PDF M. Gallina ''Bisanzio, Storia Di Un Impero (Secoli Iv-Xiii) ''
PDF M. Gallina ''Bisanzio, Storia Di Un Impero (Secoli Iv-Xiii) ''
PDF M. Gallina ''Bisanzio, Storia Di Un Impero (Secoli Iv-Xiii) ''
Nel IV secolo sorge sulle rive del Bosforo la città di Costantinopoli: la nascita
della nuova capitale, voluta da Costantino, è percepita storicamente come
una data talmente simbolica, da venire considerata il punto di inizio della
storia bizantina, anche se essa assume i suoi connotati peculiari solo nei secoli
seguenti).
La società bizantina non percepì mai la peculiarità dei propri tratti, e questo
perché le sue istituzioni, da noi chiamate ‘’bizantine’’, ai suoi membri
apparivano ‘’romane’’.
Il funzionario Giovanni Lido (490-557 d.C.), un contemporaneo di
Giustiniano, raccoglie nel suo De magistratibus populi romani gli ordinamenti
amministrativi e quelli dell’antica Roma, assimilandoli per dimostrare la
continuità della pars orientalis.
Questo senso di continuità rimane in vita, e si acuisce, nel corso del XII
secolo, quando il principato augusteo comincia a divenire il modello di
governo di riferimento; lo storico greco Giovanni Zonara (?-? XII secolo)
parla di come questo ‘’fece assurgere lo stato romano a perfetta monarchia’’.
Ancora nel XV secolo gli abitanti dell’Impero chiamavano se’ stessi
‘’Ρωμαιοι’’ (da leggere ‘’Romei’’, come vuole la pronuncia del greco
medievale).
E l’Impero era conosciuto infatti come ‘’Ρωμανια’’, la terra dei Romani, che i
Latini chiamavano ‘’Romània’’ e i Turchi ‘’Rum’’.
Nonostante queste formule ideologiche, di fatto in Oriente la commistione tra
il modello imperiale romano, il pensiero cristiano e la cultura greca diedero
vita ad un nuovo ordinamento statale.
Questo modello non solo fu in grado di superare la crisi tardoantica, ma
riuscì anche a consolidare le strutture interne, che sopravvissero anche dopo
la fine del millennio bizantino (si parla infatti di ‘’Bisanzio dopo Bisanzio’’).
La memoria della grecità medievale ebbe un’eco lunghissima: nel XIX e nel
XX secolo fu decisiva nella costruzione dell’identità nazionale greca, i popoli
slavi (dai Balcani alla Russia) ereditarono la sua cultura religiosa ortodossa e
il suo modello di monarchia.
Gli intellettuali dell’Europa Orientale da sempre guardarono all’Impero
Bizantino come ad un punto di riferimento, al contrario di quelli occidentali,
che lo percepivano come una realtà aliena.
Ancora nel XX secolo un intellettuale russo, Josef Brodskij (Nobel per la
letteratura nel 1987), è costretto a sottolineare quanto antistorica fosse la
pretesa di alcuni intellettuali sovietici di individuare una continuità tra
l’Impero Bizantino e l’Unione Sovietica.
Risulta però innegabile l’impatto che il mondo bizantino ebbe sull’Europa
Orientale, che eredita la prospettiva culturale del primo.
Per comprendere quanto netta sia la distinzione tra Est e Ovesti si pensi a
questo: nel 1791 Kant pubblicava la Critica della ragion pura, in cui si riflette
sulla natura libertaria dell’anima umana; due anni dopo (1793) il monaco
russo Passi Velitckovshi pubblica le Preghiere del cuore, in cui si esalta l’unione
tra spiritualità e sapere.
Come giustamente sostiene Aldo Schiavone dunque, delle due parti
dell’Impero solo quella ‘’non toccata dalla lunga continuità di Bisanzio e dalla
folgorante ascesa dell’Islam (avrebbe) conosciuto più tardi, la rinascita della
modernità’’.
I LIMITI DELL’AUTOCRAZIA
L’11 Maggio del 330 d.C. sorse sulle rive del Bosforo la ‘’nuova Roma’’, la
nuova capitale imperiale voluta da Costantino e destinata a portare il suo
nome: Costantinopoli.
La dedicatio della città permise alla piccola cittadina di Bisanzio (in origine
una colonia della polis greca di Megara), che Settimio Severo aveva posto
sotto il controllo della capitale provinciale (Eraclea), di elevarsi a nuovo
centro focale del Mediterraneo.
La scelta di Costantinopoli fu sicuramente dovuta a motivi strategico-
militari, anche se a differenza di quanto sostenuto da G. Dagron nel suo
Nascita di una capitale non si può sostenere che la fondazione della città avesse
fin da subito l’obiettivo di soppiantare Roma.
Alla data del 330 d.C. Costantino aveva già sconfitto definitivamente Licinio,
ma non aveva certo portato a termine il progetto di rinnovamento urbano che
avrebbe reso Costantinopoli la città più importante dell’Europa.
In origine la città non esercita alcuna funzione egemonica, e questo perché
l’Impero non è ancora una realtà divisa in due parti.
La fondazione della città ha originariamente uno scopo puramente pratico: il
primo imperatore cristiano voleva ricucire la dicotomia culturale tra le due
parti dell’Impero (quella latina e quella greca).
Costantinopoli non era stata pensata come ‘’rivale di Roma’’, bensì come suo
naturale prolungamento.
La fondazione è il mezzo con cui l’Imperatore rende però anche evidente la
crisi dell’Occidente e dell’Italia in primo luogo.
Oltre a ciò vi erano delle ovvie motivazioni economiche (l’Oriente era molto
più ricco dell’Occidente) e militari (la nuova capitale era più vicina alla
pericolosa frontiera mesopotamica, minacciata dai Persiani).
L’ASCESI MONASTICA
PAGANI E CRISTIANI
Dal regno di Costantino in poi, fatta eccezione per il regno di Giuliano (360-
363 d.C.), i cristiani godettero di un appoggio sempre più esclusivo da parte
dell’autorità imperiale.
Questa tendenza conobbe il proprio apice con gli editti di Teodosio I, sotto
cui lo Stato cominciò a finanziare la Chiesa con numerose sovvenzioni; già
alcuni anni prima si era arrivati a dire che ‘’la nostra res publica è sostenuta con
più efficacia dal servizio di sacerdoti’’.
Le chiese episcopali cominciarono così ad accumulare gradi proprietà
fondiarie per esempio, che il potere pubblico cominciò a tutelare tramite
leggi e decreti.
I cristiani non vennero solo svincolati, nel 313 d.C., dai munera (i servizi
obbligatori per la manutenzione di strade/ponti/frotificazioni), ma gli
vennero attribuiti anche speciali competenze giurisdizionali.
L’inalienabilità del patrimonio ecclesiastico venne stabilita infine nei canoni
XXIV e XXV del Concilio di Calcedonia.
A ciò si aggiunse però l’aggravarsi delle misure oppressive contro i non-
cristiani, i cui culti, animati da una profonda religiosità, vennero addirittura
proscritti.
Vi fu comunque un tentativo di opporsi a questa rivoluzione religiosa,
operato dall’imperatore Giuliano, che portò avanti un programma di ripresa
dell’ellenismo, con cui tentò di impedire il trapasso dell’antica sensibilità
religiosa.
Giuliano era uno degli uomini più colti del suo tempo e anche un fervente
neoplatonico, si era convinto che il Cristianesimo avesse minato il progresso
civile dell’Impero.
Alla morte di Costantino, il padre e il fratello di Giuliano erano stati uccisi nel
337 d.C. (anno della morte di Costantino) da Costanzo II (337-361 d.C.), che
era stato poi eliminato dal generale barbarico Magnezio.
Giuliano venne proclamato imperatore nel 361 d.C. dalle legioni che aveva
condotto alla vittoria nella battaglia di Strasburgo (357 d.C.).
Giuliano aveva rinunciato al Cristianesimo, a cui era stato educato, per
portare avanti una nuova forma di politeismo, capace di adottare alcuni
aspetti della fede cristiana, come la gerarchizzazione dei sacerdoti.
Il ragionamento che Giuliano faceva nei confronti dei cristiani, secondo lo
storico Ammiano Marcellino (330-400 d.C.), era di questo tipo: essendo gli
antichi dei inscindibili dall’antica letteratura, chi non credeva in questi non
poteva insegnare il loro pensiero (egli infatti aveva in programma di
escludere i cristiani dall’insegnamento).
Lungi dall’essere accusabile di ‘’passatismo’’, la riforma di Giuliano cercò di
creare una convergenza tra il pensiero classico e l’antica religione olimpica,
cercando di unirle nel segno della conoscenza del divino.
Giuliano cercò anche di acuire i contrasti tra i cristiani e gli Ebrei, avviando
nel 361 d.C. il progetto di ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.
Nonostante il numero dei politeisti fosse ancora elevato, la riforma di
Giuliano non conobbe il successo che l’imperatore si augurava, a vincere
furono i vescovi, ormai utili (se non indispensabili) strumenti del potere
politico.
Il successo del Cristianesimo riuscì a vincere lo scontro con il progetto di
Giuliano in quanto meglio organizzato e soprattutto coordinato al potere
imperiale.
L’organizzazione della Chiesa cristiana si dimostrò un alleato valido: essa
infatti sovraintendeva la costruzione di ospedali, rifugi, ospizi.
Il progetto filantropico cristiano si inseriva in un clima di grande sensibilità
nei confronti delle categorie più deboli; un qualcosa che era stato notato dallo
stesso Giuliano, che su questo tema aveva discusso con Gregorio di
Nazianzio (329-390 d.C.).
Il primo sosteneva che le iniziative caritatevoli dei cristiani non fossero altro
che motivi di appariscenza, mentre il secondo rispondeva screditando le
iniziative filantropiche imperiali.
Da questa disputa emergono due considerazioni: l’edilizia filantropica
cristiana non si innesta su un vuoto culturale; il Cristianesimo, attraverso i
suoi istituti caritativi, riuscì a penetrare nel tessuto sociale.
I successori di Giuliano adottarono una politica di tolleranza dei culti antichi,
ma quando il trono passò nelle mani di Teodosio I la situazione divenne di
aperta persecuzione.
Nonostante Peter Brown (1935) abbia proposto di non enfatizzare la violenza
del processo di cristianizzazione, sono numerosi gli studiosi che hanno
osservato come un pensiero religioso indipendente fosse divenuto
impossibile.
L’Impero cristiano codificò tramite leggi la repressione del paganesimo, leggi
che resero impossibile quella coesistenza religiosa tipica del paganesimo.
Con l’editto di Tessalonica (380 d.C.) si negò ai non cristiani, indicati come
‘’malati di mente e pazzi’’ (‘’dementes vesanique’’), la possibilità di riunirsi in
templi o santuari pubblici.
Nel 381 d.C. venne addirittura vietato ai non cristiani di pubblicare testi e di
ereditare; a queste misure si oppose fortemente il principale esponente del
partito pagano, Aurelio Simmaco (340-402 d.C.).
I cristiani, divenuti da perseguitati a persecutori, adottarono misure sempre
più intransigenti nei confronti dei pagani, a cui Teodosio I nel 392 d.C.
impedì persino la pratica dei culti domestici, quelli dei lari e dei penati.
SUCCESSIONE DEL PRINCIPE E RIORDINAMENTI INTERNI
LA RESTAURAZIONE GIUSTINIANEA
Salito al potere nel 527 d.C., l’imperatore di origine illirica Giustiniano (527-
565 d.C.) elaborò fin da subito il progetto di ricostituire l’unità dell’Impero.
Egli venne inizialmente associato al potere dallo zio Giustino (518-527 d.C.),
un oscuro soldato di origine macedone elevatosi grazie alle proprie abilità
personali fino ad essere nominato imperatore dal senato.
L’obiettivo di Giustiniano era quello di restituire all’Impero le regioni cadute
nelle mani dei popoli germanici, che avevano formato dei Regni come detto.
I territori rimasti invece sotto il controllo dell’Impero d’Oriente erano: l’Asia
Minore, la penisola balcanica sino al Danubio, il Chersoneso nel Mar Nero, la
Mesopotamia, l’Egitto, la Siria, la Palestina, l’Anatolia e la Cirenaica.
Anche in queste regioni esistevamo comunque degli elementi disgreganti,
come l’instabilità religiosa e la tensione sociale: inquietudini visibili
soprattutto a Costantinopoli, in primo luogo nell’Ippodromo.
Questo rappresentava il punto di raccordo tra il popolo e l’imperatore, e
quindi il luogo in cui il primo esprimeva il proprio assenso o dissenso nei
confronti del secondo.
Altrettanto grave era la tensione religiosa: con la scomparsa del paganesimo
non si era infatti assistito alla formazione di una società compatta
religiosamente.
La riflessione teologica cristiane e l’intensa attività di traduzione delle
Scritture incoraggiarono la competizione tra i centri culturali dell’Impero,
rafforzando le identità locali e minando la compattezza dell’ecumene
cristiano.
La chiesa nestoriana, accolta in Persia, si era di fatto dotata di una struttura
propria, che aveva al vertice il patriarca di Seleucia.
Molto preoccupante era anche la situazione in Egitto, dove l’ortodossia
calcedonese (detta anche ‘’melchita’’) si scontrava con la corrente monofisita,
che alla fine del VI secolo d.C. diede vita ad una Chiesa copta autonoma (il
cui esempio venne preso dai monofisiti di Siria, detta ‘’giacobita’’ dal
vescovo Giacomo Baradeo che l’organizzò).
Questa frammentazione religiosa arrivò a compromettere la stessa unità
imperiale, visto che interessi politici ed economici arrivarono ad intrecciarsi
con le rivalità tra le varie correnti.
A questa situazione di disgregazione cercò di porre rimedio proprio
Giustiniano, sotto cui l’Impero Bizantino raggiunse la sua massima
espansione nel segno della tradizione romana e dell’universalismo cattolico.
Se in politica estera l’obiettivo dell’imperatore fu quello di recuperare a se’ la
pars occidentalis, in politica interna egli cercò di limitare il regionalismo
attraverso un’intensa attività legislativa.
