PDF R. Bonavita, ''L'ottocento''
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IMPERO
La carriera del romagnolo Vincenzo Monti (1754-1828) inizia nel 1797, anno
in cui abbandona la corte papale per spostarsi a Milano.
Monti aveva già raggiunto la fama con il poema In morte di Ugo Basville
(1793), a cui segue una fase di celebrazione della Rivoluzione, in cui emerge
sempre la sua eccezionale abilità tecnica.
Egli elabora una lingua alta, fatta di eleganti gioielli verbali che arricchiscono
la ‘’bellezza ideale’’ dei testi canonici.
La produzione di Monti risente però soprattutto delle vicende politiche: egli
abbandona l’ambizioso poema in onore di Napoleone, Il bardo della selva nera
(1806), per dedicarsi alla traduzione dell’Iliade.
Si tratta senza dubbio del lavoro più celebre, portato avanti tra il 1806 e 1810
sulla base di una traduzione dalle versioni in latino del poema omerico, che
gli permettono, differentemente da Foscolo che traduce dal greco, di costruire
una lingua graziosa, fluida e armonica.
L’Iliade di Monti diventa subito un classico in tutta Europa, venendo lodata
anche dalla romantica Madame de Staël, che definisce Monti ‘’il primo poeta
d’Italia’’.
Caduto Bonaparte, il rientrato governo austriaco affida a Monti la stesura di
inni per il ritorno degli antichi sovrani (Il ritorno di Astrea, 1816) e la direzione
della rivista ‘’Biblioteca Italiana’’, concepita per riguadagnare il supporto
degli intellettuali.
Si ritira dopo poco per dedicarsi alla questione della lingua: nella Proposta di
alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-1826) Monti cerca
di superare il purismo di Cesari e si propone di conciliare lo stile neoclassico
con le moderne esigenze di comunicazione.
Quindi si parla di un uso moderato del lessico tecnico-scientifico e del ritorno
all’italiano al massimo del suo fulgore, ossia nella sua fase cinquecentesca.
Nel Sulla Mitologia (1825) Monti tenta di rilanciare la poesia del mito greco-
latino, opposta alla ‘’audace scuola boreal’’ romantica, che aveva puntato invece
sulla mitologia scandinava.
L’ultimo lavoro è la canzone Pel giorno onomastico della mia donna (1826), più
vicina al classicismo moderno, introspettivo e sentimentale di Leopardi in
Alla mia donna.
Monti, per il suo opportunismo politico, verrà in seguito escluso dal canone
letterario risorgimentale.
Per il teatro, che a quest’altezza in Italia si basa ancora sul principio delle tre
unità aristoteliche (spazio, tempo, luogo), si deve fare il nome di Gioacchino
Rossini (1792-1868).
La tragedia di argomento alfieriano, caratterizzata da personaggi lacerati da
contraddizioni insanabili, è ancora molto apprezzata da pubblico e critica.
In storiografia si impone il lavoro di Vincenzo Cuoco (1770-1823), autore del
Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), pubblicato a Milano.
Nell’opera, che conosce una fortuna notevolissima e che viene tradotta quasi
subito in tedesco e francese, è ispirata nello stile ai lavori dei grandi storici
dell’Antichità (Polibio, Plutarco, Tucidide).
La spiegazione che Vico offre del fallimento della Partenopea, colpevole di
essere figlia di una ‘’rivoluzione passiva’’ e incapace di rendere i propri ideali
‘’popolari’’, fa leva anche sul realismo politico di Machiavelli e sullo
storicismo vichiano.
Il Saggio storico divverrà in seguito uno dei testi fondamentali del moviemnto
unitario; meno fortuna avrà l’opera successiva, il Platone in Italia (1804 e
1806), in cui Cuoco finge di aver tradotto un manoscritto platonico in cui si
racconta di un viaggio del filosofo in Italia, nel corso del quale egli avrebbe
scoperto la ‘’grande civiltà italica preromana’’.
