel IV secolo d.C.; questo assicurò la
persistenza della classicità nel contesto bizantino.
Alla metà dell’VIII secolo d.C. lo studio della cultura classica era ormai
ampiamente diffuso anche in ambito monastico: Giovanni Damasceno, per
difendere le sue posizioni iconodule, si serviva della Oratio ad adulescentes di
Basilio di Cesarea.
All’interno del monastero di Studios, famoso per i suoi scriptoria, venne
invece elaborato l’utilizzo di una calligrafia minuscola, che permetteva un
risparmio di pagine ed inchiostro.
Nel corso dell’VIII secolo d.C. furono traslitterati in minuscola i testi più
antichi scritti in ‘’onciale’’, un tipo di calligrafia molto più antieconomica.
Anche i sostenitori dell’iconoclastia, in primo luogo Giovanni il Grammatico,
si servirono della filosofia classica e della patristica; egli venne anche
incaricato da Leone V di ricercare ‘’gli antichi libri’’ (‘’παλαια βιβλια’’).
Notevolissima fu l’attività del suo allievo più celebre: Leone il Matematico,
definito addirittura ‘’l’Elleno’’.
Giovanni il Grammatico, Leone il Matematico e il patriarca Fozio I (820-893
d.C.), che nel IX secolo d.C. avrebbe dominato la scena culturale, furono i
massimi esponenti di quella rinnovata stagione culturale bizantina che
caratterizzò il IX secolo d.C.
La rinascita bizantina del IX secolo d.C. fu caratterizzata da due indirizzi
fondamentali: il primo, rappresentato da Giovanni il Grammatico e Leone il
Matematico, era quello che si rivolgeva alla cultura ellenica e precristiana, di
cui si riscoprirono (tramite la filologia) le conoscenze scientifico-matematiche.
Il secondo indirizzo, rappresentato da Fozio, si rivolgeva al salvataggio delle
lettere elleniche, ed era di carattere grammatico-retorico e filosofico-
teologico.
L’enorme quantità di codici che Giovanni il Grammatico riuscì a raccogliere
testimonia il rinnovamento avvenuto nella cultura bizantina durante l’VIII
secolo d.C.
Tuttavia è la vita, narrata in varie cronache, di Leone il Matematico a
testimoniare la riorganizzazione dell’insegnamento superiore avvenuta a
Costantinopoli.
Leone si formò presso le scuole elementari della capitale, ma in seguito si
spostò ad Andros dove accrebbe le proprie conoscenze grazie alla
frequentazione di un sapiente (una pratica tipicamente medievale, che
sopperiva alla mancanza di scuole superiori).
In seguito egli tornò nella capitale dove visse una vita modesta come
insegnante privato; solo quando un suo allievo, fatto prigioniero dagli Arabi,
si dimostrò capace di ragionare di geometria come i sapienti del califfato la
fama di Leone si diffuse i Oriente.
Il califfo al-Ma’mun addirittura lo invitò presso la sua corte, mentre
l’imperatore Teofilo gli attribuì nel primo trentennio del IX secolo d.C. un
‘’insegnamento pubblico’’ (‘’διδασκειν δημοσια’’) presso la Chiesa dei Santi
Quaranta Martiri.
Questa prefigurava la restaurazione, dopo la crisi del VII secolo d.C., di un
insegnamento superiore nella capitale, cosa che sarebbe successo solo a metà
del IX secolo d.C. con la fondazione dell’Università Imperiale (in cui furono
riuniti ‘’tutti gli insegnamenti di carattere profano’’) ad opera del cesare Bardas
nella Magnaura.
Tornando a Leone, egli venne preposto alla cattedra di filosofia, mentre i suoi
tre allievi a quelle di geometria/astronomia/grammatica greca.
La vicenda del Matematico testimonia l’esistenza dei rapporti culturali
arabo-bizantini; furono proprio gli Arabi che ‘’scoprirono’’ l’abilità di Leone
e spinsero Teofilo ad innalzarlo dalla propria condizione.
La vicinanza tra le due culture è stata addirittura definita ‘’genetica’’,
soprattutto alla luce del grande rapporto che il mondo islamico stabilì con
l’ellenismo (gli Abbasidi avviarono un programma coerente di traduzioni dal
greco).
L’ellenismo divenne un patrimonio della cultura araba, la cui concezione del
mondo non differiva di molto da quella bizantina (questa di fatto più di ogni
altra era vicina a quella musulmana).

LE CONSEGUENZE IN OCCIDENTE

La politica iconoclasta aggravò ulteriormente il rapporto con il papato di


Roma, che era minacciato dai Longobardi, che tra l’altro nel 751 d.C.
conquistarono Ravenna, mettendo fine alla vicenda dell’esarcato.
Il fiscalismo bizantino, aumentato al tempo del riordinamento tematico
voluto da Leone III, aveva generato nell’area italiana un sentimento
indipendentista, che però non si era mai trasformato in una lotta per
l’autonomia in quanto privo di una reale guida.
La rottura con l’Impero non avvenne mai per un semplice motivo: nonostante
gli imperatori avessero reclamato a se’ i tributi di solito spettanti a Roma, i
pontefici non rompevano del tutto per paura dell’espansionismo longobardo.
Dopo il concilio di Hierea (754 d.C.), il papato cominciò a sviluppare
un’attività politica autonoma, cercando in primo luogo l’alleanza coi Franchi:
sancita con il trattato di Ponthion (754 d.C.), in cui papa Stefano II (752-757
d.C.) stipulava un’alleanza anti-longobarda con il re dei Franchi Pipino il
Breve (751-768 d.C.).
Il vescovo di Roma cominciò dunque ad allontanarsi progressivamente dalla
autocrazia imperiale, con cui ruppe ogni tipo di sudditanza al tempo
dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno.
A Ponthion il papa si presentava ancora come mediatore bizantino, ma di
fatto agiva nel suo interesse, come dimostrava il fatto che una volta scacciati i
Longobardi dall’esarcato, Pipino consegnò i territori al papa, non li restituì
all’Impero.
I papi avviavano così la sua politica di rafforzamento nell’Italia centrale, in
cui divenivano di fatto degli indipendenti signori territoriali; Stefano II,
scrivendo a Pipino, si definiva ‘’Sancta Dei ecclesia, res publica Romanorum’’
(venivano così negate le pretese universalistiche bizantine).
L’Impero in questo modo rinunciò ad ogni possibilità di rioccupare la
penisola, anche se continuò ad agire per ostacolare i suoi rivali, come quando
cercò di aizzare il re Desiderio ad attaccare Roma.
Ciò però non fece altro che aumentare l’ostilità del papato per il mondo
imperiale: riferendosi ai Bizantini, papa Paolo (757-767 d.C.), parlava di
‘’nefandissimi Greci’’.
La convergenza franco-pontificia toccò il suo apice con l’incoronazione di
Carlo Magno, che venne trasformato dall’aristocrazia e dal clero di Roma in
un ‘’imperatore romano’’, come scrive Giovanni Tabacco (1914-2002).
La nascita di un potere imperiale in Occidente accrebbe l’autonomia del papa
nei confronti del potere bizantino, che vedeva dunque divenire utopistiche le
sue ambizioni di riconquista in Italia.
Bisanzio riconobbe Carlo come imperatore in cambio della restituzione delle
città costiere e delle isole dalmate, così come del ducato da Chioggia a Grado
(ufficialmente greca, ma di fatto dotata di larga autonomia).
Il riconoscimento creò però anche molte ambiguità, in quanto il sovrano
bizantino cominciò a definirsi ‘’βασιλευς των Ρωμαιων’’, molto più
altisonante; nell’842 d.C., gli imperatori Michele II e Teofilo, scrivendo a
Ludovico il Pio si definivano ‘’imperatori dei Romani e rispettosi di Dio…scrivono
al glorioso re dei Franchi e dei Longobardi, che viene detto anche loro imperatore’’.
Veniva così rinnovata la distinzione tra rex e βασιλευς, utilizzata già al tempo
di Teoderico, che rinnovava tutto l’imbarazzo suscitato a Bisanzio dagli
avvenimenti romani.
All’abbandono di ogni ambizione nell’Italia centrale si contrappose la
stabilità bizantina nel Mezzogiorno, dove si era assistito a diverse
evoluzioni già alla fine del VII secolo.
La Sicilia venne sottratta al comando dell’esarca e venne creato un thema
autonomo che comprendeva anche il ducato di Calabria, di Otranto e quello
di Napoli.
Lo stratega di Sicilia veniva così chiamato ad incarichi sempre più rilevanti,
soprattutto dal punto di vista difensivo, visto che la pressione araba sull’isola
aumentò notevolmente.
Le riforme portarono però, nelle regioni meridionali, ad un accelerazione del
processo di ellenizzazione, un processo che non soffrì quasi per nulla le
vicende dell’iconoclastia.
Si può dunque affermare che il Sud dell’Italia acquisì fin da subito una
grande consapevolezza della propria identità storica, che rese ancora più
saldi i rapporti con il patriarcato di Costantinopoli.

IL CALIFFATO ABBASIDE E LO SFALDAMENTO DELL’IMPERO


UNITARIO ARABO

Il califfato ommayade venne rovesciato nel 750 d.C. dalla dinastia degli
Abbasidi, che resse le sorti del mondo arabo per cinque secoli, fino a quando
i Mongoli abbatteranno il loro potere nel 1258.
Discendenti da uno zio di Maometto, gli Abbasidi cercarono fin da subito di
recuperare alcuni elementi dei movimenti in precedenza visti come dissidenti
(sciiti e kharigiti).
Gli Abbasidi cercarono fin da subito l’appoggio dei mawali, i sudditi non-
Arabi che erano numericamente superiori ma che in età ommayade erano
stati lasciati in disparte rispetto all’aristocrazia araba.
Finiva così l’impero ‘’arabo’’ degli Ommayadi, e iniziava quello che le fonti
avrebbero definto ‘’persiano’’ degli Abbasidi, che stabilirono la capitale a
Baghdad (la ‘’città della pace’’), scelta per la sua posizione cruciale tra il
Khorasan, l’Iran, l’Iraq, la Siria, l’Egitto e la rete fluviale del Tigri/dell’Eufrate.
Il califfato abbaside si ritirò verso Oriente, verso il mondo sasanide-iracheno,
anche se esso rimase un risoluto difensore dell’ortodossia sunnita, anche se
vi furono momenti di grande apertura, come il regno di al-Ma’mun (813-833
d.C.), durante il quale si affermò il movimento della Mu’tazila (‘’movimento
di coloro che si distaccano [da ogni partito politico]’’).
Si tratta di una corrente molto influenzata dalla cultura greca, della sua
filosofia e dalle sue scienze, elaborate all’interno di una teologia speculativa
in cui la razionalità svolgeva un ruolo del tutto nuovo e originale.
I commentatori mu’taziliti svilupparono la tesi della trascendenza adattando
la dialettica aristotelica alla riflessione teologica islamica: secondo questa tesi
il Corano non poteva essere ‘’increato’’, perché solo Allah poteva avere questa
definizione.
I mu’taziliti attribuivano anche un grande valore alla possibilità di scelta
umana, alla sua possibilità di scegliere tra bene e male.
Il califfato abbaside rappresentò un momento di grande splendore culturale
per il mondo musulmano, senza dubbio quello in cui la cultura greca,
reputata non solo attraente e necessaria; lo stesso al-Ma’mun sostenne che tra
Aristotele e rivelazione islamica non vi erano conflitti.
Questo fervore cosmopolita persistette fino alla morte del grande filosofo e
commentatore Averroè (1126-1198), un periodo durante il quale il mondo
islamico fu in grado di generare una sintesi originale tra la cultura persiana e
quella ellenistica.
Il mondo bizantino e quello occidentale non cessarono mai di intrattenere
rapporti con il mondo arabo, che si dimostrarono fruttuosi soprattutto per gli
occidentali, che conobbero la filosofia di Aristotele proprio grazie alla
mediazione araba.
Al tempo di al-Ma’mun venne costituita a Baghdad la ‘’Casa della Scienza’’,
in cui vennero ammassate tutta la letteratura e la scienza greca, tradotte in
lingua araba (molto interesse era attribuito alle opere di medicina).
In questa stagione trovò spazio anche una notevole tradizione filosofica, che
ancor prima che in Occidente cercò di dimostrare la rivelazione per via logica
e scientifica: si pensi al lavoro di al-Farabi, a quello del medico/alchimista
Abu al-Razi, costui sostenitore dell’autonomia della filosofia, che aveva come
scopo quello di guidare l’umanità alla felicità.
Quest’attività intellettuale testimoniava la volontà del mondo arabo di farsi
erede del patrimonio scientifico e filosofico greco, ma in seguito essa divenne
anche un’ulteriore giustificazione della necessità di attaccare i Bizantini, da
sconfiggere non solo perché infedeli, ma anche perché ‘’culturalmente
ottenebrati e inferiori’’.
L’avvento degli Abbasidi portò anche ad una svolta continentale, in quanto
come detto lo Stato islamico si ritirò verso la Persia, restringendosi al suo
nucleo centrale.
I Fatimidi assunsero il titolo di califfi d’Egitto, anche se questo non comportò
una rottura della civiltà araba, che rimase unita nonostante il frazionamento
politico grazie alla lingua araba (parlata in modo differente, ma scritta nello
stesso modo).
I pericoli per Bisanzio non vennero comunque meno, poiché, anche se
frazionato , il mondo arabo ora era costituito da piccole compagini compatte
pronte ad impegnarsi in iniziative piratesche e di conquista.
si pensi agli emiri Aglabiti di Qairawan (l’odierna Tunisi), la capitale
dell’Ifriqiya (termine con cui era indicata l’antica provincia romana dell’Africa
proconsularis).
Gli Aglabiti da semplici pirati, si trasformarono nel IX secolo d.C. in
conquistatori, che arrivarono ad occupare la Sicilia al termine di una lunga
campagna (827-902 d.C.).
Essi trasformarono Palermo in un centro fastoso, ma non riuscirono mai ad
allargare le loro conquiste all’Italia continentale (sia per la debolezza
demografica dell’isola, sia per le efficaci forze di difesa navali bizantine).
Gli Arabi riuscirono ad occupare Bari per un breve periodo (847-871 d.C.); la
vicenda dell’emirato di Bari, che cercò l’appoggio abbaside per svincolarsi
dagli Aglabiti, e del suo ultimo emiro Sawdan rimane comunque molto
interessante.
I ducati di Calabria, di Napoli e Otranto riuscirono a sopravvivere, ma
ottennero ampi spazi di autonomia istituzionale; essi furono le basi per la
riconquista bizantina nel corso degli ultimi decenni del IX secolo d.C.
I successi riportati in Sicilia non consentirono però agli Arabi di penetrare
nell’Adriatico, nello Ionio; il Mediterraneo si spaccò di fatto in due: ad
Occidente i Bizantini erano stati scacciati e vi era il dominio arabo, mentre in
Oriente la flotta imperiale era ancora in grado di affrontare i musulmani sul
mare.
Per quanto riguarda invece la Spagna, qui si installò un ramo cadetto degli
Ommayadi (756 d.C.), che fu in grado di controllare le tribù berbere e di
imporsi sull’aristocrazia araba.
Gli Ommayadi fecero di Cordova una delle città più importanti del mondo
islamico, la capitale di uno Stato che nel X secolo d.C. avrebbe rivaleggiato
con l’Egitto fatimide e quello di Baghdad.
La capitale dell’emirato di al-Andalus fu anche dotata di una biblioteca di
circa duecentomila manoscritti greci/latini/arabi; Cordova, con la sua
prospera economia mercantile, fu così in grado di rivaleggiare con il Cairo e
la stessa Baghdad.
4) MAESTÀ E GRANDEZZA DELLA BISANZIO
MEDIEVALE: LA DINASTIA DEI BASILIDI (843-1025)

Grazie al consolidamento del potere imperiale e al rinsaldamento della


gerarchia ecclesiastica, l’Impero fu in grado di superare, seppur
ridimensionato a causa dell’espansione araba, una fase di grave crisi e di
progettare un’espansione verso l’area siro-anatolica e in seguito anche verso
l’Occidente e l’area balcanica.
Questa fase di espansione (metà del IX secolo d.C., primo quarto dell’XI
secolo) rappresentò il momento di massimo splendore dell’Impero
medievale.
L’espansione fu possibile in quanto perseguita non solo da un imperatore, ma
da tutti i sovrani della dinastia nota come ‘’macedone’’, meglio detta
‘’basilide’’ (843 d.C.-1025) dal nome del suo fondatore Basilio I.
I Basilidi furono in grado di legare al proprio progetto quelle famiglie nobili
dell’Asia Minore il cui sostegno era ormai divenuto indispensabile, e allo
stesso tempo assieme alla Chiesa Ortodossa portarono avanti un’attività
missionaria presso le popolazioni slavo-bulgare.
I Basilidi furono in grado imporsi come egemoni nella scena balcanica grazie
all’elaborazione di un’abile politica diplomatica che permise la formazione
di realtà statali inserite all’interno della ‘’grande famiglia dei popoli e dei
principi’’.
Quest’ultimo era uno schema secondo il quale al vertice della gerarchia
politica vi erano il βασιλευς e il popolo bizantino, a cui erano subordinati i
sovrani stranieri; si trattava di forme di quella che potremmo definire forme
di sovranità spirituale.
I sovrani bizantini riuscirono dunque a mantenere in vita una prospettiva
ecumenica in cui l’Impero era un’istituzione voluta da Dio, l’unica e legittima
autocrazia imperiale.
Per più di mezzo secolo l’Impero sarebbe rimasto una salda potenza nel
mondo mediterraneo, un successo politico che si accompagnò (o forse fu
determinato) da un rinnovamento artistico e culturale.
Il legame tra il mondo erudito e il mondo della funzione pubblica fu un altro
degli aspetti che senza dubbio favorì questa fase di straordinaria ripresa,
durante la quale anche nel mondo bizantino divennero decisivi i legami
familiari, che cominciarono a strutturare a fondo la società bizantina.
La παιδεια cominciò a divenire una prerogativa, se non fondamentale, molto
importante per il sovrano; la mancanza di cultura cominciò a venire percepita
come qualcosa di non conveniente per un sovrano.
Un esempio molto celebre è quello di Basilio I, che cercò di cancellare la
propria origine oscura tramite l’elaborazione di una genealogia fittizia (cosa
che mostra quanto importante fosse divenuta la nobiltà dei natali) e il farsi
leggere dei libri.
Di fatto il periodo basilide si aprì e si chiuse con al vertice del potere pubblico
un uomo di lettere, Fozio inizialmente e Michele Psello (1018-1096) al
termine; allo stesso tempo all’interno della dinastia stessa si distinsero
imperatori come Leone VI e Costantino VII Porfirogenito, autori di opere di
notevole successo e pronti a riorganizzare il cerimoniale a fini dinastici.

L’INIZIO DELLA NUOVA ERA E IL PRIMO PATRIARCATO DI FOZIO

Il sinodo dell’843 d.C. non frenò del tutto le ambizioni del partito monastico,
che grazie all’appoggio della reggente Teodora riuscì ad impossessarsi del
trono patriarcale, vacante dopo la morte di Metodio.
La reggente impose allora l’elezione di Ignazio I (797-877 d.C.), figlio
dell’imperatore Michele I, che alla deposizione del padre si era fatto monaco.
Si trattava di una scelta dall’alto valore simbolico, sia sul piano religioso che
su quello politico, con la quale si voleva recuperare quel momento di forte
potere del mondo monastico che aveva preceduto la seconda fase iconoclasta.
La scelta di Ignazio I suscitò però molti malumori, sia per la modalità in cui
avvenne l’elezione, sia perché l’intransigenza del personaggio irritava
l’episcopato.
Quando nell’855 d.C. Michele III (855- ) si liberò dalla reggenza della madre,
egli provvide subito ad affidare allo zio Barda, insignito del titolo di Cesare,
uomo di elevata cultura (fu lui a fondare l’Università Imperiale), che
immediatamente rimosse Ignazio e nominò patriarca Fozio.
Egli venne scelto sia per l’eccezionalità del suo sapere , ma anche per la
moderazione delle sue posizioni, che lo resero in grado di rendere il
patriarcato di Costantinopoli autonomo rispetto a quello romano.
Fozio, di origine aristocratica e nipote di un patriarca, era stato un brillante
funzionario della cancelleria imperiale, ma soprattutto un famoso letterato;
lui stesso ricordava con nostalgia i tempi degli studi letterari, scrivendo a
papa Niccolò I: ‘’tali i beni che ho rimpianto’’.
Fozio non si discostava dalla tradizione culturale/retorica/teologica cara alle
élites bizantine, tuttavia egli si impegnò anche in un altro ambito, quello del
recupero delle lettere classiche, condotto in anticipo rispetto agli uomini del
Rinascimento.
Le opere più celebri di Fozio sono il Lessico, un’opera in cui il letterato greco
annotò in ordine alfabetico che gli suscitava interesse o perplessità, e la
Biblioteca, una raccolta di 279 schede in cui erano contenute relazioni/giudizi/
notizie sulla letteratura classica e cristiana.
Fozio era però particolarmente sgradito al partito monastico, specialmente
agli zeloti di Ignazio, che si rivolsero direttamente al papa di Roma, Niccolò I
(858-867 d.C.), che nonostante avesse inizialmente convalidato la nomina di
Fozio, infine decise di appoggiare Ignazio.
Fozio a sua volta si adoperò affinché l’elezione di Ignazio venisse ritenuta
nulla, cosa che però gli costò l’anatema da parte di Niccolò I nell’862 d.C., che
ribadì la sua supremazia disciplinare.
Fozio reagì convocando nell’867 d.C. un sinodo a Costantinopoli, durante il
quale venne condannato il pontefice romano, accusato di aver alterato la
liturgia rituale.
Durante questo ennesimo confronto fra le due sedi patriarcali si dibatté sulla
questione del Filioque, ovvero sul fatto se lo Spirito Santo procedesse solo dal
Padre (come sosteneva il mondo greco-ortodosso, fedele al concilio
calcedonese), o se invece procedesse ex Patre Filioque, come invece sosteneva
il clero occidentale.
Fozio, che conosceva le motivazione che avevano portato il clero occidentale
ad accettare il Filioque, spostò la disputa dal piano liturgico a quello dottrinale
accusando i Latini di aver tradito il dogma della Trinità, che aveva il suo
fondamento nel Padre.
Questa sottile disputa trinitaria che oppose Niccolò I a Fozio fu l’ennesima
dimostrazione della separazione delle due cristianità: un Occidente ormai
latino e un Oriente invece sempre più greco.
Nel primo si affermò dunque il predominio del papa di Roma, mentre in
Oriente l’idea che una sede potesse avere autorità maggiore di un’altra era
qualcosa di impensabile.
Fozio dunque difendeva l’autonomia greca contro l’universalismo romano,
che appariva molto pericoloso fin dai tempi dell’incoronazione di Carlo
Magno.
I due patriarcati si sarebbero dunque confrontati a lungo sul piano
dell’allargamento delle sfere di influenza religiosa nella penisola balcanica.