Giustiniano governò la chiesa con intransigenza, come dimostra il rapporto
con il vescovo di Roma: formalmente ossequioso nei suoi confronti, ma di
fatto pronto ad uniformare il papa al proprio volere (come dimostra la
vicenda di papa Vigilio), che come si legge nella Novella VI (535 d.C.) è
garante della ‘’massima sollecitudine circa i veri dogmi di Dio’’.
L’UNIFICAZIONE RELIGIOSA
L’UNIFICAZIONE POLITICA
Nel 610 d.C. come detto ebbe inizio il regno di Eraclio, circa un cinquantennio
dopo la morte di Giustiniano, un periodo durante il quale si era assistito alla
fine del progetto universalista, mandato in frantumi dalla crisi economica
(contro cui fu inefficace l’alterazione della moneta) causata dalle spese di
guerra (addirittura i mercenari non vennero pagati).
Il potere centrale era ora minacciato da spinte centrifughe, provenienti dalle
regioni monofisite, dal difficile rapporto con la cristianità occidentale, da
nuovi nemici esterni, come i Longobardi.
I successori di Giustiniano (Giustino II, Tiberio II e Maurizio) riuscirono a
resistere alle pressioni esterne, ma furono costretti a sacrificare buona parte
dell’Italia.
I Longobardi, che nel 568 d.C. invasero l’Italia guidati dal loro re Alboino
(530-572 d.C.), occuparono velocemente la maggior parte della Pianura
Padana, espandendosi successivamente verso Sud attraverso spedizioni
autocefale, che giunsero in Calabria e nel Bruzio.
La conquista longobarda ebbe delle conseguenze decisive per la società della
penisola, che vide definitamente rotto il suo legame col passato romano,
anche a causa dell’eliminazione quasi totale dell’antica aristocrazia terriera di
rango senatorio (quella dei possessores), che aveva continuato ad avere
rapporti con Bisanzio.
I Longobardi a differenza dei popoli precedenti non erano guidati da capi che
volevano il riconoscimento dell’imperatore, ma volevano solo conquistare,
anche se oggi gli storici cercano anche di sottolineare gli elementi di
continuità con il periodo precedente.
I possedimenti in Italia, ora una serie di territori discontinui e inframezzati
dal potere longobardo, vennero riorganizzati dall’imperatore Maurizio (582-
602 d.C.) nell’ultimo ventennio del VI secolo d.C.
Il potere in Italia venne organizzato intorno al ducato di Roma e all’esarcato
di Ravenna, e al suo vertice aveva un magister militum Italiae che divenne
exarchus Italiae, che riuniva in se’ poteri civili e militari.
Anche in Africa, per affrontare le incursioni berbere, venne creata la figura
dell’exarchus Africae; si deve sottolineare che già al tempo di Giustiniano, in
regioni come la Frigia, i poteri civili e quelli militari erano stati accorpati.
Fu però solo con Maurizio che i poteri militari accentrarono su di loro anche
quelli civili; questo sviluppo dell’istituzione esarcale portò alla riduzione del
potere della prefettura del pretorio, a cui vennero lasciate esclusivamente
funzioni finanziarie.
Questo tipo di sviluppo prefigurava l’affermazione di quello che nel VII
secolo sarebbe divenuto il sistema tematico.
La militarizzazione politico-amministrativa si accompagnò all’alterazione
dell’assetto della società italiana, dovuta in primo luogo alle necessità
difensive, che portarono alla costituzione di milizie italo-bizantine reclutate
su base locale dagli αρχοντες (gli ‘’arconti’’), termine con cui si indicavano i
membri di quel ceto medio di possessori di origine orientale stabilitisi in
maniera permanente nell’esarcato.
Questo intreccio tra possesso fondiario e gerarchie militari portò alla nascita
di una nuova aristocrazia, insofferente nei confronti del governo imperiale e
della Chiesa di Roma.
Nell’esarcato sorsero addirittura ambizioni ecclesiastiche autonomiste, nel
666 d.C., quando la chiesa di Ravenna chiese di ottenere l’αυτοχεφαλια
(‘’l’autocefalia’’), ovvero l’indipendenza giurisdizionale dal patriarcato
romano.
Questo peculiare sentimento, di cui ha parlato molto Andre Guillou, non
caratterizzava però solo l’Italia, ma interessava anche le altre chiese
mediterranee, desiderose di svincolarsi dal potere di Costantinopoli.
Questo sentimento autonomistico, fortissimo in Palestina/Siria/Egitto/Africa,
favorì senza dubbio la conquista araba, fece crollare il sistema universalistico
elaborato da Giustiniano, accelerando la transizione al Medioevo.
IL TRIONFO DELL’ISLAM
Alla fine del primo trentennio del VII secolo d.C., grazie alle campagne di
Eraclio, era venuta meno definitivamente la minaccia persiana.
Un nuovo nemico però si era affacciato all’orizzonte: gli Arabi, che grazie alla
fede islamica si erano riuniti in un potente Stato teocratico (Dar al-Islam), che,
nel giro di qualche decennio, sarebbe arrivato ad occupare Siria/Palestina/
Egitto/Africa/Persia/Spagna (quest’ultima l’unica regione in cui la fede
islamica non si impose per la maggiore).
Fino al VII secolo d.C. l’Arabia era solo un’estesa area geografica, le cui
popolazioni non avevano mai raggiunto una piena maturazione politica.
La penisola era abitata da popolazioni nomadi che si muovevano lungo le
grandi vie carovaniere, ma su di essa sorgevano anche dei grandi centri
urbani come la Mecca e Yathrib (la futura Medina).
La Mecca era una città densamente popolata e molto ricca in quanto centro
religioso comune (era infatti sede del culto pagano della Ka’ba, una pietra
nera di provenienza meteoritica esistente da tempo immemorabile).
Già prima della predicazione di Muhammad/Maometto (569/571-632 d.C.), il
mondo arabo stava ricercando delle forme di religiosità meno elementari, e la
prova di ciò sta nella diffusione dell’Ebraismo e del Cristianesimo nella zona.
Nell’oasi di Yathrib si era formata una grossa comunità ebraica, che era
divenuta dominante; mentre il Cristianesimo (monofisita) aveva attecchito
soprattutto presso le tribù beduine di frontiera.
Quest’ultimo però non era riuscito ad inserirsi a fondo nella società araba,
anche se esso, con la sua pietà escatologica, alimentò il desiderio di una
religiosità più profonda.
Kenneth Cragg, autore di un’importante storia dei cristiani arabi, sottolinea
come l’Islam riuscì, grazie ad un teismo più forte, ad affermare una ‘’fede
semitica tradita dalla teologia cristiana’’.
Oltre alle due grandi religioni del Libro però, esistevano anche le figure degli
hanife (‘’cercatori di Dio’’) , uomini dalla vita ascetica delusi dal politeismo
tradizionale, indicabili come ‘’musulmani ante-litteram’’.
Maometto nacque nel 569/571 d.C. alla Mecca, membro della potente famiglia
dei Quraishiti, che di fatto aveva in mano il traffico economico della città; va
detto che il futuro profeta apparteneva ad un ramo decaduto della famiglia.
Intorno ai quarant’anni (612 d.C.), mentre si trovava sul monte Hira per
pregare, Maometto ricevette la visita di un inviato del Signore, poi
identificato come l’arcangelo Gabriele, che gli ordinò di ‘’recitare, leggere ad
alta voce’’.
Da qui il termine ‘’Corano’’ (da al-Qu’ran, da qara’a, ovvero ‘’recitare’’), il testo
che riportava direttamente il ‘’Verbo di Dio’’, a differenza della Bibbia in cui il
λογος divino era divenuto uomo.
La chiamata divina portò Maometto a cominciare predicare il Corano, che
inizialmente venne solo recitato oralmente (la prima redazione scritta dei
6666 versi, ordinati in 114 sure/capitoli, risale al tempo del califfo Utman,
ovvero 644-656 d.C.).
La predicazione di Maometto entrò in contrasto con l’attività dei Quraishiti,
che con spirito sincretico volevano assorbire tutte le divinità adorate nel
tempio della Mecca, per realizzare intorno ad essa una sorta di unità politica
ed economica.
Maometto venne escluso dai diritti tribali e dalla vita sociale, e così nel 622
d.C., sentendosi minacciato, egli si diresse presso Yathrib, che assunse il
nuovo nome di Medina (‘’al-Madinat an-nabi’’, ovvero ‘’la città del profeta’’).
L’egira (higra o ‘’migrazione’’), l’evento da cui parte la computazione islamica
del tempo, segnò una svolta nella predicazione di Maometto, che cominciò ad
assumere toni politici e sociali.
Egli si pose al vertice di un nuovo genere di comunità, la umma, capace di
integrare gruppi etnici in una compagnia più ampia; a differenza della chiesa
cristiana delle origini, che era sorta al di fuori dello Stato romano, la comunità
musulmana fu il pilastro del potere politico islamico.
Se dunque, seppur con grande difficoltà, nel mondo bizantino imperium e
sacerdotium erano distinti, nel mondo islamico questa distinzione non
esisteva, in quanto si era generata una peculiare compagine teocratica, in cui
la fede islamica era la giustificazione del potere politico (questo comportò in
seguito grandi problemi di legittimazione).
Nel corso degli anni successivi all’egira, si andarono a chiarire sempre di più i
rapporti con il Cristianesimo e con l’Ebraismo, rispetto ai quali il Profeta
immaginava l’Islam come sintesi (nel senso hegeliano di superamento).
Inizialmente Maometto ricercò l’alleanza della comunità ebraica di Medina,
ma non la ottenne; per quanto riguarda invece il Cristianesimo, egli rimase
deluso dalla dottrina trinitaria.
Allo stesso modo però egli sancì che le ‘’Genti del Libro’’, Ebrei e Cristiani,
sebbene miscredenti potessero praticare la loro fede dietro il pagamento di
un compenso.
Dunque il mondo islamico, almeno nella sua fase embrionale, è caratterizzato
da una dimensione di tolleranza che manca nel mondo cristiano; solo nel
XVIII secolo, con il trionfo del wahabbismo () anche in Arabia si affermò una
forte e intransigente ortodossia.
Tuttavia per tutto il Medioevo il mondo islamico offrì rifugio a comunità
ebraiche perseguitate dal mondo cristiano e da cristiani dissenti.
Maometto portò fino alla sua morte avanti l’idea che anche gli Ebrei e i
Cristiani potessero partecipare all’umma.
L’Islam introdusse anche una nuova concezione di rapporti sociali, basata
non più sul vincolo di sangue e sulla solidarietà tribale, ma sulla qualità di
credente nel Dio unico.
All’interno di questa nuova società vi era anche una forte vocazione
guerriera, in cui l’entusiasmo religioso si fondeva con il ricorso alla razzia
tipico delle tribù beduine.
Nel 630 d.C. Maometto entrò a la Mecca, dove riuscì ad ottenere l’appoggio
dei Quraishiti, che riconobbero la nuova fede islamica e purificarono dai culti
politeistici la Ka’ba al fine di mantenere l’egemonia economica.
La fede islamica si basava in primo luogo sulla fede ab aeterno in un Dio
unico, onnipossente, non generato e non generante, ineffabile, totalmente
trascendente e non rappresentabile.
Nonostante la nuova fede andasse subito a polemizzare con la cristologia
classica (attaccando soprattutto la dottrina dell’incarnazione), essa
riconosceva a ‘’Gesù figlio di Maria’’ un ruolo significativo come ‘’messaggero e
messia’’, anche se ovviamente ne rifiutava l’equiparazione a Dio.
L’apparente semplicità dottrinale si accompagnava poi all’assenza di una
vocazione sacerdotale e alla sobrietà di culto, basato sulla preghiera
individuale e quella collettiva.
L’Islam si basava su cinque pilastri:
1) Professione di fede.
2) Preghiera individuale e collettiva.
3) Obbligo di corrispondere l’elemosina legale per l’assistenza ai poveri.
4) Digiuno diurno nel mese sacro di Ramadan.
5) Pellegrinaggio obbligatorio, per chi ne abbia l’opportunità, verso la Mecca.
Dopo la morte del Profeta ebbe inizio, nel 633 d.C., la grande espansione
territoriale araba, condotta nella speranza di ottenere beni celesti connessi
all’esercizio della jihad.
La prima offensiva (le direttrici dell’espansione araba erano tre) venne
condotta in direzione dell’Eufrate: l’Impero Sasanide venne conquistato e
così l’Asia si aprì all’Islam (sino all’odierno Turkestan cinese),
La seconda offensiva puntò verso Nord, dove gli Arabi si scontrarono con i
Bizantini, che vennero disastrosamente sconfitti nella battaglia di Yarmuk
(636 d.C.); nello stesso anno i Sasanidi erano definitivamente sconfitti nella
battaglia di al-Qadisiyya.
La vittoria a Yarmuk aprì agli Arabi la via della Palestina e della Siria, e solo
quattro anni dopo venne avviata la campagna di conquista dell’Egitto,
conclusasi nel 642 d.C. con l’occupazione definitiva di Alessandria.
La conquista della costa africana spinse gli Arabi ad avere una vocazione
mediterranea: i conquistatori islamici si dotarono di possenti flotte grazie
all’appoggio dei popoli conquistati, che gli fornirono i mezzi per devastare
luoghi strategici come Cipro, la Sicilia e Rodi.
Una flotta musulmana riuscì addirittura a sconfiggere la flotta bizantina
(guidata dall’imperatore Costante II, che tra l’alto aveva stabilito la capitale a
Siracusa) poco dopo la metà del VII secolo d.C.
La vittoria araba e la conseguente nascita della talassocrazia musulmana
comportarono, secondo la celebre tesi esposta nel 1922 dallo storico belga
Henri Pirenne, la trasformazione del Mediterraneo in un ‘’lago islamico’’.
Ciò avrebbe comportato la distruzione dell’unità del Mediterraneo, lo
sconvolgimento degli antichi modi di vita e paralizzato i traffici tra Oriente e
Occidente, spostando a Nord i centri vitali della civiltà europea.