Il primato nell’ambito della saggistica e dell’eloquenza oratoria è invece da
assegnare all’ex-monaco piacentino Pietro Giordani (1774-1848), autore del
Panegirico delle imprese di sua maestà Napoleone il Grande (1804), opera in prosa,
basata su dettami neoclassici, in cui si loda la legislazione riformatrice
napoleonica.
La produzione di Giordani lascia un senso di incompiutezza, dovuta alla
tendenza all’insoddisfazione dell’autore, incaapce di andare oltre i dettami
di perfezione classicisti e di scrivere opere di largo respiro.
Molto più interessante è la sua opera nell’ambito della critica: scrive saggi
sulla letteratura contemporanea e persino sull’arte.
Dopo essere stato cacciato dallo Stato Pontificio si reca a Milano, dove lavora
presso la Biblioteca Italiana, da cui però si dimette in quanto in contrasto con il
governo austriaco.
Nel 1817 conosce Leopardi e ne intuisce le potenzialità letterarie, che ne fanno
per il Giordani, il ‘’perfetto scrittore italiano’’.
Negli anni Venti si trova a Firenze per collaborare all’Antologia del conte Piero
Vieusseux (1779-1863) nonostante sia di simpatie atee.
Negli ultimi anni si dedica alla stesura di lettere aperte semiclandestine in cui
propugna posizioni morali e denuncia empietà, come i maltrattamenti influtti
agli allievi delle scuole religiose.
La sua prosa sarà nel decenni successivi utile per Carducci nel suo recupero
del classicismo.
Niccolò Ugo Foscolo (1778-1827) nasce sull’isola greca di Zante, allora parte
del territorio della Repubblica di Venezia.
Alla morte del padre la famiglia Foscolo si trasferisce a Venezia, dove Ugo
riceve un’educazione umanistica e si avvicina alla letteratura di Ossia, Parini,
Alfieri; qui incontra anche il primo amore, l’aristocratica Isabella Teotochi
Albrizzi, che lo introduce nel suo salotto letterario.
La vocazione letteraria lo porterà ad iscriversi all’Università di Padova, dove
frequenta le lezioni di Melchiorre Cesarotti (1730-1808) ed entrerà in contatto
con gli ideali democratici e giacobini.
L’esordio letterario arriva con la tragedia Tieste (1796), che però riceve la
fredda accoglienza del pubblico veneziano, sospettosa delle simpatie frencesi
di Foscolo.
I sospetti lo spingono a spostarsi a Bologna, dove assiste al precipitare degli
eventi e al tradimento napoleonico di Campoformio, che segnerà in maniera
irrimediabile la vita di Foscolo, passato a posizioni democratico-nazionaliste.
Assunta di fronte al mondo la figura di scrittore indipendente, egli continua
a presentarsi come ‘’figlio della Rivoluzione’’ e si arruola nell’esercito della
Repubblica Cisalpina, combattendo contro gli eserciti austro-russi.
Quelli del triennio giacobino sono per lui anni di attività politico-letteraria
frenetica, ma scanditi anche dalle numerose storie d’amore.
Amore e vocazione politico-letteraria si intrecciano nel romanzo epistolare
Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802, edizioni definitive nel 1816-1817), ispirato
dai Dolori del giovane Wether (1774) di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832).
Alla trama amorosa tra Jacopo e Teresa, che segue il modello goethiano,
l’autore aggiunge l’elemento politico, che rappresenta una notevole novità.
Il testo è una raccolta delle lettere del protagonista Jacopo, curata dal migliore
amico Lorenzo Alderani.
Jacopo, giovane veneziano di opinioni democratiche ricercato dagli Austriaci
dopo Campoformio, si innamora di Teresa (che lo ricambia), che però il padre
ha promesso al conservatore Odoardo.
Jacopo allora compie un viaggio per l’Italia, constatando le ingiustizie e le
contraddizioni dei nuovi governi repubblicani; al suo ritorno scopre che
Teresa ha sposato Odoardo, cosa che lo spinge a suicidarsi con una lama
come gli eroi dell’Antichità.