LA CRISTIANIZZAZIONE DELLE POPOLAZIONI SLAVO-BULGARE


NELLA CONTRAPPOSTA AZIONE DI BISANZIO E ROMA

All’inizio del IX secolo d.C. la pressione araba sull’Asia Minore era di fatto
rallentata, cosa che però non si poteva dire di quella dei Bulgari, che non
rispettarono la pace trentennale sottoscritta nell’816 d.C.
La corte bizantina era ben consapevole della necessità di confrontarsi
politicamente e culturalmente con le popolazioni stanziate nei Balcani, e
questo soprattutto a causa dei tentativi di Carlo Magno e dei suoi successori
di evangelizzare gli Slavi occidentali della Grande Moravia e quelli
meridionali (Serbi, Croati, Bulgari); sembra che anche gli Arabi mandarono
presso questi dei missionari, in primo luogo presso i Russi, che alla metà del
IX secolo d.C. cominciarono a riunirsi sotto il Principato di Kiev.
Fozio comprese immediatamente che la conversione delle popolazioni slave
avrebbe accelerato l’ellenizzazione che da tempo era in atto nella penisola
balcanica (‘’convertire uno straniero significava conquistarlo alla retta fede e al
contempo subordinarlo politicamente a Bisanzio’’).
Il processo elaborato da Fozio non fu però lineare, anzi, fu frutto di grande
preparazione intellettuale e accurate scelte diplomatiche, che assicurarono
l’esercizio di un’influenza ideologica e culturale.
Il progetto bizantino si scontrò però con l’attività cattolica e con la diffidenza
delle popolazioni slavo-bulgare, in primo luogo dei loro principi, pronti a
convertirsi al Cristianesimo, ma non a subordinarsi al potere bizantino.
Le conseguenze della conversione erano in primo luogo la riorganizzazione
interna di queste nazioni, ma anche sulle relazioni internazionali.è
La cristianizzazione comportava infatti anche l’accettazione di un nuovo
credo religioso, che portava con se’ anche l’istallazione di una complessa
gerarchia ecclesiastica, che rappresentò un modello di organizzazione
statale.
Oltre che alla formazione di strutture politiche e statuali, la conversione al
Cristianesimo era anche utile per la legittimazione della sovranità del
principe.
In seguito al battesimo l’autorità del sovrano risultava grandemente
rinsaldata, in quanto la Chiesa, presentando il re come vicario di Cristo,
rendeva il tradimento un crimine contro la divinità.
Ad aumentare era anche il prestigio estero di questi sovrani, che da ‘’barbari’’
divenivano membri dell’ecumene cristiana legati a Bisanzio da un rapporto
politico-culturale.
Il vincolo ‘’fraterno’’ che legava Bisanzio alle nazioni appena convertite viene
spiegato da Leone VI, secondo cui ‘’siamo fratelli in virtù della nostra fede
comune’’; questo rapporto non significava però una rinuncia alla propria
indipendenza.
La consapevolezza dei vantaggi della cristianizzazione persuase gli Slavo-
Bulgari alla conversione: presso questi vennero dunque inviati numerosi
missionari, che non erano scelti dai patriarcati di confine per timore di una
troppo precoce assimilazione politica.
Questa logica si scontrò però con le esigenze dell’Impero Bizantino, che era
ancora in fase di riassestamento dopo la faida iconoclasta, e che dunque non
poteva accettare nazioni ostili ai suoi confini.
Il processo di cristianizzazione dei Balcani fu caratterizzato però come detto
dal confronto greco-latino lungo tutto il IX secolo d.C.
Una partita molto importante fu quella che si giocò in Bulgaria, dove il khan
Boris (852-889 d.C.) sembrava inizialmente più vicino ai missionari franchi
inviati da uno dei figli di Ludovico Pio, Lodovico il Germanico (840-876
d.C.), con cui nell’863 d.C. venne concluso anche un trattato di alleanza.
Rotislao (846-870 d.C.), principe della Grande Moravia (situata tra Polonia
meridionale, Boemia e Slovacchia orientale), cercò invece l’appoggio di
Bisanzio proprio per sfuggire alle pressioni del clero germanico.
Nell’862 d.C. egli inviò dunque un’ambasciata per chiedere un ‘’maestro e un
vescovo’’ che potesse istruire il suo popolo alla fede cristiana e alla ‘’nostra
lingua’’.
L’importanza di questa richiesta fu accolta con grande prontezza da Bisanzio,
che comprese quanto un alfabeto slavo avrebbe potuto giovare all’Impero,
favorendo i tentativi di imporre la propria egemonia culturale.
Vennero inviati in Moravia Costantino (che divenuto monaco aveva adottato
il nome di Cirillo, 826/827-869 d.C.) e Metodio (815/825-885 d.C.), due fratelli
nati a Tessalonica (città bilingue).
Loro padre aveva svolto importanti incarichi per lo stratego del thema di
Tessalonica, e forse lo stesso Metodio era stato in precedenza governatore
provinciale.
Il loro nome è entrato nella storia in quanto riuscirono ad introdurre presso le
popolazioni slave una liturgia in dialetto slavo, in modo tale che questo
idioma divenisse una lingua nazionale.
La traduzione in slavo dei testi ortodossi deve essere attribuita a Cirillo, che
grazie al suo talento linguistico riuscì ad esprimere in forma grafica i suoi
della lingua slava, creando la scrittura glagolitica (dal russo gagol=’’parola’’).
La creazione di un alfabeto originale dimostra quanto elevato fosse il livello
raggiunto dalle ricerche di carattere grammaticale sviluppatesi
nell’Università della Magnaura.
Costantino era tra l’altro allievo di Leone il Matematico e di Fozio, da cui
apprese grammatica/retorica/filosofia/astronomia/matematica, divenendo il
modello stesso per i missionari bizantini del IX secolo d.C.
Come testimonia anche la Vita slava di Costantino, tra gli obiettivi dei
missionari vi era anche quella di ribadire la maestà imperiale di Bisanzio:
‘’Iddio dei cieli stabilirà un regno che non verrà mai meno’’.
Mentre Cirillo annunciava agli Slavi l’opportunità rappresentata dall’avere la
Parola di Dio nel loro idioma, Metodio compilava la prima raccolta di leggi
in lingua slava.
La liturgia slava che Cirillo e Metodio avevano elaborato per la Grande
Moravia venne però abbandonata a causa delle pressioni dell’episcopato
bavaro-franco, assecondata e sostenuta dall’autorità di Roma.
Questa era spaventata dalla possibilità che la chiesa orientale si espandesse in
Europa centrale, ma allo stesso tempo essa non riconosceva altre lingue oltre
al greco, al latino e all’ebraico (una posizione che Cirillo condannò
duramente).
Inizialmente Cirillo e Metodio avevano goduto anche dell’appoggio di papa
Adriano II (867-872 d.C.), che li aveva anche invitati a Roma, tuttavia nell’855
d.C. la liturgia slava venne ufficialmente condannata da Giovanni VIII (872-
882 d.C.).
Nonostante la vicenda della Moravia rappresentò una grave sconfitta per la
diplomazia bizantina, l’operato dei due fratello si dimostrò comunque
decisivo per gli sviluppi successivi.
Se dunque gli Slavi del centro Europa finirono sotto l’influenza di Roma, il
patriarcato di Costantinopoli coglieva la sua più grande vittoria in Bulgaria,
dove il khan Boris venne battezzato da un prete orientale nell’865 d.C., e
scelse come suo padrino l’imperatore Michele III (842-867 d.C.).
La conversione di Boris, che assunse il titolo di ‘’czar’’ (‘’Cesare’’), fu dovuta a
convinzioni personali ma anche al dispiegamento dell’esercito bizantino al
confine.
Il processo di cristianizzazione della Bulgaria non fu però affatto semplice,
ma attraversato da tensioni e rivolte che agitarono una popolazione locale per
lo più ancora pagana; si aggiungeva poi la diffidenza dei ‘’boiari’’, i membri
dell’aristocrazia militare bulgara, tradizionalmente ostile a Bisanzio.
A convincere Boris fu anche la possibilità di costituire una chiesa bulgara
autonoma, prospettiva a cui si era nettamente opposta la Chiesa di Roma;
nell’870 d.C. l’imperatore Basilio I riconobbe all’arcivescovo di Bulgaria una
sua autonomia (anche se essa era in qualche modo legata a quella bizantina).
Il Cristianesimo greco venne accettato anche perché grazie al lavoro di Cirillo,
la chiesa bulgara aveva uno strumento eccezionale, ovvero una propria
lingua letteraria, che permise una maggiore adesione della popolazione.
La Bulgaria divenne così parte di una grande comunità sovranazionale dei
paesi ortodossi che gravitavano intorno a Bisanzio; Dimitri Obolensky ha
parlato di ‘’Commonwealth bizantino’’.
Si tratta di una formula anacronistica, tuttavia utile per comprendere che
esisteva una sorta di riconoscimento del superiore prestigio bizantino da
parte di questi regni slavo-bulgari (essi riconoscevano dunque all’interno del
‘’mondo romano-cristiano’’ la maggiore autorità del βασιλευς bizantino).
Il confronto romano-bizantino per l’evangelizzazione degli Stati slavi portò
alla formazione di due sfere di influenza: all’episcopato cattolico di Croazia
si contrappose la chiesa serba greco-ortodossa, che viene ricordata anche da
Leone VI nei suoi Tactica: ‘’l’imperatore Basilio, ha persuaso queste tribù ad
abbandonare i loro antichi usi e costumi dopo averle ellenizzate….giudicate degne
del battesimo’’.
La ripercussione di questo processo si cominciò a vedere alla fine del X secolo
d.C., quando alle diverse aree di influenza cominciarono a corrispondere due
alfabeti diversi (latino e cirillico), una spartizione che causò l’emergere di
uno spirito di estraniazione.
La polarizzazione dei popoli tra Bisanzio e Roma esercitò una grande
influenza sulle identità etnica/politica, a tal punto che gli odierni conflitti
balcanici risultano essere difficili da comprendere se non si tiene conto della
barriera creatasi tra la Roma d’Occidente e quella d’Oriente.
L’IMPERO RINNOVATO: BASILIO I E LEONE VI

Mentre nell’area balcanica si realizzava questa transizione culturale, al trono


bizantino saliva Basilio I (867-886 d.C.), un povero contadino la cui famiglia
di origine armena si era stanziata in Macedonia.
Basilio lavorò inizialmente come garzone di stalla, venendo elevato a ruoli
prestigiosi da Michele III, di cui sposò l’amante favorita (Eudocia) e che
convinse ad eliminare il cesare Barda nell’866 d.C.
In seguito Basilio fece eliminare Michele III (che tra l’altro aveva nominato
Basilio co-imperatore), assumendo così il potere.
Basilio fu molto attivo soprattutto in politica estera: riuscì a sconfiggere gli
eretici armeni pauliciani nella battaglia di Bathys Ryax (872 d.C.), riuscì a
riconquistare Cipro e inviò in Italia il generale Niceforo Foca il Vecchio, che
riuscì a conquistare l’emirato di Bari, la Puglia e la Calabria.
Il fondatore della dinastia macedone riuscì dunque a dare nuovo impulso al
programma di renovatio imperii in cui l’autocrazia riusciva a riassumere il suo
ruolo egemone.
Questo progetto venne perseguito dai suoi successori, che si dovettero però
confrontare con una nascente aristocrazia in grado di esercitare forti
pressioni sul potere imperiale.

LA RICONCILIAZIONE CON ROMA

Il programma elaborato da Basilio I si poteva attuare solo tramite una politica


di armonizzazione tra affermazioni teoriche e pratica, il che significava anche
risanare la disputa con Roma.
Basilio I decise in primo luogo di riconciliarsi con gli zeloti, che vennero
accontentati con la destituzione di Fozio e il ristabilimento di Ignazio sul
trono patriarcale, un’azione che ottenne l’appoggio di papa Adriano II.
Basilio cercando la riappacificazione non voleva riconoscere la superiorità
della sede romana, tuttavia egli agì da politico accorto, anche quando
richiamò Fozio nella Capitale per affidargli l’incarico di educare il figlio
Leone (che nutrì per tutta la vita un interesse per la cultura sacra e profana).
Morto Ignazio nell’877 d.C., Basilio affidò nuovamente il patriarcato a Fozio,
che si riappacificò con Roma dopo un concilio a cui erano presenti anche gli
inviati del papa Giovanni VIII.
In questo modo venne evitato il rischio di una frattura insanabile tra Oriente e
Occidente (che era solo rinviata, soprattutto a causa delle crescenti pretese
universalistiche del papato).
La Chiesa Ortodossa, che continuò a rifiutare le pretese egemoniche di Roma,
cercò di sostituire l’antico sistema pentarchico con la il riconoscimento di
una duplice sfera d’influenza, in cui Costantinopoli aveva sotto il proprio
dominio i patriarcati orientali, caduti sotto il dominio islamico.
Appare del tutto erroneo comunque attribuire a Fozio, come invece ha fatto a
lungo la manualistica tradizionale, il titolo di ‘’padre dello scisma’’, il
campione di uno scisma avvenuto in realtà molto tempo dopo.
Come ha osservato lo storico cattolico Francis Dvornik negli anni Sessanta, la
chiesa orientale vedeva in contraddizione con il proprio fondamento l’idea
che la sede romana potesse imporsi come egemone su tutto il clero.
La figura di Fozio, rimanendo comunque discussa, fu quella di un grande
intellettuale, che ebbe un ruolo centrale nello sviluppo culturale bizantino,
nel ridimensionamento del potere degli zeloti e soprattutto nel processo di
cristianizzazione delle popolazioni slave.
Come hanno dunque sottolineato studiosi moderni come Hans-Georg Beck e
Venance Grumel, in nessun modo Fozio può essere presentato come il
semplice antagonista del papa di Roma e delle sue pretese universalistiche.

LA RIDEFINIZIONE DEL POTERE IMPERIALE


Il patriarcato di Fozio rappresentò un momento decisivo anche nella
definizione dei rapporti tra potere secolare e autorità religiosa.
Il persistere di alcune correnti storiografiche impedisce talvolta oggi di notare
che il patriarcato costantinopolitano, a cui di solito veniva opposta la libertà
del papato romano, in realtà agì in simbiosi con il potere imperiale.
La riflessione più sistematica sul rapporto tra i due poteri è rappresentata
dall’Επαναγωγη του νομου (‘’Epanagoghè’’), un piccolo codice di leggi
risalente al regno di Basilio I.
Esso nono solo ci testimonia la ripresa degli studi giuridici, interessati
soprattutto alle fonti del diritto di VI secolo d.C., ma risulta anche essere
fondamentale per quanto scritto nel suo Prologo, che viene attribuito a Fozio
(o comunque a qualcuno che era molto informato sulla sua opera).
Nel Prologo emerge un nuovo rapporto tra imperatore e patriarca: il primo
diviene ‘’autorità legitima’’, incaricata di provvedere al bene comune; il
secondo diviene invece ‘’immagine vivente e animata di Cristo’’, incaricato di
difendere l’unità della chiesa e l’ortodossia dalle eresie.
Fozio sostituiva dunque all’imperatore chiamato ad essere imitatore di Cristo,
un patriarca immagine di Cristo, che in qualche modo sottraeva all’istituzione
imperiale una parte della sua sacralità.
Non mancavano però gli elementi di ambiguità, dovuti soprattutto al fatto
che l’opera di fatto non venne mai pubblicata, e al fatto che l’imperatore
restava in grado di condizionare l’elezione patriarcale e controllare le
gerarchie ecclesiastiche.
Nella teoria elaborata da Fozio si trovavano però riflesso un atteggiamento
diffuso nelle altre sfere del mondo bizantino, attento a cercare una migliore
coesistenza tra imperium e sacerdotium.
Il patriarcato, sebbene controllato dal potere imperiale, godeva di autonomia
spirituale, che lo rese capace nel corso di varie vicende di ergersi a difesa
dell’ortodossia contro le pretese della corte; questo rende dunque sciocche le
accuse di cesaropapismo.
L’accusa di cesaropapismo è frutto del confronto con la chiesa d’Occidente,
ma essa di fatto non trova riscontro nelle fonti, che insistono invece sulla
necessità che le due istituzioni collaborino.
Questo rapporto basato sul reciproco sostegno generò nel IX secolo d.C.
anche delle formule: la confessione d’ortodossia che l’imperatore doveva
sottoscrivere e il giuramento del patriarca a non violare l’autorità imperiale.
Le fasi di armonia tra le due istituzioni corrisposero quasi sempre a fasi di
espansione per il mondo bizantino; come scrive Costantino VII Porfirogenito:
‘’l’ordine è questo bene grande e preziosa...l’assenza di ordine è dunque un insulto
alla maestà imperiale’’.
La collaborazione tra potere secolare e autorità religiosa si manifestò
nell’impegno della chiesa ortodossa a legittimare la sovranità imperiale
ulteriormente.
Si tratta di un aspetto che la storiografia ha relegato in secondo piano rispetto
alle vicende di palazzo, ma che senza dubbio era uno degli elementi
costitutivi della sovranità legale, che si erano sviluppati al tempo di Basilio I e
dei suoi successori per fronteggiare il crescente potere dell’aristocrazia.
Il cerimoniale d’investitura accentuava gli aspetti sacrali e simbolici del
sovrano, tesi tutti a sottolineare l’origine divina della sua autorità e
rappresentarlo come ‘’Unto del Signore’’.
Costantino VII Porfirogenito scandì definitivamente il cerimoniale imperiale
nel suo De cerimoniis, in cui veniva descritta la maestà ieratica del sovrano
nelle udienze di corte e nel ricevimento di ambasciatori stranieri.
Liutprando vescovo di Cremona (920-971/972 d.C.), inviato dal re Berengario
II (950-961 d.C.) presso la corte bizantina alla metà del X secolo d.C., descrive
queste situazioni caratterizzate dall’assenza di gesti fisici e dalla sacralità
trasmessa dal sovrano, la cui ευσεβεια (‘’pietà’’) faceva da tramite tra terra e
cielo.
Inaccessibile ed isolato nel Palazzo, la figura dell’imperatore divenne oggetto
di culto, rivolto sia alla singola persona, sia (e soprattutto) all’istituzione che
essa rappresentava.
La βασιλεια divenne qualcosa di sacro, un ‘’corpo politico misto’’ destinato ad
estendere il Cristianesimo sino ai confini dell’ecumene umana.

LA ‘’NASCITA DELLA PORPORA’’ QUALE FATTORE DI LEGITTIMITÀ


DINASTICA

Gli sviluppi istituzionali dell’età basilide portarono all’affermarsi di un


principio dinastico-ereditario come fondamento della trasmissione del
potere.
Sebbene questo l’adozione di questo tipo di principio ereditario fosse già stato
utilizzato nella fase precedente, si deve notare che l’intera storia dell’Impero
era stata caratterizzata dallo scontro tra il tradizionale principio elettivo
romano e l’idea ereditaria.
Nel corso dell’VIII secolo d.C., con l’imporsi del sistema dei co-imperatori, la
tendenza ereditaria andò sempre più rafforzandosi, fino a quando nel IX
secolo d.C. si cominciò ad identificare il potere con la famiglia regnante.
Accanto alla pratica romana dell’associazione del potere si sviluppò però
anche un concetto nuovo, quello della porfirogenesia, l’essere ‘’generati nella
porpora’’.
Il termine ‘’porfirogenito’’ era utilizzato per indicare quei principi bizantini
che erano nati quando il padre era già asceso al trono imperiale, e pertanto
erano nati all’interno della Porphyra, un padiglione del Palazzo Imperiale
rivestito di porfido riservato al parto della basilissa.
Il sentimento legittimista che si impose con la dinastia basilide trovò il suo
maggior sostegno nella devozione popolare, che si identificava con la
famiglia imperiale e che l’appoggiava contro ogni tentativo di usurpazione.
Il principio dinastico non riuscì mai però a soppiantare le altre forme di
legittimazione (come l’acclamazione dell’esercito); questo ci impedisce di fare
dei paragoni effettivi tra l’assolutismo europeo d’età moderna e l’autocrazia
bizantina.
Lo stesso concetto di porfirogenesia riconduceva l’avvenimento ad un rituale
politico più che ad un fatto di sangue, a quell’unzione divina che toccava il
nascituro ‘’fin dal grembo materno’’ (Costantino VII Porfirogenito).
La podestà concessa da Dio all’imperatore non derivava dall’elezione da
parte del senato o dell’esercito, ma dalle donne, strumento del Signore, che
generavano figli destinai ad esercitare autorità sugli uomini.
Al di là delle elaborazioni teoriche, la continuità della dinastia basilide fu
l’esito di un equilibrio istituzionale tra la famiglia dei basilidi e l’aristocrazia
provinciale, che cercava di accumulare potere e ricchezze tramite politiche di
alleanze matrimoniali.
Questa nuova aristocrazia si presentava come una base di consenso la cui
mobilità era assicurata dall’apparato burocratico-militare, ma allo stesso
tempo si assisteva anche alla nascita di nobili casate che entravano in
competizione con la famiglia regnante e che miravano a rendere ereditari i
titoli elargiti dal potere imperiale.
All’interno del ceto dirigente si aprì dunque una fase di serrata competizione
per la supremazia, caratterizzata dalla possibilità di queste famiglie di poter
influire molto la vita politica della capitale.
Alla morte di Basilio I gli succedette il figlio Leone VI il Saggio (886-912
d.C.), che era stato associato al potere già nell’870 d.C. assieme al fratello
minore Alessandro.
Leone VI entrò velocemente in contrasto con gli ambienti ecclesiastici, in
quanto egli si sposò per quattro volte (superando il limite di due imposto dal
diritto canonico) al fine di assicurarsi un erede.
Nel 905 d.C. egli riuscì ad avere un figlio da Zoe Carbonopsina (‘’dagli occhi
di brace’’), esponente di una nobile famiglia.
Si poneva però il problema della legittimazione dell’erede, che si rivelò
parecchio spinoso in quanto il patriarca Nicola il Mistico (852-925 d.C.; il
termine μυστικος significa ‘’consigliere’’), un nipote di Fozio, accettò sì di
battezzare il futuro Costantino VII, ma si rifiutò di celebrare il matrimonio.
Esso fu comunque celebrato e Zoe venne proclamata basilissa, tuttavia Leone
VI fu costretto ad affrontare l’opposizione di Nicola, che gli vietò l’accesso in
Santa Sofia.
Il matrimonio venne convalidato infine grazie all’appoggio del papa di Roma
e degli altri patriarcati orientali, mentre Leone VI poté rientrare in Santa Sofia
dopo una procedura penitenziale.
In questo modo la dinastia basilide riuscì a porre le basi per la sua continuità,
che venne comunque minacciata dagli eventi successivi.
Alla morte di Leone VI nel 912 d.C. gli succedette brevemente il fratello
fratello Alessandro (912-913 d.C.), a cui succedette Romano I Lecapeno (920-
944 d.C.), membro proprio di una di quelle famiglie provinciali che si stavano
affermando al vertice dell’Impero.
Romano I, proveniente da una famiglia che nel IX secolo d.C. era imparentata
allo stratego d’Oriente, aveva svolto una brillante carriera militare, che lo
avevano portato ai vertici dello Stato.
Alla morte di Alessandro egli aveva dato in moglie al giovane Costantino VII,
formalmente al potere dal 913 d.C., sua figlia, ottenendo in cambio il titolo di
co-imperatore nel 920 d.C.; Zoe Carbonopsina, che detenne la reggenza tra il
913 d.C. al 919 d.C, si chiuse in un convento.
Relegato in secondo piano Costantino VII, Romano I poté governare le sorti
dell’Impero per un ventennio, durante il quale egli riconquistò Edessa
(rimpossessandosi della reliquia del Mandylion, la tela su cui era rimasto
impresso il volto di Cristo), respinse l’assedio russo (941 d.C.) e sottoscrisse
con il principe di Kiev Igor (912-945 d.C.) un trattato di pace.
Romano I cercò di assicurare il titolo imperiale ai propri familiari, associando
al trono i figli Stefano e Costantino, che tuttavia si dimostrarono inadatti al
governo, cosa che spinse Romano I a restituire il titolo di co-imperatore a
Costantino VII.
Romano I venne deposto nel 944 d.C. dai figli, che lo obbligarono a farsi
monaco (morì nel 948 d.C.) e che in seguito vennero scalzati da Costantino
VII Porfirogenito (913-959 d.C.).
Quest’ultimo si allineò alla strategia politica seguita da Romano I fino alla sua
morte nel 959 d.C., dopo la quale gli succedette il figlio Romano II (959-963
d.C.), che morì solo venticinquenne probabilmente poiché avvelenato dalla
basilissa Teofanò (941-?).
Questa riuscì ad assicurare il potere ai propri figli, Basilio e Costantino (che
alla morte del padre avevano rispettivamente quattro e tre anni), sposandosi
con il nuovo sovrano Niceforo II Foca (963-969 d.C.), un generale membro di
un’altra grande famiglia aristocratica proveniente dalla Cappadocia (quella
dei Φωκας).
Niceforo II, che tra il 960-962 d.C. aveva tra l’altro occupato Creta, si dimostrò
un imperatore particolarmente capace, in grado di conquistare Aleppo e altre
posizioni importanti dell’area siriaca.
Egli venne eliminato da una congiura di palazzo ordita ancora una volta da
Teofanò, coadiuvata dal suo amante Giovanni Zimisce (969-976 d.C.), nipote
di Niceforo II e membro di una famiglia aristocratica originaria del Ponto.
La vicenda di Giovanni, che come Niceforo rispettò la successione al trono dei
figli di Romano II, dimostra quanto fosse divenuta potente quell’aristocrazia
di provincia la cui potenza fondiaria si associava alle funzioni militari.
Giovanni Zimisce sconfisse i Russi, che avevano invaso la Bulgaria, e nel 974-
975 d.C. condusse alcune fortunate spedizioni contro i Fatimidi d’Egitto che
portarono alla conquista di Damasco e delle città settentrionali della Terra
Santa (Tiberiade, Acri, Nazareth).
Alla morte di Giovanni gli succedette uno dei figli di Romano II, Basilio II il
Bulgaroctono (976-1025), che a buon diritto può essere definito come il più
grande degli imperatori medievali.
Basilio II si dovette confrontare con la rivolta di Barda Sclero, sconfitto e in
seguito reso consigliere dell’imperatore stesso, e di Barda Foca il Giovane
(940-989 d. C.), nipote di Niceforo II.
Quest’ultima in particolar modo mise in difficoltà il potere imperiale, che si
vide costretto a chiedere l’appoggio del principe di Kiev Vladimir I (969-
1015), che ottenne in cambio la mano della sorella di Basilio II Anna
Porfirogenita; Vladimir dovette anche accettare di essere battezzato, cosa che
avvenne nel 988 d.C. (anno del cosiddetto ‘’battesimo di Kiev’’, durante tutti
il quale tutti gli abitanti della città si immersero nel fiume permettendo ai
preti ortodossi giunti da Bisanzio di celebrare questo ‘’battesimo di massa’’).
Dopo queste vicende l’aristocrazia dell’Asia Minore vide ridimensionate le
proprie prerogative: il potere dei Foca e dei loro alleati (i Malini) venne
compromesso in maniera irrimediabile, cosa che favorì altri lignaggi; gli
Scleri non persero invece troppa influenza.
Alla morte di Basilio II nel 1025 in Oriente erano emerse nuove famiglie
(Botaniati, Diogeni, Comneni) e in Europa lo stesso (Brienni, Tornici e
Vatatze: tutte organizzate in Tracia, attorno alla città di Adrianopoli).
Fu quest’aristocrazia del sangue di origine militare che, tra il IX e l’XI secolo,
svolse un ruolo determinante per gli sviluppi storici successivi.
Ancora una volta dunque l’Impero fu in grado di innovare le proprie
strutture sociali: grazie all’emergere di un principio di legittimità dinastica la
βασιλεια venne rivestita di valori carismatici e dunque di sicurezza di
governo stabile.

LA ‘’PURIFICAZIONE’’ DELLE LEGGI

Oltre a rinnovare il potere autocratico, Basilio I volle anche intraprendere un


progetto di codificazione legislativa , redatta per la prima volta in lingua
greca e finalizzata a dare nuovo impulso al diritto romano.
Il modello di Basilio I era ovviamente Giustiniano, di cui voleva recuperare la
missione e raccogliere l’eredità, consapevole della necessità di dare una
sistemazione complessiva del diritto, al fine di eliminare le contraddizioni e
le questioni su discussioni superate.
Già nell’VIII secolo d.C. in realtà gli imperatori cercarono di portare avanti un
progetto del genere, si pensi all’Ecloga di Leone III e Costantino V, con cui si
cercò di venire in contro alle trasformazioni di una società più complessa, in
cui era divenuta urgente la necessità di superare le sovrapposizioni del diritto
ufficiale con quello consuetudinario.
Lo stesso spirito animava Basilio I nel suo tentativo di ‘’purificazione delle
leggi antiche’’ (‘’ανακαθαρασις των παλαιων νομων’’), ovvero di un riesame
dell’intera legislazione che portasse all’edizione di un nuovo codice
applicabile a tutto l’Impero.
Questo sforzo verso l’unificazione del diritto si allineava al progetto politico
di Basilio I di rafforzamento dell’autocrazia e si tradusse in una ‘’reale
invasione del diritto pubblico nel diritto privato’’ (Nicolas Svoronos).
Il progetto venne portato a termine durante il regno di Leone VI, quando
vennero pubblicati i sessanta libri dei τα Βασιλικα (‘’Basilici’’), ovvero le leggi
imperiali, che avrebbero avuto un ruolo decisivo nella giurisprudenza del X
secolo d.C.
Al tempo di Basilio I venne pubblicato solo il Pròchiron, un manuale di diritto
destinato alla formazione dei funzionari statali: i notai erano addirittura
tenuti, oltre a possedere una buona cultura generale, a conoscere questo ed i
Basilici a memoria.
Lo scopo dei Basilici era quello di rendere accessibile e chiaro il diritto
giustinianeo, ordinandolo per gruppi ed eliminandone le ripetizioni;
all’inizio però non venne prodotto alcuni indice, che arrivò solo nel XII secolo
con il Tiputikos (‘’τι που κειται’’, letteralmente ‘’la tal cosa, dove la si trova’’).
Con i Basilici l’obiettivo di formulare una legislazione in cui venissero riflessi i
cambiamenti economico-sociali era raggiunta; tra i Basilici e le costituzioni
emanate a partire da Romano I Lecapeno a tutela delle comunità rurali non vi
sono di fatto differenze.
Sforzi ulteriori vennero compiuti da Leone VI, che cercò di correggere la
legislazione precedente tramite la pubblicazione di 113 nuove Novelle, che
revocavano gli antichi diritti del senato e delle curie e che accentravano
l’amministrazione nelle mani del sovrano; si veda la Novella 47: ‘’tutto è
sottomesso all’autorità del principe’’.
Venendo meno i contrappesi istituzionali (senato e curie), a contrastare la
deriva assolutistica del sovrano era rimasta solo l’efficacia di un potere
pubblico strutturato da un apparato amministrativo, da un diritto scritto e
dall’aristocrazia.
La volontà di applicare questo diritto ‘’purificato’’ non riuscì però ad essere
messa in pratica, sia per la mole dell’opera, sia per la forza del costume
locale.
I Basilici rimangono uno degli elementi distintivi della dinastia basilide e del
suo grande interesse per la cultura.
I Basilici non solo solo la ripresa del Corpus giustinianeo, ma furono il
risultato di un’originale attività di correzione e miglioramento che generò
tra le altre cose una letteratura giuridica semiufficiale.
Un esempio è il Libro dell’Eparca, che regolava il commercio e l’attività delle
corporazioni di Costantinopoli; altri casi sono il Trattato fiscale e la Pira, la
‘’pratica’’ (‘’Πειρα’’), un repertorio di sentenze compilato alla metà del secolo
XI da un discepolo del celebre giureconsulto Eustazio Romano (fine X-inizio
XI secolo).
Si tratta di un’opera molto utile per comprendere come la legislazione venisse
applicata nel caso concreto in relazione alle norme consuetudinarie.
Numerosi sono i riferimenti alle Novelle dei Basilidi e ai Basilici, in cui si
distingueva tra disposizioni da utilizzare in un caso specifico e quelle in cui
era possibile ricavare normative di carattere generale.