L’Occidente sarebbe dunque rimasto isolato rispetto a Bisanzio, ripiegandosi
così su se’ stesso e su un’economia senza scambi, in cui la terra era l’unica
fonte di ricchezza.
Il commercio marittimo tra i due mondi per Pirenne impedito dalla presenza
nel Mediterraneo di flotte islamiche, sempre pronte ad azioni di guerra e di
pirateria.
Secondo Pirenne tutto ciò non sarebbe stato possibile se Bisanzio fosse stata
più forte, in quanto essa avrebbe potuto respingere gli Arabi e riconquistare
tutto l’Occidente: da qui il titolo provocatorio dell’opera di Pirenne, Maometto
e Carlo Magno (1937), in quanto se non vi fosse stato il primo, allora non
sarebbe esistito nemmeno il secondo.
La tesi di Pirenne è stata oggetto di ampie critiche, soprattutto perché oggi gli
studiosi hanno sottolineato che in realtà l’espansione araba non cancellò il
commercio marittimo (fonti latine parlano di navi arabe che gettavano
l’ancora presso i porti meridionali).
Lo stesso Costante II riuscì per qualche anno a contrastare l’espansione araba
in Africa: egli riuscì a riconquistare Cartagine e riaffermare il potere bizantino
nel Sud Italia.
La sua politica mediterranea non gli sopravvisse però, egli venne eliminato
da una congiura mentre si trovava presso Siracusa, che come detto voleva
rendere la nuova capitale dell’Impero.
Dopo la perdita di Antiochia e di Alessandria, Costantinopoli, come ricorda
lo storico Teofane (758-817/818 d.C.), si affermò come unica fonte di potere
sociale e politico.
Il progetto di Costante II di ristabilire l’egemonia imperiale partendo dalla
Sicilia venne velocemente abbandonato, e la flotta bizantina si ritirò nell’Egeo,
lasciando la Sicilia e l’Africa Nordoccidentale esposte agli attacchi arabi.
L’attività d’espansione di questi non si frenò nemmeno dopo la crisi politica
che colpì il mondo islamico alla metà del VII secolo d.C., alla morte del terzo
califfo (da ‘’khalifat rasul Allah’’, ovvero ‘’successore dell’inviato di Dio’’)
Othman (644-656 d.C.).
A costui succedette Alì (656-661 d.C.), cugino e genero del Profeta, che però
venne abbandonato dai sostenitori di Othman che ritenevano che
quest’ultimo fosse stato assassinato proprio da Alì.
La scissione determinò una frattura irreversibile nel mondo islamico: vi era
chi riteneva che il califfo dovesse essere eletto dagli anziani della comunità tra
i membri della tribù di Maometto (seguaci della sunna, o ‘’sunniti’’), e vi era
che riteneva che il califfo dovesse appartenere alla famiglia del profeta
(seguaci della shi’a, o ‘’sciiti’’).
Vi erano in realtà anche i kharigiti (diffusi oggi in Oman e Zanzibar), che
sostenevano che il califfo dovesse essere scelto tra i musulmani migliori,
indipendentemente dall’appartenenza tribale/familiare.
La lotta per l’egemonia, che di fatto opponeva anche i Quraishiti meccani ai
medinesi, sorrise ad Mu’awiya (603-680 d.C.), appartenente al clan meccano
degli Ummaya, che riuscì a sconfiggere i seguaci di Alì dopo la morte di
quest’ultimo.
Mu’awiya diede inizio ad un califfato ereditario (la dinastia Ommayade),
organizzatosi intorno alla città di Damasco e capace di dotarsi di un efficiente
apparato amministrativo, grazie al quale fu possibile proseguire l’offensiva
nel Mediterraneo.
Costantinopoli venne costantemente attaccata tra il 674 d.C. e il 678 d.C.,
anno in cui Costantino IV (668-685 d.C.) riuscì a respingere l’offensiva araba,
precludendole di avere sfogo nei Balcani.
Il califfato ommayade portò avanti le proprie azioni militari anche in altre
zone, arrivando fino al cuore dell’Asia centrale, dove vennero occupate le
città di Bukhara e Samarcanda (gli Arabi sconfissero i Cinesi nella battaglia
del fiume Talas del 751 d.C.) , e alla Spagna, occupata tra il 711 e il 718 d.C.
Sebbene ridotto a realtà regionale, l’Impero Bizantino rimaneva in grado di
contrastare gli Arabi per mare.
Il califfatto ommayade era invece una grande realtà unitaria, caratterizzata da
una possente vita urbana e da tolleranza religiosa, infatti, come si era già
ricordato, gli Arabi permettevano la pratica di ogni culto tramite il
pagamento di un tributo.
L’Islam dunque non cercò mai di imporre conversioni forzate, ma preferì
assegnare ai non-musulmani uno status giuridico inferiore rispetto agli altri
sudditi, lasciando in ogni caso inalterato il modo di vivere.
Gli Ommayadi continuarono a servirsi dei funzionari bizantini, e questo
almeno sino all’VIII secolo d.C., quando ormai l’islamizzazione era
completata.
Il califfato si dotò anche di un’amministrazione provinciale che aveva al
proprio vertice gli emiri (‘’amir’’), governatori che disponevano di ampi
poteri civili e militari e da cui dipendevano i funzionari locali, tra cui i qadi
(‘’giudici’’) e i collettori di imposte.
L’arabo si sostituì progressivamente al greco come lingua franca e le città
cominciarono ad essere definite dalle sagome delle moschee; a ciò si deve
aggiungere lo sviluppo di un precoce capitalismo mercantile, che dal 695
d.C. contava su monete auree (dinar) e argentee (dirham).
La rapidità e la vastità dell’espansione araba può essere comprese attraverso
diverse spiegazioni, che vanno oltre il semplice fanatismo religioso.
Senza dubbio l’entusiasmo religioso rappresentò uno stimolo possente, ma si
deve sottolineare quanto l’espansione fu facilitata dalla fragilità bizantino-
sasanide, dovuta ad un secolo di confronti militari tra le due superpotenze.
Paradossalmente l’annichilimento del potere persiano si era rivelato non un
trionfo, come aveva sperato Eraclio, ma un’enorme disgrazia.
Senza dubbio poi la conquista venne favorita dai profondi dissidi religiosi
interni all’Impero, che se non causarono la disfatta, quantomeno la favorirono
di molto.
Le regioni orientali reagirono passivamente alla minaccia araba, specialmente
nelle zone in cui il monofisismo e il nestorianesimo erano più forti.
Indicativo è senza dubbio il fatto molte delle fonti principali del VII secolo
d.C. siano monofisite; si tratta di testi in cui emerge l’idea che la conquista
araba fosse una ‘’punizione divina’’.
Un tono del genere è riscontrabile nell’opera dello storico armeno Sebeos e in
quella del patriarca di Nikiu (Egitto) Giovanni, che attribuisce la colpa della
conquista ai calcedonesi.
Nonostante questa espansione, la formazione di una grande realtà politica,
l’annichilimento di due grandi imperi, gli Arabi non riuscirono a conquistare
Costantinopoli.
L’impero uscì molto rafforzato dalla vittoria del 678 d.C., che spinse Mu’aiya
a sottoscrivere una pace trentennale con Bisanzio, che ebbe modo di
recuperare il proprio prestigio nei Balcani (nella capitale giunsero
ambasciatori di principi slavi e del khan avaro per riconoscere la supremazia
romana).
La riconciliazione con la Chiesa di Roma nel 681 d.C. , avvenuta nel segno
della condanna del monotelismo, venne indicata da Teofane come un
momento di successo dopo il quale ‘’una pace imperturbata regnava allora in
Oriente e in Occidente’’.
L’ortodossia dopo il 681 d.C., liberata dalle dispute teologiche, si poteva ora
confondere con la nazionalità.
Tuttavia il passo di Teofane riflette anche mutamenti interni alle strutture
bizantine, novità che portarono al definitivo trapasso del mondo antico e
all’abbandono del sistema provinciale elaborato da Costantino.
L’antico ordinamento basato sulla divisione dei poteri civili e militari declinò
progressivamente, sostituito dalla combinazione dei due poteri nella figura
di uno stratego (dal termine si comprende la preminenza della sfera militare).
Questa evoluzione trova la sua espressione istituzionale più compiuta nella
creazione dei θεματα (‘’themata’’), termine utilizzato per indicare le nuove
circoscrizioni territoriali ed amministrative, entro cui erano reclutati i corpi
d’armata e formati i quadri del governo principale.
L’altra grande trasformazione avvenuta nel VII secolo d.C. assieme alla
decadenza urbana è la ruralizzazione dell’Impero, in cui si moltiplicò
esponenzialmente la presenza della piccola proprietà agricola a conduzione
familiare.
Grazie a questo fenomeno l’Impero fu in grado di superare la crisi cerealicola
dovuta alla perdita dell’Egitto, il cui grano venne compensato tramite
l’espansione agricola in Asia Minore e Tracia; si leggano le parole del
patriarca Niceforo (758-829 d.C.) riguardo al VII secolo d.C., caratterizzato da
‘’fertilità della terra’’ e da ‘’basso prezzo delle merci’’.
Il rinnovamento rurale può essere spiegato attraverso due fattori: lo
sconvolgimento demografico dovuto ai movimenti di popoli e alla
liberazione di molti contadini dalla servitù della gleba.
Nel corso del VII secolo d.C. venne portata avanti una politica di
ripopolamento delle campagne tramite l’insediamento di popolazione slava:
al tempo di Giustiniano II vennero installati oltre trentamila Bulgari e Slavi in
Bitinia, in Tracia/Cilicia/Panfilia furono stanziati dei Mardaiti (gruppi tribali
montani di origine armeno-anatolica) , mentre a Mitilene furono dislocati
numerosi Armeni.
Questa mobilità demografica portò ad un aumento della mano d’opera
rurale, cosa che rese inutile vincolare il contadino al suolo.
In questo modo le campagne bizantine si riempirono di un ceto di medi e
piccoli proprietari terrieri indipendenti, debitori nei confronti del fisco
dell’imposta personale (καπτικον) e dell’imposta fondiaria (τελος).
Questa trasformazione accelerò la diffusione dei contratti d’enfiteusi, che nel
VII secolo d.C. divenne secondo Michel Kaplan il ‘’fatto dominante’’ assieme al
χωριον (‘’chorion’’), la comunità di villaggio.
L’enfiteusi, estesa a tre generazioni, era caratterizzata dalla totale
indipendenza del coltivatore, che era obbligato a pagare il proprio canone e
a pagare le imposte sulla terra, ma poteva decidere in totale autonomia
rispetto alla gestione della terra.
In questo modo l’enfiteuta poteva investire per migliorare il terreno,
divenendo proprietario delle migliorie stesse.
Questa situazione, in cui i piccoli proprietari terrieri aumentavano,
contribuiva all’aumentare delle entrate fiscali dell’Impero, in quanto rispetto
ai grandi possessori territoriali i contadini erano contribuenti migliori (cosa
che permetteva addirittura di abbassare l’imposta).
Ciò permise una crescita economica (che non produsse comunque un
perfezionamento delle tecniche agricole), su cui però si deve evitare di fare
generalizzazioni, in quanto su di essa si hanno ben poche fonti.
Gli studi di Michael Hendy hanno dimostrato la varietà della produzione nel
territorio imperiale: viti, olivi e cerali nelle zone costiere, allevamento nelle
zone dell’Asia Minore e dei Balcani.
La grande trasformazione rurale attraversata dall’Impero può essere colta
grazie ad una raccolta di giurisprudenza (di origine privata a redatta da un
compilatore anonimo) che la tradizione bizantina ha collegato all’attività degli
imperatori iconoclasti.
Si tratta del Νομος γεωργικος (‘’Codice rurale’’ o ‘’Legge agraria’’), una sorta di
guida pratica contenente consuetudini e casi concreti esposti in forma
semplificata.
All’interno del Codice emerge che alla base dell’organizzazione rurale vi fosse
il chorion, la ‘’comunità di villaggio’’, che determinava la struttura dello spazio
e dell’agro lavorativo.
Il chorion può essere definito come un habitat raggruppato in cui risiedevano
contadini liberi le cui dimore erano circondate da orti e proprietà individuali,
contigue tra di loro o incuneate tra possedimenti più ampi.
Sotto l’aspetto giuridico-istituzionale il chorion era un’unità contributiva
omogenea ne confronti del fisco pubblico circoscritta però da una
delimitazione ufficiale.
Il tratto peculiare del chorion bizantino stava nel fatto che i contadini traevano
sostentamento da fondi personali in loro possesso, per cui pagavano
individualmente gli oneri fiscali relativi.
Ma i contadini erano responsabili ‘’solidamente’’ verso lo stato dell’imposta
dovuta degli abitanti del villaggio che risultavano inadempienti nei confronti
del fisco.
Gli articoli 18 e 19 del Codice rurale riflettono bene questa realtà, in essi infatti
si spiega che se un contadino scappa per evitare il pagamento dell’imposta,
allora è lecito per chi reclama questa raccogliere i frutti del terreno senza che
il fuggitivo possa pretendere un risarcimento.
Le conseguenze principali di questo sistema furono: l’assimilazione del diritto
di proprietà al dovere del contribuente, il modesto rilievo attribuito
all’amministrazione pubblica alla resa economica della terra.
Nella prospettiva dello Stato bizantino definire l’assetto proprietario di un
fondo dal punto di vista giuridico è meno importante rispetto allo stabilire lo
statuto fiscale.
È lo Statuto fiscale infatti a governare la sorte del suolo, in quanto ‘’si
trasferisce la terra come conseguenza del trasferimento dell’imposta e non viceversa’’;
in altre parole,, è l’imposta dovuta a definire la superficie imponibile e non il
contrario.
Da un punto di vista istituzionale la solidarietà fiscale del chorion appare
come l’evoluzione della pratica dell’adiectio sterilium (), ma allo stesso
tempo, dal punto di vista economico, essa mette in evidenza le
diseguaglianze che esistevano tra i vari componenti della comunità.