L’opera di Foscolo riesce ad andare oltre il canone neoclassico, riuscendo non
solo ad arrivare ad un pubblico più grande senza rinunciare al neoclassico
raggiungimento del sublime, ma anche a produrre uno scambio tra vita
(Teresa è ispirata dall’amata Antonietta Fagnani Arese) e letteratura.
Nella prosa dell’Ortis è possibile cogliere l’eco di poesie antiche e moderne,
della Bibbia, di Rousseau e anche di Ossian, che si combinano nel ‘’concerto di
dissonanze’’ prodotto da Foscolo attraverso periodi spezzati e disarmonici,
ellissi, esclamazioni e su quegli accostamenti paratattici usati dal Cesarotti
per tradurre la poesia primitiva di Ossian; presente, ma non troppo al fine di
non abbassare il livello letterario, il registro realistico.
Sul fronte politico il personaggio di Jacopo Ortis è una metafora della crisi
prodotta dal disvelamento delle illusioni rivoluzionarie e patriottiche, che
hanno fatto posto ad una hobbesiana lotta di tutti contro tutti.
In un mondo su cui non è possibile intervenire non resta che coltivare l’arte,
la letteratura, la bellezza e l’amicizia, che elevano l’uomo dalla squallida
realtà.
Alla fredda ragione si contrappongono le ‘’generose passioni’’: un tema,
quello della squalifica della razionalità a favore del sentimento, che diverrà
portante nel Romanticismo.
Foscolo però va anche a idealizzare il proprio ritratto attraverso Jacopo, la
cui esigenza di assolutà libertà si contrappone alla negatività del presente
storico e al conformismo dei privati (il matrimonio tra Teresa ed Odoardo).
L’Ortis è soprattutto il racconto dell’insanabile conflitto tra l’ingiustizia del
mondo e la nobiltà dell’eroe, che usa come gli antichi stoici il suicidio come
mezzo per affermarsi.
Il romanzo ottiene un successo davvero notevole, riuscendo ad andare oltre la
qualifica letteraria del genere.
Nel 1803 esce la raccolta di Poesie, dodici sonetti e due odi, caratterizzata dalla
ricerca di perfezione formale e dalla ripresa del modello di Parini, capace
però anche di dare nuova vita al repertorio mitologico neoclassico.
Nei Sonetti le figure del mito e gli echi dei poeti antichi si fondono con
l’espressione lirica dell’io e le sue vicissitudini biografiche ed esistenziali: il
suicidio del fratello, l’origine greca, l’esilio da Venezia.
Nei Discorsi introduttivi alla sua traduzione del poemetto ellenistico La chioma
di Berenice (del poeta alessandrino Callimaco, III secolo a.C.) Foscolo chiarisce
la propria poetica.
Rifacendosi allo storicismo vichiano egli spiega che a differenza della poesia
antica, non intaccata dalla ragione, la poesia dei moderni deve riuscire a
‘’colpire il cuore e la mente’’ con il meraviglioso tratto dalla mitologia greca, che
custodisce un patrimonio universale apprezzato e compreso da tutti.
Con il consolidarsi del potere napoleonico, Foscolo decide di tentare di nuovo
la carriera militare, senza però celebrare la cultura ufficiale come invece fa
Monti, con cui ha buoni rapporti.
Nel 1807 esce il carme Dei Sepolcri, la massima espressione della poetica
foscoliana.
Il carme nasce a partire dalla discussione con Ippolito Pindemonte (1753-
1828) sull’editto napoleonico che stabilisce l’impossibilità di seppellire i morti
dentro le città.
Il testo di Foscolo va oltre il semplice lamento elegiaco che caratterizza la
poesia sepolcrale tardosettecentesca di Thomas Gray ed Edward Young, per
aprire una riflessione etica e filosofica sul ruolo del culto dei morti.