LA RIORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA AMMINISTRATIVO

Oltre al consolidarsi della maestà imperiale, l’Impero riuscì a risollevarsi


anche grazie ad un sistema amministrativo forte e ben organizzato.
Il funzionamento ininterrotto della burocrazia bizantina permise, nonostante
le sregolatezze di alcuni sovrani, il perdurare di quella tradizione civile
fondata sulla supremazia della legge (vero elemento di distinzione con gli
Stati confinanti).
La riforma tematica cominciata con Leone III aveva assunto toni sempre più
precisi nelle province dell’Asia Minore, dove erano stati costituiti i primi
themata, ma in seguito si estese anche alla parte occidentale dell’Impero.
Inizialmente in Grecia, nell’ultimo ventennio dell’VIII secolo d.C. assieme al
thema marittimo del Mar Egeo, poi in Macedonia, dove era attestata la
presenza di uno stratego nominato per fronteggiare il pericolo bulgaro.
Verso la fine del IX secolo d.C. con la costituzione delle prime κλεισυραι
(‘’kleisurai’’), dei piccoli distretti militari di frontiera indipendenti dagli
strateghi e istituiti per difendere i passi di montagna, il sistema tematico
coincideva ovunque con i confini dell’Impero.
Si trattava di un insieme di poteri giuridicamente ordinati e organizzati in
una duplice gerarchia civile e militare dipendente dallo stratego.
Il sistema tematico non deve essere interpretato però come un fenomeno di
decentralizzazione, in quanto due elementi ne limitavano l’autonomia: in
primo luogo la presenza di funzionari direttamente dipendenti dal sovrano,
incaricati di riscuotere le tasse dalle varie circoscrizioni (queste
riproducevano, senza sovrapporsi, le province tematiche).
Come ricordano le parole di Leone VI, in questo modo il βασιλευς era
‘’informato sullo stato e sull’andamento delle questioni civili e militari’’; inoltre si
impediva allo stratego di disporre degli introiti del proprio tema.
L’altro elemento che limitava l’autonomia dell’apparato periferico era la
necessità per lo Stato di operare in simultaneità con il potere centrale, che
agiva come forza coordinatrice, impedendo la dispersione dei poteri pubblici.
I grandi apparati burocratici bizantini dunque, nonostante le loro mancanze,
erano dotati di una cultura e di una duttilità sufficienti a superare le crisi del
potere autocratico e ad agire come strumento di unificazione.
Tramite lo Stato continuò a esercitare la propria autorità non rinunciando
all’occorrenza a intervenire direttamente e a tutti i livelli negli affari interni
delle province.
Per ricostruire la geografia amministrativa dell’Impero Bizantino tra IX e X
secolo d.C. facciamo riferimento a trattati di natura semiufficiale noti come
τακτικα, ovvero ‘’liste di precedenza’’, compilati dagli ατρικλιναι (‘’atrcilini’’),
funzionari pubblici a cui era affidati il compito di ricevere gli ospiti dei
banchetti imperiali e di stabilirne il posto a tavola in base ad una rigida
etichetta.
Durante queste occasioni la regalità vedeva celebrato il proprio prestigio
attraverso un preciso cerimoniale per cui la distanza dalla tavola imperiale
(determinata da rango e dignità) rappresentava quell’ordine centrale che nel
pensiero bizantino doveva sempre essere rispettato.
Come scrive anche Filoteo nel suo taktikòn risalente intorno all’899 d.C.
commettere errori nel rappresentare questa gerarchia equivaleva ad ‘’alterare i
principi stessi che regolano i rapporti umani’’.
I taktika risultano essere molto distanti dalla Notitia Dignitatum del V secolo
d.C. , in cui si dava una descrizione teorica (il concreto funzionamento non
era rappresentato) della funzione pubblica; il testo è sostanzialmente un
registro di funzioni imperiali elencati secondo i vari uffici di appartenenza.
Al tempo del taktikòn di Filoteo si distinguevano due tipi di dignità: quelle
onorifiche, senza obbligo o ufficio, accordate dall’imperatore mediante la
concessione di ‘’insegne’’ e dei corrispettivi ‘’emolumenti’’ annuali; quelle
concesse oralmente (ovvero tramite nomina), ovvero corrispondenti alle
cariche pubbliche civili e militari.
Le onorificenze ‘’per insegne’’, i cui nomi corrispondevano a quelli delle
antiche magistrature pubbliche, scomparse o prive di significato, come
quella di magister gloriosissimus, quella di proconsole, di patrizio spectabilis (si
trattava di cariche vitalizie, che potevano anche divenire ereditarie).
Le più elevate di queste cariche permettevano anche di accedere direttamente
al senato, che aveva accentuato i propri connotati di ordine sociale aperto a
tutti i dignitari di alto rango e ai loro familiari.
Le dignità conferite ‘’oralmente’’ ai capi dell’amministrazione pubblica
potevano invece essere revocate in ogni momento.
La moltiplicazione degli uffici più importanti si affiancò ad un accresciuto
controllo da parte del potere autocratico deciso a limitare il processo di
decentralizzazione proprio della vecchia amministrazione imperiale e i rischi
ad esso connesso.
Nel sistema descritto da Filoteo l’apparato burocratico si era sviluppato
attorno al Palazzo e si era suddiviso in quattro uffici: finanze, posta e affari
esteri, cancelleria imperiale e giustizia.
I mutamenti nei dicasteri finanziari rispetto ai secoli precedenti erano stati
rilevanti: la scomparsa della prefettura del pretorio e degli uffici ad essa
subordinati diede origine ad una complessa struttura amministrativa.
A capo delle finanze vi era il logoteta (‘’colui che impartisce gli ordini’’) del
genikon, che si occupava di controllare l’esazione delle imposte di base e che
aveva giurisdizione su tutto l’Impero.
Il reclutamento e il finanziamento dell’esercito erano invece affidati al
logoteta militare, che si occupava di curare l’aggiornamento dei vari registri
in cui erano inscritte le terre militari a statuto speciale.
Il tesoro era affidato al cartulario del sakellion, a cui spettava la gestione di
una sorta di arsenale statale in cui era conservato, come prodotto grezzo, il
materiale necessario all’allestimento di una flotta.
Il preposto dell’edikion provvedeva all’equipaggiamento dell’esercito e gli
emolumenti dei senatori.
L’amministrazione del patrimonio imperiale spettava invece al ‘’grande
curatore’’, al ‘’curatore dei Mangani’’ (una carica creata da Basilio I); mentre
all’orphanotrophus spettava il compito di assicurare il buon funzionamento
dell’orfanotrofio di San Paolo, la principale istituzione caritatevole della
città, sovvenzionato dalla generosità imperiale tramite concessioni fondiarie.
Questi dipartimenti finanziari erano organizzati in una gerarchia abbastanza
ampia di funzionari che facevano capo al sacellario, che aveva ereditato
funzioni e poteri del comes sacrarum largitionum e del comes rei privatae in
assenza di un erario centrale che agisca come elemento coordinatore degli
uffici, che operavano comunque in modo indipendente l’uno dall’altro.
Egli controllava anche l’operato di due cariche importanti: il primo era il
protoasecretis, da cui dipendeva la cancelleria imperiale responsabile di quei
documenti, crisobulli e prostagmata, elaborati e aventi valore di legge rispetto
ad un unico affare con cui si realizzava, nelle procedure amministrative e
fiscali, la volontà del sovrano.
L’altra carica posta sotto il controllo del sacellario era il logoteta della posta,
che aveva sotto il proprio controllo la pubblica organizzazione delle strade e
delle comunicazioni (il tradizionale cursus publicus) e dirigeva i rapporti
diplomatici con l’estero.
In campo giudiziario la carica più elevata era quella di eparco, che aveva di
fatto ereditato le competenze del Praefectus Urbis e che occupa il primo posto
nella gerarchia degli ufficiali civili e che Filoteo indica come superiore agli
strateghi dei themata occidentali.
Psello a buon diritto scrive che quella di eparco è ‘’una carica imperiale senza
porpora’’, in quanto il suo potere amministrativo su Costantinopoli era
inferiore solo a quello dell’imperatore.
Sotto l’eparco vi erano il questore, a capo di una corte d’appello, e il preposto
alle petizioni incaricato di controllare le richieste indirizzate all’imperatore.
Negli anni Ottanta del XX secolo Friedhelm Winklemann, in un trattato sulla
amministrazione bizantina del IX e X secolo d.C., spiegò però che tra cariche
‘’per insegne’’ e cariche ‘’orali’’ non vi era una netta separazione.
La situazione era infatti in realtà molto più fluida di quanto emerge dai
taktika: ogni funzione ha un preciso titolo onorifico, e allo stesso tempo
l’esercizio di una carica amministrativa implica che un funzionario è legato
all’imperatore da un rapporto di vicinanza personale (vicinanza che viene
descritta nel cerimoniale di maggiore o minore vicinanza rispetto a questo).
Ne deriva una nuova fisionomia del ceto dirigente: prima i titolari di dignità
palatine erano separati dall’apparato amministrativo, mentre ora i dignitari
si identificano con i funzionari.
L’importanza del favore imperiale rese più aperto l’accesso alle cariche
elevate dell’amministrazione pubblica rispetto a quanto avveniva nel basso
Impero, quando il potere politico si concentrava nella mani di una classe
senatoria a cui spettava anche il monopolio commerciale.
Di contro si assistette ad una maggiore mobilità del ceto dei funzionari, che
cominciò a trarre la propria forza in quanto in possesso di delega imperiale e
di una preparazione culturale specifica.
Questo ceto non si identificava per forza con quello dei grandi proprietari
terrieri, anche se era evidente che questo cercasse di occupare grandi cariche
pubbliche per espandere il proprio potere fondiario.
Questa tendenza alterò in modo irreversibile le strutture sociali dell’Impero,
causando la crisi dell’XI secolo, che avrebbe portato ad una nuova fase della
storia bizantina.

L’ETÀ DELLE CONQUISTE: DA ROMANO LECAPENO A BASILIO II

L’ideale di Renovatio imperii perseguito dai sovrani basilidi trovò una sua
compiuta realizzazione nell’espansione mediterranea che l’Impero riuscì a
condurre tra il X e il primo quarto di XI secolo.
Prima di arrivare a questa fase di espansione fu però necessario rinsaldare la
potenza bizantina nell’area danubiano-balcanica e in quella siriaco-anatolica.
L’impegno bellico culminò nel regno di Basilio II (976-1025), durante il quale
l’Impero riuscì nuovamente a dotare l’Impero di una rinnovata presenza nel
mondo occidentale.
Molto importante risulta ricordate che queste guerre vennero condotte nel
segno della legittimità, infatti l’autocrazia condusse queste campagne con
l’obiettivo di ristabilire gli antichi confini romani: non guerre di aggressione,
ma come legittimo esercizio di un diritto.
Questa idea traspare anche nella Cronaca dello storico Giovanni Cinnamo,
(1145-1190), che utilizzò questo ideale per giustificare le pretese in Occidente
della dinastia dei Comneni (egli usa il termine ‘’ανασωθειν’’, ovvero
‘’recuperare’’).
Questa ideologia si innestava su una nuova realtà sociale creatasi all’interno
dell’Impero: al crescere delle iniziative militari corrisposero anche altri due
elementi.
Il primo era la presenza su tutto il territorio imperiale di eserciti tematici
costituiti da soldati che si mantenevano e si equipaggiavano con la rendita di
proprietà terriere agevolate sul piano fiscale.
Il secondo era la presenza di una forte aristocrazia con una spiccata
vocazione militare, collocata prima nella regione anatolica e poi anche nel
territorio balcanico.
Si trattava di un’aristocrazia in realtà non sempre fedele al potere imperiale,
che però si riusciva sempre in qualche modo a controllare.
Queste erano due forze in comunicazione tra di loro, in quanto entrambe
erano interessate ad una politica di espansione militare: i soldati tematici
volevano rafforzare la piccola e media proprietà terriera e arricchirsi, mentre
l’aristocrazia militare voleva prestigio/potere politico/patrimoni fondiari.
Questi fattori furono decisivi nello sviluppo della politica estera, quanto nelle
scelte interne: si fa riferimento alla politica basilide contro gli abusi nei
confronti della piccola-media proprietà terriera dei soldati tematici, abusi che
avrebbero potuto minacciare quell’esercito caratterizzato da organizzazione
economica e coesione sociale impareggiabili.
Questo esercito, caratterizzato anche da un forte patriottismo locale, veniva
incoraggiato tramite provvedimenti contro gli esattori fiscali.
Senza queste due decisive componenti l’Impero non sarebbe mai riuscito a
riprendere un’iniziativa autonoma, che non a caso coincise con i regni di
Romano I Lecapeno, Niceforo II Foca e Giovanni Zimisce, imperatori di
grande talento militare ed esponenti consapevoli dei nuovi valori
dell’aristocrazia provinciale, e ovviamente consapevoli dei vantaggi insiti
nell’esercizio delle armi.

L’OFFENSIVA SUL FRONTE BULGARO

Fin dall’VIII secolo d.C. gli Slavi, e i Bulgari in particolar modo, assunsero
un’importanza determinante nell’orizzonte politico bizantino.
A causa dei continui confronti sulla frontiera araba, l’Impero a lungo non fu
in grado di fronteggiare in maniera adeguata la minaccia bulgara, che nel
corso del IX secolo d.C. era arrivata a minacciare tessalonica, ma che si era
apparentemente spenta con la conversione di Boris, dopo la quale sembrava
essere raggiunta una fase di equilibrio, come testimoniano le parole del
patriarca Nicola Mistico: ‘’[Gesù] Egli legò a se’ il popolo bulgaro e lo indusse ad
annodare relazioni amichevoli col popolo bizantini’’.
Questa fase di pacifica vicinanza si interruppe però quando Boris decise di
ritirarsi in un monastero e lasciare il potere al figlio maggiore Vladimir (889-
893 d.C.).
Costui, e gran parte della popolazione, si macchiò subito del peccato di
apostasia (segno di quanto ancora poco cristianizzata fosse la zona),
costringendo Boris a deporlo e sostituirlo con il fratello minore Simeone I
(893-927 d.C.).
Prima di fare ciò però, Boris trasferì la capitale da Pliska a Preslav e impose ai
suoi sudditi lo slavo come lingua ufficiale dello Stato e della vita ecclesiastica.
Sotto Simeone I il Primo Impero Bulgaro (681 d.C.-1018) raggiunse la sua
fase di massimo splendore, arrivando a conquistare una piena indipendenza
nazionale ed ecclesiastica, ma soprattutto a contrastare l’ecumenismo
bizantino.
Simeone I arrivò addirittura a contendere il titolo di βασιλευς al sovrano
bizantino; senza dubbio egli venne fortemente influenzato dalla sua
educazione a Costantinopoli (egli aveva frequentato l’Università della
Magnaura).
Indicato da Liutprando da Cremona come un ‘’hemiargeion’’ (‘’mezzo greco’’),
Simeone I cercò di reagire al ‘’bizantinismo’’ (Ivan Bozilov), ovvero al
pericolo di finire annichilito dalla pax bizantina.
Egli non voleva annientare l’Impero, bensì sostituirsi ad esso attraverso la
formazione di una nuova realtà universale capace di assorbire il potere
bizantino, ormai incapace di avere una dimensione ecumenica a trionfante.
La nuova aristocrazia locale, nata dalla fusione dell’elemento bulgaro con
quello slavo, sarebbe così riuscita a dare vita ad una nuova ταξις, un nuovo
ordine in cui sarebbero stati i Bulgari a trovarsi al vertice della ‘’famiglia dei
popoli e dei principi’’.
La pax Simeonica rappresentava di fatto una sconfitta soprattutto per il
patriarcato bizantino, rappresentato in questo caso dal patriarca Nicola
Mistico, che si affliggeva del fatto che popoli cristiani avessero preso le armi
per combattere fra loro.
Inizialmente Simeone I si alleò ai Peceneghi, una popolazione turca semi-
nomade proveniente dalle steppe della Russia Meridionale, per affrontare i
Magiari (noti nelle fonti come Ungari), che si erano stanziati nella Pannonia
(odierna Ungheria) nel corso del X secolo d.C.
In questo modo egli riuscì ad occupare tutta la parte settentrionale dell’area
balcanica, obbligando i Serbi a riconoscere il protettorato bulgaro; egli arrivò
anche ad assediare Costantinopoli (913 d.C.) alla morte di Leone VI, impresa
a cui rinunciò solo dopo aver ottenuto in cambio la mano della figlia di Nicola
Mistico.
Tramite queste nozze Simeone diveniva suocero di Costantino VII, posizione
che gli avrebbe permesso potenzialmente di rivendicare il trono imperiale,
una prospettiva non utopistica soprattutto dopo la vittoria conseguita nella
battaglia di Anchialo (917 d.C.), in cui l’esercito bizantino venne annientato.
Questa ambizione venne però abbandonata nel momento in cui Costantino
VII sposò la figlia di Romano I Lecapeno (Elena), che venne nominato co-
imperatore.
Costretto a rinunciare alla possibilità di unire le due corone, Simeone decise
di assumere il titolo di ‘’imperatore dei Bulgari’’ e di convocare un concilio di
tutti i vescovi bulgari per dichiarare l’autocefalia della chiesa nazionale,
elevando così l’arcivescovo di Bulgaria a patriarca (solo un patriarca infatti
avrebbe potuto conferire legittimità al potere imperiale bulgaro).
Egli cercò di legittimarsi anche tramite l’appoggio di Roma: egli inviò dei
delegati a Roma per chiedere a papa Giovanni X (914-928 d.C.) di inviargli le
insegne della regalità.
Nel 927 d.C. Simeone morì, lasciando però alla Bulgaria una maggiore
consapevolezza politica, una capitale divenuta anche importante centro
culturale (Preslav fu dotata di una grande biblioteca e divenne il centro di
una grande produzione di traduzioni, alcune opera dello stesso Simeone).
Interessante fu l’attività di Giovanni l’Esarca (), autore di una traduzione in
slavo della Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno e autore
dell’Esamerone, una dettagliata esposizione dei sei giorni della creazione del
mondo (un’opera ispirata dall’omonimo scritto di Basilio di Cesarea) che
divenne un testo centrale del medioevo slavo.
Con i successori di Simeone l’Impero Bulgaro conobbe una rapida decadenza,
e questo nonostante i Bizantini riconoscessero nel 927 d.C. al figlio di
Simeone, Pietro I (927-969 d.C.) il titolo di ‘’βασιλεθς Βουλγαρων‘’
(‘’imperatore dei Bulgari’’), la creazione di una sede patriarcale presso Silistra e
concedessero al nuovo sovrano anche una delle figlie di Romano I (Maria,
ribattezzata poi Irene).
Il titolo imperiale attribuito ai Bulgari era lo stesso che era stato riconosciuto
anche ai sovrani Franchi il secolo precedente, quindi ancora una volta si
voleva ribadire il prestigio superiore dell’autocrazia bizantina.
Si deve inoltre osservare che anche la concessione del patriarcato fu una
mossa molto studiata, infatti la sede elevata a patriarcato non era quella della
capitale, ma quello della lontana Silistra sul Danubio (l’antica Durostorum
romana).
Inoltre grazie al matrimonio con Maria/Irene si venne a costituire all’interno
della corte bulgara una fazione filobizantina, che cominciò a scontrarsi con
l’antica aristocrazia bulgara, composta da quelli che nelle fonti vengono
indicati come i ‘’nobili di Simeone’’.
Le difficoltà dello Stato bulgaro aumentarono ulteriormente con il sorgere di
dispute religiose, dovute in primo luogo alla diffusione del bogomilismo
(dal nome del prete Bogomil, ‘’colui che Dio prende in pietà’’), un movimento
dualista di origine orientale secondo cui ad un Dio superiore (padre di
Cristo), si contrapponeva Satana-Satanael, che aveva creato la terra e l’uomo
dopo essere stato cacciato dal cielo.
In seguito a ciò Dio dotò l’uomo di un’anima e inviò suo figlio Gesù Cristo
per sottrarlo alla schiavitù del suo antagonista; si trattava dunque di una
visione manichea.
I bogomili rifiutavano inoltre la materialità, elogiando il disprezzo per il
corpo, ma rifiutando l’ordine sociale/familiare/liturgico, creando dunque
diverse difficoltà al potere centrale e a quello religioso.
Nel suo Trattato contro i bogomili (ultimo quarto del X secolo d.C.), il prete
bulgaro Cosma ricorda che questi ‘’oltraggiano i ricchi, odiano gli imperatori, si
fanno beffe dei superiori’’.
Molto efficace fu la propaganda bolomila contro le gerarchie ecclesiastiche,
che colpiva tra l’altro i numerosissimi monasteri sorti in Bulgaria, che Pietro I
aveva privilegiato attraverso la concessione di proprietà fondiarie e di sgravi
fiscali.
Con la scomparsa di Simeone e l’evoluzione in senso positivo della situazione
al confine orientale, i Bizantini poterono concentrarsi maggiormente sul
fronte bulgaro.
L’attività di Niceforo II e Giovanni Zimisce, che riuscirono ad ottenere anche
l’appoggio del Principato di Kiev, portò alla conquista della Bulgaria
orientale, riuscendo a riportare la frontiera all’antico confine danubiano.
Lo zar Boris II fu infine costretto nel 969 d.C. a rinunciare alla porpora
imperiale e ad abolire il patriarcato di Silistra: la Bulgaria divenne provincia
imperiale.
Le terre bulgare, devastate impoverite e devastate da anni di guerre, furono
ripopolate tramite l’immissione di gruppi armeni provenienti da Metilene e
Teodosipoli (regioni in cui, nel VII secolo d.C., erano attivi gli eretici
pauliciani, che avevano alterato l’ortodossia interpretandola in chiave
manichea e che negavano ogni gerarchia ecclesiastica).
Il trasferimento dei pauliciani riuscì a mitigare il malcontento religioso in
Asia Minore, e allo stesso tempo però consolidò l’azione dei gruppi dissidenti
come i bogomili.
Rimase in vita un autonomo principato bulgaro intorno al lago di Prespa e
alla città di Orchida, dove si erano arroccati gli ultimi membri
dell’aristocrazia bulgara, che avevano eletto come zar Samuele I (987 d.C.-
1014), posto a capo di uno Stato collocato tra Danubio e Tessaglia.
La vicenda di questo nuovo Stato bulgaro fu però molto breve, infatti dopo
aver sedato le rivolte degli Scleri e dei Foca, Basilio II poté concentrarsi sul
fronte bulgaro.
Egli colse una vittoria totale nella battaglia di Kleidion (1014), dopo la quale
fece accecare 14.000 prigionieri bulgari, guadagnandosi in questo modo il
soprannome di ‘’Bulgaroctono’’ (‘’massacratore dei Bulgari’’); il Regno Bulgaro
cessò di esistere nel 1018, come ricorda anche la Cronaca compilata nel XII
secolo da un anonimo prete di Dioclea.
In questa erano ricordate le conquiste di Basilio II: il regno di Samuele, la
Dalmazia e le sue regioni meridionali, la Serbia e la Bosnia.
Nonostante il suo soprannome, Basilio agì in modo tale da rispettare le
usanze locali dei Bulgari, e concedendo alla chiesa locale un certo grado di
autonomia; allo stesso modo perseguitò duramente gli eretici bogomili.
La forza eversiva di questi ultimi venne di fatto meno grazie alla repressione
attuata da Basilio II, anche se nel corso dell’XI secolo è testimoniata la
presenza di bogomili in Asia Minore, e nel XII di questi a Costantinopoli.
Ormai non rimanevano Stati tra il mondo bizantino e il Danubio, cosa che
permise all’Impero di rispolverare le sue ambizioni in Italia.
Nelle nuove aree conquistate fu esteso il sistema tematico, sia della regione di
Durazzo, sia in Dalmazia e (molto probabilmente) anche in Serbia.

BISANZIO E GLI INIZI DELLA STORIA RUSSA

La vitalità dell’Impero è testimoniata anche da un ritrovato interesse per le


regioni del Mar Nero, specialmente per i centri municipali situati intorno alla
città di Cherson, sede di un thema istituito nell’883 d.C. dall’imperatore
Teofilo per difendersi dagli attacchi delle popolazioni nomadi e seminomadi
residenti nel Nord.
Queste erano giunte a seguito delle grandi migrazioni germaniche (IV, V, VI
secolo d.C.), e si erano insediate intorno all’area di irradiamento bizantina nel
corso del VI e del VII secolo d.C.
Qui giunsero poi gruppi provenienti dalla Scandinavia, quelli che nelle fonti
sono indicati come ‘’Normanni’’ (nome usato dai cronisti latini per indicare
gli ‘’uomini del Nord’’) o ‘’Vichinghi’’ (nome usato nelle lingue nordiche, che
fa riferimento al termine ‘’vik’’, ‘’baia’’).
A questi si aggiunsero però anche i Vareghi (letteralmente ‘’guerrieri
mercanti’’, dal termine slavo ‘’varingr’’), indicati nelle fonti bizantine come
Ρως, Rus’ dagli Slavi e Rus dagli Arabi.
Organizzate intorno ad un ceto aristocratico di possidenti il cui prestigio si
basava sull’esercizio delle armi, queste popolazioni, partite dalla Danimarca e
dalla Norvegia, compirono incursioni in Inghilterra, Scozia, Irlanda, Francia,
Germania, Spagna, Portogallo e Africa.
La loro azione era inizialmente limitata al saccheggio, tuttavia nel corso del
IX e del X secolo d.C. queste cominciarono anche a organizzarsi intorno ad
insediamenti stabili (il caso più celebre è quello di Rollone, capo normanno a
cui il re dei Franchi occidentali Carlo il Semplice attribuì il ducato di
Normandia nel 911 d.C., da cui sarebbero partiti i conquistatori del
Meridione italiano e dell’Inghilterra).
Per i Bizantini si rivelò molto più importante l’incontro con i Vareghi, di
origine svedese, che erano giunti sulle rive del Mar Caspio e del Mar Nero
attraverso la navigazione fluviale (si mossero nei territori tra Nogvorod e la
foce del fiume Dnejpr).
Vi sono poche fonti relative allo stanziamento dei Vareghi, che guidati dai
loro capi militari riuscirono ad imporsi sulle popolazioni locali, che erano
già altamente civilizzate (come ha dimostrato l’archeologia).
La storia dello stanziamento viene ricostruita nella Cronaca dei tempi passati,
scritta intorno al XII secolo d.C., in cui si racconta la saga del principe Rjurik
(798?-879 d.C.), il fondatore del Principato di Nogvorod.
La vicinanza al mondo bizantino e al Regno dei Cazari , ma anche l’antica
tradizione delle colonie greche, avevano permesso (prima dell’arrivo dei
Vareghi) la formazione di una sviluppata e prospera organizzazione urbana.
Su tutti i centri spiccava quello di Kiev, divenuta fiorente in quanto crocevia
commerciale dell’area e cuore di una nuova organizzazione politica, il
Principato di Kiev, sorto alla fine del IX secolo d.C.
La città si trovava alla fine della via che univa Nogvorod al Mar Nero, ed era
il punto d’arrivo per chi commerciava prodotti come miele, pellicce, cera,
ambra, stoffe e sete preziose.
Negli ultimi decenni del IX secolo d.C., come detto, Kiev riuscì ad espandersi
verso Nord, arrivando anche a conquistare Nogvorod e a minacciare il
Chersoneso bizantino.
I rapporti russo-bizantini furono inizialmente di pacifica convivenza, ma
subirono un peggioramento al tempo di Michele III, quando i Russi
arrivarono a saccheggiare le zone intorno al Bosforo e ad assediare la stessa
Costantinopoli.
Dopo il fallito assedio, l’Impero cominciò a condizionare molto la vita
culturale e religiosa del mondo russo: nell’867 d.C. il Cristianesimo ortodosso
venne introdotto in Russia, come ricorda Fozio in una lettera ai patriarchi
orientali; nell’874 d.C. venne inviato a Kiev un prete greco.
Questo non significò però un immediato abbandono del politeismo e dei
tradizionali culti locali, che rimasero in vita sino alla conversione del principe
Vladimir I nel 988 d.C.; un momento molto importante fu rappresentato
anche dalla conversione della principessa Olga nel 957 d.C.
Vladimir I impose a tutto il popolo il battesimo, che avvenne nelle acque del
fiume Dnejpr (come viene raccontato nella Racconto dei tempi passati, in cui il
principe viene indicato come ‘’nuovo Costantino’’.
All’interno del Racconto vengono anche specificati i motivi della conversione,
dovuta in primo luogo al fascino esercitato dalla liturgia ortodossa (mentre
quella latina viene indicata come spoglia) e alla promessa di avere in sposa
Anna Porfirogenita, sorella di Basilio II.
Lo splendore di questa prima Russia fu caratterizzato dallo sviluppo di una
grande attività mercantile, che si interruppe momentaneamente nel 941 d.C.,
quando i Russi lanciarono un attacco ai villaggi greci della costa.
Nel 944 d.C. Romano I Lecapaeno e il principe dei Rus’ Igor strinsero un
accordo politico-commerciale, riappacificando i due mondi e dando ai loro
rapporti una certa complessità giuridica.
Il trattato fu l’ennesimo segno di come i principi russi fossero stimolati
culturalmente dal confronto con Bisanzio , che li spinse a definire meglio le
proprie strutture politiche, in origine molto eterogenee.
Il Principato di Kiev si rafforzò ulteriormente alla fine del X secolo d.C.,
quando la figura del principe si rivestì di valori religiosi, esattamente come a
Bisanzio.
Ora anche il monarca russo venne affiancato ad un metropolita nominato dal
patriarca di Costantinopoli, che erano quasi sempre di origine greca; gli
episcopati che sorsero erano invece gestiti da ecclesiastici inviati dalla
capitale e dal Chersoneso.
La diffusione degli episcopati permise alla Chiesa ortodossa di erigere una
barriera insuperabile per la diffusione del cattolicesimo.
Oltre al credo , da Bisanzio i Russi ereditarono anche le tradizioni millenarie
della cultura greca: Kiev divenne, descritta da Adamo di Brema (teologo
tedesco vissuto nell’XI secolo) come un ‘’glorioso gioiello’’.
La Russia seppe anche raccogliere i lasciti di Bisanzio, quando nel XV secolo
l’Impero cadde definitivamente sotto la pressione ottomana, rendendo i
propri sovrani i principali difensori dell’ortodossia.
Nell’XI secolo la conversione dei Russi rappresentò uno dei successi più
importanti del regno di Basilio II, che portò a termine un processo partito al
tempo di Fozio.
Come notava Dimistri Obolensky, i principi russi comunque ‘’riconobbero la
superiorità dell’imperatore bizantino come capo della chiesa ortodossa’’.
Nei secoli successivi all’XI cominciò a svilupparsi anche un sempre più forte
sentimento di coscienza nazionale slava, che comunque non fece venire
meno il riconoscimento di Costantinopoli come ‘’nuova Gerusalemme’’.
Questo almeno sino al concilio di Firenze-Ferrara del 1349, durante il quale
l’Impero sottoscrisse un atto d’unione con la chiesa cattolica nella speranza di
ottenere supporto militare.
La caduta di Costantinopoli nel 1453 fece sì che Mosca ereditasse da essa il
ruolo di cuore dell’ortodossia: già in una lettera del 1510 il monaco Filoteo di
Pskov scriveva allo zar Basilio III (1505-1533) che ‘’Due Rome sono cadute, ma
la terza sta in piedi, e una quarta non vi sarà’’.