Anche se di fatto queste cominciarono ad avere un reale peso solo nel corso
del X secolo d.C., quando il potere centrale fu costretto a definire con più
precisione i meccanismi della solidarietà fiscale.
Non esiste niente come un versamento collettivo dell’imposta, il pagamento
dell’imposta rimaneva un compito individuale e commisurato alla qualità e
alla quantità della terra posseduta.
Il villaggio era comunque dotato di una propria personalità giuridica e
morale (‘’η κοινοτης του χωριου’’), che gli consentiva di intentare processi,
reclamare e possedere terre (una sorta di fondo di riserva).
Esisteva dunque una sorta di minima organizzazione comunitaria, in grado
di superare i semplici legami di vicinanza: esisteva per esempio la figura del
mandriano comune.
Il chorion rappresenta dunque, dal VII secolo d.C., l’elemento costitutivo della
società rurale bizantina, anche se a livello produttivo esso non era l’unità di
base, che rimaneva l’azienda familiare.
Le indagini archeologiche condotte da George Tate e da Jean-Pierre Sodini
nella Siria del Nord, che hanno dimostrato materialmente come l’azienda
familiare fosse il cuore dell’attività rurale (gli scavi hanno infatti evidenziato
uno sviluppo del territorio basato su un tessuto continuo di isole abitative).
La casa contadina può essere vista come una sorta di unità chiusa in se’
stessa, distinta dal villaggio; senza dubbio questa compattezza familiare era
dovuta al controllo dell’autorità a livello fiscale.
La dimora rurale appariva conforme ai modi di sfruttamento del suolo: al
piano terra vi era la stalla, il ripostiglio e gli strumenti di lavoro; al piano
superiore vi erano invece le abitazioni.
L’espansione della piccola e medie proprietà terriera ebbe come conseguenza
la diminuzione del grande dominio fondiario, laico ed ecclesiastico, che
però non scomparve.
Il Codice rurale sottolinea anche il permanere della grande proprietà statale,
controllata tramite dei funzionari nominati dal potere centrale, ma la cui
conduzione era indiretta, in quanto affidata a contadini dipendenti, i
παροικοι (‘’paroikoi’’).
Legati alle terre da coltivare, questi avevano una grande capacità giuridica
grazie alla quale potevano potevano sposarsi liberamente e testimoniare, ma
potevano anche possedere animali.
Nel grande possesso fondiario dominava invece lo sfruttamento del suolo
attraverso la piccola azienda familiare.
Come i patrimoni statali ed ecclesiastici, anche i grandi fondi individuali
furono suddivisi in molteplici lotti, contraddistinti dalla conduzione
indiretta.
I membri dell’aristocrazia fondiaria, residenti quasi sempre nella capitale o
nelle grandi metropoli regionali, che erano interessati non ad investire nelle
terre, quanto piuttosto a trarre risorse da esse.
Questo ceto era presente sicuramente nell’VIII secolo d.C. (lo testimonia la
legislazione, ma anche l’Ecloga di Leone III), tuttavia essa ha cambiato natura,
a causa della crisi che aveva travolto l’aristocrazia senatoria e municipale.
La crisi di questa era dovuta anche all’enfiteusi, ma soprattutto alle
devastazioni belliche e dalla distribuzioni di lotti ai soldati presenti nei
themata.
La perdita dell’Egitto, la distruzione e le razzie in Asia Minore e nei Balcani
depauperarono e danneggiarono la grande proprietà.
L’aristocrazia tradizionale non sopravvisse alla rovina finanziaria, e così se
ne costituì una nuova, congiunta al sistema tematico.
Si trattava di un nuovo ceto aristocratico di origine provinciale, i cui membri
erano di derivazione armena, persiana e siriaca.
Si tratta di quella élite di alti dignitari e funzionari dello Stato abile nel trarre
ricchezza e potere dall’uso dell’autorità pubblica e dal legame con l’autocrazia
imperiale, che le fonti del X secolo d.C. descrivono come in competizione con
la piccola e media proprietà terriera (nell’VIII secolo d.C. essa però era
solidale con queste).
3) LA RICERCA DI DIFFERENTI EQUILIBRI NEI
RAPPORTI TRA AUTOCRAZIA E CHIESA:
LA CONTROVERSIA ICONOCLASTA (711-843 d.C.)
All’inizio del VII secolo d.C. l’Impero d’Oriente comprendeva ancora l’Africa
settentrionale, la Mesopotamia, la Palestina, la Mesopotamia e l’Asia Minore;
già però all’inizio di quello seguente, l’Impero aveva abbandonato ogni
ambizione universalistica.
Divenuto ‘’bizantino’’ l’Impero aveva spostato il suo centro in Anatolia, si era
arroccato intorno alla sua capitale, aveva concentrato le sue forze in Oriente e
aveva cominciato a guardare all’Occidente con un senso di estraneità (fatta
eccezione per Sicilia e Italia meridionale).
Nel tracollo della tradizione romana, l’Impero riuscì a rinsaldarsi nel
richiamo al modello imperiale ellenistico, grazie al quale l’autocrazia
bizantina riuscì a resistere ai nemici esterni (Slavi, Bulgari, Arabi) e a
confrontarsi con un nuovo rivale imperiale, il Sacro Romano Impero nato
nell’800 d.C. con l’incoronazione di Carlo Magno (742-814 d.C.) a Roma ad
opera di papa Leone III (795-816 d.C.).
Affrontato lo sfaldamento della società municipale, la trasformazione agricola
e la ricerca di equilibrio tra piccola/media proprietà terriera e latifondo,
l’Impero, a partire dal IX secolo d.C., passò dalla difesa alla riconquista dei
territori perduti.
Prima di ciò fu però necessario all’Impero ritrovare la propria unità religiosa
intorno al patriarca di Costantinopoli: solo allora, con la compenetrazione
della religione nella vita civile, la civiltà potette nuovamente passare ad una
fase di espansione politica e culturale (vera eredità della vicenda
iconoclasta).
PRIMI SVILUPPI ICONOCLASTICI
L’ultimo ventennio del VII secolo d..C. e i primi decenni dell’VIII furono
caratterizzati da una fase di grande debolezza interna ed esterna, a cui solo
l’imperatore Giustiniano II Rinotmeto , letteralmente ‘’naso tagliato’’(685-695
e 705-711 d.C.) era riuscito a porre un freno; le sue campagne nel 688-689 d.C.
avevano portato al contenimento del giovane Stato bulgaro.
Giustiniano II venne però detronizzato dal trono a seguito di una rivolta della
popolazione della capitale; all’imperatore venne fatto tagliare il naso, in
modo tale che non potesse più reclamare il trono, la legge bizantina proibiva
infatti di incoronare un mutilato (Giustiniano II si fece allora costruire un
naso d’oro).
Rientrò dal suo esilio in Crimea solamente grazie all’appoggio del khan
bulgaro Tervel (?-718 d.C.), a cui nel 705 d.C. concesse il titolo di Cesare, che
venne così attribuito per la prima volta ad uno straniero (in questo caso anche
pagano).
L’accordo stipulato con Tervel aveva come secondo fine quello di porre fine
alle incursioni bulgare nel Peloponneso, che gli eserciti bizantini, impegnati
contro gli Arabi, non potevano prevenire.
Nel 711 d.C. Giustiniano II venne deposto, e si aprirono così sette anni di
grave difficoltà per l’Impero, che riuscì a sopravvivere solo grazie alla solidità
del sistema tematico e all’abilità degli imperatori Leone III Isaurico (717-741
d.C.) e suo figlio Costantino V (741-755 d.C.).
Nonostante le fonti li giudichino in modo molto severo in quanto iniziatori
della controversia iconoclasta, si deve considerare l’attività di Leone III e
quella di Costantino V (definito addirittura ‘’Copronomo’’, letteralmente ‘’dal
nome di sterco’’) positivamente.
Nel 717 d.C. Leone III, un ufficiale di origine siro-armena divenuto stratega,
riuscì a farsi proclamare imperatore dalle truppa del thema anatolico.
Egli si trovò a fronteggiare una situazione drammatica almeno tanto quanto
quella che aveva preceduto l’incoronazione di Eraclio, aggravata in modo
ulteriore dalla conquista araba di Cartagine (698 d.C.), che rese vulnerabili le
posizioni imperiali in Sicilia e Italia meridionale.
Nel 705 d.C. gli Arabi erano riusciti anche ad avanzare verso il Mar Nero.
Leone III riuscì, grazie alle proprie abilità diplomatiche e militari, a
respingere l’attacco turco a Costantinopoli (718 d.C.), contro il quale ottenne
l’alleanza dei Cazari (una popolazione turco-caucasica), suggellata dal
matrimonio del futuro Costantino V con la figlia del capo cazaro.
Per difendere la capitale Leone III fu però costretto ad abbandonare agli Arabi
l’Asia Minore; solo negli anni finali del regno di Leone III, e solo dopo la
riorganizzazione dei themata, fu possibile alle forze imperiali riconquistare i
territori perduti.
Con la vittoria nella battaglia di Androikos (740 d.C.) Leone III colse una
vittoria decisiva per le sorti della cristianità, molto di più di quella ottenuta
da Carlo Martello a Poitiers (732 d.C.).
Costantino V ottenne poi delle vittorie fondamentali nelle battaglie di
Germanikea, Metilene e Teodosipoli, dopo le quali l’offensiva araba si arrestò
definitivamente (nell’827 d.C. essi comunque riuscirono a conquistare Creta).
La caduta del califfato Ommayade alla metà dell’VIII secolo d.C. portò
all’orientalizzazione del califfato, che sotto la guida della nuova dinastia
abbaside trasferì la capitale in Iraq, presso Baghdad.
Fu in questo contesto che nel 730 d.C. Leone III aprì ufficialmente la
controversia iconoclasta, che si risolse solo nell’843 d.C., quando venne
ufficialmente riconosciuto come parte dell’ortodossia il culto delle icone.
Ricostruire in modo oggettivo la vicenda iconoclasta è purtroppo molto
complesso, in quanto abbiamo perso le fonti di parte iconoclasta, cosa che si
costringe ad attingere a quelle iconodule, ovviamente di parte.
All’interno di queste si spiega che la decisione di proibire il culto delle icone
fu dovuta all’influenza islamica (si parla di ‘’σαρακενοφρων’’, ‘’mentalità
saracena’’), a cui gli imperatori isaurici, di origine orientale (armena?) e a
lungo impegnati nella lotto contro le forze islamiche, erano più sensibili.
Rispetto a questa tesi tradizionale si deve però usare cautela, soprattutto
considerando che il rigorismo religioso non caratterizzò solo il Mediterraneo
arabo, ma anche il mondo cristiano.
Oggi dunque gli studiosi hanno osservato che esistevano dei gruppi
iconoclasti all’interno del mondo ecclesiastico bizantino, quindi esisteva una
posizione iconoclasta di matrice cristiana.
Un’altra posizione vuole l’iconoclastia come un movimento nato in seno alla
chiesa ortodossa e originato a seguito di alcune vicende naturali (l’eruzione di
Thera) e sconfitte militari che avevano preceduto l’incoronazione di Leone III.
Queste vicende avrebbero spinto Leone III ad aderire a posizioni iconoclaste,
una sorta di reazione razionale alla degenerazione superstiziosa che aveva
investito il mondo bizantino.
Questa versione risulta però riduttiva, infatti non si può considerare il
fenomeno iconoclasta come una semplice reazione intellettuale, né tanto
meno si può considerarlo come una delle derive delle dispute cristologiche.
L’iconoclastia assume un senso solo se si attribuisce importanza all’intima
esperienza religiosa degli imperatori iconoclasti, che nel portare avanti la loro
azione avevano sicuramente anche obiettivi politico-economici.
Essi infatti volevano colpire quegli intercessori (icone, reliquie) dietro cui ci si
rifugiava nei momenti di massima disperazione e sfiducia nei confronti del
potere imperiale.
Per Costantino V e Leone III salvaguardare l’ortodossia era dunque qualcosa
di importante tanto quanto la lotta al nemico esterno, fu il mezzo attraverso
cui essi cercarono di controllare le forze centrifughe presenti nella società
bizantina.
L’iconoclastia fu dunque un tentativo autocratico di superare la chiesa nel
nome dell’impero, mentre l’iconodulia ne fu la risposta, concretizzatasi nello
sforzo monastico di di sottomettere l’idea di impero alla chiesa.
Dopo il fallito attacco arabo del 718 d.C., Leone III e Costantino V poterono
portare la guerra anche in territorio islamico; il secondo riuscì anche ad
arrivare in Armenia e sino all’Eufrate nel 751 d.C.
Dopo il fallito assedio tra Bizantini e Ommayadi si impose un sostanziale
periodo di equilibri, in cui comunque le incursioni arabe continuarono a
minacciare il territorio imperiale, costringendo le popolazioni locali a trovare
rifugio nei castra.
Fu in questo modo che si diffuse il culto delle icone, che assunsero un valore
miracoloso in quanto gli si attribuiva il potere di difendere la popolazione
contro i nemici.
In questo delicato clima politico Leone III decise, con l’appoggio di una parte
dell’episcopato dell’Asia Minore, di rimuovere dalla porta bronzea
attraverso cui si accedeva al Palazzo Imperiale l’icona del Cristo (726 d.C.),
che era stata collocata nel VI secolo d.C.
In seguito la disputa divenne una contrapposizione insanabile tra iconoclasti
e iconoduli, ma solo dopo che l’imperatore depose il patriarca Germano e nel
730 d.C. impose l’iconoclastia con un editto sinodale.
Il motivo principale di questa decisione era quello di contrastare la
superstizione, divenuta di fatto idolatria, suscitata dal culto delle icone, che
nelle chiese cominciarono ad essere sostituite dalle immagini imperiali (esse,
nonostante non fossero più oggetto di sacrifici come in epoca pagana, erano
comunque venerate e celebrate durante le processioni).
Si trattava dunque di un problema disciplinare, che condannava l’uso
distorto delle icone, contro cui si scagliò dunque un imperatore amatissimo in
quanto vincitore degli Arabi e condottiero inviato dalla Provvidenza in un
momento di necessità.