Scritta in endecasillabi sciolti secondo l’uso classicista, il testo è caratterizzato
dalla difficoltà nella lettura, dovuta principalmente alla densità di significati.
Il carme è divisibile in quattro momenti:
2) Legame tra il culto dei morti e la nascita del legame sociale: alla tenebrosità
del culto cristiano-medievale della morte si contrappone la luminosità delle
tombe degli antichi e dei moderni (il ‘’perenne verde’’).
3) La funzione civile e politica delle tombe, che possono ispirare gli uomini
in vita alle grandi imprese; arriva la lode di Santa Croce a Firenze, dove sono
seppelliti i grandi italiani.
1) Nel primo si parla della nascita delle Grazie, voluta da Venere per placare
gli istinti bestiali degli uomini.
2) Un rito propiziatorio alle tre dee celebrato a Firenze da tre donne amiche
del poeta.
Nel testo di Foscolo si note un uso insistente dell’allegoria, come mezzo per
ricreare la bellezza assoluta dell’antico; si può parlare di una cosmogonia
poetica all’altezza di quelle eleborate dai vari Hölderlin, Goethe, Keats,
Shelley.
Al crollo dell’Impero Napoleonico Foscolo è tra colo che tentano di tenere in
vita il Regno d’Italia, motivo per cui le autorità austriche, desiderose di
ottenere il supporto degli intellettuali, gli offrono nel 1815 la direzione della
Biblioteca Italiana, che però Foscolo rifiuta.
Si reca allora dapprima in Svizzera ed in seguito in Inghilterra, a Londra: qui
gode di notevole fama, ma il suo comportamento estraneo ai codici della
nobiltà inglese gli rende del tutto impossibile integrarsi.
Anche il rapporto con gli altri esuli italiani e i letterati locali è molto difficile a
causa della sua dichiarata ostilità al Romanticismo; nel frattempo il suo stile
di vita lussuoso lo riduce velocemente in miseria.
Le condizioni avverse gli impediscono di lavorare con continuità alle Grazie e
alla traduzione dell’Iliade, cominciata in parallelo con Monti; più ampia è la
produzione in prosa.
Nelle Lettere scritte dall’ Inghilterra mette a confronto la civiltà inglese con
quella italiana, ma scrive anche saggi sulla letteratura italiana, su quella più
recente, su Dante, Petrarca, Boccaccio e sul poema cavalleresco.
La critica foscoliana risente senza dubbio dell’impostazione filosofica
mutuata da Vico e dai sensisti.
Dai sensisti ricava l’idea che la letteratura offra al lettore il ‘’piacere di
moltiplicare sensazioni ed idee’’; da Vico riprende invece la concezione storica
e antropologica della poesia, che lo conduce a collocare i vari autori entro il
loro tempo storico.
I saggi di Foscolo su Dante avranno nel corso dell’Ottocento particolare
fortuna, e anche i saggi sulla letteratura contemporanea rappresentano una
fonte notevole in quanto scritti da una persona a conoscenza dei meccanismi
del mondo letterario.
Da questi ultimi si ricavano ancora utili informazioni sulla geografia dei
centri culturali ed editoriali e sul rapporto tra il sistema dei generi e la
composizione sociale del pubblico.
Dopo la sua morte nel 1827, la figura di Foscolo assume un ruolo realmente
impressionante nell’immaginario delle generazioni risorgimentali, a tal punto
che nel 1871 i suoi resti sono traslati nella Chiesa di Santa Croce a Firenze.
Foscolo ottine così la canonizzazione laica da parte di quella religione civile
del patriottismo di cui si era fatto promotore e su cui l’Italia postunitaria
proverà a fondare la sua nuova identità collettiva.
2) LA SVOLTA ROMANTICA SOTTO LA
RESTAURAZIONE (1816-1840)
2. LA CULTURA ALL’OPPOSIZIONE
Dalla parte dei romantici si schiera anche il poeta dialettale Carlo Porta (1775-
1821), continuatore di quella lirica in dialetto milanese che nel Seicento e nel
Settecento si era opposta all’Arcadia e al Barocco.