LA LOTTA CONTRO GLI ARABI IN ORIENTE

Impadronendosi di Creta nell’827 d.C. gli Arabi occuparono Creta,


consolidando la propria egemonia nel Mediterraneo orientale.
Si trattò di una conquista di grande importanza in quanto l’isola non solo si
trovava in una posizione strategica, al centro delle rotte verso l’Egitto/l’Egeo/
il Mediterraneo occidentale, ma anche perché divenne la base per le
incursioni piratesche degli Arabi.
Da quel momento l’insicurezza divenne uno stato d’animo permanente e la
navigazione mercantile fu danneggiata in modo grave.
Con l’inizio della dinastia macedone, durante i regni di Basilio I e Leone VI, si
avviò un processo di ripresa militare per l’Impero, che cominciò a preparare
la propria espansione militare
Le devastazioni causate dagli Arabi trovano spazio anche nella letteratura
dell’epoca, si pensi alle memorie di Giovanni Cameniata (X secolo d.C.), che
nel 904 d.C. ricordava il saccheggio del porto di Tessalonica da parte dei
pirati saraceni.
Nel corso del X secolo d.C. vennero tentate due fallimentari spedizioni per
riconquistare Creta, due segnali della successiva fase di offensiva militare
contro il califfato abbaside.
La frammentazione politica di quest’ultimo in numerosi Stati indipendenti
favorì le operazioni militari bizantine, condotte da operatori brillanti e
capaci quali Niceforo II Foca e Giovanni Zimisce (già Romano I Lecapeno in
realtà aveva condotto alcune spedizioni di successo).
Queste operazioni acquisivano ancora maggiore importanza in quanto
espressione militare delle ambizioni politiche delle grandi famiglie
aristocratiche dell’Asia Minore, che sollecitarono alla ripresa dell’offensiva
contro il mondo islamico.
Il confine arabo, caratterizzato dalla presenza di corti di provincia, era difeso
dai cosiddetti ακριται (‘’akritai’’ da ακραι, ‘’confine’’), un’aristocrazia militare
votata alla difesa del confine, intorno alla quale si svilupparono cantari
popolari, dalla cui raccolta si generò il poema epico noto come Digenis
Akritas.
Nel corso del X secolo d.C. le aristocrazie dell’Asia Minore e d’Armenia
furono protagoniste nella lotta contro l’Islam, in quanto i loro membri
fornivano ufficiali alle armate tematiche.
Al tempo di Romano I Lecapeno l’espansione islamica fu fermata del tutto, e
l’Impero riportò nuovamente i confini ai fiumi Halys, Tigri ed Eufrate (venne
così allargato il thema di Mesopotamia e creato quello nuovo di Lykandos).
Seleucia e Sebasteia vennero trasformate da due κλεισυραι (‘’kleisurai’’)
originariamente appartenenti ai distretti militari d’Anatolia e Armenia in
piccoli themata indipendenti, che garantivano all’amministrazione imperiale
la sicurezza della frontiera.
Molto importante fu la riconquista, ad opera di Romano I, della città di
Edessa nel 943 d.C., da cui venne recuperato il Mandylon, trasferito a
Costantinopoli con una solenne processione l’anno seguente (944 d.C.).
In seguito le campagne di Niceforo II Foca e Giovanni Zimisce completarono
l’impresa stabilendo le antiche frontiere orientali.
Un’avanzata modesta se paragonata all’estensione del mondo islamico, ma di
grande significato simbolico, in quanto tramite essa veniva restituita al
mondo orientale la sede patriarcale di Edessa.
Con Costantino VII Porfirogenito ritornò in vigore la posizione secondo cui il
territorio romano-bizantino coincideva con l’interezza dell’ecumene cristiana.
A questa fase di espansione non si deve descrivere come ‘’guerra santa’’,
infatti gli Arabi erano nemici politici, con cui però era possibile instaurare un
rapporto di armoniosa coesistenza, che secondo Nicola Mistico era doveroso
ricercare: ‘’bisogna per questa solo ragione vivere in comunione fraterna’’.
Risulta dunque eccessivo parlare di ‘’crociata’’, quanto piuttosto di una fase
di offensiva militare che rese nuovamente Bisanzio la potenza egemone nel
Mediterraneo orientale.
Nel 961 d.C., durante il regno di Romano II, Niceforo II Foca riuscì anche a
riconquistare Creta, posta sotto il comando di uno stratego, e in seguito
anche Cipro, con cui venivano recuperati due capisaldi navali per il controllo
delle grandi vie marittime.
Servendosi di Cipro e Creta come basi d’appoggio per le sue campagne,
Giovanni Zimisce riuscì ad ottenere degli strepitosi successi in Oriente, che
lo portarono sino alle mura di Gerusalemme.
I Fatimidi d’Egitto si decisero allora a trattare con l’Impero, a cui venne
riconosciuto, con un trattato nel 1038, una sorta di protettorato sui cristiani
Palestina; veniva anche creato un patriarca ortodosso di Gerusalemme.
Anche l’emirato di Aleppo fu costretto a riconoscere la propria sudditanza nei
confronti dell’Impero; in posizione di sudditanza si poneva anche il Regno
d’Armenia, che rimase comunque separato da questioni teologiche relative al
monofisismo e al diofisismo.

RINNOVATI INTERESSI BIZANTINI PER L’ITALIA

Nell’ultima fase del IX secolo d.C. la situazione in Italia si era molto


complicata, soprattutto a causa dei tentativi di espansione dei Carolingi nel
Meridione, che si rivelarono però fallimentari.
Nel Mezzogiorno l’unità politico-territoriale era di fatto sgretolata, visto che il
dominio bizantino non era in grado di esercitare la forza unificatrice dei
ducati longobardi e campani (soprattutto il ducato di Benevento).
L’autorità e il prestigio di Bisanzio nella zona risultavano così molto
compromessi, e questo soprattutto a seguito della caduta di Siracusa in mano
araba (878 d.C.).
Fortemente islamizzata, l’isola conobbe gli effetti positivi della dominazione
araba, soprattutto dopo che le lotte tra Arabi e Berberi finirono grazie
all’attività della dinastia dei Khalbiti, sorta nel X secolo d.C.
Dalla Sicilia gli Arabi portarono avanti azioni di scorreria che giunsero a
colpire anche la costa dalmata, da cui partiva la Via Egnazia (che passava da
Tessalonica e arrivava a Costantinopoli).
Di fronte a questa minaccia i sovrani basilidi compresero l’importanza
dell’Italia, verso quale si rivolse una nuova stagione militare e diplomatica in
cui venne coinvolta Venezia.
Sotto il regno di Basilio I furono riconquistate Bari e Taranto, strappate agli
Arabi, e in seguito vennero prese anche le piazzeforti di Tropea e Santa
Severna e Amantea, occupate dagli eserciti tematici e da contingenti armeni.
Per quanto riguarda la Sicilia, questa uscì definitivamente dall’orbita
dell’Impero nel corso dell’XI secolo, quando Taormina cadde in mano araba;
questa perdita fu compensata dal riconoscimento del protettorato greco da
parte del ducato di Benevento.
Dopo che gli Arabi tentarono vanamente di penetrare in Calabria, l’esercito
imperiale distrusse la colonia saracena del Garigliano (915 d.C.), azione con
cui venne ristabilita l’egemonia bizantina nel Meridione.
Questa fase storica rappresentò, secondo Andre Guillou, una ‘’seconda
colonizzazione bizantina’’ della penisola, che riuscì ad arrestare per qualche
momento la disgregazione politica.
Il prestigio di Bisanzio accrebbe ulteriormente grazie all’impegno dei basilidi,
che grazie a rinnovate forze navali e alla continuità dinastica, riuscirono
anche a proteggere Roma dalle incursioni saracene: sia sotto Basilio I che
sotto Romano I Lecapeno vennero inviati i ‘’prodromi’’ (lunghe e veloci navi
da combattimento) a difesa della Città Eterna; nello stesso periodo anche la
Sardegna tornò nell’orbita di Bisanzio.
Alla rinnovata presenza bizantina corrispose un’ovvia riorganizzazione
territoriale ed amministrativa: nell’891-892 d.C. venne creato il thema di
Langobardia, che aveva come capitale Bari e che assieme al thema di
Cefalonia era preposto alla difesa della costa adriatica.
Al tempo di Costantino VII Porfirogenito venne anche creato il thema di
Calabria, che aveva come capitale Reggio e che servì come muro tra la Sicilia
araba e la Puglia.
Gli studi di Vera von Falkenhausen (1938) hanno dimostrato che il thema di
Langobardia mantenne un’autonoma capacità istituzionale.
Da questa riorganizzazione venne esclusa la Campania, il cui territorio era in
parte controllato dal ducato longobardo di Benevento e presentava anche
diverse città libere (Amalfi, Capua, Salerno, Napoli, Gaeta), che comunque
riconobbero l’autorità imperiale.
Nella seconda metà del X secolo d.C. l’attenzione degli imperatori si spostò
verso Oriente , dove agirono i più volte ricordati Niceforo II Foca e Giovanni
Zimisce, esponenti della potente aristocrazia microasiatica.
L’interesse della corte per la penisola non venne però meno, anche se le
ambizioni di espansione si scontrarono con la rinnovata vitalità longobarda e
con i tentativi degli Ottoni di espandersi nell’area.
Ottone I (962-973 d.C.; dal 967 d.C. governò assieme al figlio), incoronato
imperatore romano, si dimostrò interessato ad espandersi nell’area
meridionale, cosa che spinse Niceforo II Foca a creare la nuova carica di
‘’catepano d’Italia’’ (‘’κατεπανως Ιταλιας’’), su cui esistono ancora numerosi
dubbi, anche se gli storici tendono oggi a considerarlo un funzionario
residente a Bari con autorità militare e amministrativa superiore a quella
degli strateghi dei themata di Longobardia e Calabria.
Anche il termine ‘’Italia’’ è in qualche modo da considerare più attentamente,
in quanto dietro di esso si nascondevano forse significati ideologici da
opporre alle mire espansionistiche ottoniane.
In seguito l’istituzione del catepanato, che avrebbe dovuto formare una
grande provincia italiana unificata, si configurò come una copia del thema di
Longobardia.
Sempre al tempo di Niceforo II venne elevata a sede metropolita la sede
episcopale di Otranto, al fine di valorizzare la presenza bizantina sul
territorio.
Dove poi non si arrivò con gli accorgimenti amministrativi e militari, si
ricorse all’attività diplomatica, conclusasi con il matrimonio tra l’imperatore
Ottone II (967-83 d.C.) e la principessa Teofanò.
Come in Bulgari, anche nel Mezzogiorno italiano i sovrani basilidi
governarono con saggio realismo, mostrandosi rispettosi delle tradizioni
locali: bizantine erano le istituzioni amministrative e di governo, ma
l’ordinamento sociale rimase inalterato (rimase anche in vigore in alcune aree
il diritto longobardo).
Al ceto dei possidenti locali si rivolgeva il governo bizantino per reclutare i
propri funzionari, fatta eccezione per il catepano di Bari, che era inviato da
Costantinopoli.
In questo modo le popolazioni locali vennero integrate nell’Impero in
maniera efficace, come prova il fatto che, al tempo delle rivolte degli Scleri e
dei Foca, gli abitanti delle province bizantine d’Italia si dimostrarono fedeli
all’Impero, nonostante l’imperatore Basilio II non potesse intervenire contro
le razzie saracene e gli Ottoni.
I tentativi dei sovrani di Sassonia nel Meridione furono fallimentari a tal
punto che Basilio II, una volta terminate le campagne in Asia e nei Balcani,
era intenzionato ad intraprendere un’offensiva in Italia, rivolta contro i
principati longobardi e poi anche verso la Sicilia.
Questa iniziativa non vide mai la luce a causa della prematura morte del
sovrano nel 1025, quando si era comunque realizzata la riorganizzazione
della Puglia con la fondazione di Melfi e di altri centri fortificati noti come la
‘’Capitanata’’, nome derivato dall’ufficio del catepano, che li creò.
L’idea della riconquista della Sicilia fu invece abbandonata, toccò quindi ai
Normanni di Roberto il Guiscardo (1015-1085) ridare unità al Mezzogiorno
italiano.

UNA SOCIETÀ RURALE: ‘’POTENTI’’ E ‘’DEBOLI’’ IN LOTTA TRA


LORO

Alla fine dell’VIII secolo d.C. la struttura sociale delle campagne bizantine si
era profondamente trasformata a causa dell’alterazione dell’equilibrio tra
piccola e grande proprietà terriera.
Queste trasformazione furono causate in primo luogo dall’azione
dell’aristocrazia militare, la cui ascesa sociale si accompagnò al tentativo di
concentrare la terra nelle proprie mani, azione a cui lo Stato tentò di opporsi.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso Paul Lemerle e Georg
Ostrogorsky cercarono di definire gli orizzonti di questo cambiamento, e
furono soprattutto le posizioni del secondo ad avere successo.
Lo studioso russo si concentrò soprattutto nell’affermare l’importanza dei
contadini liberi e indipendenti, la cui piccola e media proprietà si sarebbe
progressivamente affermata fino a divenire predominante all’inizio della
dinastia basilide.
Questa visione pecca forse di schematicità, e tende a minimizzare le
ripercussioni degli elementi esterni sul sistema economici; quindi è necessario
sostituire una proprietà fondiaria più flessibile e articolata a quella
individuata da Ostrogorsky.
Alla fine dell’VIII secolo d.C. questa fase favorevole alla piccola proprietà si
aveva ceduto il passo ad un movimento contrario che favorì la crescita dei
grandi patrimoni fondiari.
Gli archivi ecclesiastici, che sopperiscono alla mancanza di fonti private,
forniscono preziose informazioni circa il variare dei rapporti di proprietà,
testimoniando soprattutto come i monasteri (usciti vittoriosi dalla vicenda
iconoclasta) si affermarono come potenza sociale ed economica.
Essi erano infatti istituzioni di diritto pubblico, ma allo stesso tempo
appartenenti ai privati che li avevano fondati, quindi manifestazioni del
potere e del prestigio raggiunto.
Nel corso del tempo i monasteri autogestiti erano divenuti numerosi a causa
dell’estinzione della famiglia fondataria, cosa che rendeva i monaci titolari del
patrimonio fondiario.
Questi possedimenti, lavorati dai monaci e da contadini indipendenti, erano
sfruttati per ricavare utili commerciali che permisero l’accumulazione di
fondi, a cui era possibile affiancare qualche privilegio fiscale.
Un caso celebre è quello del monastero di Iviron, a cui Basilio II nel 984 d.C.
concedette un’esenzione sulle tasse dovute da un battello di proprietà dei
monaci.
Anche per la grande proprietà privata si può tracciare uno sviluppo analogo;
già durante il II Concilio di Nicea (787 d.C.) vennero condannati quegli alti
dignitari che prendevano in affitto i beni ecclesiastici per trasformarli in beni
patrimoniali o per edificarvi cappelle private dove officiavano chierici privi
dell’autorizzazione vescovile.
Questi grandi domini non erano ancora in grado di alterare gli equilibri delle
campagne a quest’altezza, tuttavia queste posizioni testimoniavano un segn
premonitore di quanto sarebbe successo nel IX e nel X secolo d.C., segnati
dall’espansione delle grandi fortune a danno delle comunità di villaggio.
Gli ‘’arconti’’ (‘’αρχοντες’’)a cui faceva riferimento il Concilio del 787 d.C.
anticipavano dunque i ‘’δυνατοι’’ (i ‘’potenti’’), quel ceto magnatizio sorto in
primo luogo nell’Asia Minore orientale, di estrazione modesta, ma divenuto
forza sociale dominante grazie al monopolio delle cariche militari.

I ‘’POTENTI’’: ESPRESSIONE DI UN POTERE SOCIALE PIÙ ANCORA


CHE ECONOMICO

Per comprendere la legislazione dei sovrani basilidi a tutela della piccola


proprietà terriera si devono prima definire le categorie dei ‘’potenti’’ e dei
‘’deboli’’.
I primi non erano altri che i grandi proprietari terrieri, di cui si fa accenno in
due Novelle di Romano I Lecapeno: la prima del 928 d.C. permette di definire
il ceto dei potenti come tutti coloro che coloro che tramite la violenza o la
pratica del patronato potevano garantire a chi vendeva la terra delle esenzioni
fiscali o la loro protezione.
Si trattava però di una definizione più empirica che giuridica, ma soprattutto
ambigua a tal punto da rendere difficile l’applicazione della legge, motivo per
cui la seconda Novella di Romano I del 934 d.C. cercò di chiarire la situazione.
In essa è riportato che ‘’nessuno degli illustri magistroi o patrizi, nessuno titolare
di dignità o ufficio civile o militare, nessun membro del senato, nessun arconte o
arconte dei themata, nessuno dei metropoliti, nessuno dei gestori degli istituti di
carità….oserà più introdursi furtivamente in un villaggio o in un bene così da
attribuirselo del tutto o in parte in virtù di acquisto, donazione, eredità o
sotto altro pretesto’’.
Paul Lemerle ha sottolineato come il ceto dei potenti fosse connotato più sul
piano sociale che su quello economico, e quindi non può essere identificato
solo con l’aristocrazia fondiaria, cosa che non porterebbe alla luce il ruolo
dato dalla delega della potenza pubblica rispetto a quello della fortuna
patrimoniale.
I potenti senza dubbio possedevano patrimoni terrieri estesi, ma allo stesso
tempo essi disponevano di un’autorità derivante dal loro ruolo all’interno
dell’amministrazione sociale.
Questa autorità pubblica venne utilizzata per acquisire patrimoni fondiari di
rilievo e per integrarsi nell’aristocrazia più antica, o anche per consolidare il
proprio potere economico.
In ogni caso il risultato era la sottrazione di terre ai deboli, ma soprattutto
questo accumulo cominciò a scontrarsi con lo Stato in quanto i potenti
riuscivano quasi sempre ad ottenere esenzioni fiscali grazie alla loro
presenza nel potere pubblico.
Questi comportamenti alterarono la condizione della piccola proprietà, i cui
membri rinunciavano al pieno possesso delle proprie terre cedendole al
signore e riottenendole in affitto.
I piccoli proprietari si trasformarono allora in paroikoi, ovvero contadini
dipendenti dal padrone, da cui riottenevano le terre vendute in affitto.
Giuridicamente liberi ma protetti dagli eccessi del prelievo fiscale e inseriti in
una rete di consolidate relazioni sociali, i paroikoi pagavano al signore il
πακτον (‘’canone’’) e talvolta corrispondevano delle δυλειαι (‘’prestazioni
d’opera’’) per poter coltivare un podere per le cui spese di contribuzione non
ricevevano alcun contributo.
Vincolato da questi obblighi, il contadino godeva della piena disponibilità
dell’appezzamento, che poteva essere ceduta o trasmessa in eredità assieme
all’obbligo di lavorarla alle stesse condizioni.
La condizione di paroikoi era dunque definita in alcun modo da un legame di
asservimento personale, ma dal peso economico che quel vincolo di
soggezione sembrava assumere.
Ne conseguiva una fisionomia e uno statuto giuridico originale, in alcun
modo assimilabile alla condizione dei servi della gleba, talvolta applicato
ingiustamente alla realtà bizantina.

DISEGUAGLIANZA ECONOMICA DEI ‘’DEBOLI’’ E SFALDAMENTO


DEL CHORÍON

La categoria dei deboli, che la legislazione basilide non fu in grado di


definire, non rappresentava in alcun modo un ceto economicamente
omogeneo, quanto piuttosto articolato e stratificato più di quanto la Novella di
Costantino VII del 974 d.C. sembra indicare.
All’interno di questa Novella si trova però una distinzione molto importante,
quella tra chi possiedeva un certo benessere e chi invece era definito απορος
(‘’indigente’’).
Per appartenere a quest’ultima categoria si doveva avere meno di cinquanta
nomismata, soglia al di sotto della quale povertà economica era un dato reale;
nonostante questo la categoria di debole non deve essere associata per forza ad
uno stato di indigenza.
La comunità di villaggio, il chorion fiorito tra l’VIII e il IX secolo d.C., spesso
veniva ritenuta composta solo da proprietari liberi e con poderi/risorse
uniformi, mentre in realtà vi era una certa diseguaglianza.
Nel chorion erano presenti contadini medi e agiati, ma anche famiglie povere
e prive di terra costrette a ricorrere ad attività salariate.
Il Trattato fiscale o Trattato sulla tassazione mostra la varietà della conduzione
agricola e l’accentuarsi delle distinzioni sociali all’interno del chorion.
All’interno risultano chiare le origini delle diseguaglianze, che sembrano
dovute alla differente evoluzione demografica della popolazione rurale e al
principio stesso della responsabilità fiscale collettiva.
Questa addebitava ai vicini il pagamento delle tasse degli inadempienti, ma
allo stesso tempo garantisce a chi ha più fondi e bestiame la possibilità di
accrescere i propri beni.
L’anonimo autore del Trattato, per quanto interessato soprattutto ai sistemi e
ai meccanismi dell’imposizione tributaria, introduce anche una digressione
sull’habitat rurale.
L’autore distingue dunque la κτεσις, un fondo che agli occhi del potere
costituiva una sola unità imponibile contraddistinto da molteplici fattorie
isolate, dal χοριον, in cui invece gli abitanti vivevano in un ‘’borgo’’ dove
erano presenti abitazioni singole con orto e cortile addossate le une alle altre e
circondate da campi e pascoli.
Nella prospettiva istituzionale-fiscale ktesis e chorion si differenziavano in
quanto coloro che risiedevano nei fondi erano tutti ‘’proprietari rurali di casa’’,
mentre gli abitanti della comunità di villaggio erano contraddistinti da una
più ampia gerarchia economica e sociale.
All’interno dei choria potevano essere presenti poderi individuali o piccole
borgate che potevano trovarsi al di fuori dell’originario perimetro abitativo,
dove si erano trasferite quelle famiglie che trovavano poco spazio all’interno
del borgo oppure avevano ricevuto in via ereditaria un fondo situato nella
fascia esterna del villaggio.
Alcuni invece, pur continuando a vivere nel borgo in quanto agiati, inviavano
i loro dipendenti in fondi vasti e dispersi al confine del chorion, affinché
risiedessero e lavorassero là.
Nelle libere comunità convivevano dunque: medi proprietari terrieri di una
certa agiatezza sociale che potevano far la lavorare da loro stipendiati le
proprie terre in eccedenza; contadini modesti padroni dell’appezzamento da
loro coltivato; contadini privi di poderi, indigenti o in affitto su terre altrui;
schiavi, domestici o impiegati come operai agricoli.
All’interno della composita società rurale vi era poi il ceto degli stratioti,
meno uniforme di quanto ritenuto; gli studi Michel Kaplan hanno dimostrato
come le loro fortune economiche potevano essere molto varie (esistevano
infatti stratioti del tutto impoveriti e non in grado di ottemperare ai loro
obblighi militari, e altri risiedenti nell’élite del villaggio).
Nonostante le diseguaglianze economico-sociali, le differenze interne alla
comunità e le trasformazioni in essa avvenute, vi era un fattore che unificava
il chorion: la solidarietà collettiva di fronte all’imposta.
Lo Stato bizantino era, come già detto, più interessato ai sistemi di prelievi
fiscale più che a quelli di sfruttamento del suolo e infatti riconosceva a questa
istituzione il fondamento di un sistema impositivo basato sull’esigenza di
mantenere delle entrate stabili indipendentemente dall’andamento
demografico.
L’antico assetto comunale appariva ormai in sfaldamento all’inizio del X
secolo d.C., non solo per la capacità dei potenti di impossessarsi delle terre dei
deboli, ma perché i meccanismi del sistema tributario contribuivano a
disgregare dall’interno l’unità del chorion.
L’obbligo di provvedere alla coltivazione del terreno rimasto incolto, sebbene
avesse il vantaggio di rendere responsabile i membri della comunità della
solvibilità altrui, , era sì funzionale nelle buone congiunture ma poco in grado
di provvedere ai bisogni in caso di congiunture economico-demografiche
negative.
In quelle occasioni si verificavano fughe e diserzioni da parte di contadini
che non erano in grado di addossarsi il peso di terre sterili.
In una sezione del Trattato fiscale l’autore mostra come l’Impero Bizantino non
riuscisse ad adottare misure contraddittorie rispetto al principio che le aveva
ispirate, ovvero salvare l’integrità del chorion (il cui suolo veniva devastato
continuamente dalle incursioni nemiche o dalle calamità naturali).
Quando infatti il suolo arabile era devastato, al fine di evitare l’emigrazione,
l’autorità pubblica concedeva degli sgravi fiscali provvisori, di solito di
durata trentennale.
Se alla fine di questo periodo i legittimi detentori del bene, o gli eredi,
ritornavano per coltivarlo, si provvedeva ad un ripristino dell’imposta; in
caso contrario si era oggetto di un’esenzione fiscale definitiva che rendeva la
terra ‘’clasmatica’’, ovvero fiscalmente staccata dal complesso impositivo del
villaggio.
Divenuta bene indipendente, quella parte di terra diveniva proprietà del fisco
statale, che ne disponeva liberamente: poteva venderla a basso prezzo
(previa riduzione dell’imposta) ai potenti, gli unici a disporre dei capitali per
riavviare la coltura.
Al termine di questo processo, che in teoria doveva salvaguardare la piccola
proprietà privata, lo Stato otteneva il risultato contrario a quello sperato:
sottraendo terre alla solidarietà fiscale del villaggio, veniva affievolita l’unità
del chorion a causa dell’immissione di potenti che alteravano i rapporti sociali.
Gli esiti di questo sistema si manifestarono in tutta la loro intensità nel X
secolo d.C., contrastati invano dalla dinastia basilide, che mostrò ‘’una non
sufficiente comprensione dei meccanismi del prelievo fiscale’’.
La società bizantina del X secolo d.C. si era evoluta in direzione opposta
rispetto a quella difesa dall’amministrazione; come ha sottolineato Nicolas
Oikonomides, quando gli imperatori basilidi cercarono di difendere la piccola
proprietà, essa ormai era già minoritaria.
Di fatto le legislazioni imperiali andarono a favorirono una ristrutturazione
della società rurale che favorì i grandi monasteri e le famiglie aristocratiche
che potevano assicurarsi esenzioni fiscali.
Il potere pubblico contribuì involontariamente alla dissoluzione della
comunità di villaggio (con l’introduzione delle terre clasmatiche), come
dimostrato da alcuni atti del monastero di Lavra datati al 941 d.C.
Essi offrirono un eccellente esempio di come la legislazione imperiale fosse
conveniente per gli enti monastici (e per i potenti anche)per l’acquisto di una
terra (nel caso del monastero di Lavra è quella messa in vendita a prezzi bassi
da Tommaso, ispettore di Tessalonica).