Proponendo di sostituire le icone con la simbologia imperiale, Leone III
cercava di suscitare quella che Peter Brown definisce una ‘’reazione
patriottica’’, nel nome di un potere centrale che cercava di riaffermare la
propria centralità, messa in discussione dalle icone e ‘’dall’uomo santo’’, visti
come agenti destabilizzanti.
L’iconoclastia era dunque uno strumento (non innovativo) utilizzato
all’interno di un confronto ormai plurisecolare tra il potere spirituale e quello
ecclesiastico.
Senza voler negare l’intenzione genuina di un ritorno alla tradizione, al culto
della croce, è innegabile osservare che dietro il conflitto iconoclasta vi fossero
degli altri interessi.
L’iconoclastia non si presentava nelle sue forme come un’eresia, ma come un
movimento politico-religioso volto a riaffermare il valore dell’autocrazia e il
potere sacerdotale del sovrano (che agli occhi dei sudditi era come i re-
sacerdoti della Bibbia, Melchisedek e Davide).
La necessità di riaffermare il potere imperiale si avvertì già con la ripresa
dell’attività legislativa, con la pubblicazione da parte di Leone III e del figlio
dell’Ecloga (‘’Εκλογη των νομων’’), una selezione di norme provenienti dal
Corpus Iuris Civilis (dal Digesto e dal Codex).
Composta con scopi pratici per i giudici provinciali, l’Ecloga, deprivata della
terminologia giuridica latina, era una sorta di mediazione tra la legislazione
di Giustiniano e quella della successiva dinastia basilide.
L’Ecloga era la naturale evoluzione della legislazione giustinianea, modificate
dalla consuetudini cristiane soprattutto nell’ambito del diritto di famiglia e
del diritto penale.
Illuminante è soprattutto il Preambolo del testo, in cui l’imperatore e il figlio
rivendicano a se’ ogni potere civile e religioso, anche a costo di infrangere
quell’armonia che Giustiniano aveva utilizzato per riferirsi al rapporto tra
Stato e Chiesa (Novella VI).
Il testo si opponeva nettamente a quanto detto da papa Gregorio II (715-731
d.C.) per cui ‘’i dogmi non dipendono dagli imperatori ma dai vescovi’’; al
contrario l’Ecloga sostiene che Dio e San Pietro hanno attribuito ai due sovrani
il compito di ‘’pascere il gregge dei fedeli’’.
Almeno inizialmente la lotta per le immagini era dunque una nuova
occasione di confronto tra il potere secolare e quello ecclesiastico, ognuno
desideroso di riscrivere a proprio vantaggio i rapporti tra autocrazia e chiesa.
L’imperatore, come osservava Gilbert Dagron, ‘’si definisce una sorta di
vescovo scelto direttamente da Dio’’; mentre gli iconoduli, rappresentati dalle
parole di Giovanni Damasceno (dopo 650-750 d.C.), un cristiano di origine
araba che aveva servito presso la corte ommayade, che affermava che ‘’noi
non abbiamo bisogno di un imperatore che si impadronisca tirannicamente del
sacerdozio’’.
LE CONSEGUENZE IN OCCIDENTE
Il califfato ommayade venne rovesciato nel 750 d.C. dalla dinastia degli
Abbasidi, che resse le sorti del mondo arabo per cinque secoli, fino a quando
i Mongoli abbatteranno il loro potere nel 1258.
Discendenti da uno zio di Maometto, gli Abbasidi cercarono fin da subito di
recuperare alcuni elementi dei movimenti in precedenza visti come dissidenti
(sciiti e kharigiti).
Gli Abbasidi cercarono fin da subito l’appoggio dei mawali, i sudditi non-
Arabi che erano numericamente superiori ma che in età ommayade erano
stati lasciati in disparte rispetto all’aristocrazia araba.
Finiva così l’impero ‘’arabo’’ degli Ommayadi, e iniziava quello che le fonti
avrebbero definto ‘’persiano’’ degli Abbasidi, che stabilirono la capitale a
Baghdad (la ‘’città della pace’’), scelta per la sua posizione cruciale tra il
Khorasan, l’Iran, l’Iraq, la Siria, l’Egitto e la rete fluviale del Tigri/dell’Eufrate.
Il califfato abbaside si ritirò verso Oriente, verso il mondo sasanide-iracheno,
anche se esso rimase un risoluto difensore dell’ortodossia sunnita, anche se
vi furono momenti di grande apertura, come il regno di al-Ma’mun (813-833
d.C.), durante il quale si affermò il movimento della Mu’tazila (‘’movimento
di coloro che si distaccano [da ogni partito politico]’’).
Si tratta di una corrente molto influenzata dalla cultura greca, della sua
filosofia e dalle sue scienze, elaborate all’interno di una teologia speculativa
in cui la razionalità svolgeva un ruolo del tutto nuovo e originale.
I commentatori mu’taziliti svilupparono la tesi della trascendenza adattando
la dialettica aristotelica alla riflessione teologica islamica: secondo questa tesi
il Corano non poteva essere ‘’increato’’, perché solo Allah poteva avere questa
definizione.
I mu’taziliti attribuivano anche un grande valore alla possibilità di scelta
umana, alla sua possibilità di scegliere tra bene e male.
Il califfato abbaside rappresentò un momento di grande splendore culturale
per il mondo musulmano, senza dubbio quello in cui la cultura greca,
reputata non solo attraente e necessaria; lo stesso al-Ma’mun sostenne che tra
Aristotele e rivelazione islamica non vi erano conflitti.
Questo fervore cosmopolita persistette fino alla morte del grande filosofo e
commentatore Averroè (1126-1198), un periodo durante il quale il mondo
islamico fu in grado di generare una sintesi originale tra la cultura persiana e
quella ellenistica.
Il mondo bizantino e quello occidentale non cessarono mai di intrattenere
rapporti con il mondo arabo, che si dimostrarono fruttuosi soprattutto per gli
occidentali, che conobbero la filosofia di Aristotele proprio grazie alla
mediazione araba.
Al tempo di al-Ma’mun venne costituita a Baghdad la ‘’Casa della Scienza’’,
in cui vennero ammassate tutta la letteratura e la scienza greca, tradotte in
lingua araba (molto interesse era attribuito alle opere di medicina).
In questa stagione trovò spazio anche una notevole tradizione filosofica, che
ancor prima che in Occidente cercò di dimostrare la rivelazione per via logica
e scientifica: si pensi al lavoro di al-Farabi, a quello del medico/alchimista
Abu al-Razi, costui sostenitore dell’autonomia della filosofia, che aveva come
scopo quello di guidare l’umanità alla felicità.
Quest’attività intellettuale testimoniava la volontà del mondo arabo di farsi
erede del patrimonio scientifico e filosofico greco, ma in seguito essa divenne
anche un’ulteriore giustificazione della necessità di attaccare i Bizantini, da
sconfiggere non solo perché infedeli, ma anche perché ‘’culturalmente
ottenebrati e inferiori’’.
L’avvento degli Abbasidi portò anche ad una svolta continentale, in quanto
come detto lo Stato islamico si ritirò verso la Persia, restringendosi al suo
nucleo centrale.
I Fatimidi assunsero il titolo di califfi d’Egitto, anche se questo non comportò
una rottura della civiltà araba, che rimase unita nonostante il frazionamento
politico grazie alla lingua araba (parlata in modo differente, ma scritta nello
stesso modo).
I pericoli per Bisanzio non vennero comunque meno, poiché, anche se
frazionato , il mondo arabo ora era costituito da piccole compagini compatte
pronte ad impegnarsi in iniziative piratesche e di conquista.
si pensi agli emiri Aglabiti di Qairawan (l’odierna Tunisi), la capitale
dell’Ifriqiya (termine con cui era indicata l’antica provincia romana dell’Africa
proconsularis).
Gli Aglabiti da semplici pirati, si trasformarono nel IX secolo d.C. in
conquistatori, che arrivarono ad occupare la Sicilia al termine di una lunga
campagna (827-902 d.C.).
Essi trasformarono Palermo in un centro fastoso, ma non riuscirono mai ad
allargare le loro conquiste all’Italia continentale (sia per la debolezza
demografica dell’isola, sia per le efficaci forze di difesa navali bizantine).
Gli Arabi riuscirono ad occupare Bari per un breve periodo (847-871 d.C.); la
vicenda dell’emirato di Bari, che cercò l’appoggio abbaside per svincolarsi
dagli Aglabiti, e del suo ultimo emiro Sawdan rimane comunque molto
interessante.
I ducati di Calabria, di Napoli e Otranto riuscirono a sopravvivere, ma
ottennero ampi spazi di autonomia istituzionale; essi furono le basi per la
riconquista bizantina nel corso degli ultimi decenni del IX secolo d.C.
I successi riportati in Sicilia non consentirono però agli Arabi di penetrare
nell’Adriatico, nello Ionio; il Mediterraneo si spaccò di fatto in due: ad
Occidente i Bizantini erano stati scacciati e vi era il dominio arabo, mentre in
Oriente la flotta imperiale era ancora in grado di affrontare i musulmani sul
mare.
Per quanto riguarda invece la Spagna, qui si installò un ramo cadetto degli
Ommayadi (756 d.C.), che fu in grado di controllare le tribù berbere e di
imporsi sull’aristocrazia araba.
Gli Ommayadi fecero di Cordova una delle città più importanti del mondo
islamico, la capitale di uno Stato che nel X secolo d.C. avrebbe rivaleggiato
con l’Egitto fatimide e quello di Baghdad.
La capitale dell’emirato di al-Andalus fu anche dotata di una biblioteca di
circa duecentomila manoscritti greci/latini/arabi; Cordova, con la sua
prospera economia mercantile, fu così in grado di rivaleggiare con il Cairo e
la stessa Baghdad.
4) MAESTÀ E GRANDEZZA DELLA BISANZIO
MEDIEVALE: LA DINASTIA DEI BASILIDI (843-1025)
Il sinodo dell’843 d.C. non frenò del tutto le ambizioni del partito monastico,
che grazie all’appoggio della reggente Teodora riuscì ad impossessarsi del
trono patriarcale, vacante dopo la morte di Metodio.
La reggente impose allora l’elezione di Ignazio I (797-877 d.C.), figlio
dell’imperatore Michele I, che alla deposizione del padre si era fatto monaco.
Si trattava di una scelta dall’alto valore simbolico, sia sul piano religioso che
su quello politico, con la quale si voleva recuperare quel momento di forte
potere del mondo monastico che aveva preceduto la seconda fase iconoclasta.
La scelta di Ignazio I suscitò però molti malumori, sia per la modalità in cui
avvenne l’elezione, sia perché l’intransigenza del personaggio irritava
l’episcopato.
Quando nell’855 d.C. Michele III (855- ) si liberò dalla reggenza della madre,
egli provvide subito ad affidare allo zio Barda, insignito del titolo di Cesare,
uomo di elevata cultura (fu lui a fondare l’Università Imperiale), che
immediatamente rimosse Ignazio e nominò patriarca Fozio.
Egli venne scelto sia per l’eccezionalità del suo sapere , ma anche per la
moderazione delle sue posizioni, che lo resero in grado di rendere il
patriarcato di Costantinopoli autonomo rispetto a quello romano.
Fozio, di origine aristocratica e nipote di un patriarca, era stato un brillante
funzionario della cancelleria imperiale, ma soprattutto un famoso letterato;
lui stesso ricordava con nostalgia i tempi degli studi letterari, scrivendo a
papa Niccolò I: ‘’tali i beni che ho rimpianto’’.
Fozio non si discostava dalla tradizione culturale/retorica/teologica cara alle
élites bizantine, tuttavia egli si impegnò anche in un altro ambito, quello del
recupero delle lettere classiche, condotto in anticipo rispetto agli uomini del
Rinascimento.
Le opere più celebri di Fozio sono il Lessico, un’opera in cui il letterato greco
annotò in ordine alfabetico che gli suscitava interesse o perplessità, e la
Biblioteca, una raccolta di 279 schede in cui erano contenute relazioni/giudizi/
notizie sulla letteratura classica e cristiana.
Fozio era però particolarmente sgradito al partito monastico, specialmente
agli zeloti di Ignazio, che si rivolsero direttamente al papa di Roma, Niccolò I
(858-867 d.C.), che nonostante avesse inizialmente convalidato la nomina di
Fozio, infine decise di appoggiare Ignazio.
Fozio a sua volta si adoperò affinché l’elezione di Ignazio venisse ritenuta
nulla, cosa che però gli costò l’anatema da parte di Niccolò I nell’862 d.C., che
ribadì la sua supremazia disciplinare.
Fozio reagì convocando nell’867 d.C. un sinodo a Costantinopoli, durante il
quale venne condannato il pontefice romano, accusato di aver alterato la
liturgia rituale.
Durante questo ennesimo confronto fra le due sedi patriarcali si dibatté sulla
questione del Filioque, ovvero sul fatto se lo Spirito Santo procedesse solo dal
Padre (come sosteneva il mondo greco-ortodosso, fedele al concilio
calcedonese), o se invece procedesse ex Patre Filioque, come invece sosteneva
il clero occidentale.
Fozio, che conosceva le motivazione che avevano portato il clero occidentale
ad accettare il Filioque, spostò la disputa dal piano liturgico a quello dottrinale
accusando i Latini di aver tradito il dogma della Trinità, che aveva il suo
fondamento nel Padre.
Questa sottile disputa trinitaria che oppose Niccolò I a Fozio fu l’ennesima
dimostrazione della separazione delle due cristianità: un Occidente ormai
latino e un Oriente invece sempre più greco.
Nel primo si affermò dunque il predominio del papa di Roma, mentre in
Oriente l’idea che una sede potesse avere autorità maggiore di un’altra era
qualcosa di impensabile.
Fozio dunque difendeva l’autonomia greca contro l’universalismo romano,
che appariva molto pericoloso fin dai tempi dell’incoronazione di Carlo
Magno.