Porta, borghese, trae i suoi riferimenti dai membri della classe media, dipinta
come pragmatica, disincantata e moderatamente egualitaria.
Nel 1816, al massimo della maturità artistica, disputa con Giordani, che aveva
stroncato il lavoro dialettale di Porta, colpevole di rendere più difficile la
formazione di una lingua italica.
Si tratta di una disputa linguistica, destinata a protrarsi anche in fase post-
unitaria, in cui a scontrarsi sono i dialetti, lingue ‘’municipali’’ e vive, e il
fiorentino arcaico, lingua più pura ma conosciuta solo dagli intellettuali.
Nei testi di Porta i personaggi sono spesso anche frati gaudenti e preti, di cui
vengono messi in scena i desideri carnali (sulla scia di Boccaccio e Voltaire) e
la dimensione fisica dei protagonisti.
Porta va in sostanza a rovesciare la morale perbenista, cosa che produce le
sequenze comiche e surreali.
Parallela a questo tipo di produzione esiste però una seconda traiettoria del
lavoro portiano (La Ninetta del Verzee, Lament del Marchionn di gamb avert), in
cui sono i popolani a narrare in prima persona la loro storia.
Porta restituisce così la parola agli umili, che attraverso il monologo parlano
la loro lingua piena di invettive, incongruenze sintattiche e intercalari.
Si tratta stavolta di una svolta radicale: la letteratura dando parola al popolo
gli restituisce dignità umana e spessore psicologico.
Quelle che il popolo racconta con grande ingenuità sono storie amare ma non
lacrimose, che portano il lettore ad immedesimarsi con gli aspetti più reali
della vita: sensualità, passione, sesso, lavoro bisogni economici.
All’opera di Porta si ispira il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-
1863), che parallelamente ad una pubblica attività come rimatore satirico,
conduce in forma semiclandestina l’attività di rimatore dialettale.
Di formazione illuminista ma reazionario a partire dal 1848, Belli non
pubblicò mai in vita la sua monumentale opera dialettale: i 2000 Sonetti in
romanesco, composti tra il 1830-1839 e il 1842-1847.
Come scrive nell’Introduzione, le sue poesie sono un ‘’monumento alla plebe di
Roma’’, ossia a quella che è la parte più umile della città, che si esprime con
vivacità in un lingua ‘’guasta e corrotta’’.
Il ‘’romanesco’’ è la lingua che il governo papale ha relegato all’ingnoranza e
alla miseria, per cui chi ne fa uso a mala pena conosce le parole italiane nella
loro forma corretta (filosofo diventa ‘’fisolofo’’).
Belli abbandona l’elemento narrativo di Porta, a cui preferisce forme teatrali
come monologhi e dialoghi, che gli permettono di dare alle sue poesie un
tono di spregiudicato realismo.
I Sonetti si presentano come una polifonia di prospettive differenti, alle quali
Belli decide di lasciare tutto lo spazio, relegando la sua voce in uno spazio del
tutto secondario per non dire minimo.
Il ‘’filo occulto’’ che lega i vari sonetti, come spiega Belli nell’Introduzione, sta
nel punto di osservazione dal basso, che fa saltare del tutto la prospettiva
della classe medio-alta del mondo.
La plebe di Belli vive in un mondo molto fisico, di cui i ‘’Siggnori’’ non
conoscono niente; un mondo senza tempo e che sembra non cambiare mai, in
quanto al suo vertice vi è da sempre il ‘’Visceddio’’ (il papa) che ‘’comanna e sse
ne frega’’.
Intorno al 1840 nelle nazioni più sviluppate d’Europa la crescita frenetica del
capitalismo industriale fa sì che i regimi assolutisti entrino in conflitto con la
borghesia imprenditoriale, attestata su posizioni liberali, e la nuova classe
sociale del proletariato industriale, che rivendica una radicale rivoluzione
sociale a partire dalle posizioni di espresse da Karl Marx (1818-1883) e
Friedrich Engels (1820-1895) ne Il manifesto del partito comunista (1848).