LOTTE INTORNO ALLA PICCOLA PROPRIETÀ

L’incapacità dello Stato bizantino di arginare lo sfaldamento del chorion


pregiudicava i meccanismi del fragile sistema autarchico su cui questo si
reggeva e comprometteva l’equilibrio tra deboli e potenti.
Questo equilibrio aveva assicurato sino ad allora il regolare funzionamento
degli apparati militari e di quelli amministrativi dell’Impero; venuto meno
quest’ultimo, fu praticamente impossibile frenare gli abusi della grande
proprietà terriera contro le libere comunità di villaggio.
I sovrani alla fine del X secolo d.C. dovettero fronteggiare due esigenze di
importanza eguale: gli accresciuti bisogni finanziari dovuti alle continue
guerre e le pretese dell’aristocrazia di provincia (il cui sostegno militare era
irrinunciabile), che potevano minacciare l’esistenza dello Stato.
Le parole di Romano I Lecapeno sono in questo caso esemplari: l’agire
imperiale non era dettato da ‘’odio od ostilità contro i più potenti’’, bensì dalla
consapevolezza che la rovina dei deboli equivaleva alla rovina dello Stato.
Gli interventi dei sovrani basilidi cercarono di colpire il sistema di clientele
che i potenti erano stati in grado di costituire a prezzo dell’equilibrio
economico.
La crisi politica seguente alla morte di Leone VI e l’ulteriore affermazione
dell’aristocrazia microasiatica (oltre alla carestia del 928 d.C.) aveva costretto
i contadini più poveri a vendere le proprie terre ai potenti.
Romano I Lecapeno cercò di ridefinire il diritto di prelazione applicato alle
campagne bizantine in caso di vendita di una parcella della terra, così da
precisarne meglio forme e contenuti.
A questo fine si decise che al momento della vendita si dovesse prima
proporre l’acquisto ai parenti/vicini/’’associati’’/a coloro che erano ‘’solidali
a livello fiscale’’ (gli altri membri della comunità di villaggio).
Nel 934 d.C. Romano I dispose anche che fossero riviste le basi giuridiche
relative a tutte le donazioni e le eredità, che formalmente non erano soggetti
al diritto di prelazione e che permettevano dunque un’acquisizione in
apparenza legale da parte dei potenti, ma di fatto fraudelenta.
In questo modo si potevano annullare le vendite e le terre tornavano ai
legittimi titolari senza indennizzo, nel caso in cui la vendita fosse avvenuta
sotto pressione e illegalmente.
Lo scopo era duplice: proteggere il chorion, base del sistema di prelievo
fiscale e di reclutamento, e allo stesso tempo favorire la tendenza
all’accorpamento delle piccole proprietà tramite il nuovo sistema di
prelazione.
Il rigore di tali misure riuscì in effetti a rallentare il processo, tuttavia non a
fermarlo, anche perché il potere dei magnati era ormai tale da poter
compromettere la vita dell’Impero.
I provvedimenti presi dai successori di Romano I cercarono di contenere la
crescita dell’aristocrazia, che riusciva sempre più a trasformare in
possedimenti privati le terre un tempo della piccola proprietà (i contadini
impoveriti preferivano vendere le terre ai potenti in quanto preferivano la
sicurezza economica data dallo stipendio).
Costantino VII Porfirogenito si preoccupò soprattutto di difendere gli stratioti
dalle mire dei potenti, che promettevano ai primi l’esenzione (abusiva) dal
servizio militare.
Niceforo II Foca, stabilendo che ai potenti non fosse lecito acquistare se non da
altri potenti e che ai deboli non fosse lecito acquistare se non da altri deboli, si
fece promotore di una legislazione drastica e allo stesso tempo indicativa
delle difficoltà del potere centrale.
Quella di Niceforo II era tra l’altro una situazione paradossale, in quanto egli
era membro proprio di quell’aristocrazia di cui ora cercava di ridimensionare
lo sviluppo; Evelyne Patlagean definisce il colpo di Stato di Niceforo come
‘’il primo vero tentativo di confisca del potere imperiale da parte dell’aristocrazia’’.
Il sovrano cercò di rafforzare le proprietà degli stratioti, ma andando a
togliere validità a tutte le rivendicazioni del fisco pubblico sulle proprietà
acquisite nel periodo precedente al 927 d.C. egli favoriva i potenti che
avevano acquisito terre da soldati e civili al tempo della carestia.
Basilio II, in una Novella del 996 d.C., andò addirittura ad annullare tutte gli
acquisti che i potenti avevano fatto dai deboli dopo la carestia del 928 d.C.
La Novella in questione ci permette di comprendere chiaramente il
meccanismo che permetteva alle fondazioni monastiche di danneggiare le
comunità di villaggio.
Un abitante di un villaggio edificava una cappella dotandola del proprio bene
con il consenso degli altri abitanti, e in seguito ci viveva come monaco
assieme ad altri compaesani.
Alla morte di questi il vescovo, o il metropolita, si impossessava dei beni
della fondazione, che erano di solito venduti a membri dell’aristocrazia, di
cui Basilio II aveva già saggiato la forza eversiva.
Sempre Basilio II impose ai potenti il pagamento delle tasse dei contadini
inadempienti istituendo l’αλληλεγγυον , una ‘’imposta di solidarietà’’ per cui
il principio della responsabilità collettiva era esteso anche ai potenti (anche a
quelli non direttamente presenti nel chorion, ma nelle comunità rurali).
Malgrado la grande attività legislativa, la crisi della piccola proprietà
indipendente risultò irreversibile, come mostra il Catasto di Tebe, un registro
risalente alla metà dell’XI secolo che mostra come nei choria tebani la maggior
parte dei fondi fosse ormai nelle mani dei grandi proprietari terrieri.
Nei cento cinquant’anni che separano il Trattato fiscale dal Catasto di Tebe
emersero dunque dei cambiamenti definitivi: i piccoli proprietari contadini
persero i loro beni a vantaggio di un’aristocrazia sempre più forte; le uniche
cose che rimasero intatta furono i sistemi di produzione, ancora basati
sull’azienda familiare.
Le campagne bizantine, in seguito all’ascesa dei potenti, passarono ad uno
stato di dipendenza generalizzata, per cui anche i grandi villaggi furono
inglobati nei grandi patrimoni fondiari e ai modesti possidenti si sostituirono
i paroikoi.
Al contrario dunque di quanto avvenne in Occidente, dove la riserva
signorile era sfruttata tramite salariati o schiavi, in Oriente la conduzione
diretta del terreno (la cosiddetta ‘’terra dispotica’’) ebbe scarsa importanza.
Lo sfruttamento del grande possesso fondiario, laico o ecclesiastico, avvenne
tramite la concessione di piccoli appezzamenti di terra a coltivatori o affittuari
in base alle capacità produttive di ciascuno.
L’unità di gestione contadina rimaneva dunque la norma, indipendentemente
dai diritti che questi avevano sulla terra; a contraddistinguere questo tipo di
sfruttamento era la logica dell’autosufficienza che non lasciava ai contadini la
possibilità di investire possibili surplus (il terreno si aggirava intorno ai 100, o
60, o addirittura 25 moggi, unità di misura del volume).
Queste considerazioni sono state utilizzate per spiegare l’assenza di
un’economia forte a Bisanzio, che inevitabilmente causò gravi momenti di
recessione e stagnazione.
La mancanza della grande impresa agricola e la mancanza di una volontà
imprenditoriale sono state individuate come le cause delle difficoltà politiche
attraversate dall’Impero nella seconda metà dell’XI secolo d.C., tuttavia oggi
si sono imposte tesi più caute.
I potenti infatti beneficiavano anche dei πακτα versati dagli affittuari, oltre che
dalle entrate delle terre dispotiche, ma essi avevano ingressi economici anche
grazie agli incarichi pubblichi che svolgevano (la cui rilevanze venne
sottolineata negli anni Ottanta da Gunther Weiß).
Alla fine dell’XI secolo però, come ha chiarito Paul Magdalino, la forma
economica dell’autarchia si ridusse ad un modello letterario idealizzato
dagli scrittori come Cecaumeno (XI secolo), le cui opere sono pervase da un
tradizionale e utopistico rifiuto della mercatura.
Di fatto però, nella maggior parte dei casi, i titolari di grandi patrimoni
fondiari, laici o ecclesiastici, furono animati da uno spirito produttivo che nei
secoli XI e XII favorì l’estensione e il miglioramento degli spazi coltivati.
Ciò determinò una crescita della redditività agricola tale da garantire un
surplus destinato al mercato.
5) LA CRISI DEL SECOLO XI: VERSO NUOVI ASSETTI
SOCIALI

Alla morte di Basilio II nel 1025 l’Impero Bizantino si estendeva a Nord fino
al Danubio, ad Est sino all’Eufrate e alla Siria, ad Ovest al Meridione italiano;
un’espansione mai vista dai tempi di Giustiniano, che doveva in qualche
modo essere allargata al mondo russo, fortemente influenzato a livello
politico-militare da Bisanzio.
In solo mezzo secolo però i territori sotto il controllo dell’Impero si erano
ridotti solo alla Grecia, alla Tracia e a qualche tratto della costa anatolica, un
arretramento che alterò in maniera definitiva i rapporti tra Europa e Asia.
Nuovi formidabili nemici comparvero all’orizzonte: i Normanni, in qualche
modo anticipatori del ‘’risveglio dell’Occidente’’, che sarebbe culminato nelle
crociate; i Veneziani, la cui azione commerciale minò l’esistenza stessa del
potere imperiale; le tribù dei Turchi-Selgiuchidi, che colpirono in Armenia; i
Peceneghi, che con le loro incursioni destabilizzarono la situazione balcanica.
La crisi toccò il suo apice nell’anno 1071, vero annus horribilis della storia
bizantina, durante cui l’esercito imperiale venne sconfitto nella battaglia di
Mantzikert e in cui Bari cadde in mano ai Normanni.
Le cause di questo rapido declino furono inizialmente attribuite alla pochezza
dei successori di Basilio II (indicati come deboli, inetti, moralmente corrotti),
ma anche alla rivalità tra aristocrazia civile della capitale e aristocrazia
militare delle province (uno scontro che avrebbe indebolito il potere centrale).
Questa seconda interpretazione ha goduto di grande successo nel corso della
storia, almeno sino al XIII Congresso internazionale di studi bizantini
(Oxford 1966), quando si cominciò a sottolineare l’eccessiva semplificazione
di queste tesi, che sottovalutavano gli intenti e le figure dei sovrani basilidi,
che cercarono di stabilire un nuovo assetto sociale e di bilanciare le ambizioni
dell’aristocrazia provinciale (prima ‘’motore’’ dell’espansione, ora possibile
attentatrice ai vertici del potere statale).
Per comprendere le vere ragioni degli insuccessi patiti da Bisanzio serve una
più complessa interpretazione, che riesca a superare l’ideale di una netta
contrapposizione tra lo splendore senza macchie del X secolo d.C. e la
decadenza dell’XI.
I prodromi dei problemi infatti cominciarono proprio nel corso X secolo d.C.,
quando gli stessi elementi che avevano permesso lo sviluppo, divennero la
causa del mutamento degli equilibri interni.
Tutto questo senza che però si arrivasse al ‘’dissolvimento del sistema statale’’ di
cui parla Ostrogorsky, o alla ‘’svolta’’ intesa come interruzione del precedente
sviluppo descritta da Lemerle.
Si deve allora concordare con quanto sostiene Evelyn Pantlagean, secondo cui
nell’XI secolo Bisanzio uscì definitivamente dall’Antichità ed entra davvero
nel Medioevo.
L’imporsi di un’aristocrazia che dava grande valore ai legami di sangue e alla
nobiltà di nascita (la cosiddetta ‘’ευγενια’’) determinò l’affermarsi nella
società di forme di fedeltà personali.
Non si può però parlare di identità tra l’Occidente latino-germanico e
l’Oriente greco, in quanto la ‘’rivoluzione aristocratica’’ avvenuta dopo la
morte di Basilio II non causò, come in Occidente, la scomparsa del potere
pubblico.
Si dovrebbe dunque parlare di un’aristocrazia capace di avvicinarsi al potere
imperiale; gli elementi che in Occidente portarono dunque alla società
feudale, non ebbero le medesime conseguenze in Oriente, grazie alla
presenza di un’efficace potere pubblico.

LA FORZA DELLA LEGITTIMAZIONE DINASTICA: GLI EPIGONI


DEL CASATO BASILIDE

Il principio dinastico continuò anche dopo il 1025: a Basilio II, privo di eredi,
succedette il fratello Costantino VIII (1025-1028), seguito dalla figlia Zoe
(1028-1050).
Questa elevò a imperatori i suoi tre mariti: Romano III (1028-1034), Michele
IV (1034-1041) e Costantino IX Monomaco (1042-1055); l’imperatrice elevò al
rango imperiale anche il figlio adottivo Michele V (1041-1042).
La dinastia basilide si estinse definitivamente con Teodora (1054-1056).
Gli sviluppi dinastici appena descritti confermano la tendenza osservata
anche nel secolo precedente: sposare una principessa imperiale era un mezzo
per raggiungere il potere, che si dimostrò utile a tenere a freno ancora un
trentennio le ambizioni dell’aristocrazia.
Quest’ultima si trovò a fare i contro anche con il grande lealismo della
popolazione della capitale nei confronti della dinastia basilide; esemplare la
vicenda di Michele V, che, dopo aver tentato di detronizzare la madre
adottiva, venne deposto da una rivolta popolare (1042).
La folla proclamò la sovranità di Zoe e della sorella Teodora, quest’ultima
rimessa al potere anche dopo che l’ultimo marito della sorella, Costantino IX
Monomaco, l’aveva rinchiusa in un convento.
I nuovi sovrani a differenza di alcuni degli imperatori del IX secolo d.C., non
provenivano dall’aristocrazia microasiatica, ma da nobili casati della capitale
o da membri influenti dell’élite amministrativa e di corte.
Nella capitale si era infatti consolidata la posizione di alcune famiglie
patrizie (alcune di origine molto antica) i cui interessi non erano per forza in
contrasto con quelli dell’aristocrazia provinciale, anch’essa attirata nella città
dalla politica di Basilio II, che aveva obbligato i membri più influenti di quei
lignaggi a trasferirsi nella capitale (aumentò così l’importanza del Palazzo).
I rapporti tra le due aristocrazie erano fluide e caratterizzate da complesse e
raffinate strategie matrimoniali.
Questi cambiamenti portarono all’affermazione di un potere civile, che viene
descritto dal più importante intellettuale dell’XI secolo, Michele Psello (1018-
1096): ‘’sembra essere convinzione di chi ha da poco ottenuto il regno che basti, a
garantire la stabilità del potere, il plauso del partito civile’’.
Per circa tre decenni il potere imperiale cercò di trovare nuovi assetti
istituzionali, capaci di adattarsi ai nuovi equilibri interni, e un diverso modo
di condurre la politica estera, capace di rispondere ai cambiamenti avvenuti
ad Est e ad Ovest.

TRASFORMAZIONI ISTITUZIONALI E MUTAMENTI


NELL’ORGANIZZAZIONE MILITARE

Il passaggio da una politica di difesa, quella thematica voluta dai sovrani


iconoclasti, ad una politica di conquista seguita dalla dinastia basilide
comportò una riorganizzazione interna.
Il regime dei themata aveva permesso un’efficace difesa regionale, ma
sembrava inadatto alle necessità di un’offensiva che richiedeva una mobilità
che gli eserciti tematici non possedevano.
Nel corso della fase finale del X secolo d.C. erano stati istituzionalizzati degli
incarichi precedentemente concepiti come straordinari, concentrando nelle
mani di pochi e fidati collaboratori i principali incarichi militari.
Molto rilevanti divennero i domestici delle scholae e gli stratopedarchi d’Oriente
e d’Occidente, capi supremi dell’esercito in caso di assenza dell’Imperatore.
Maggiore importanza acquisirono anche i soldati dei ταγματα (‘’tagmata’’),
corpi regolari e permanenti composti da militari bizantini e stranieri che
stazionavano a Costantinopoli e nei suoi dintorni.
Questo mutamento avvenne senza cesure nette, per quanto comunque in atto
nel corso del X secolo d.C., quando nei singoli themata cominciarono ad
acquisire importanza quei contingenti formati da militari di professione
reclutati per la difesa permanente (questo specialmente in inverno, quando i
soldati tematici non prestavano servizio attivo).
Al tempo di Niceforo II Foca il regime della στρατεια (‘’strateia’’), ovvero
della prestazione di un servizio militare in cambio del godimento di una
determinata quantità di terra fiscalmente agevolata, viene alterata.
Da servizio personale la strateia divenne un versamento sostitutivo in denaro
da usare per l’equipaggiamento della cavalleria corazzata, che l’evoluzione
delle tattiche militari rendevano preferibile alla semplice fanteria.
Questa fenomeno di fiscalizzazione, di cui ha trattato John Haldon, rese la
strateia di fatto un’imposta, cosa che dimostra come nel corso del X secolo
d.C. lo Stato bizantino fosse ‘’più preoccupato dalla fonti per il finanziamento dei
salari e dell’equipaggiamento dei soldati che del loro reclutamento’’.
La smobilitazione dell’armata tematica comportò un accrescimento del
potere delle milizie tagmatiche, composte da soldati di professione, avevano
al loro interno delle truppe ‘’etniche’’, come i Vareghi, arruolate in modo
permanente per una specifica campagna e remunerate meglio dei contingenti
tematici.
A partire dal regno di Basilio II si assistette al processo di centralizzazione
dell’apparato militare, che ebbe come conseguenza la crescita dei corpi
d’armata posti sotto il controllo imperiale, ritenuti più affidabili degli eserciti
tematici controllati di fatto tramite legami personali dall’aristocrazia
provinciale.
Nel corso dell’XI secolo divenne una consuetudine reclutare mercenari
(Normanni o Peceneghi soprattutto), fedeli solamente a chi le pagava; stando
a ciò si può comprendere lo sfaldamento delle frontiere bizantine all’arrivo
dei Turchi.
Nelle province i magistrati civili tesero ad emanciparsi dai poteri militari al
punto che le circoscrizioni dei primi si distinsero da quelle dei secondi; dalla
ristrutturazione amministrativa delle province acquisì grande importanza la
figura del κριτες (‘’krités’’), in latino ‘’praitor’’.
Svincolato nella propria attività giudiziaria e amministrativa dall’apparato
militare, il krités era alle dipendenze di un nuovo dicastero, che aveva come
vertice l’επι των κρισεων (‘’epì ton kriseon’’), costituito per controllare
l’amministrazione provinciale, che al tempo dei thema era incline ad agire con
grande autonomia.
Frutto di questa nuovo volontà coordinatrice fu anche l’istituzione della
figura del paradinasta, un alto funzionario o anche una persona esclusa dalle
gerarchie ufficiali ma di lealtà e di talento comprovati.
Il paradinasta, figura non definibile in termini burocratici, era in grado di
controllare e dirigere l’intero apparato statale grazie alla piena fiducia
imperiale che gli era attribuita.

MUTAMENTI SOCIALI E CRESCITA DEI CETI URBANI

Queste trasformazioni non solo dimostrano quanto lo Stato bizantino fosse in


grado di adattarsi alle nuove situazioni, ma allo stesso tempo testimoniano
anche l’affermarsi nella società di un principio meritocratico per accedere a
cariche amministrative.
La presenza a Costantinopoli di un’aristocrazia di funzionar dotata di grandi
poteri d’acquisto creò le premesse per il sorgere nella capitale, e nei centri
urbani più grandi, di una borghesia mercantile abile nel trarre profitti
dall’irrobustirsi di un’economia monetaria mai scomparsa del tutto.
Le trasformazioni monetarie sono state studiate da Cecile Morrison, che ha
notato come la svalutazione controllata (da 24 a 18 carati) del nomisma non
era un segnale di crisi, quanto piuttosto il segno di un aumento del numero
delle transazioni.
Non si trattava dunque di una ‘’svalutazione di crisi’’, bensì di una
‘’svalutazione di espansione’’ utilizzata per ovviare ad una riserva monetaria
troppo rigida.
Ciò è provato dalla presenza di monete divisionarie d’argento di lega
eccellente e dall’aumento della circolazione di quelle di bronzo.
Angeliki Laiou, studiando le fiere a Costantinopoli, ha dimostrato come
l’intensificarsi dalla fine del X secolo d.C. di una libera circolazione delle
merci favorì l’affermarsi di uno spirito imprenditoriale , non limitato a
Costantinopoli.
Favoriti dallo slancio economico, questi nuovi ceti distintisi dal popolo
minuto (borghesia mercantile e artigiana) avevano come scopo principale
l’ascesa sociale, incoraggiati da un’autocrazia che era intenzionata ad
allargare le basi del governo civile tramite un più ampio reclutamento
dell’ordine senatorio e dell’alta burocrazia.
Le misure introdotte da Michele V e Costantino IX Monomaco facilitarono
l’ingresso al senato e alla pubblica amministrazione, che vennero aperte agli
‘’uomini nuovi’’, chiamati in questo modo in quanto non elevati per la loro
origine, bensì per il loro merito.
I criteri meritocratici erano legati al possesso di una buona cultura giuridica,
indispensabile per occupare ruoli nell’amministrazione.
Altri mezzi di ascesa sociale erano i legami matrimoniali e l’appoggio delle
corporazioni cittadine, pratiche descritte all’interno del Libro del Prefetto;
l’ascesa di questi ceti irritava però i membri più conservatori dell’aristocrazia,
come Psello, che accusa Costantino IX Monomaco di aver sconvolto la ταξις
degli onori: ‘’esistevano per le cariche civili precise gerarchie e rigide demarcazioni..
...costui sovvertì [l’avanzamento della carriera]...aprì il senato al popolo ambulante
e merciaiuolo’’.
L’attività del potere centrale si concentrò anche nel rafforzamento
dell’insegnamento delle discipline giuridiche, e questo tramite l’istituzione
di una scuola di diritto il cui funzionamento fu definito da una Novella
promulgata nel 1047 da Costantino IX Monomaco (letteralmente ‘’colui che
combatte solo’’).
La riorganizzazione giuridica venne affidata al collegio dei notai, che aveva
al proprio vertice il μομοφυλαξ (‘’momophilax’’), un custode delle leggi che
era stipendiato dallo Stato e incaricato di sovraintendere alla preparazione e
all’esame dei giudici/dei notai/dei magistrati.
La legge prevedeva che il momophilax dovesse guardare al merito, in modo
tale da reclutare solo funzionari competenti, meglio se giovani, in quanto più
desiderosi di apprendere.
Questi erano i risultati di un processo che aveva portato all’apertura delle
scuole al ceto borghese, e di conseguenza al più ampio reclutamento della
funzione pubblica.
Allo stesso tempo in questi anni si assistette ad un rinnovato interesse per la
storia di Roma; un interesse che era funzionale al tradizionale modus operandi
dell’ideologia bizantina, che giustificava le trasformazioni identificandole
come recupero della tradizione.
L’XI secolo fu caratterizzato da un’importante fioritura intellettuale, durante
la quale furono attivi personaggi come Psello, Michele Attaliate, Cecaumeno,
Giovanni Marupode.
Nell’XI secolo fiorì nelle scuole l’insegnamento del Trivium (dialettica,
retorica e grammatica) e del Quadrivium (astronomia, matematica, musica e
geometria), accanto ai quali assunse grande importanza anche la pedagogia,
sotto forma ancora di scheografia (‘’σκεδογαρφια’’), ovvero l’elaborazione di
modelli di analisi grammaticale applicata a scritti di autori canonici o
appositamente elaborati da un maestro.
Fu sempre in questo periodo che venne riscoperta la filosofia classica, in
particolar modo il platonismo, che dall’età comnena si trasmise fino
all’Umanesimo italiano e di cui furono interpreti Giovanni Mauropode,
Cristoforo di Mitilene e Michele Psello.