I due patriarcati si sarebbero dunque confrontati a lungo sul piano
dell’allargamento delle sfere di influenza religiosa nella penisola balcanica.
All’inizio del IX secolo d.C. la pressione araba sull’Asia Minore era di fatto
rallentata, cosa che però non si poteva dire di quella dei Bulgari, che non
rispettarono la pace trentennale sottoscritta nell’816 d.C.
La corte bizantina era ben consapevole della necessità di confrontarsi
politicamente e culturalmente con le popolazioni stanziate nei Balcani, e
questo soprattutto a causa dei tentativi di Carlo Magno e dei suoi successori
di evangelizzare gli Slavi occidentali della Grande Moravia e quelli
meridionali (Serbi, Croati, Bulgari); sembra che anche gli Arabi mandarono
presso questi dei missionari, in primo luogo presso i Russi, che alla metà del
IX secolo d.C. cominciarono a riunirsi sotto il Principato di Kiev.
Fozio comprese immediatamente che la conversione delle popolazioni slave
avrebbe accelerato l’ellenizzazione che da tempo era in atto nella penisola
balcanica (‘’convertire uno straniero significava conquistarlo alla retta fede e al
contempo subordinarlo politicamente a Bisanzio’’).
Il processo elaborato da Fozio non fu però lineare, anzi, fu frutto di grande
preparazione intellettuale e accurate scelte diplomatiche, che assicurarono
l’esercizio di un’influenza ideologica e culturale.
Il progetto bizantino si scontrò però con l’attività cattolica e con la diffidenza
delle popolazioni slavo-bulgare, in primo luogo dei loro principi, pronti a
convertirsi al Cristianesimo, ma non a subordinarsi al potere bizantino.
Le conseguenze della conversione erano in primo luogo la riorganizzazione
interna di queste nazioni, ma anche sulle relazioni internazionali.è
La cristianizzazione comportava infatti anche l’accettazione di un nuovo
credo religioso, che portava con se’ anche l’istallazione di una complessa
gerarchia ecclesiastica, che rappresentò un modello di organizzazione
statale.
Oltre che alla formazione di strutture politiche e statuali, la conversione al
Cristianesimo era anche utile per la legittimazione della sovranità del
principe.
In seguito al battesimo l’autorità del sovrano risultava grandemente
rinsaldata, in quanto la Chiesa, presentando il re come vicario di Cristo,
rendeva il tradimento un crimine contro la divinità.
Ad aumentare era anche il prestigio estero di questi sovrani, che da ‘’barbari’’
divenivano membri dell’ecumene cristiana legati a Bisanzio da un rapporto
politico-culturale.
Il vincolo ‘’fraterno’’ che legava Bisanzio alle nazioni appena convertite viene
spiegato da Leone VI, secondo cui ‘’siamo fratelli in virtù della nostra fede
comune’’; questo rapporto non significava però una rinuncia alla propria
indipendenza.
La consapevolezza dei vantaggi della cristianizzazione persuase gli Slavo-
Bulgari alla conversione: presso questi vennero dunque inviati numerosi
missionari, che non erano scelti dai patriarcati di confine per timore di una
troppo precoce assimilazione politica.
Questa logica si scontrò però con le esigenze dell’Impero Bizantino, che era
ancora in fase di riassestamento dopo la faida iconoclasta, e che dunque non
poteva accettare nazioni ostili ai suoi confini.
Il processo di cristianizzazione dei Balcani fu caratterizzato però come detto
dal confronto greco-latino lungo tutto il IX secolo d.C.
Una partita molto importante fu quella che si giocò in Bulgaria, dove il khan
Boris (852-889 d.C.) sembrava inizialmente più vicino ai missionari franchi
inviati da uno dei figli di Ludovico Pio, Lodovico il Germanico (840-876
d.C.), con cui nell’863 d.C. venne concluso anche un trattato di alleanza.
Rotislao (846-870 d.C.), principe della Grande Moravia (situata tra Polonia
meridionale, Boemia e Slovacchia orientale), cercò invece l’appoggio di
Bisanzio proprio per sfuggire alle pressioni del clero germanico.
Nell’862 d.C. egli inviò dunque un’ambasciata per chiedere un ‘’maestro e un
vescovo’’ che potesse istruire il suo popolo alla fede cristiana e alla ‘’nostra
lingua’’.
L’importanza di questa richiesta fu accolta con grande prontezza da Bisanzio,
che comprese quanto un alfabeto slavo avrebbe potuto giovare all’Impero,
favorendo i tentativi di imporre la propria egemonia culturale.
Vennero inviati in Moravia Costantino (che divenuto monaco aveva adottato
il nome di Cirillo, 826/827-869 d.C.) e Metodio (815/825-885 d.C.), due fratelli
nati a Tessalonica (città bilingue).
Loro padre aveva svolto importanti incarichi per lo stratego del thema di
Tessalonica, e forse lo stesso Metodio era stato in precedenza governatore
provinciale.
Il loro nome è entrato nella storia in quanto riuscirono ad introdurre presso le
popolazioni slave una liturgia in dialetto slavo, in modo tale che questo
idioma divenisse una lingua nazionale.
La traduzione in slavo dei testi ortodossi deve essere attribuita a Cirillo, che
grazie al suo talento linguistico riuscì ad esprimere in forma grafica i suoi
della lingua slava, creando la scrittura glagolitica (dal russo gagol=’’parola’’).
La creazione di un alfabeto originale dimostra quanto elevato fosse il livello
raggiunto dalle ricerche di carattere grammaticale sviluppatesi
nell’Università della Magnaura.
Costantino era tra l’altro allievo di Leone il Matematico e di Fozio, da cui
apprese grammatica/retorica/filosofia/astronomia/matematica, divenendo il
modello stesso per i missionari bizantini del IX secolo d.C.
Come testimonia anche la Vita slava di Costantino, tra gli obiettivi dei
missionari vi era anche quella di ribadire la maestà imperiale di Bisanzio:
‘’Iddio dei cieli stabilirà un regno che non verrà mai meno’’.
Mentre Cirillo annunciava agli Slavi l’opportunità rappresentata dall’avere la
Parola di Dio nel loro idioma, Metodio compilava la prima raccolta di leggi
in lingua slava.
La liturgia slava che Cirillo e Metodio avevano elaborato per la Grande
Moravia venne però abbandonata a causa delle pressioni dell’episcopato
bavaro-franco, assecondata e sostenuta dall’autorità di Roma.
Questa era spaventata dalla possibilità che la chiesa orientale si espandesse in
Europa centrale, ma allo stesso tempo essa non riconosceva altre lingue oltre
al greco, al latino e all’ebraico (una posizione che Cirillo condannò
duramente).
Inizialmente Cirillo e Metodio avevano goduto anche dell’appoggio di papa
Adriano II (867-872 d.C.), che li aveva anche invitati a Roma, tuttavia nell’855
d.C. la liturgia slava venne ufficialmente condannata da Giovanni VIII (872-
882 d.C.).
Nonostante la vicenda della Moravia rappresentò una grave sconfitta per la
diplomazia bizantina, l’operato dei due fratello si dimostrò comunque
decisivo per gli sviluppi successivi.
Se dunque gli Slavi del centro Europa finirono sotto l’influenza di Roma, il
patriarcato di Costantinopoli coglieva la sua più grande vittoria in Bulgaria,
dove il khan Boris venne battezzato da un prete orientale nell’865 d.C., e
scelse come suo padrino l’imperatore Michele III (842-867 d.C.).
La conversione di Boris, che assunse il titolo di ‘’czar’’ (‘’Cesare’’), fu dovuta a
convinzioni personali ma anche al dispiegamento dell’esercito bizantino al
confine.
Il processo di cristianizzazione della Bulgaria non fu però affatto semplice,
ma attraversato da tensioni e rivolte che agitarono una popolazione locale per
lo più ancora pagana; si aggiungeva poi la diffidenza dei ‘’boiari’’, i membri
dell’aristocrazia militare bulgara, tradizionalmente ostile a Bisanzio.
A convincere Boris fu anche la possibilità di costituire una chiesa bulgara
autonoma, prospettiva a cui si era nettamente opposta la Chiesa di Roma;
nell’870 d.C. l’imperatore Basilio I riconobbe all’arcivescovo di Bulgaria una
sua autonomia (anche se essa era in qualche modo legata a quella bizantina).
Il Cristianesimo greco venne accettato anche perché grazie al lavoro di Cirillo,
la chiesa bulgara aveva uno strumento eccezionale, ovvero una propria
lingua letteraria, che permise una maggiore adesione della popolazione.
La Bulgaria divenne così parte di una grande comunità sovranazionale dei
paesi ortodossi che gravitavano intorno a Bisanzio; Dimitri Obolensky ha
parlato di ‘’Commonwealth bizantino’’.
Si tratta di una formula anacronistica, tuttavia utile per comprendere che
esisteva una sorta di riconoscimento del superiore prestigio bizantino da
parte di questi regni slavo-bulgari (essi riconoscevano dunque all’interno del
‘’mondo romano-cristiano’’ la maggiore autorità del βασιλευς bizantino).
Il confronto romano-bizantino per l’evangelizzazione degli Stati slavi portò
alla formazione di due sfere di influenza: all’episcopato cattolico di Croazia
si contrappose la chiesa serba greco-ortodossa, che viene ricordata anche da
Leone VI nei suoi Tactica: ‘’l’imperatore Basilio, ha persuaso queste tribù ad
abbandonare i loro antichi usi e costumi dopo averle ellenizzate….giudicate degne
del battesimo’’.
La ripercussione di questo processo si cominciò a vedere alla fine del X secolo
d.C., quando alle diverse aree di influenza cominciarono a corrispondere due
alfabeti diversi (latino e cirillico), una spartizione che causò l’emergere di
uno spirito di estraniazione.
La polarizzazione dei popoli tra Bisanzio e Roma esercitò una grande
influenza sulle identità etnica/politica, a tal punto che gli odierni conflitti
balcanici risultano essere difficili da comprendere se non si tiene conto della
barriera creatasi tra la Roma d’Occidente e quella d’Oriente.
L’IMPERO RINNOVATO: BASILIO I E LEONE VI
L’ideale di Renovatio imperii perseguito dai sovrani basilidi trovò una sua
compiuta realizzazione nell’espansione mediterranea che l’Impero riuscì a
condurre tra il X e il primo quarto di XI secolo.
Prima di arrivare a questa fase di espansione fu però necessario rinsaldare la
potenza bizantina nell’area danubiano-balcanica e in quella siriaco-anatolica.
L’impegno bellico culminò nel regno di Basilio II (976-1025), durante il quale
l’Impero riuscì nuovamente a dotare l’Impero di una rinnovata presenza nel
mondo occidentale.
Molto importante risulta ricordate che queste guerre vennero condotte nel
segno della legittimità, infatti l’autocrazia condusse queste campagne con
l’obiettivo di ristabilire gli antichi confini romani: non guerre di aggressione,
ma come legittimo esercizio di un diritto.
Questa idea traspare anche nella Cronaca dello storico Giovanni Cinnamo,
(1145-1190), che utilizzò questo ideale per giustificare le pretese in Occidente
della dinastia dei Comneni (egli usa il termine ‘’ανασωθειν’’, ovvero
‘’recuperare’’).
Questa ideologia si innestava su una nuova realtà sociale creatasi all’interno
dell’Impero: al crescere delle iniziative militari corrisposero anche altri due
elementi.
Il primo era la presenza su tutto il territorio imperiale di eserciti tematici
costituiti da soldati che si mantenevano e si equipaggiavano con la rendita di
proprietà terriere agevolate sul piano fiscale.
Il secondo era la presenza di una forte aristocrazia con una spiccata
vocazione militare, collocata prima nella regione anatolica e poi anche nel
territorio balcanico.
Si trattava di un’aristocrazia in realtà non sempre fedele al potere imperiale,
che però si riusciva sempre in qualche modo a controllare.
Queste erano due forze in comunicazione tra di loro, in quanto entrambe
erano interessate ad una politica di espansione militare: i soldati tematici
volevano rafforzare la piccola e media proprietà terriera e arricchirsi, mentre
l’aristocrazia militare voleva prestigio/potere politico/patrimoni fondiari.
Questi fattori furono decisivi nello sviluppo della politica estera, quanto nelle
scelte interne: si fa riferimento alla politica basilide contro gli abusi nei
confronti della piccola-media proprietà terriera dei soldati tematici, abusi che
avrebbero potuto minacciare quell’esercito caratterizzato da organizzazione
economica e coesione sociale impareggiabili.
Questo esercito, caratterizzato anche da un forte patriottismo locale, veniva
incoraggiato tramite provvedimenti contro gli esattori fiscali.
Senza queste due decisive componenti l’Impero non sarebbe mai riuscito a
riprendere un’iniziativa autonoma, che non a caso coincise con i regni di
Romano I Lecapeno, Niceforo II Foca e Giovanni Zimisce, imperatori di
grande talento militare ed esponenti consapevoli dei nuovi valori
dell’aristocrazia provinciale, e ovviamente consapevoli dei vantaggi insiti
nell’esercizio delle armi.
Fin dall’VIII secolo d.C. gli Slavi, e i Bulgari in particolar modo, assunsero
un’importanza determinante nell’orizzonte politico bizantino.
A causa dei continui confronti sulla frontiera araba, l’Impero a lungo non fu
in grado di fronteggiare in maniera adeguata la minaccia bulgara, che nel
corso del IX secolo d.C. era arrivata a minacciare tessalonica, ma che si era
apparentemente spenta con la conversione di Boris, dopo la quale sembrava
essere raggiunta una fase di equilibrio, come testimoniano le parole del
patriarca Nicola Mistico: ‘’[Gesù] Egli legò a se’ il popolo bulgaro e lo indusse ad
annodare relazioni amichevoli col popolo bizantini’’.
Questa fase di pacifica vicinanza si interruppe però quando Boris decise di
ritirarsi in un monastero e lasciare il potere al figlio maggiore Vladimir (889-
893 d.C.).