BIZANTINI E NORMANNI NELL’ITALIA MERIDIONALE

L’originalità delle esperienze istituzionali del regno di Costantino IX


Monomaco si perse negli anni successivi alla sua morte per una serie di cause
concomitanti, questo proprio mentre l’Impero aveva perfezionato i propri
ordinamenti a favore dei ceti mercantili.
Erano infatti venute meno le norme che impedivano a chi commerciava di
accedere agli onori ritenuti incompatibili con quell’attività; in questo modo la
nascente borghesia poteva tentare di integrarsi con la nobiltà della capitale.
La plutocrazia non rese però gli uomini nuovi in grado di superare la netta
opposizione dell’aristocrazia della capitale, che in questo caso trovò una
valida alleata nell’aristocrazia provinciale, che vedeva nella borghesia
mercantile (spalleggiata dall’autocrazia che voleva allargare la sua base
d’appoggio) un ostacolo per le proprie ambizioni.
Un altro ostacolo per la crescita della borghesia mercantile bizantina era la
presenza dei mercanti italiani, specialmente di quelli veneziani, che avevano
maggiori attrezzature materiale e maggiore duttilità culturale.
Il programma di riforme si scontrò poi che le azioni separatiste degli Armeni
e dei Siriaci, dovute a divergenze dottrinali, che favorirono l’avanzata dei
Turchi-Selgiuchidi.
A queste problematiche si aggiungevano le difficoltà nell’Italia meridionale,
che rimaneva comunque una base strategica importante per il controllo
dell’Adriatico e un possedimento dall’alto valore ideologico , in quanto
simbolo del mai defunto universalismo bizantino.
Già al tempo di Costantino IX si aveva potuto constatare la fragilità dei
domini bizantini nel Meridione, che ora erano minacciati dall’azione dei
cavalieri normanni giunti dal ducato di Normandia alla guida di Roberto
d’Altavilla (1015-1085), detto il Guiscardo (il ‘’furbo’’), ma anche dalle spinte
autonomiste, forti soprattutto in ambito cittadino.
Esemplare è in questo senso la figura di Agirro, membro dell’aristocrazia di
Bari, che inizialmente si fece nominare princeps et dux Italiae con l’appoggio
dei Normanni, e che in seguito tornò all’obbedienza bizantina ricevendo il
titolo di governatore dei themata italiani.
La sua vicenda è simbolo di quell’antagonismo che caratterizzava i rapporti
tra il potere imperiale e i ceti dirigenti locali, che i Normanni seppero
sfruttare a loro vantaggio per dare vita ad uno Stato unitario nel Meridione.
La situazione era complicata ulteriormente dalle differenze religiose,
divenute un ostacolo molto difficile da superiore soprattutto a seguito delle
vicende del 1054.
Costantino IX aveva compreso quanto fosse importante cercare di risanare la
frattura con Roma, che avrebbe potenzialmente potuto accordarsi con i
Normanni.
La paura che però l’imperatore sacrificasse l’autonomia della chiesa greca per
arrivare alla pacificazione con Roma spinse il patriarca costantinopolitano
Michele Cerulario (1000-1059) ad assumere un atteggiamento molto severo
durante la visita di una delegazione pontificia inviata da papa Leone IX
(1048-1054), guidata dal severo vescovo Umberto di Silva Candida
(1000/1015-1061, ex monaco).
Lo scopo della delegazione era quello di indagare alcuni provvedimenti
relativi alla disciplina liturgica delle chiese latine della capitale.
Costantino IX riservò alla delegazione un’accoglienza in grande stile, mentre
il patriarca agì in modo parecchio ostile, creando una tensione che degenerò
nella reciproca scomunica tra i rappresentanti delle due chiese.
Il fatto di per se’ non aveva un grande valore, ma rappresentò un decisivo
punto di rottura, una frattura che, malgrado gli sforzi compiuti nei secoli
successivi, avrebbe diviso per sempre la cristianità: era lo Scisma d’Oriente.
I sentimenti di fratellanza tra i due mondi restarono comunque in vita, ma
l’evento acuì i sentimenti di sfiducia e sospetto che gli uni suscitavano negli
altri.
Inaccettabili per il mondo orientale erano le pretese assolutistiche del papa e i
contrasti politici e dogmatici, che gli eventi delle crociate avrebbero in seguito
esasperato.
La vicenda del 1054 avrebbe rafforzato il prestigio di Michele Cerulario, ma a
farne le spese fu il potere imperiale, che fu costretto a ridimensionare le sue
pretese sull’Italia, soprattutto a seguito dell’alleanza romano-normanna
avvenuta con gli accordi di Melfi (1059), a seguito dei quali il Guiscardo venne
riconosciuto dal delegato inviato da papa Niccolò II (1058-1061), Desiderio
abate di Montecassino (poi divenuto papa con il nome di Vittore III, 1086-
1087), come ‘’duca della Puglia, della Calabria e della Sicilia’’.
L’alleanza con il papa permise ai Normanni di trasformarsi da avventurieri a
rappresentanti di una nuova realtà politica che sarebbe stata in grado, a
differenza di Bisanzio, di garantire unità all’area del Mezzogiorno.

LE RIFORME MANCATE

L’età dei basilidi era stata caratterizzata da una grande stabilità, che però non
caratterizzò la fase politica successiva: tra il 1056 e il 1081 sul trono bizantino
si susseguirono ben sei imperatori.
La dinasti basilide si estinse con Teodora nel 1056, la cui morte aprì una fase
di violente lotte per il potere in cui il patriarca Michele Cerulario ebbe un
importanza fondamentale.
Egli infatti riuscì ad influenzare le successioni: inizialmente ostacolò Michele
VI (1056-1057), successore di Teodora, contro cui aizzò Isacco I Comneno
(1057-1059), zio del futuro imperatore Alessio I.
La ribellione di Isacco Comneno fu la reazione dell’aristocrazia microasiatica,
che sebbene in possesso ancora di una grande quantità di potere, poteva ora
contare sull’appoggio delle famiglie aristocratiche della capitale (su tutte
quella dei Ducas).
Dopo aver costretto Michele VI ad abdicare, Isacco decise anche di esiliare il
patriarca Michele Cerulario, che al momento dell’incoronazione lo aveva
ammonito dicendogli ‘’io ti ho creato...io sono in grado di distruggerti’’.
L’imperatore procedette in seguito al riordinamento delle finanze, che cercò
di risollevare attraverso la secolarizzazione dei beni monastici (i monasteri
erano divenuti ormai grandi complessi economici).
Allo stesso tempo egli cercò di riaffermare il potere dell’autocrazia, cosa che
lo spinse a dissociarsi dagli alleati precedenti, che vennero rimandati in Asia.
Queste misure lo resero però inviso alla chiesa e alle famiglie aristocratiche,
che riuscirono ad isolarlo politicamente, rendendo le sue azioni di fatto vane.
DUCAS E COMNENI, TRA RIVALITÀ E COMPLICITÀ

I funzionari di corte cominciarono infine a complottare contro Isacco, che su


suggerimento proprio di un cortigiano, il più volte citato Psello, decise di
abdicare e nominare come successore Costantino X Ducas (1059-1067), nipote
di Michele Cerulario.
Questo evento rappresentò un momento cruciale per la storia bizantina, in
quanto determinò l’alleanza tra una delle più grandi famiglie della capitale (i
Ducas) e una delle più importanti famiglie dell’aristocrazia provinciale (i
Comneni).
L’accordo restituì al ceto dei funzionari la posizione dominante e permise
anche di portare avanti la politica di allargamento attuata da Costantino IX
Monomaco: si decise infatti di rendere accessibile il senato anche alla gente
comune (‘’οι βαναυσοι‘’); a ricordarci che la barriera tra senatori e popolani
venne abbattuta da Costantino X Ducas è ancora una volta Psello.
La politica di distribuzione delle dignità venne portata avanti anche dai
successori di Costantino X (fatta eccezione per Romano IV Diogene, un
generale originario della Cappadocia che aveva sposato la vedova di
Costantino X)
I successori di quest’ultimo fallirono a causa dell’insostenibilità della
situazione finanziaria e delle concomitanti aggressioni dei Turchi-Selgiuchidi,
a cui si aggiunsero le continue sedizioni interne di carattere regionale, segno
del malcontento aristocratico per l’insicurezza delle frontiere.
La dissoluzione venne fermata da Alessio I Comneno, abile nello sfruttare i
legami parentali intrecciati coi Ducas e capace di respingere i nemici esterni
restaurando il prestigio dell’autocrazia.
Ciò permise ai Comneni di riuscire là dove le antiche famiglie aristocratiche (i
Foca e gli Scleri) avevano fallito: l’alleanza tra Ducas e Comneni pose fine alle
dinamiche interne che avevano caratterizzato gli anni centrali dell’XI secolo.
Una Novella di Alessio I toglieva ai senatori dediti al commercio (che non
precepivano la ‘’grandezza della loro carica’’) la possibilità, se chiamati in
giudizio, di prestare giuramento nella propria dimora, costringendoli a farlo
in pubblico (in tribunale).
L’alleanza tra Ducas e Comneni, tra queste due grandi famiglie aristocratiche
sostenute da importanti legami parentali e di fedeltà personale, si era rivelata
l’unica via per salvare l’Impero, l’unico modo per contenere per ancora un
secolo l’espansionismo occidentale.
IL 1071: ANNUS HORRIBILIS PER BISANZIO

La trasformazione venne accelerata decisamente dall’evoluzione della


situazione ai confini orientali, dove il potere di Bisanzio era notevolmente
diminuito a causa dell’arrivo di popolazioni turche, che inizialmente
avevano occupato il Khurasan (1040) e che in seguito si erano islamizzate.
In seguito esse avevano preso Baghdad, fonte di ogni legittimità islamica, e i
loro capi avevano ricevuto il titolo di ‘’sultani dell’Est e dell’Ovest’’, andando
così ad elaborare il progetto di riunificare l’Asia musulmana.
Dopo quasi due secoli di tranquillità, l’Anatolia e la Cappadocia erano di
nuovo minacciate; una situazione resa ancora più grave dalla
smilitarizzazione degli eserciti tematici, accelerata dalla politica di austerità
fiscale di Costantino X Ducas.
L’area era divenuta vulnerabile anche a causa della politica punitiva che
Basilio II aveva adottato nei confronti dei Foca, la cui estromissione aveva
notevolmente indebolito l’area.
Il numero di contingenti mercenari necessari a difendere l’area divenne così
sempre più elevato di volta in volta, cosa che spinse ad adottare una linea
difensiva basata sul controllo di alcuni punti nevralgici, difesi da soldati di
mestiere.
Questo tipo di strategia richiedeva però il supporto della popolazione locale,
che però si era molto disaffezionata all’Impero in quanto pesantemente
sovratassata.
Si trattava di un circolo vizioso descritto in maniera involontaria anche da
Psello: l’Impero non aveva soldi a sufficienza per pagare i mercenari, allora
tassava ulteriormente la popolazione, questa si disaffezionava e si ribellava,
ciò agevolava la penetrazione turca.
Le risorse monetarie dell’Impero si erano ridotte anche a causa delle grandi
trasformazioni delle campagne, che la legislazione basilide non era riuscita a
regolare (cosa che causò la diminuzione della rendita fiscale).
L’abolizione dell’allelengyon ad opera di Romano III Argiro dimostrava come
l’aristocrazia fondiaria fosse capace di ottenere esenzioni fiscali.
I bisogni avevano ormai superato di molto le entrate, e la prova è la
crisobolla emanata da Basilio II nel 992 d.C. con cui si concedevano alle navi
veneziane che superavano i Dardanelli facilitazioni fiscali.
La situazione divenne talmente tanto grave che Romano IV Diogene (1067-
1071), salito al trono dopo aver sposato la vedova di Costantino X (Eudocia),
si vide costretto a servirsi di una svalutazione molto severa , che ridusse al
minimo il titolo dell’oro.
L’esito ultimo di questi avvenimenti fu la battaglia di Mantzikert (1071), la
disfatta con cui si concluse la spedizione in Oriente di Romano IV, che voleva
cercare di porre freno all’espansione turca tramite una strategia d’offesa,
lasciando il contenimento alla ricostituzione del sistema tematico.
Egli cercò così di assicurarsi i capisaldi di Khliat e le vicine piazzeforti, per
proteggere l’Armenia dalle incursioni turche e ridurre la pressione di queste
sulla Cappadocia.
La sconfitta di Mantzikert (l’odierna Malazgirt nella Turchia orientale, allora
chiamata Armenia) di per se’ non rappresentava una disfatta decisiva, infatti
il sultano turco Alp Arslan (1063-1073) era più interessato ad espandersi a
danno dei Fatimidi che a danno dei Bizantini.
Nel trattato di pace stipulato tra l’Impero e i Turchi veniva sancita la rinuncia
imperiale alle roccaforti a Nord del lago di Van, agli altipiani armeni, alle
terre intorno al bacino dell’Eufrate.
Perdite che riportavano l’Impero alla situazione di inizio X secolo d.C., che
venivano però rese ancora più gravi dalla crescente inquietudine sociale e
dal parallelo tracollo imperiale in Italia.
I Normanni infatti, supportati moralmente/militarmente/economicamente dal
papa dopo gli accordi di Melfi, dal 1061 cominciarono una campagna militare
che nel giro di dieci anni li portò a conquistare tutto il Meridione.
Brindisi, Taranto e Otranto caddero velocemente nelle mani del Guiscardo, che
nel 1071 riuscì anche a conquistare Bari, la più importante posizione romana
in Italia.
Nel frattempo Ruggero d’Altavilla (1031-1101), fratello del Guiscardo, riuscì
anche a conquistare la Sicilia; nel 1072 veniva occupata Palermo.
Le bande di cavalieri avevano qualche anno prima invaso l’Italia riuscirono
dunque a costituire una compagine unificata, che per quanto avesse una
natura pragmatica riuscì a trovare compattezza intorno alla famiglia degli
Altavilla, che in seguito avrebbero tentato di espandersi anche in Oriente.
A rendere Mantzikert un disastro però non fu la contemporanea caduta di
Bari, quanto piuttosto la dimostrazione della debolezza politica dell’Impero,
dilaniato dalle tensioni interne causate dal confronto tra potere autocratico e
aristocratico.
Romano IV, che era stato fatto prigioniero, venne subito liberato dal sultano
turco, ma venne abbandonato dalle più importanti famiglie aristocratiche, i
Ducas e i Comneni (appoggiati dalle altre grandi famiglie nobiliari: Malini e
Botaniati).
Queste preferirono adottare una politica militare basata sulla difesa e
sull’impiego di milizie mercenarie, specialmente franche (le stesse che
avevano disertato a Mantzikert per ordine del loro comandante Roussel de
Bailleul).
I veri sconfitti a Mantzikert erano però i membri dell’aristocrazia orientale,
che avevano sostenuto Romano IV (che si era affidato soprattutto all’appoggio
delle truppe cappadociche, sue conterranee) nella speranza di recuperare il
loro antico potere.
Il 1071 divenne dunque un momento decisivo della storia bizantina in quanto
dimostrò come ormai fosse impossibile disgiungere la politica interna da
quella estera.
I successivi disordini generarono una guerra civile, che vide i Ducas e i
Comneni trionfare su Romano IV, che venne deposto e accecato.
Il confronto fratricida comportò però la rinuncia alle regioni orientali:
Armenia e Cappadocia vennero lasciate al proprio destino, costrette a
provvedere da sole alla loro difesa.
L’Asia Minore venne facilmente invasa dai Turchi, che arrivarono sino a
Nicea, ponendo così, dopo duemila anni, fine all’ellenismo in Anatolia.

- Figura importante per questo periodo è Giorgio Maniace (998-1043).


Egli riuscì condurre una campagna vittoriosa contro i Turchi in Oriente,
arrivando anche a conquistare Edessa (1032), anche se in seguito egli venne
fatto arrestato da Romano III che era invidioso del suo successo.
Al tempo di Michele IV Maniace riuscì a riconquistare la costa orientale
della Sicilia (1038), e in seguito divenne anche catepano d’Italia.
Ancora una volta venne accusato di tradimento, stavolta Maniace decise di
marciare sulla capitale e conquistare il potere.
Morì mentre il suo esercito stava annientando le truppe di Costantino IX
Monomaco, guidate dal sebastoforo (funzionario con competenze non chiare,
forse era colui che portava lo stendardo imperiale) Stefano Pergameno.

- A Romano IV succedette il debole Michele VII (1071-1078), che di fatto


dipendeva dalla figura di Psello (suo consigliere).
Venne deposto nel 1078 da Niceforo Botaniate e in seguito divenne si dedicò
alla vita di chiesa: divenne infatti metropolita di Efeso; morì nel 1091.
Sembra che prima di abdicare Michele VII abbia inviato un’ambasciata in
Cina.
6) LA DINASTIA DEI COMNENI:
L’ARISTOCRAZIA DI SANGUE AL POTERE

Nel 1081 Alessio I Comneno (1081-1118), alla testa di un esercito composto


da mercenari stranieri, turchi e soldati nazionali, entrò a Costantinopoli dove
venne proclamato imperatore.
L’ascesa di Alessio I mise fine ad un decennio di conflitti, che avevano
lacerato l’Impero e favorito la perdita di buona parte del territorio romano.
Bisanzio venne salvata di fatto dai Comneni, al prezzo di una rivoluzione
dell’esercizio del potere, che fu in grado di riaffermare per ancora un secolo
il proprio prestigio superiore nel Mediterraneo.
Con la dinastia dei Comneni (1081-1185) l’equilibrio istituzionale precedente
venne sconvolto, in quanto il potere si concentrò tutto nelle mani del sovrano
e della ristrettissima cerchia dei suoi congiunti.
Il funzionamento delle sue istituzioni rimase intatto, a cambiare fu però il
fattore politico dominante, che divenne la vicinanza alla famiglia imperiale e
alle sue reti di dipendenza personali (ben attestate dalle fonti), differenti dai
rapporti di vassallaggio tipici dell’Occidente.
Paul Magdalino ha parlato di ‘’sistema comneno’’, in cui i migliori posti nel
governo erano assegnati ai membri di una ristretta cerchia di famiglie, da cui
furono esclusi alcuni lignaggi molto antichi che però non erano stati in grado
di unirsi a livello parentale con il casato regnante.
Con l’affermarsi di questa struttura basata sulle strutture familiari e parentali,
l’autocrazia bizantina si rafforzò e fu in grado di competere con l’Occidente,
di cui comunque subì il grande dinamismo, specialmente quello di Venezia
(al cui aiuto Bisanzio ricorse spesso, a prezzo di gravose concessioni
commerciali).
Alla metà del XII secolo Manuele Comneno avrebbe potuto ricostituire l’idea
di Impero come erede di Roma e delle sue aspirazioni universali,
compromesse però dopo la sua morte dai conquistatori crociati.
Questi, per quanto si proclamassero alleati cristiani, compresero come la
dinastia si fosse indebolita alla morte di Manuele, cosa di cui approfittarono.
La fine della dinastia comnena fu causata dalla frantumazione dell’alleanza
aristocratica che reggeva ormai l’Impero: i vari clan nobiliari cominciarono
allora a contrapporsi appoggiati da vaste clientele; scontri che devastarono in
maniera irrimediabile lo Stato bizantino.

ALESSIO I E L’AFFERMARSI DELLA DINASTIA DEI COMNENI

Dopo la deposizione di Michele VIII (1078), il potere passò nelle mani di


Niceforo III Botaniate (1078-1081), un uomo anziano che cercò di assicurare
il trono al figlio Niceforo Sinadeno, togliendo così di mezzo il figlio di Maria
d’Alaina (vedova di Michele VIII), che si rivolse ad Alessio I.
Costui si confrontò con Niceforo III per tre anni, riuscendo a cogliere la
vittoria finale in quanto sostenuto dai Ducas e da altre grandi famiglie
nobiliari (come i Paleologhi).
Alessio I sposò Irene Ducas, consolidando dunque l’alleanza aristocratica alla
base della nuova βασιλεια, la cui natura è perfettamente descritta da Anna
Comnena (), figlia di Alessio I e autrice di una grande biografia di costui:
l’Alessiade (che si interessa degli anni tra il 1069 e il 1118).
Decisivo fu anche l’appoggio del cognato di Alessio I, Niceforo Melissino, la
cui famiglia curava gli interessi dell’aristocrazia frigia.
Grazie a questa complessa rete di alleanze, Alessio I fu in grado di assicurare
al trono una solida base di consenso; questo sistema aristocratico-dinastico
ebbe talmente tanto successo che le successive dinastie ascese al trono (degli
Angeli, dei Lascaris e dei Paleologhi), continuarono a rivendicare legami con
la famiglia comnena.

LA NUOVA CLASSE DIRIGENTE

Con Alessio I il potere si concentrò in un gruppo circoscritto di famiglie, di


nobiltà spesso recente, convergenti nella corte di Costantinopoli e coordinate
dalla gens comnena, che le gestiva tramite concessioni fondiarie.
Questo tipo di regime era emerso dopo un secolo di ambigua storia
costituzionale e dopo il venir meno della giustapposizione tra aristocrazia
civile e militare (ciò a causa della diversa struttura della classe dirigente).
L’Impero rimaneva uno Stato altamente gerarchizzato, in cui però le cariche
più importanti si ottenevano grazie all’appartenere ad una famiglia: quindi il
sistema degli uomini nuovi nato con Costantino IX Monomaco venne meno a
causa del ritorno di una gerarchia del sangue (che ridimensionò le ambizioni
della borghesia mercantile).
Il ceto aristocratico dunque si dotò di una sempre più forte identità collettiva,
come ha osservato Alexander Kazhdan (1922-1997), che si basava in primo
luogo sulla nobiltà di nascita.
Da questo disegno furono colpite quelle famiglie aristocratiche, in primo
luogo quelle della Cappadocia come gli Scleri e i Diogeni, che non erano state
in grado di legarsi personalmente con i Comneni.
Molte furono poi le critiche che il mondo intellettuale rivolse ad Alessio I:
Giovanni Zonara (XII secolo) nella sua Epitome di storia critica l’imperatore
per aver retto lo Stato come una proprietà privata.
Questo giudizio ci rivela come l’appropriazione da parte dei Comneni del
potere pubblico non avesse ricevuto un’approvazione generalizzata; questo
motivo di biasimò ebbe però anche l’effetto di influenzare negativamente le
ricerche storiche sullo Stato comneno.
Anche Niceta Coniata (1155-1217), che nella sua Narrazione cronologica critica
il comportamento del figlio di Alessio I, Giovanni II, che assegnava cariche ai
suoi familiari.
Il nuovo assetto sociale non era però figlio di una volontà tirannica, quanto
piuttosto di un’adesione alla condizioni reali della società bizantina, che era
stata salvata proprio dai nuovi accordi formatisi tra gli aristocratici.
L’Impero dunque era difeso tramite l’assunzione di mercenari e queste reti
tra le famiglie nobiliari, sistemi che non indebolirono il potere statale, bensì lo
resero forte e coeso, né produssero tanto meno una frammentazione del
potere, bensì ne favorirono l’accentramento.
Questo sistema di distribuzione delle cariche ai membri delle famiglie vicine
ai Comneni, non portò alla formazione di legami di tipo vassallatico simili a
quelli presenti in Occidente.
Il vassallo occidentale era infatti un cliente del sovrano, da cui otteneva un
beneficio e a cui prometteva dei servigi; questo tipo di sistema non si creò a
Bisanzio in quanto rimase in vita un esercito nazionale e non venne mai
meno l’apparato politico.
Questi nuovi legami aristocratici vennero dunque solo inseriti in un contesto
politico mai scomparso; trova dunque poco riscontro la teoria della presenza
di una ‘’società prefeudale’’ a Bisanzio.
Ad essere alterati furono piuttosto i rapporti tra il publicum (apparato fiscale e
funzionariale, istituzioni giudiziarie) e il sovrano; un’evoluzione da cui venne
generato un ordinamento fondato sulle parentele imperiali.
In questo modo le questioni di titolo, fissate nel corso del X secolo d.C.,
subirono una radicale revisione, ancora una volta portata avanti da Alessio I.
Molte delle dignità più elevate scomparvero, fatta eccezione per quella di
‘’cesare’’ (conferita al cognato del sovrano), e ne furono create delle nuove
basate sull’appellativo di ‘’σεβαστος’’ (‘’sebastos’’).
Il titolo di sebastos divenne di fatto la linea di demarcazione tra i membri
delle alte gerarchie di corte e quelli di grado minore.
Alessio I attribuì ai fratelli le nuove cariche di protosebastos e di
sebastokrator (quest’ultimo titolo nato dalla fusione del termine sebastos con
quello di autokrator; una carica inferiore solo a quella di βασιλευς).
I legami di parentela e le strette relazioni tra i titoli permisero di concentrare
il potere nelle mani della famiglia imperiale, ma allo stesso tempo favorirono
la soluzione del rapporto tra autocrazia e aristocrazia.
Venendo meno l’azione disgregatrice dovuta alle lotte tra le famiglie imperiali
rese possibile la stabilità istituzionale, favorita anche dallo smantellamento di
alcuni apparati amministrativi.
Un processo questo che portò alla creazione della carica di ‘’grande
logarista’’, che si riferiva a due funzionari: uno preposto al controllo delle
finanze statali, e uno al controllo del patrimonio personale del sovrano.
Vennero anche istituite due nuove cariche, quella di μεγας δομεστικος
(domestico) e di μεγας δουξ (megaduca), a cui furono affidati rispettivamente il
comando supremo dell’esercito e della flotta.
Le province, fatta eccezione per l’Ellade e il Peloponneso (rimaste sotto il
controllo di un governatore civile), vennero invece poste sotto il controllo di
un duca (‘’δουξ’’) e ridotte territorialmente, in modo da non costituire più un
pericolo per il potere imperiale.

ESENZIONI FISCALI E CESSIONI DI REDDITI PUBBLICI A FAVORE


DELL’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO

Il nuovo assetto costituito al tempo di Alessio I e consolidatosi coi suoi


successori ebbe ovviamente delle conseguenze sul piano economico.
L’inserimento nelle strutture politico-amministrative di membri vicini alla
famiglia dei Comneni comportò importanti concessioni fiscali e patrimoniali
destinate a divenire il caposaldo del nuovo sistema.
L’aristocrazia si preoccupava in primo luogo di accrescere le proprie fortune
attraverso la ricezione regolari di beni del demanio, di cui beneficiarono
anche membri di casate non di primissimo piano.
Durante l’età comnena dunque si assistette all’ingrandirsi della grandi
proprietà, che arrivarono a comprendere persino interi villaggi; il ceto dei
contadini indipendenti rimase comunque in vita.
Allo stesso tempo si procedette ad una ridistribuzione delle risorse
finanziarie tramite la moltiplicazione delle esenzioni fiscali (o exkouseiai) e con
il conferimento dei λογισιμα (‘’logisima’’),
Si tratta di una procedura attestata anche in epoca precedente, ma che acquisì
un’importanza maggiore proprio all’inizio dell’epoca comnena, quando,
tramite il logismon lo Stato concedeva ad un beneficiario il gettito fiscale di un
bene.
Se questo non era titolare si trattava di una semplice rimessa d’imposta sui
propri averi, che si distingueva dall’exkouseiai comprendeva solo le tasse
supplementari, mentre il logisimon comprendeva anche l’imposta di base.
Nel caso in cui il logisimon prevedesse anche la riscossione di imposte sui
possedimenti altrui, allora questa concessione non si configurava come una
semplice assegnazione di un reddito tributario, ma era anche un espediente
per semplificare il sistema amministrativo, in quanto eliminava la necessità
di riscuotere le imposte (e di portarle a Costantinopoli).
Questo sistema generò però il sospetto che con le entrate fiscali lo Stato
cedesse anche un pezzo di sovranità pubblica.
Prova di ciò è la vicenda del monastero di Lavra e Alessio I: quest’ultimo
aveva infatti assegnato al fratello Adriano i redditi fiscali dovuti al monastero,
cosa che spinse i monaci a chiedere una crisobolla imperiale che li rassicuri
che non sarebbero stati iscritti come paroikoi.
La pratica dei Comneni di attribuire terre a consanguinei non tendeva a
dissolvere il potere politico, né la distinzione tra autorità pubblica, possesso e
diritti personali veniva meno, tanto più che alcuni appannaggi non erano
trasmissibili.
Questi infatti decadevano alla scomparsa del titolare, ma potevano anche
essere revocati dal sovrano, che aveva facoltà di riassegnarli ad altri.
Gli stessi precetti regi di ‘’esenzione’’ fiscale, da non indicare con il termine di
‘’immunità’’, non conferivano (almeno nel XII secolo) alcun diritto
giurisdizionale, né implicavano l’esclusione del potere pubblico nelle terre del
beneficiario.
Lo Stato rimaneva l’inizio e la fine di tale processo: dall’obbligo fiscale come
del suo alleggerimento.
Al tempo dei Comneni le capacità economiche dell’Impero aumentarono in
maniera sensibile, e questo per la possibilità dei suoi esponenti di sommare
al loro patrimonio fondiario anche benefici fiscali.
Questo non significò però che l’Impero rinunciasse alle sue prerogative, né
tanto meno alla sua capacitò di controllo su persone che si configuravano pur
sempre come agenti del governo.
La continuità dello Stato centralizzato, con la sua complessa articolazione e
burocrazia, impedì il sorgere di gerarchie vassallatiche.