Costui, e gran parte della popolazione, si macchiò subito del peccato di
apostasia (segno di quanto ancora poco cristianizzata fosse la zona),
costringendo Boris a deporlo e sostituirlo con il fratello minore Simeone I
(893-927 d.C.).
Prima di fare ciò però, Boris trasferì la capitale da Pliska a Preslav e impose ai
suoi sudditi lo slavo come lingua ufficiale dello Stato e della vita ecclesiastica.
Sotto Simeone I il Primo Impero Bulgaro (681 d.C.-1018) raggiunse la sua
fase di massimo splendore, arrivando a conquistare una piena indipendenza
nazionale ed ecclesiastica, ma soprattutto a contrastare l’ecumenismo
bizantino.
Simeone I arrivò addirittura a contendere il titolo di βασιλευς al sovrano
bizantino; senza dubbio egli venne fortemente influenzato dalla sua
educazione a Costantinopoli (egli aveva frequentato l’Università della
Magnaura).
Indicato da Liutprando da Cremona come un ‘’hemiargeion’’ (‘’mezzo greco’’),
Simeone I cercò di reagire al ‘’bizantinismo’’ (Ivan Bozilov), ovvero al
pericolo di finire annichilito dalla pax bizantina.
Egli non voleva annientare l’Impero, bensì sostituirsi ad esso attraverso la
formazione di una nuova realtà universale capace di assorbire il potere
bizantino, ormai incapace di avere una dimensione ecumenica a trionfante.
La nuova aristocrazia locale, nata dalla fusione dell’elemento bulgaro con
quello slavo, sarebbe così riuscita a dare vita ad una nuova ταξις, un nuovo
ordine in cui sarebbero stati i Bulgari a trovarsi al vertice della ‘’famiglia dei
popoli e dei principi’’.
La pax Simeonica rappresentava di fatto una sconfitta soprattutto per il
patriarcato bizantino, rappresentato in questo caso dal patriarca Nicola
Mistico, che si affliggeva del fatto che popoli cristiani avessero preso le armi
per combattere fra loro.
Inizialmente Simeone I si alleò ai Peceneghi, una popolazione turca semi-
nomade proveniente dalle steppe della Russia Meridionale, per affrontare i
Magiari (noti nelle fonti come Ungari), che si erano stanziati nella Pannonia
(odierna Ungheria) nel corso del X secolo d.C.
In questo modo egli riuscì ad occupare tutta la parte settentrionale dell’area
balcanica, obbligando i Serbi a riconoscere il protettorato bulgaro; egli arrivò
anche ad assediare Costantinopoli (913 d.C.) alla morte di Leone VI, impresa
a cui rinunciò solo dopo aver ottenuto in cambio la mano della figlia di Nicola
Mistico.
Tramite queste nozze Simeone diveniva suocero di Costantino VII, posizione
che gli avrebbe permesso potenzialmente di rivendicare il trono imperiale,
una prospettiva non utopistica soprattutto dopo la vittoria conseguita nella
battaglia di Anchialo (917 d.C.), in cui l’esercito bizantino venne annientato.
Questa ambizione venne però abbandonata nel momento in cui Costantino
VII sposò la figlia di Romano I Lecapeno (Elena), che venne nominato co-
imperatore.
Costretto a rinunciare alla possibilità di unire le due corone, Simeone decise
di assumere il titolo di ‘’imperatore dei Bulgari’’ e di convocare un concilio di
tutti i vescovi bulgari per dichiarare l’autocefalia della chiesa nazionale,
elevando così l’arcivescovo di Bulgaria a patriarca (solo un patriarca infatti
avrebbe potuto conferire legittimità al potere imperiale bulgaro).
Egli cercò di legittimarsi anche tramite l’appoggio di Roma: egli inviò dei
delegati a Roma per chiedere a papa Giovanni X (914-928 d.C.) di inviargli le
insegne della regalità.
Nel 927 d.C. Simeone morì, lasciando però alla Bulgaria una maggiore
consapevolezza politica, una capitale divenuta anche importante centro
culturale (Preslav fu dotata di una grande biblioteca e divenne il centro di
una grande produzione di traduzioni, alcune opera dello stesso Simeone).
Interessante fu l’attività di Giovanni l’Esarca (), autore di una traduzione in
slavo della Fonte della conoscenza di Giovanni Damasceno e autore
dell’Esamerone, una dettagliata esposizione dei sei giorni della creazione del
mondo (un’opera ispirata dall’omonimo scritto di Basilio di Cesarea) che
divenne un testo centrale del medioevo slavo.
Con i successori di Simeone l’Impero Bulgaro conobbe una rapida decadenza,
e questo nonostante i Bizantini riconoscessero nel 927 d.C. al figlio di
Simeone, Pietro I (927-969 d.C.) il titolo di ‘’βασιλεθς Βουλγαρων‘’
(‘’imperatore dei Bulgari’’), la creazione di una sede patriarcale presso Silistra e
concedessero al nuovo sovrano anche una delle figlie di Romano I (Maria,
ribattezzata poi Irene).
Il titolo imperiale attribuito ai Bulgari era lo stesso che era stato riconosciuto
anche ai sovrani Franchi il secolo precedente, quindi ancora una volta si
voleva ribadire il prestigio superiore dell’autocrazia bizantina.
Si deve inoltre osservare che anche la concessione del patriarcato fu una
mossa molto studiata, infatti la sede elevata a patriarcato non era quella della
capitale, ma quello della lontana Silistra sul Danubio (l’antica Durostorum
romana).
Inoltre grazie al matrimonio con Maria/Irene si venne a costituire all’interno
della corte bulgara una fazione filobizantina, che cominciò a scontrarsi con
l’antica aristocrazia bulgara, composta da quelli che nelle fonti vengono
indicati come i ‘’nobili di Simeone’’.
Le difficoltà dello Stato bulgaro aumentarono ulteriormente con il sorgere di
dispute religiose, dovute in primo luogo alla diffusione del bogomilismo
(dal nome del prete Bogomil, ‘’colui che Dio prende in pietà’’), un movimento
dualista di origine orientale secondo cui ad un Dio superiore (padre di
Cristo), si contrapponeva Satana-Satanael, che aveva creato la terra e l’uomo
dopo essere stato cacciato dal cielo.
In seguito a ciò Dio dotò l’uomo di un’anima e inviò suo figlio Gesù Cristo
per sottrarlo alla schiavitù del suo antagonista; si trattava dunque di una
visione manichea.
I bogomili rifiutavano inoltre la materialità, elogiando il disprezzo per il
corpo, ma rifiutando l’ordine sociale/familiare/liturgico, creando dunque
diverse difficoltà al potere centrale e a quello religioso.
Nel suo Trattato contro i bogomili (ultimo quarto del X secolo d.C.), il prete
bulgaro Cosma ricorda che questi ‘’oltraggiano i ricchi, odiano gli imperatori, si
fanno beffe dei superiori’’.
Molto efficace fu la propaganda bolomila contro le gerarchie ecclesiastiche,
che colpiva tra l’altro i numerosissimi monasteri sorti in Bulgaria, che Pietro I
aveva privilegiato attraverso la concessione di proprietà fondiarie e di sgravi
fiscali.
Con la scomparsa di Simeone e l’evoluzione in senso positivo della situazione
al confine orientale, i Bizantini poterono concentrarsi maggiormente sul
fronte bulgaro.
L’attività di Niceforo II e Giovanni Zimisce, che riuscirono ad ottenere anche
l’appoggio del Principato di Kiev, portò alla conquista della Bulgaria
orientale, riuscendo a riportare la frontiera all’antico confine danubiano.
Lo zar Boris II fu infine costretto nel 969 d.C. a rinunciare alla porpora
imperiale e ad abolire il patriarcato di Silistra: la Bulgaria divenne provincia
imperiale.
Le terre bulgare, devastate impoverite e devastate da anni di guerre, furono
ripopolate tramite l’immissione di gruppi armeni provenienti da Metilene e
Teodosipoli (regioni in cui, nel VII secolo d.C., erano attivi gli eretici
pauliciani, che avevano alterato l’ortodossia interpretandola in chiave
manichea e che negavano ogni gerarchia ecclesiastica).
Il trasferimento dei pauliciani riuscì a mitigare il malcontento religioso in
Asia Minore, e allo stesso tempo però consolidò l’azione dei gruppi dissidenti
come i bogomili.
Rimase in vita un autonomo principato bulgaro intorno al lago di Prespa e
alla città di Orchida, dove si erano arroccati gli ultimi membri
dell’aristocrazia bulgara, che avevano eletto come zar Samuele I (987 d.C.-
1014), posto a capo di uno Stato collocato tra Danubio e Tessaglia.
La vicenda di questo nuovo Stato bulgaro fu però molto breve, infatti dopo
aver sedato le rivolte degli Scleri e dei Foca, Basilio II poté concentrarsi sul
fronte bulgaro.
Egli colse una vittoria totale nella battaglia di Kleidion (1014), dopo la quale
fece accecare 14.000 prigionieri bulgari, guadagnandosi in questo modo il
soprannome di ‘’Bulgaroctono’’ (‘’massacratore dei Bulgari’’); il Regno Bulgaro
cessò di esistere nel 1018, come ricorda anche la Cronaca compilata nel XII
secolo da un anonimo prete di Dioclea.
In questa erano ricordate le conquiste di Basilio II: il regno di Samuele, la
Dalmazia e le sue regioni meridionali, la Serbia e la Bosnia.
Nonostante il suo soprannome, Basilio agì in modo tale da rispettare le
usanze locali dei Bulgari, e concedendo alla chiesa locale un certo grado di
autonomia; allo stesso modo perseguitò duramente gli eretici bogomili.
La forza eversiva di questi ultimi venne di fatto meno grazie alla repressione
attuata da Basilio II, anche se nel corso dell’XI secolo è testimoniata la
presenza di bogomili in Asia Minore, e nel XII di questi a Costantinopoli.
Ormai non rimanevano Stati tra il mondo bizantino e il Danubio, cosa che
permise all’Impero di rispolverare le sue ambizioni in Italia.
Nelle nuove aree conquistate fu esteso il sistema tematico, sia della regione di
Durazzo, sia in Dalmazia e (molto probabilmente) anche in Serbia.
Alla fine dell’VIII secolo d.C. la struttura sociale delle campagne bizantine si
era profondamente trasformata a causa dell’alterazione dell’equilibrio tra
piccola e grande proprietà terriera.
Queste trasformazione furono causate in primo luogo dall’azione
dell’aristocrazia militare, la cui ascesa sociale si accompagnò al tentativo di
concentrare la terra nelle proprie mani, azione a cui lo Stato tentò di opporsi.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso Paul Lemerle e Georg
Ostrogorsky cercarono di definire gli orizzonti di questo cambiamento, e
furono soprattutto le posizioni del secondo ad avere successo.
Lo studioso russo si concentrò soprattutto nell’affermare l’importanza dei
contadini liberi e indipendenti, la cui piccola e media proprietà si sarebbe
progressivamente affermata fino a divenire predominante all’inizio della
dinastia basilide.
Questa visione pecca forse di schematicità, e tende a minimizzare le
ripercussioni degli elementi esterni sul sistema economici; quindi è necessario
sostituire una proprietà fondiaria più flessibile e articolata a quella
individuata da Ostrogorsky.
Alla fine dell’VIII secolo d.C. questa fase favorevole alla piccola proprietà si
aveva ceduto il passo ad un movimento contrario che favorì la crescita dei
grandi patrimoni fondiari.
Gli archivi ecclesiastici, che sopperiscono alla mancanza di fonti private,
forniscono preziose informazioni circa il variare dei rapporti di proprietà,
testimoniando soprattutto come i monasteri (usciti vittoriosi dalla vicenda
iconoclasta) si affermarono come potenza sociale ed economica.
Essi erano infatti istituzioni di diritto pubblico, ma allo stesso tempo
appartenenti ai privati che li avevano fondati, quindi manifestazioni del
potere e del prestigio raggiunto.
Nel corso del tempo i monasteri autogestiti erano divenuti numerosi a causa
dell’estinzione della famiglia fondataria, cosa che rendeva i monaci titolari del
patrimonio fondiario.
Questi possedimenti, lavorati dai monaci e da contadini indipendenti, erano
sfruttati per ricavare utili commerciali che permisero l’accumulazione di
fondi, a cui era possibile affiancare qualche privilegio fiscale.
Un caso celebre è quello del monastero di Iviron, a cui Basilio II nel 984 d.C.
concedette un’esenzione sulle tasse dovute da un battello di proprietà dei
monaci.
Anche per la grande proprietà privata si può tracciare uno sviluppo analogo;
già durante il II Concilio di Nicea (787 d.C.) vennero condannati quegli alti
dignitari che prendevano in affitto i beni ecclesiastici per trasformarli in beni
patrimoniali o per edificarvi cappelle private dove officiavano chierici privi
dell’autorizzazione vescovile.
Questi grandi domini non erano ancora in grado di alterare gli equilibri delle
campagne a quest’altezza, tuttavia queste posizioni testimoniavano un segn
premonitore di quanto sarebbe successo nel IX e nel X secolo d.C., segnati
dall’espansione delle grandi fortune a danno delle comunità di villaggio.
Gli ‘’arconti’’ (‘’αρχοντες’’)a cui faceva riferimento il Concilio del 787 d.C.
anticipavano dunque i ‘’δυνατοι’’ (i ‘’potenti’’), quel ceto magnatizio sorto in
primo luogo nell’Asia Minore orientale, di estrazione modesta, ma divenuto
forza sociale dominante grazie al monopolio delle cariche militari.
Alla morte di Basilio II nel 1025 l’Impero Bizantino si estendeva a Nord fino
al Danubio, ad Est sino all’Eufrate e alla Siria, ad Ovest al Meridione italiano;
un’espansione mai vista dai tempi di Giustiniano, che doveva in qualche
modo essere allargata al mondo russo, fortemente influenzato a livello
politico-militare da Bisanzio.
In solo mezzo secolo però i territori sotto il controllo dell’Impero si erano
ridotti solo alla Grecia, alla Tracia e a qualche tratto della costa anatolica, un
arretramento che alterò in maniera definitiva i rapporti tra Europa e Asia.
Nuovi formidabili nemici comparvero all’orizzonte: i Normanni, in qualche
modo anticipatori del ‘’risveglio dell’Occidente’’, che sarebbe culminato nelle
crociate; i Veneziani, la cui azione commerciale minò l’esistenza stessa del
potere imperiale; le tribù dei Turchi-Selgiuchidi, che colpirono in Armenia; i
Peceneghi, che con le loro incursioni destabilizzarono la situazione balcanica.
La crisi toccò il suo apice nell’anno 1071, vero annus horribilis della storia
bizantina, durante cui l’esercito imperiale venne sconfitto nella battaglia di
Mantzikert e in cui Bari cadde in mano ai Normanni.
Le cause di questo rapido declino furono inizialmente attribuite alla pochezza
dei successori di Basilio II (indicati come deboli, inetti, moralmente corrotti),
ma anche alla rivalità tra aristocrazia civile della capitale e aristocrazia
militare delle province (uno scontro che avrebbe indebolito il potere centrale).
Questa seconda interpretazione ha goduto di grande successo nel corso della
storia, almeno sino al XIII Congresso internazionale di studi bizantini
(Oxford 1966), quando si cominciò a sottolineare l’eccessiva semplificazione
di queste tesi, che sottovalutavano gli intenti e le figure dei sovrani basilidi,
che cercarono di stabilire un nuovo assetto sociale e di bilanciare le ambizioni
dell’aristocrazia provinciale (prima ‘’motore’’ dell’espansione, ora possibile
attentatrice ai vertici del potere statale).
Per comprendere le vere ragioni degli insuccessi patiti da Bisanzio serve una
più complessa interpretazione, che riesca a superare l’ideale di una netta
contrapposizione tra lo splendore senza macchie del X secolo d.C. e la
decadenza dell’XI.
I prodromi dei problemi infatti cominciarono proprio nel corso X secolo d.C.,
quando gli stessi elementi che avevano permesso lo sviluppo, divennero la
causa del mutamento degli equilibri interni.
Tutto questo senza che però si arrivasse al ‘’dissolvimento del sistema statale’’ di
cui parla Ostrogorsky, o alla ‘’svolta’’ intesa come interruzione del precedente
sviluppo descritta da Lemerle.
Si deve allora concordare con quanto sostiene Evelyn Pantlagean, secondo cui
nell’XI secolo Bisanzio uscì definitivamente dall’Antichità ed entra davvero
nel Medioevo.
L’imporsi di un’aristocrazia che dava grande valore ai legami di sangue e alla
nobiltà di nascita (la cosiddetta ‘’ευγενια’’) determinò l’affermarsi nella
società di forme di fedeltà personali.
Non si può però parlare di identità tra l’Occidente latino-germanico e
l’Oriente greco, in quanto la ‘’rivoluzione aristocratica’’ avvenuta dopo la
morte di Basilio II non causò, come in Occidente, la scomparsa del potere
pubblico.
Si dovrebbe dunque parlare di un’aristocrazia capace di avvicinarsi al potere
imperiale; gli elementi che in Occidente portarono dunque alla società
feudale, non ebbero le medesime conseguenze in Oriente, grazie alla
presenza di un’efficace potere pubblico.
Il principio dinastico continuò anche dopo il 1025: a Basilio II, privo di eredi,
succedette il fratello Costantino VIII (1025-1028), seguito dalla figlia Zoe
(1028-1050).
Questa elevò a imperatori i suoi tre mariti: Romano III (1028-1034), Michele
IV (1034-1041) e Costantino IX Monomaco (1042-1055); l’imperatrice elevò al
rango imperiale anche il figlio adottivo Michele V (1041-1042).
La dinastia basilide si estinse definitivamente con Teodora (1054-1056).
Gli sviluppi dinastici appena descritti confermano la tendenza osservata
anche nel secolo precedente: sposare una principessa imperiale era un mezzo
per raggiungere il potere, che si dimostrò utile a tenere a freno ancora un
trentennio le ambizioni dell’aristocrazia.
Quest’ultima si trovò a fare i contro anche con il grande lealismo della
popolazione della capitale nei confronti della dinastia basilide; esemplare la
vicenda di Michele V, che, dopo aver tentato di detronizzare la madre
adottiva, venne deposto da una rivolta popolare (1042).
La folla proclamò la sovranità di Zoe e della sorella Teodora, quest’ultima
rimessa al potere anche dopo che l’ultimo marito della sorella, Costantino IX
Monomaco, l’aveva rinchiusa in un convento.
I nuovi sovrani a differenza di alcuni degli imperatori del IX secolo d.C., non
provenivano dall’aristocrazia microasiatica, ma da nobili casati della capitale
o da membri influenti dell’élite amministrativa e di corte.
Nella capitale si era infatti consolidata la posizione di alcune famiglie
patrizie (alcune di origine molto antica) i cui interessi non erano per forza in
contrasto con quelli dell’aristocrazia provinciale, anch’essa attirata nella città
dalla politica di Basilio II, che aveva obbligato i membri più influenti di quei
lignaggi a trasferirsi nella capitale (aumentò così l’importanza del Palazzo).
I rapporti tra le due aristocrazie erano fluide e caratterizzate da complesse e
raffinate strategie matrimoniali.
Questi cambiamenti portarono all’affermazione di un potere civile, che viene
descritto dal più importante intellettuale dell’XI secolo, Michele Psello (1018-
1096): ‘’sembra essere convinzione di chi ha da poco ottenuto il regno che basti, a
garantire la stabilità del potere, il plauso del partito civile’’.
Per circa tre decenni il potere imperiale cercò di trovare nuovi assetti
istituzionali, capaci di adattarsi ai nuovi equilibri interni, e un diverso modo
di condurre la politica estera, capace di rispondere ai cambiamenti avvenuti
ad Est e ad Ovest.
LE RIFORME MANCATE
L’età dei basilidi era stata caratterizzata da una grande stabilità, che però non
caratterizzò la fase politica successiva: tra il 1056 e il 1081 sul trono bizantino
si susseguirono ben sei imperatori.
La dinasti basilide si estinse con Teodora nel 1056, la cui morte aprì una fase
di violente lotte per il potere in cui il patriarca Michele Cerulario ebbe un
importanza fondamentale.
Egli infatti riuscì ad influenzare le successioni: inizialmente ostacolò Michele
VI (1056-1057), successore di Teodora, contro cui aizzò Isacco I Comneno
(1057-1059), zio del futuro imperatore Alessio I.
La ribellione di Isacco Comneno fu la reazione dell’aristocrazia microasiatica,
che sebbene in possesso ancora di una grande quantità di potere, poteva ora
contare sull’appoggio delle famiglie aristocratiche della capitale (su tutte
quella dei Ducas).
Dopo aver costretto Michele VI ad abdicare, Isacco decise anche di esiliare il
patriarca Michele Cerulario, che al momento dell’incoronazione lo aveva
ammonito dicendogli ‘’io ti ho creato...io sono in grado di distruggerti’’.
L’imperatore procedette in seguito al riordinamento delle finanze, che cercò
di risollevare attraverso la secolarizzazione dei beni monastici (i monasteri
erano divenuti ormai grandi complessi economici).
Allo stesso tempo egli cercò di riaffermare il potere dell’autocrazia, cosa che
lo spinse a dissociarsi dagli alleati precedenti, che vennero rimandati in Asia.
Queste misure lo resero però inviso alla chiesa e alle famiglie aristocratiche,
che riuscirono ad isolarlo politicamente, rendendo le sue azioni di fatto vane.
DUCAS E COMNENI, TRA RIVALITÀ E COMPLICITÀ
Dopo la firma della pace con i Normanni, Manuele decise di tornare a quella
politica di frenetico diplomatismo che le fonti latine e greche ebbero molta
difficoltà a ricostruire cronologicamente.
La politica imperiale dell’imperatore cercò allora di creare delle trame in cui
erano coinvolte la Chiesa di Roma, il re d’Inghilterra, quello d’Ungheria, di
Francia e gli imperatori tedeschi (senza dimenticare i principati cristiani ad
Est).
Lo scisma che oppose il Barbarossa e l’antipapa Vittore IV a papa Alessandro
III coinvolse anche l’Impero Bizantino, che nel progetto del papa doveva
entrare a far parte, insieme ai Normanni di Sicilia e alla Francia, di una
grande coalizione antisveva.
Manuele I era infatti in aperta rivalità con il Barbarossa a causa dell’Ungheria,
entrambi i sovrani infatti erano interessati a condizionare a proprio favore la
crisi dinastica del regno ungherese.
L’imperatore credeva inoltre che sostenendo il papa, quest’ultimo lo avrebbe
riconosciuto come unico imperatore della cristianità; senza che ciò
significasse un recupero territoriale in Italia per l’Impero.
Il fine del Comneno era quello di istituire una gerarchia tra i poteri europei al
cui vertice vi fosse il superiore potere imperiale; nelle parole dell’arcivescovo
di Tessalonica: ‘’il βασιλευς si eleva al di sopra di tutti i sovrani della terra’’.
Si arrivò così ad un rovesciamento delle alleanze, sancito dal matrimonio tra
il vedovo Manuele I e la principessa normanna Maria d’Antiochia; dagli anni
Sessanta del XII secolo dunque la politica dell’imperatore agì in senso
antisvevo.
Per un decennio Manuele fu alleato dei Normanni, difensore del papato e
sostenitore della Lega Lombarda (ad essa fornì il denaro per ricostruire le
mura di Milano, distrutte dal Barbarossa).
Si complicò invece il rapporto con le città marinare: se Genovesi e Anconetani
vennero omaggiati con alcune concessioni economiche, i Veneziani subirono
invece dei contraccolpi (nonostante inizialmente Manuele avesse confermato
a loro i privilegi).
Nel 1171 l’imperatore ordinò l’arresto di tutti i Veneziani residenti
nell’Impero e la confisca dei loro beni; ne seguì una guerra (1171-1175), al
termine della quale venne ristabilito lo status quo.
Diversa fu invece l’azione politica di Manuele I in Oriente , dove almeno sino
alla fine del suo regno colse notevoli successi.
Manuele riuscì a fare ad ottenere l’alleanza dei principati latini d’Oriente,
facendo anche in modo che il Principato di Antiochia, governato da Rinaldo
di Chatillon (1125-1187), che era succeduto al povero Raimondo di Poitiers
(1115-1149), che era stato sconfitto e ucciso nella battaglia d’Inab (1149)
dall’emiro di Siria Norandio (1118-1174), si ponesse sotto la sua protezione,
riconoscesse il suo potere superiore e accettasse la presenza in città di un
patriarca greco.
Nel 1159 Manuele entrò a cavallo in Antiochia, scortato dai nobili della città:
Rinaldo di Chatillon ‘’tratteneva le staffe’’ del cavallo imperiale, mentre il re di
Gerusalemme Baldovino III (1143-1163) seguiva da dietro ‘’privo di simboli
regali’’.
Ad aumentare il prestigio di Manuele contribuirono anche le vittorie contro i
Turchi-Selgiuchidi dell’emiro Kilig Arslan (), che fu costretto dall’imperatore
e dall’emiro Norandio ad accettare una pace con i Bizantini.
Negli anni Settanta del XII secolo dunque, l’Impero Bizantino appariva il più
efficace scudo contro i musulmani, cosa che aveva permesso a questo di
riavvicinarsi a Roma, da cui Manuele I sperava di ottenere il riconoscimento
di βασιλευς superiore della cristianità.
Il disegno imperiale si frantumò a causa della ripresa delle ostilità con i
Turchi di Kilig Arslan, contro cui venne preparata quella che doveva essere
un’ultima e risolutiva campagna.
Questa, sebbene preparata con la massima cura, degenerò nella disfatta di
Miriocefalo (1176) in Frigia, dove l’esercito bizantino, colto di sorpresa,
venne fatto a pezzi in un gola dai Turchi.
Questa sconfitta fu resa ancora più amara dalla parallela battaglia di
Legnano (1176) in cui la Lega Lombarda sconfiggeva il Barbarossa: dopo la
sconfitta infatti il sovrano svevo decise di riappacificarsi con il papa, ponendo
le premesse per la pace di Venezia (1177), con cui di fatto finiva la politica di
ingerenza bizantina in Italia.
La sconfitta di Miriocefalo in realtà non ebbe delle conseguenze rilevanti, alla
fine Manuele I riuscì comunque a firmare una pace onorevole, che significò
però la rinuncia definitiva all’Anatolia e alla pretesa imperiale di ergersi a
difensore dei principati latini d’Oriente.
Della sconfitta di Miriocefalo approfittò poi il Regno armeno di Cilicia, detto
anche Principato delle Montagne, il cui sovrano Rupeno III (1175-1187)
riuscì a svincolarsi da Bisanzio; nel 1159 l’allora principe d’Armenia Thoros I
aveva invece riconosciuto il potere bizantino.
Ad aggravare la situazione fu poi la capacità del Barbarossa di trasformare
una sconfitta in una vittoria diplomatica con la già citata pace di Venezia del
1177, ma soprattutto con l’alleanza con il Regno normanno di Sicilia.
Il figlio del Barbarossa, il futuro imperatore Enrico VI (1191-1197), sposava la
figlia di re Ruggero II, Costanza d’Altavilla (), realizzando le potenziali
premesse per la formazione di un blocco antibizantino (dall’unione dei due
sarebbe poi nato Federico II, 1194-1250).
Manuele I cercò di bilanciare questi rovesci tramite il matrimonio della figlia
Maria con Ranieri del Monferrato (), membro di una delle più nobili casate
dell’Italia settentrionale, e tramite quello del figlio ed erede Alessio II (1180-
1183) con Agnese, figlia del re di Francia Luigi VII.
Nel 1180, anno della morte di Manuele I, il progetto manueliano di rendere
l’Impero l’entità politica in grado di coordinare gli Stati europei era fallito.
Bisanzio era ormai isolata e minacciata dalla crescente volontà del clero
d’Occidente di unificare sotto l’egida papale tutta la cristianità.