L’ISTITUTO DELLA PRÓNOIA: RENDITE FISCALI IN CAMBIO DI


PRESTAZIONI MILITARI

L’istituto della προνοια (‘’prònoia’’) è stato al centro di un’accanita disputa


storiografica.
Sostanzialmente esso consisteva nella cessione di una rendita fiscale in
cambio di una prestazione, nella maggior parte dei casi, di carattere militari;
si deve evitare di proporre un’analogia tra la pronoia bizantina e l’istituto
feudale occidentale.
Durante il XII secolo la diffusione della pronoia fu molto limitata, e dunque il
suo impatto sulla società fu, almeno inizialmente, molto limitato; solo al
tempo di Manuele Comneno essa cominciò a divenire una vera e propria
pratica amministrativa dotata di caratteri istituzionali definiti.
Il fine ultimo della pronoia era quello di retribuire i beneficiari della liberalità
imperiale senza intaccare le riserve monetarie dello Stato.
Si provvide così a remunerare un certo numero di ufficiali concedendo loro
dei lotti di terra statale lavorata da paroikoi: questo sistema venne indicato
come pronoia.
L’autorità pubblica attribuiva dunque, in cambio di servizi di tipo militare,
due fonti di reddito molto diverse tra di loro: le rendite fondiarie e i gettiti
tributari, devoluti dallo Stato al titolare della pronoia, che poteva esigerli
tramite degli agenti personali.
La pronoia si differenziava dall’antica istituzione dei beni militari in primo
luogo perché diverso era lo status dei suoi destinatari, che, non coltivavano la
terra direttamente.
Si è osservato come le pronoie potessero essere di modesta entità , così che per
ottenere la somma assegnata si doveva ricorrere ad introiti derivanti dai
paroikoi disseminati in più villaggi, spesso distanti l’uno dall’altro, cosa che
‘’permetteva di non trasformare una dipendenza fiscale in una dipendenza sociale’’.
Una considerazione che consente di ridimensionare un passo di Niceta
Coniata, in cui lo storico bizantino opponeva la solidità dei themata alla
pratica della pronoia, tramite cui Manuele Comneno avrebbe esposto
‘’all’avidità dei militari’’ le province.
E questo perché, stando a quanto dice Niceta Coniata, anche gli stranieri
cercavano di ottenere un diploma imperiale che garantisse delle terre e quindi
delle rendite.
La critica mossa da Niceta Coniata è in realtà densa di sarcasmo, ma ha
comunque permesso che intorno alla pronoia si cominciasse a discutere come
se si trattasse un’istituzione di orientamento feudale, piuttosto che di un
semplice espediente fiscale, che aveva come fine quello di stipendiare alcuni
funzionari con forme remunerative differenti.
Numerosi studiosi (Svoronos e recentemente Oikonomides) hanno chiarito
che la pronoia era un’attribuzione imperiale, sancita da un atto ufficiale, di
redditi accordati a titolo vitalizio e facilmente revocabili.
Il titolare di una pronoia riceveva un bene sul quale comunque lo Stato
manteneva intatte le proprie prerogative; il titolare del beneficio poteva
attribuirne una quota ai propri dipendenti (cosa che non comportava
modifiche ai rapporti sociali).
La sostanza della pronoia era pubblica, non presupponeva la giurisdizione di
sul fondo, né questa attribuiva al beneficiario un potere politico di qualche
tipo.
La pronoia era dunque il conferimento del diritto di riscuotere a proprio
vantaggio le imposte, in sostituzione di una retribuzione pubblica, senza che
ciò alterasse gli equilibri dello Stato.
Poteva accadere che un pronoiario cercasse di usurpare i poteri in origine
non concessi, ma si trattava sempre di abusi illegittimi, aberrazioni che non
si tradussero mai in un sistema di governo riconosciuto.
Solo con la conquista occidentale (1204) anche nel mondo bizantino si
instaurò una feudalità latina, che influenzò le istituzioni greche (soprattutto
in Morea).
Grazie al contatto con i cavalieri occidentali, Bisanzio imparò a conoscere il
feudo e ad assimilarne alcuni elementi: solo allora la pronoia divenne
ereditaria (προνοια γονικη).
Servì attendere il XV secolo perché tale istituto acquisisse il significato di
proprietà slegata dalla prestazione di un qualche servizio.
Unitamente al diffondersi di procedimenti di esenzione fiscale e
all’elargizione del logisima anche l’attribuzione della pronoia erano indici di
una tendenza a conferire ai funzionari dello Stato una rendita fondiaria.
Ciò diede origine a vincoli di dipendenza, che però non si tramutarono mai
in rapporti vassallatici; allo stesso tempo non si devono ignorare quelle
identità strutturali tra Occidente e Oriente.

L’IMPERO BIZANTINO DI FRONTE AL DINAMISMO POLITICO


DELL’OCCIDENTE

Nel decennio tra la battaglia di Mantzikert e l’incoronazione di Alessio


Comneno la situazione a livello internazionale era mutata in peggio per
l’Impero, che si trovava attaccato su tre fronti: i Normanni colpirono in
Dalmazia, i Peceneghi saccheggiavano l’area balcanica, mentre i Turchi-
Selgiuchidi si espansero ulteriormente in Anatolia.
I Comneni, e così le famiglie aristocratiche che li appoggiavano, si videro
costretti a scegliere su quale fronte difendersi, e visto che la maggior parte di
questi casati si erano appena allargati in Tracia, essi decisero di difendere
l’Europa.
Si decise dunque di affrontare i Normanni di Guglielmo il Guiscardo, che
avevano conquistato Durazzo e che erano in marcia sulla via Egnazia, che
conduceva a Tessalonica e poi a Costantinopoli.
L’invasione normanna spaventava di più anche perché dotata di una forte
connotazione ideologica: l’obiettivo del Guiscardo era infatti il trono bizantino.
Alessio I riuscì allora a sottoscrivere un accordo di pace con i Turchi, che
riconobbero la sovranità bizantina; a quel punto l’imperatore avviò la
campagna contro i Normanni, di cui riconobbe la superiorità in campo
aperto.
Adottò allora tecniche di guerriglia e allo stesso tempo avviò delle trattative
diplomatiche con papa Gregorio VII (1073-1085) e favorì la calata
dell’imperatore Enrico IV (1084-1105) in Italia.
Solo la morte del Guiscardo nel 1085 portò alla fine del conflitto, ma l’attacco
dei Normanni aveva mostrato all’Occidente la debolezza dell’Impero e
soprattutto una via di invasione (i Balcani).
A queste problematiche esterne si aggiungevano le difficoltà economiche
dell’Impero, dovute soprattutto alla necessità di pagare i mercenari.
A questa problematica Alessio I ovviò attraverso l’incameramento dei beni
ecclesiastici, misura che irritò non poco la Chiesa ortodossa, che Alessio I
cercò di accontentare presentandosi come difensore dell’ortodossia.
Per questo motivo egli attuò delle persecuzioni molto severe contro i
bogomili, diffusosi a Costantinopoli tra quei circoli aristocratici che erano
usciti sconfitti dalla salita al trono del Comneno e che subivano l’influsso
mistico di questa dottrina.
Per ottenere l’approvazione patriarcale egli arrivò anche a condannare
Giovanni Italo (1082), che venne rinchiuso in un monastero in quanto
accusato di voler restaurare il paganesimo filosofico (stava ‘’anteponendo il
platonismo all’ortodossia’’).
Molto più gravosa si rivelò l’esigenza di affidarsi alle navi veneziane per
evitare che i Normanni occupassero tutte e due le sponde del canale di
Otranto.
Con la famigerata crisobolla del 1082 Alessio I attribuiva alla Serenissima
delle ricompense enormi: titoli prestigiosi per il doge e il patriarca di Grado,
denaro, l’omaggio annuo di venti libbre d’oro, la possibilità di riscuotere un
tributo di tre iperperi da tutti gli Amalfitani residenti nell’Impero.
I riconoscimenti più grandi furono però la concessione di immobili nella
capitale e la possibilità di trafficare liberamente nell’Impero senza essere
soggetti alla giurisdizione delle autorità locali e senza dover pagare dazi,
compreso il κομμερκιον, l’imposta sulle merci importate (corrispondeva al
10% del loro valore).
La crisobolla del 1082 ebbe delle conseguenze determinanti per la storia del
Mediterraneo e della Repubblica di Venezia, conseguenze che Anna Comnena
dimostrava di aver compreso quando scrive che il padre aveva ‘’posto al di
fuori [i Veneziani] dell’autorità dei Romani’’.
Come ha notato giustamente Silvano Borsari, la crisobolla del 1082 pose le
basi per l’egemonia mercantile veneziana nell’Oriente latino.
Sul lungo periodo il danno economico della crisobolla fu rilevante, anche
perché i successori di Alessio I che cercarono di contrastare i Veneziani
appoggiandosi ai Genovesi o agli Amalfitani, ma che alla fine si videro più
volte costretti a rinnovare la crisobolla del 1082, che però compromise la
politica navale dei Comneni.
L’alleanza veneto-bizantina rafforzò soprattutto i Veneziani, che divennero la
potenza egemone adriatica, sostituendosi a Pugliesi e Amalfitani come ceto
italico dominante nella capitale.
L’unica area orbitante intorno all’Impero che rimaneva preclusa ai Veneziani
era il Mar Nero, che si aprì al mercato veneto solo dopo la IVa Crociata (1202-
1204).

LATINI E GRECI TRA CONOSCENZA E RECIPROCO


STRANIAMENTO: LE PRIME CROCIATE

Dopo la morte del Guiscardo nel 1085 Alessio I fu in grado di affrontare i


Peceneghi e i Cumani (popolazione turca giunta dalla Russia), e in seguito al
disfacimento del sultanato selgiuchide, frammentatosi in molti potentati,
l’imperatore cercò di riaffermare il dominio imperiale in Asia Minore.
Quest’ambizione si scontrò però con un evento imprevisto, che compromise
la politica bizantina in Oriente: l’attacco degli Occidentali.
Nel 1095, durante il concilio di Clermont, papa Urbano II (1088-1099) lanciò
un appello alla cristianità d’Occidente, chiamata a difendere i propri fratelli
orientali, minacciati dagli infedeli: l’origine del fenomeno crociato parte da
qui.
Il concilio di Clermont era però solo il risultato finale di un processo più
antico, cominciato nell’XI secolo, quando il papato aveva cominciato a
incoraggiare la lotta contro l’Islam, sia nel Meridione italiano sostenendo i
Normanni, sia in Spagna sostenendo le monarchie castigliana e aragonese al
tempo della prima fase della Reconquista.
L’idea di spedizioni liberatrici non era dunque nuova, ma nuove erano
l’esuberanza religiosa, il carattere internazionale e la dimensione emotiva
che caratterizzarono le campagne verso la Terra Santa.
Le motivazioni religiose si affiancavano poi a motivazioni secolari: la chiesa
infatti voleva disciplinare il comportamento delle bande di cavalieri,
indirizzando la loro aggressività verso Oriente, contro gli infedeli.
Il papato vedeva poi nelle crociate la possibilità di legittimare definitivamente
la sua posizione egemonica all’interno della cristianità, che diveniva ora un
corpo politico che trascendeva la sovranità mondana.
Fulcherio di Chartres (1059?-1127?), testimone diretto dell’invocazione di
Urbano II, spiega che il papa voleva che i Cristiani ‘’divenuti soldati di Cristo…
combattano i barbari’’.
In questo modo la crociata diveniva un modo per ribadire l’universalità della
chiesa e la sua unità politica: promettendo la remissione da tutti i peccati il
papa spronava una partecipazione di massa alla campagna (i beni di chi
partiva erano posti sotto la tutela della chiesa).
Per comprendere come mai si arrivò a questo punto si deve comprendere
anche quanto fosse divenuto importante nell’XI secolo il pellegrinaggio a
Gerusalemme, mezzo privilegiato per arrivare ad una maggiore comunione
con Dio.
Era dunque compito della cristianità stessa liberare dagli infedeli i luoghi
santi, che dovevano poter essere visitati senza vessazioni da parte dei
musulmani; gli orientalisti hanno ovviamente dimostrato da tempo che non
esisteva un’Islam persecutore del Cristianesimo, almeno per come
tratteggiato nella propaganda cattolica.
Manifestazioni di intolleranza si verificarono comunque anche nel mondo
musulmano, che però rimaneva comunque aperto e tollerante, anche quando
sopraggiunsero i Turchi, più rozzi e meno tolleranti rispetto agli Arabi.
Furono le violenze e l’intolleranza dei Cristiani che irrigidirono l’ortodossia
islamica.
Bisogna poi ricordare che i Cristiani d’Oriente non chiesero mai l’aiuto della
cristianità occidentale, la famosa lettera inviata da Alessio I a Roberto conte
di Fiandra (1065-1111) è infatti un falso (che probabilmente si basava però su
un testo originale, infatti il padre di Roberto, che era omonimo, aveva servito
lo stesso Alessio I).
Nella sua lettera Alessio I non chiedeva altro, probabilmente, che milizie
mercenarie occidentali.
L’Occidente aveva anche malinteso la presenza di una delegazione greca al
concilio di Piacenza (1095), che non era lì per chiedere l’aiuto occidentale, ma
per tentare di arrivare ad una riconciliazione tra le due chiese, a cui però non
si sopraggiunse.
Questo spirito bellicoso e prevalentemente religioso era del tutto estraneo al
mondo greco, in cui, a differenza del mondo post-carolingio, il clero non era
mai stato coinvolto nell’attività bellica, che era rimasta sempre una
prerogativa dello Stato, che però era scomparso in Occidente.
La chiesa militante d’Occidente, che coordinava i pellegrinaggi armati,
suscitava un grande scandalo nel mondo bizantino, che non concepì mai
un’ideale di ‘’guerra santa’’; questo spiega per esempio il disprezzo di Anna
Comnena per il clero latino ‘’partecipa ai misteri divini e poi tiene lo scudo con la
sinistra e la lancia con la destra’’.
L’Oriente non aveva nulla a che spartire con gli ideali della crociata, perché
l’Impero non si era mai approcciato ai Turchi in maniera così antitetica, cosa
che per il mondo latino risultava incomprensibile e che generò sospetti e
incomprensioni che al lungo andare avrebbero allontanato i due mondi.
Gli Occidentali erano sospettosi perché non capivano che rapporto vi fosse tra
Turchi e Bizantini, mentre questi ultimi erano intimoriti dal fatto che tra i capi
della cosiddetta ‘’crociata dei baroni’’ (la spedizione guidata dai nobili al
tempo della Ia Crociata) vi fossero Boemondo di Taranto (1051-1111) e
Tancredi d’Altavilla (1071-1112), rispettivamente figlio e nipote del Guiscardo.
Ulteriore indignazione suscitava la cosiddetta ‘’crociata degli straccioni’’ (la
spedizione ‘’popolare’’ al tempo della Ia Crociata), guidata da Pietro l’Eremita
(1050-1115), i cui membri si erano abbandonati a massacri di Ebrei e violenze
antisemite.
Per i Bizantini la crociata risultava un evento incomprensibile, ma soprattutto
pericoloso, in quanto come spiega Anna Comnena, gli Occidentali erano
diretti a Gerusalemme a parole, ma in realtà volevano ‘’detronizzare Alessio’’.
I baroni franchi molto probabilmente non avevano intenzione di conquistare
l’Impero, tuttavia i Bizantini compresero velocemente che il movimento
crociato avesse la capacità di unire l’Occidente in chiave anti-orientale.
Il ricordo ancora vivo delle azioni del Guiscardo, il successo della Ia Crociata:
tutti elementi che generarono una distanza incolmabile, che ebbe come
risultato finale la conquista di Costantinopoli (1204) da parte dei crociati e
l’incapacità dell’Impero paleologo di accordarsi con l’Occidente per tenere a
freno la potenza ottomana.

IL SORGERE IN ORIENTE DI PRINCIPATI LATINI

Ad un anno dall’appello di papa Urbano II, le forze che aderirono alla


crociata cominciarono a muoversi verso est: dalla Dalmazia giunsero
Provenzali e Italiani del Nord guidati da Raimondo conte di Tolosa (1045-
1105), dal Danubio i contingenti franco-lorenesi sotto la guida di Goffredo di
Buglione (1060-1100) e dal fratello Baldovino di Boulogne (1058-1118),
attraverso l’Epiro e la Tracia il contingente italo-normanno guidato da
Boemondo di Taranto e dal cugino Tancredi, infine i Francesi del Nord
guidati da Ugo di Vermandois (1057-1101) , fratello del re di Francia Filippo
I (1060-1108).
L’arrivo di un così grande numero di uomini suscitò molto timore tra i
Bizantini, che al fine di limitare le razzie e le scorrerie da parte dei crociati li
fecero scortare da contingenti dell’esercito, evitando anche di concentrarli
nella regione di Costantinopoli.
Immediatamente si presentò alle due fazioni il problema diplomatico: la
diplomazia bizantina infatti chiese ai leader crociati di prestare giuramento
ad Alessio I, ovvero di riconoscersi vassalli del sovrano.
Ciò creò però una problematica di traduzione, in quanto il termine vassallo
venne tradotto in greco con termini ambigui come ‘’uomo ligio’’ () o ‘’schiavo
volontariamente’’ ().
Alessio I era disposto ad offrire ai crociati il suo supporto militare,
indispensabile per i crociati per arrivare a Gerusalemme, a patto che però
questi combattessero i Turchi in Asia Minore; allo stesso tempo però i capi
crociati erano consapevoli di ambire a territori che l’Impero non poteva più
reclamare come suoi.
Emersero però alcune diffidenze durante l’assedio di Nicea (1097), quando il
contingente bizantino si accordò con i Turchi, che cedettero la città, da cui
però i Latini vennero esclusi (anche se veri artefici della conquista).
Il dissenso si acuì nel resto della campagna, anche se non compromise l’arrivo
degli Occidentali in Terra Santa, senza che i Turchi o i Fatimidi riuscissero ad
opporre una reale resistenza (il mondo arabo era infatti molto frazionato).
Nel 1099 i crociati, grazie alle macchine d’assedio portate dalla flotta
genovese, riuscirono ad espugnare Gerusalemme, dove vennero massacrati
Ebrei e musulmani.
Furono proprio questi comportamenti che permisero il riemergere, nella
seconda metà del XII secolo, dello spirito di jihad rivolto alla riconquista di
Gerusalemme, dove il califfo Omar aveva posto la prima pietra della sua
moschea.
Molto complessi si rivelarono i rapporti con i cristiani d’Oriente, che vennero
considerati eretici e spesso espropriati di terre e proprietà; molti sospetti
erano nutriti anche nei confronti dei Bizantini, a cui venne restituita solo
parte del litorale anatolico.
Alessio I si vide costretto a riconoscere la nascita dei principati latini in
Oriente: le Contee di Tripoli ed Edessa, il Principato di Antiochia e il Regno
di Gerusalemme (il primo re fu scelto tra i capi della crociata, che elessero
Goffredo di Buglione).
A suscitare molta indignazione fu soprattutto la formazione del Principato
normanno di Antiochia, in possesso di Boemondo, che era dunque venuto
meno al giuramento fatto all’imperatore.
Il figlio del Guiscardo lasciò in Oriente il cugino Tancredi, decidendo di
rientrare in Occidente, dove cercò di convincere il re di Francia e il papa ad
attaccare Bisanzio.
I suoi progetti non ebbero però successo, in quanto egli venne sconfitto a
Durazzo (1108) e costretto a dichiararsi vassallo di Alessio I; l’evento aveva
comunque rivelato l’evidente antagonismo tra le cristianità.
La rottura con i Bizantini si rivelò però un grave danno per lo stanziamento
dei principati latini in Oriente, infatti questi erano deboli a livello geografico,
di risorse e di supporto (in quanto gli occupanti si dimostrarono non in grado
di fondersi con i locali).
Gli occidentali introdussero nei principati orientali il feudalesimo, anche se
questo di fatto coinvolse solo gli strati più elevati della società, da esso rimase
esclusa la parte restante della popolazione.

UN’OCULATA GESTIONE DEL POTERE: GIOVANNI COMNENO

Ad Alessio I, morto nel 1118, succedette il figlio Giovanni II Comneno (1118-


1143), il cui regno dimostrò quanto ormai l’alleanza aristocratica su cui
poggiava il potere comneno fosse divenuta stabile.
Anche il tentativo di Anna, sorella dell’imperatore, di detronizzare Giovanni
fu in realtà una azione individuale, animata dall’ambizione (di sostituire il
fratello con il marito Niceforo Briennio, tra l’altro poco convinto del progetto)
personale, non dal sentimento ostile di un’opposizione compatta.
La fermezza, testimoniata anche dalle fonti, con cui governò Giovanni gli
permise non solo di avere l’appoggio della capitale, ma anche di portare
avanti il progetto di espansione territoriale cominciato dal padre.
In questo modo egli fu in grado di riaffermare il dominio bizantino nei
Balcani e in Oriente.
Nell’area balcanica l’imperatore adottò una politica di contenimento, che si
rivelò adatta a porre fine in modo definitivo alle incursioni dei Peceneghi (che
vennero arruolati nell’esercito bizantino) e di confrontarsi con il neonato
Regno d’Ungheria, sorto intorno alla fine del X secolo d.C.
Quest’ultimo era stato in grado di conquistare la Croazia ma anche di agire in
Dalmazia; per evitare ogni tipo di scontro con questo nuova potente realtà
politica, Alessio I aveva combinato il matrimonio di Giovanni con la figlia di
re Ladislao I d’Ungheria (1077-1095), che era stata ribattezzata Irene.
Quest’unione avvicinò molto i due Stati, che nel corso dei secoli seguenti
avrebbero stretto un legame molto più forte, che avrebbero portato
l’Ungheria ad entrare nell’orbita bizantina anche se ‘’affiliata al cattolicesimo’’.
La restaurazione del potere potere imperiale nei Balcani permise a Giovanni
di concentrarsi anche sul fronte orientale, dove riuscì a sconfiggere gli emiri
di Melitene (odierno confine armeno-turco) e anche a far riconoscere il potere
superiore bizantino al Principato di Antiochia.
Queste imprese, sebbene celebratissime dai retori greci, non garantirono alla
compagine imperiale la centralità di un tempo, e questo perché ormai nel
Mediterraneo si era costituito un delicato equilibrio, che non era dominato
da Bisanzio, bensì questa ne era parte.
L’Impero per rimanere in vita fu da questo momento costretto ad allargare il
proprio orizzonte, andando a ricercare l’alleanza con il Sacro Romano
Impero, con cui Giovanni II aveva anche ricercato un legame matrimoniale: il
figlio minore Manuele sposò una principessa tedesca giunta a Costantinopoli
nel 1111, Berta di Sulzbach, nipote dell’imperatore Corrado III di Svevia
(1138-1152).
Anche Manuele I cercò di legarsi sempre di più con l’Impero tedesco,
seguendo le orme del padre.
Fu la necessità di essere attivo su entrambi i fronti dunque che spinse
Giovanni, minacciato anche dal re normanno Ruggero II (1130-1154), che
aveva ambizioni sull’area albanese
Grazie alle loro accurate scelte, Alessio I e Giovanni II riuscirono a riaffermare
il potere bizantino nei Balcani e in Oriente; anche la successiva politica estera
di Manuele I si sarebbe dovuta confrontare con il nuovo orizzonte politico, in
cui era divenuto determinante per Bisanzio il ruolo dell’Occidente.
Discorso a parte merita il rapporto con Venezia, a cui Giovanni II rinnovò i
privilegi della bolla del 1082, ma con cui emerse della rivalità causata dalle
azioni condotte dall’Impero in Dalmazia, che la Repubblica avvertiva come
minacce.
Inoltre l’Impero concesse, nel 1111, anche ai Pisani degli sgravi fiscali simili
(ma meno importanti) a quelli di cui godevano i Veneziani.

L’ILLUSIONE DI UN SUCCESSO: IL REGNO DI MANUELE COMNENO

Quando nel 1143 Giovanni II Comneno, morente a seguito di un incidente di


caccia, designò a succedergli l’adorato figlio minore Manuele I (1143-1180), le
forze politiche europee si stavano definendo come realtà nazionali,
prefigurando la successiva trasformazione in Stati nazionali.
Questo determinava il sorgere di delicati equilibri internazionali, basati su
continui giochi di alleanze rispetto alle quali l’Impero non poteva rimanere
indifferente.
In quegli anni l’Impero si doveva difendere in primo luogo da Ruggero II, che
stava cercando di elevare la posizione del suo regno attraverso il recupero del
simbolismo regio derivato dall’insegnamento bizantino e che nella sua corte
di Palermo ambiva a trasformare il suo dominio nel cuore del mondo
mediterraneo.
L’evoluzione degli Stati europei ebbe anche l’effetto di orientare gli interessi
in direzione del mondo latino la diplomazia bizantina.
Per non rimanere schiacciato dal dinamismo occidentale l’Impero si vide
costretto a spostare il proprio fronte politico verso Occidente dove si stavano
sviluppando le repubbliche marinare italiane (Genova, Pisa, Amalfi e
ovviamente Venezia), i cui mercanti arrivavano sempre più numerosi nel
territorio bizantino, dando vita ad attività mercantili in Egitto e Siria.
L’espansione commerciale delle repubbliche italiane risultava enormemente
vitale in quanto i mercanti italiani erano liberi dalle costrizioni dello Stato
bizantino, di fatto indifferente ad una nozione di progresso economico.
Bisanzio si trovò di fronte allo sviluppo globale dell’Occidente, che non era
limitato alla sfera politico-commerciale, ma si estendeva anche a quella
culturale, grazie alle traduzioni dall’arabo, che permisero di accrescere il
sapere filosofico/scientifico/medico.
La produzione delle traduzioni dall’arabo aveva come centri principali la città
di Salerno, la corte normanna di Palermo, ma soprattutto la Spagna, dove gli
Ebrei agivano da mediatori culturali con il mondo arabo.
Molta importanza venne acquisita poi dal codice cavalleresco, basato
sull’ideale della ‘’cortesia’’, che aspirava ad una perfezione più umana che
cristiana e che fu in grado di indirizzare re e principi verso un modello di vita
più fastoso ed elegante.
Manuele I Comneno agì consapevole di trovarsi in questo ambiente, e con la
sua azione, che gli storici del suo tempo e quelli successivi indicarono come
‘’troppo ambiziosa’’, fu in realtà determinata (secondo Paul Magdalino e ancor
prima Paolo Lamma) dalla necessità di essere ovunque nel Mediterraneo.
Il sovrano bizantino fu spinto a fare ciò dalla fluidità internazionale: dalle
conquiste crociate, dalle aggressioni normanne e dall’espansionismo del
Sacro Romano Impero.
La prospettiva politica manueliana non si discostò di fatto da quella del
padre e del nonno, bensì ne fu in qualche modo la naturale prosecuzione:
tramite l’appoggio dei crociati cercò di riaffermare il potere imperiale in
Anatolia e tramite quello dell’imperatore germanico Corrado III di colpire i
Normanni, al fine di riconquistare Calabria e Puglia.
Senza dubbio Manuele subì il fascino della cultura latina, in particolar modo
quello del fare cavalleresco, ma egli soprattutto cercò di ripristinare
l’egemonia bizantina nel Mediterraneo.
Manuele cercò di servirsi dell’aggressività delle repubbliche marinare italiane
per compensare alla diminuita partecipazione dell’elemento indigeno alle
attività commerciali (che però erano stati gli stessi Comneni con la loro
legislazioni a castrare in qualche modo).
Attraverso gli Italiani i Bizantini cercarono di favorire l’insediamento dei di
esuli normanni e mercenari franchi, da utilizzare poi come mercenari e da
ricompensare tramite la concessione delle pronoie.
Manuele non si limitò però a contenere l’attività degli Stati occidentali, ma
cercò anche di entrare in competizione con essi per sovvertirne gli equilibri e
gli assetti politici apparentemente consolidati.

LA SECONDA CROCIATA E LE SUE RIPERCUSSIONI IN AMBITO


EUROPEO

L’inizio del regno di Manuele era stato caratterizzato da una vocazione


orientale, mirata a rafforzare le frontiere dell’Impero, minacciate in quell’area
dal Sultanato di Iconio, che rendeva difficile le comunicazioni tra il centro e
il Levante.
La situazione conobbe una svolta quando in Occidente si fece imminente
l’inizio della IIa Crociata (11467-1150), predicata con grande fervore da San
Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) alla cui testa si erano posti i due più
grandi sovrani d’Europa: il re di Francia Luigi VII (1137-1180), tra l’altro in
ottimi rapporti con Ruggero II, e l’imperatore germanico Corrado III (1138-
1152).
Entrambi i sovrani sembravano disposti a rivendicare il proprio ruolo di
difensori della fede contro gli infedeli e i cristiani scismatici: premesse che
rendevano difficile alla diplomazia bizantina cercare di richiedere l’omaggio
di vassallaggio fatto dai capi occidentali nella Ia Crociata.
L’imperatore bizantino si convinse allora di doversi impegnare con maggiore
solerzia nel gioco delle alleanze nazionali, e questo soprattutto a seguito
della conquista normanna di Corfù (1147); Cinnamo, la cui opera è fondata
sulla conoscenza personale di Manuele, sostiene che i Normanni erano in
grado ‘’in tutta sicurezza’’ di devastare la Grecia.
La IIa Crociata si tradusse invece in un enorme disastro: la Contea di Edessa
non venne recuperata, Luigi VII venne abbandonato da buona parte
dell’esercito mentre si imbarcava per la Siria, mentre Corrado III appena
possibile scappò da Efeso su navi bizantine (segno della volontà manuale di
condurre assieme ai Tedeschi una politica anti-normanna).
Accolto a Tessalonica nel 1148, l’imperatore tedesco sottoscrisse con i
Bizantini un trattato di alleanza.
La IIa Crociata e l’aggressione normanna a Corfù avevano comunque
dimostrato all’Impero quanto facilmente una crociata potesse tramutarsi in
una minaccia per l’unità politica e religiosa dell’Impero, che ancora una volta
si era dovuto servire dell’appoggio di Venezia (a cui vennero rinnovati i
privilegi).
I Normanni furono abilissimi anche nel creare tensioni tra Bisanzio e gli
Ungheresi, un danno potenzialmente molto grave per Manuele I, che aveva
un rapporto molto forte con il Regno d’Ungheria.
Furono queste le premesse che spinsero Manuele I a cercare di riaffermare il
potere bizantino in Italia, anche se in questo progetto non poté contare sul
sostegno di Federico I di Svevia (1155-1180), imperatore del Sacro Romano
Impero, freddo nei confronti dei Bizantini e in quegli anni in aperto contrasto
con i comuni del Nord Italia e con papa Alessandro III (1159-1181) per il
tema delle regalie (si ricordino gli eventi della dieta di Roncaglia, 1154).
Così mentre il Barbarossa combatteva i comuni e sosteneva l’antipapa
Vittore IV (1159-1164), Manuele I ottenne l’appoggio dei baroni normanni
ribelli e delle città del Sud (desiderose di recuperare l’antica autonomia).
Nella sua campagna italiana(1155-1158), affidata ai generali Giovanni Ducas
e Michele Paleologo, Bisanzio fu inizialmente in grado di occupare tutti i
centri costieri da Ancona a Brindisi.
La morte di Michele Paleologo e le scarse risorse dell’Impero compromisero
le conquiste: nel 1158 venne dunque accettata la pace trentennale proposta
dal nuovo re normanno Guglielmo I (1154-1166).
Il primo tentativo politico di Manuele si traduceva così con un insuccesso, da
cui il Regno normanno di Sicilia usciva rafforzato, mentre il progetto
bizantino di indebolire i principati cristiani in Oriente tramite l’occupazione
di basi in Occidente venne abbandonata.
RINNOVATI ORIENTAMENTI UNIVERSALISTICI E CRISI DELLA
POLITICA MANUELIANA

Dopo la firma della pace con i Normanni, Manuele decise di tornare a quella
politica di frenetico diplomatismo che le fonti latine e greche ebbero molta
difficoltà a ricostruire cronologicamente.
La politica imperiale dell’imperatore cercò allora di creare delle trame in cui
erano coinvolte la Chiesa di Roma, il re d’Inghilterra, quello d’Ungheria, di
Francia e gli imperatori tedeschi (senza dimenticare i principati cristiani ad
Est).
Lo scisma che oppose il Barbarossa e l’antipapa Vittore IV a papa Alessandro
III coinvolse anche l’Impero Bizantino, che nel progetto del papa doveva
entrare a far parte, insieme ai Normanni di Sicilia e alla Francia, di una
grande coalizione antisveva.
Manuele I era infatti in aperta rivalità con il Barbarossa a causa dell’Ungheria,
entrambi i sovrani infatti erano interessati a condizionare a proprio favore la
crisi dinastica del regno ungherese.
L’imperatore credeva inoltre che sostenendo il papa, quest’ultimo lo avrebbe
riconosciuto come unico imperatore della cristianità; senza che ciò
significasse un recupero territoriale in Italia per l’Impero.
Il fine del Comneno era quello di istituire una gerarchia tra i poteri europei al
cui vertice vi fosse il superiore potere imperiale; nelle parole dell’arcivescovo
di Tessalonica: ‘’il βασιλευς si eleva al di sopra di tutti i sovrani della terra’’.
Si arrivò così ad un rovesciamento delle alleanze, sancito dal matrimonio tra
il vedovo Manuele I e la principessa normanna Maria d’Antiochia; dagli anni
Sessanta del XII secolo dunque la politica dell’imperatore agì in senso
antisvevo.
Per un decennio Manuele fu alleato dei Normanni, difensore del papato e
sostenitore della Lega Lombarda (ad essa fornì il denaro per ricostruire le
mura di Milano, distrutte dal Barbarossa).
Si complicò invece il rapporto con le città marinare: se Genovesi e Anconetani
vennero omaggiati con alcune concessioni economiche, i Veneziani subirono
invece dei contraccolpi (nonostante inizialmente Manuele avesse confermato
a loro i privilegi).
Nel 1171 l’imperatore ordinò l’arresto di tutti i Veneziani residenti
nell’Impero e la confisca dei loro beni; ne seguì una guerra (1171-1175), al
termine della quale venne ristabilito lo status quo.
Diversa fu invece l’azione politica di Manuele I in Oriente , dove almeno sino
alla fine del suo regno colse notevoli successi.
Manuele riuscì a fare ad ottenere l’alleanza dei principati latini d’Oriente,
facendo anche in modo che il Principato di Antiochia, governato da Rinaldo
di Chatillon (1125-1187), che era succeduto al povero Raimondo di Poitiers
(1115-1149), che era stato sconfitto e ucciso nella battaglia d’Inab (1149)
dall’emiro di Siria Norandio (1118-1174), si ponesse sotto la sua protezione,
riconoscesse il suo potere superiore e accettasse la presenza in città di un
patriarca greco.
Nel 1159 Manuele entrò a cavallo in Antiochia, scortato dai nobili della città:
Rinaldo di Chatillon ‘’tratteneva le staffe’’ del cavallo imperiale, mentre il re di
Gerusalemme Baldovino III (1143-1163) seguiva da dietro ‘’privo di simboli
regali’’.
Ad aumentare il prestigio di Manuele contribuirono anche le vittorie contro i
Turchi-Selgiuchidi dell’emiro Kilig Arslan (), che fu costretto dall’imperatore
e dall’emiro Norandio ad accettare una pace con i Bizantini.
Negli anni Settanta del XII secolo dunque, l’Impero Bizantino appariva il più
efficace scudo contro i musulmani, cosa che aveva permesso a questo di
riavvicinarsi a Roma, da cui Manuele I sperava di ottenere il riconoscimento
di βασιλευς superiore della cristianità.
Il disegno imperiale si frantumò a causa della ripresa delle ostilità con i
Turchi di Kilig Arslan, contro cui venne preparata quella che doveva essere
un’ultima e risolutiva campagna.
Questa, sebbene preparata con la massima cura, degenerò nella disfatta di
Miriocefalo (1176) in Frigia, dove l’esercito bizantino, colto di sorpresa,
venne fatto a pezzi in un gola dai Turchi.
Questa sconfitta fu resa ancora più amara dalla parallela battaglia di
Legnano (1176) in cui la Lega Lombarda sconfiggeva il Barbarossa: dopo la
sconfitta infatti il sovrano svevo decise di riappacificarsi con il papa, ponendo
le premesse per la pace di Venezia (1177), con cui di fatto finiva la politica di
ingerenza bizantina in Italia.
La sconfitta di Miriocefalo in realtà non ebbe delle conseguenze rilevanti, alla
fine Manuele I riuscì comunque a firmare una pace onorevole, che significò
però la rinuncia definitiva all’Anatolia e alla pretesa imperiale di ergersi a
difensore dei principati latini d’Oriente.
Della sconfitta di Miriocefalo approfittò poi il Regno armeno di Cilicia, detto
anche Principato delle Montagne, il cui sovrano Rupeno III (1175-1187)
riuscì a svincolarsi da Bisanzio; nel 1159 l’allora principe d’Armenia Thoros I
aveva invece riconosciuto il potere bizantino.
Ad aggravare la situazione fu poi la capacità del Barbarossa di trasformare
una sconfitta in una vittoria diplomatica con la già citata pace di Venezia del
1177, ma soprattutto con l’alleanza con il Regno normanno di Sicilia.
Il figlio del Barbarossa, il futuro imperatore Enrico VI (1191-1197), sposava la
figlia di re Ruggero II, Costanza d’Altavilla (), realizzando le potenziali
premesse per la formazione di un blocco antibizantino (dall’unione dei due
sarebbe poi nato Federico II, 1194-1250).
Manuele I cercò di bilanciare questi rovesci tramite il matrimonio della figlia
Maria con Ranieri del Monferrato (), membro di una delle più nobili casate
dell’Italia settentrionale, e tramite quello del figlio ed erede Alessio II (1180-
1183) con Agnese, figlia del re di Francia Luigi VII.
Nel 1180, anno della morte di Manuele I, il progetto manueliano di rendere
l’Impero l’entità politica in grado di coordinare gli Stati europei era fallito.
Bisanzio era ormai isolata e minacciata dalla crescente volontà del clero
d’Occidente di unificare sotto l’egida papale tutta la cristianità.

IL CROLLO DEL REGIME DEI COMNENI

La morte di Manuele I segnò una frattura determinante nella storia bizantina,


che venne avvertita già dai contemporanei: l’arcivescovo di Tessalonica
Eustazio (1110-1194) scrive che sembrava che crollasse ‘’tutto quanto ciò che vi
era di più saldo presso i Romani’’.
Con la morte di Manule l’Impero cessò di essere una potenza mondiale, e in
poco più di vent’anni venne occupata dagli Occidentali, cosa che avrebbe
determinato la creazione di un aggregato di deboli Stati greci e latini.
La crisi dinastica si aprì nel 1180 quando a salire al potere fu l’adolescente
figlio di Manuele I, Alessio II, a cui il defunto imperatore aveva assicurato il
trono con grande fatica.
Manuele infatti si era accordato con il re di Gerusalemme, quello d’Ungheria
e soprattutto con il sultano di Iconio, a cui aveva fatto giurare di intervenire in
favore del figlio in caso di minaccia.
Egli provvide anche alla formazione di un consiglio di reggenza, affidato alla
moglie Maria d’Antiochia e al patriarca di Costantinopoli, che avrebbero
dovuto contrastare le pretese di Andronico I Comneno (1183-1185), cugino
del nuovo imperatore e governatore del Ponto.
Si deve comunque ricordare che queste non erano situazioni atipiche, anche
Giovanni II e Manuele I erano saliti al potere affrontando qualche contrasto.
La guerra civile tra i due cugini ebbe un effetto disgregatore sull’Impero in
quanto accompagnata da un generale malcontento, che era dovuto a diversi
fattori.
In primo luogo l’esaurimento delle finanze statali: la società bizantina era
tendenzialmente ricca, ma lo Stato era stato prosciugato di risorse dal
reclutamento mercenario e dall’attività diplomatica.
Questo ebbe come conseguenza l’aumento della pressione fiscale, che
divenne però intollerabile soprattutto in quanto paragonata alle enormi
esenzioni di cui godevano i mercanti italiani: ciò causò la reazione della
popolazione civile, specialmente nelle province (Michele Coniata, metropolita
di Atene, scrive che nelle province si pensava che nella capitale scorressero
‘’fiumi di ricchezze’’).
La coesione dell’Impero venne indebolita anche dal venir meno del prestigio
dei Comneni, che aveva avuto come conseguenza non più un’azione di
dissidenza finalizzata ad acquisire il potere (come in età basilide), ma di
separazione dal potere centrale.
Per la prima volta nella storia bizantina le rivolte portavano alla nascita di
autonomi poteri territoriali, segno della sfiducia nell’istituzione e
nell’ideologia imperiale (per come elaborati da Costantino VII Porfirogenito).
Un caso molto celebre è quello di Leone Sguro, che costituì un principato
autonomo nella Grecia centrale.
Il risentimento era generato anche dalla numerosa presenza di mercanti
italiani che godevano ormai di privilegi insopportabili per la popolazione e
che si erano imposti sul ceto mercantile indigeno.
La presenza latina si era trasformata in una vera e propria presenza coloniale
che Manuele Comneno aveva cercato di regolare a livello giuridico.
Se Genovesi e Pisani erano stati ascritti all’Impero tramite legami vassallatici,
coi Veneziani si era agito in due modi: quelli residenti nella capitale solo per
alcuni momenti dell’anno erano distinti da quelli che ‘’avevano sposato
donne romane [ma risiedevano nelle case di queste] al di fuori della residenza
loro assegnata dal βασιλευς’’; questi venivano detti βουργεσιοι.
Questi ultimi furono obbligati a sottoscrivere un giuramento di fedeltà, che
avrebbe comportato anche vincoli di carattere militare.
La diffusa ostilità per gli Occidentali era dovuta anche all’atteggiamento
adottato da Manuele nei confronti della Chiesa Romana, con cui ricercò
l’intesa e l’unione.
Allo stesso tempo l’imperatore aveva perseguitato i bogomili per confermare
il suo ruolo di difensore della chiesa ortodossa, rispetto alla quale adottò un’
azione di tutela e di sostegno assicurandole il controllo sull’istruzione
superiore, necessario soprattutto per controbattere alla diffusione delle teorie
predicate dal filoplatonico Giovanni Italo (1030?-1082, era stato catepano
d’Italia e scolaro di Michele Psello).
Molto difficile per la popolazione era anche accettare che Manuele I avesse
assunto dei consiglieri latini come il pisano Ugo Eteriano (1115-1182), a cui
venne affidato l’incarico di redigere un trattato che risolvesse le dispute sulla
processione dello Spirito Santo.
La crisi dinastica agì come fattore di erosione definitiva, creando ulteriori
tensioni politiche: dopo più di un secolo la situazione bizantina conobbe un
ulteriore stato di anarchia e disordine.
Andronico I Comneno salì al potere dopo aver ucciso la reggente Maria e
dopo aver strozzato il giovane cugino nel 1183, e una volta incoronato
imperatore portò avanti una politica che la storiografia moderna ha indicato
come ‘’antiaristocratica’’.
Andronico I si avvicinò ai ceti medi mercantili, cercando di appoggiarsi su di
loro per condurre una politica chiaramente antilatina; gli odierni studi
prosopografici hanno chiarito in realtà che Andronico volesse riordinare il
sistema fiscale appoggiandosi ancora una volta sulla nobiltà.
Il violento regime di Andronico venne però duramente contestato dai quei
casati aristocratici che avevano costituito la tradizionale base di consenso del
potere comneno.
Il dissenso si trasformò anche in violenza xenofoba (nei quartieri genovesi e
pisano), cosa che rese scandaloso il tentativo di Andronico I di ristabilire una
relazione cordiale con Venezia, restituendole il quartiere nella capitale che le
era stato tolto nel 1171.
Andronico venne però abbandonato quando i Normanni di Guglielmo II
(1166-1189) riuscirono a conquistare e a saccheggiare violentemente la città di
Tessalonica nel 1185.
Andronico I venne spodestato a seguito di una rivolta popolare che portò
all’elezione imperiale di Isacco II Angelo (1185-1195), che riuscì a sconfiggere
ripetutamente l’esercito normanno fino a ricacciarlo al di là del mare.
Il sistema creato dai Comneni era però definitivamente venuto meno, in
quanto ormai le casate aristocratiche cominciavano ad essere desiderose di
creare poteri autonomi.
Nel 1185 Isacco Comneno (1155-1196) si era dichiarato re di Cipro, che difese
con successo nel 1187 da una flotta bizantina inviata a riconquistare l’isola.
La breve vicenda del Regno di Cipro si concluse nel 1192, quando l’isola fu
conquistata da Riccardo Cuor di Leone (1189-1199), re d’Inghilterra, che la
vendette nello stesso anno all’ex re di Gerusalemme Guido di Lusignano
(1150-1194).
Isacco II fu costretto anche ad affrontare la rivolta della Bulgaria, dove i
disordini erano cominciati a seguito dell’invasione del re Bela III d’Ungheria
(), giustificata dalla volontà di vendicare la vedova di Manuele.
Dello sfaldamento del potere centrale approfittò il grande zupan di Serbia
Stefano Nemanja (1117-1199), che consolidò i suoi domini in Dalmazia; i
fratelli Pietro e Asen, membri di una nobile famiglia valacca, costituirono
invece un dominio tra il basso Danubio e i Balcani.
Fu così che, richiamandosi ai gloriosi giorni di Boris/Simeone/Pietro, nacque
il Secondo Impero Bulgaro (1185), che venne riconosciuto dalla Chiesa di
Roma e dal Barbarossa, ormai consapevoli dell’incapacità dell’Impero di
esercitare la propria sovranità.
I pericoli maggiori provenivano però ancora da Ovest, dove era stata bandita
la IIIa Crociata (1189-1192), che aveva come scopo quello di riconquistare
Gerusalemme, conquistata nel 1187 dal sovrano curdo di Egitto (era stato
distrutto il dominio dei Fatimidi) e Siria Saladino (1137-1193), che tra l’altro
provvide a ripopolare la città tramite l’inserimento di cristiani greci ed Ebrei.
La spedizione aveva a capo i più importanti sovrani europei: il Barbarossa (che
morì annegato nel fiume Arsuf (1190), Riccardo Cuor di Leone e Filippo II
Augusto (1180-1223) re di Francia.
Divenne sempre più difficile scindere i Bizantini, accusati di avere buoni
rapporti con il Saladino, dai nemici infedeli; un’idea che venne supportata
anche dall’universalismo svevo, che ribadiva la necessità di occupare
Costantinopoli.
Federico propose anche di inviare una flotta, guidata dal figlio Enrico VI per
sottrarre all’Impero il controllo degli stretti; un progetto che venne ripreso
proprio da Enrico VI nel 1194, quando, dopo che gli vennero riconosciute le
pretese sul Regno di Sicilia, egli organizzò una spedizione per conquistare
Costantinopoli.
I Bizantini cercarono di allontanare il problema pagando all’imperatore
tedesco un tributo annuale, un pagamento possibile tramite l’imposizione
della ‘’tassa tedesca’’ (‘’το αλαμανικον’’).
Si cercò persino l’appoggio di papa Celestino III (1191-1198), ma alla fine
solo la morte di Enrico VI a Messina nel 1197 salvò l’Impero da una catastrofe
che era solo rimandata di qualche anno.
LA CROCIATA ‘’DEVIATA’’

Come detto la minaccia imperiale era solo rimandata, in quanto la debolezza


militare e politica dell’Impero era ormai visibile a tutti.
La situazione si complicò ulteriormente a seguito del matrimonio tra la figlia
di Isacco II, deposto dal fratello Alessio III Angelo (1195-1203), e il fratello di
Enrico VI, Filippo di Svevia (1177-1208).
Nel 1198 Alessio III aveva inviato a papa Innocenzo III (1198-1216) una
lettera in cui si congratulava per l’elezione al soglio pontificio e con cui
chiedeva di inviare a Costantinopoli i suoi ambasciatori.
Era l’inizio di una fitta corrispondenza tesa a migliorare i rapporti tra
l’Impero e la Chiesa di Roma, ma soprattutto a ricercarne l’alleanza in modo
tale da superare l’isolamento politico-diplomatico in cui era scivolato
l’Impero.
Nel 1198 il papa bandì la IVa Crociata (1202-1204), alla quale aderirono
soprattutto nobili francesi che però non disponevano del capitale sufficiente
per portare avanti la spedizione.
Per questo motivo essi si rivolsero al doge veneziano Enrico Dandolo (1107-
1205), che secondo Niceta Coniata fin da subito aveva convinto i crociati ad
attaccare i Bizantini.
Nonostante qualche dubbio su questo possa anche sorgere, è innegabile che
Venezia sostenne i crociati al fine di riaffermare la propria egemonia
adriatica e soprattutto per riottenere i benefici commerciali che aveva perso
dopo il 1171.
Sotto Isacco II l’Impero aveva cercato di riavvicinarsi alla Serenissima, ma con
Alessio III si era arrivati ad un nuovo allontanamento e ad un parallelo
avvicinamento a Genova, che l’imperatore aveva personalmente sostenuto
rispetto agli ingerenti mercanti veneti (privilegi erano stati assegnati anche ad
Amalfitani e Pisani).
I Veneziani convinsero dunque i crociati a occupare Zara, che si era
svincolata dal dominio veneto ponendosi sotto la protezione del re
d’Ungheria.
Il saccheggio di Zara (1203) venne apertamente condannato dal pontefice, che
inizialmente scomunicò i capi crociati.
L’evento spaventò molto la corte bizantina, soprattutto perché a Zara i crociati
erano stati raggiunti da Alessio IV Angelo (1203-1204), figlio di Isacco II
esule in Germania presso il cognato Filippo di Svevia.
Costui promise ai crociati un lauto pagamento se lo avessero sostenuto nella
conquista del trono: fu la premessa per l’attacco di cui i crociati avevano
bisogno.
Alessio IV promise anche di rinunciare all’indipendenza della chiesa
ortodossa e di porsi sotto l’autorità di Roma, due proposte che resero il papa
(che inizialmente aveva scoraggiato i crociati ad utilizzare Alessio IV come
giustificazione per l’attacco) più indulgente riguardo la possibilità di un
attacco al cuore della cristianità d’Oriente.
Nel 1203 i crociati deviarono allora verso Costantinopoli, che venne assediata
e presa, e sul cui trono venne posto Alessio IV.
Questo primo ingresso aveva causato notevoli scontri: nell’Inverno del 1203
infatti alcuni Francesi avevano dato fuoco alla moschea dei mercanti
musulmani, che vennero soccorsi dai Greci.
L’episodio mostrò a questi ultimi compresero allora la comunanza di
interessi con i musulmani, mentre i Latini si convinsero definitivamente che i
Greci fossero cattivi cristiani pronti ad aiutare gli infedeli.
La situazione degenerò definitivamente quando Alessio IV, che non era in
grado di pagare quanto promesso, venne rovesciato da Alessio V Ducas
Murzuflo (letteralmente ‘’dalle sopracciglia folte’’, Febbraio-Aprile 1204), uomo
energico intenzionato ad allontanare i crociati dalla città.
Questi però assediarono e conquistarono Costantinopoli (13 Aprile 1204), che
venne saccheggiata per tre giorni da ‘’uomini della stessa religione’’, come
scrive Niceta Coniata, che indica come ‘’barbari’’ i saccheggi latini, che non si
fermarono nemmeno davanti alla moschea musulmana (rispettata a
Gerusalemme) e alle immagini del Cristo.
A questo punto i crociati si spartirono l’immenso bottino materiale e
territoriale: Baldovino di Fiandra venne posto sul trono del neonato Impero
Latino d’Oriente, Bonifacio del Monferrato venne ricompensato con il
Regno di Tessalonica, mentre Tessaglia e Grecia centrale vennero spartite tra
la nobiltà franca.
Allo stesso tempo trassero beneficio dalla scomparsa del potere bizantino gli
Stati balcanici, che nel XIV secolo avrebbero vissuto l’apogeo del loro
splendore.
La vicenda fu però una vittoria veneziana: Dandolo si proclamò signore di
‘’un quarto e mezzo dell’Impero’’, ottenendo soprattutto l’egemonia nel mercato
orientale.
Il papa sostenne invece che la conquista della città era un ‘’giusto giudizio
divino’’, che aveva ricondotto i fedeli greci in seno alla Chiesa di Roma.
Paradossalmente la caduta della città favorì la creazione di una situazione
favorevole al dialogo tra i fedeli greco-ortodossi e quelli latino-cattolici, in
quanto in molti tra i primi credevano che quanto avvenuto nel 1204 fosse una
punizione divina per corruzione morale dell’Impero.
Le ambizioni bulgare e serbe consigliavano poi un’alleanza tra vincitori e
vinti: l’aristocrazia del Peloponneso in particolar modo si era dimostrata
favorevole ad un accordo con gli Occidentali, e gli stessi ceti bassi erano
disposti ad essere fedeli ai nuovi padroni.
La condizione necessaria affinché si arrivasse a ciò era però che i latini
rispettassero la fede religiosa: ogni possibilità di conciliazione venne meno in
quanto Innocenzo III non permise la ricostituzione di un patriarcato bizantino
e impose al clero bizantino un giuramento di fedeltà al patriarca latino di
Bisanzio.
I Greci si trovarono all’improvviso privi dell’autorità imperiale, che per
secoli era stata la guida politica e spirituale.
La resistenza bizantina si organizzò intorno a tre ‘’centri di sopravvivenza’’:
il Despotato d’Epiro di Michele Angelo Ducas (?-1215), cugino di Isacco II e
di Alessio III; l’Impero di Nicea, fondato dal generale Teodoro Lascaris
(1174-1221); l’Impero di Trebisonda dei ‘’Μεγαλοι Κομνενοι’’ Alessio e
Davide Comneno (1182-1222 e 1184-1212).
Questi Stati territoriali bizantini era divisi tra loro e in competizione, ma alla
fine fu la compagine di Nicea che riuscì a riconquistare la capitale e ad
ottenere la legittimazione patriarcale.
Michele VIII Paleologo (1261-1282) riuscì a conquistare Costantinopoli, ma
era ormai evidente a tutti che la figura imperiale fosse stata desacralizzata e
privata dell’antico splendore.
La dinastia dei Paleologhi (1261-1453) non riuscì a riunire tutti gli Stati greci:
l’Impero non era più dunque un’entità politica universale, ma solo uno
‘’Stato tra gli Stati’’ privo di ogni ambizione mediterranea.

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