In Italia quest’ultimo dibattito resta sullo sfondo, in quanto gli intellettuali
sono impegnati nella discussione sull’unificazione.
Per Giuseppe Mazzini (1805-1872) essa deve avvenire in senso democratico e
sulla base di valori cristiani, condensati però con posizioni socialiste.
La nazione è per lui un patrimonio di memorie storiche/culturali a cui Dio ha
dato il compito di far progredire l’umanità; per questo sulla scia di Victor
Hugo elabora lo slogan ‘’Dio e patria’’.
Il sacerdote torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) sostiene nel suo Del
primato morale e civile degli Italiani (1843), stampato a Bruxelles per evitare la
censura, che data l’anima cattolica della penisola l’unico modo per arrivare
all’unificazione sia costituire una federazione con a capo il papa.
All’ipotesi neogulefa di Gioberti si oppone quella neoghibellina del nobile
piemontese Cesare Balbo (1789-1853) che ne Le speranze d’Italia (Parigi 1844)
adotta una posizione politicamente più realistica e propone la costituzione di
una federazione con al vertice la dinastia dei Savoia.
Per Carlo Cattaneo (1801-1869) l’unificazione deve invece avvenire nella
forma di una repubblica federale come in Svizzera e negli Stati Uniti, per lui il
capitalismo liberale è il motore per sviluppare una società in cui gli interessi
conflittuali vanno moderati giuridicamente.
Il napoletano Carlo Pisacane (1818-1857) si attesta su posizioni socialiste e
afferma che l’unità dovrebbe essere raggiunta tramite un esercito popolare
rivoluzionario che instauri un ordinamento sociale egualitario.
Nel decennio 1840-1850 molte insurrezioni mazziniane falliscono, tuttavia
l’elezione del papa liberale Pio IX (1846-1878) e i moti del 1848-1849 aprono
nuove possibilità.
Nel 1848 Carlo Alberto di Savoia (1831-1849) dichiara guerra all’Austria: egli
conquista la Lombardia, ma nel 1848 viene sconfitto a Custoza e nel 1849 a
Novara: la Prima Guerra d’Indipendenza finisce con la sua abdicazione e il
ritorno ad un clima repressivo in tutta la pensiola.
Solo in Piemonte il nuovo re Vittorio Emanuele II (1849-1878) mantiene la
costituzione: egli affida al conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861) il
compito di modernizzare lo Stato.
Cavour ottine l’alleanza della Francia di Napoleone III, decisiva per la vittoria
nella Seconda Guerra d’Indipendenza (1859), durante la quale è presa la
Lombardia e in seguito tramite plebisciti sono annesse anche Toscana ed
Emilia-Romagna.
Nel 1860 la spedizione di volontari democratici al comando del generale
Giuseppe Garibaldi (1807-1882) porta alla conquista di tutto il Regno delle
Due Sicilie: Cavour invia l’esercito regolare a conquistare Marche e Umbria.
Il 17 Marzo 1861 nasce ufficialmente il Regno d’Italia, che comprende tutta la
penisola ad eccezione del Lazio, rimasto al papa, e dell’area veneta, dominata
dall’Austria.
Nel corso della stagione del Risorgimento tutti gli intellettuali sono coinvolti
direttamente nella lotta politica: l’intellettuale-militante si afferma portando
lui stesso avanti il dibattio politico e civile, prendendo a propria volta parte ai
moti risorgimentali, in cui molti perdono la vita/sono esiliati o imprigionati.
Nelle città questo fervento fa sì che torni in voga il giornalismo politico, cosa
che determina un’espansione del pubblico che spinge le piccole aziende
librarie a divenire delle grandi società editrici.
La svolta parte dagli Stati più liberali, quindi il Regno di Sardegna (Torino) e
dal Granduca di Toscana (Firenze).
Dopo il 1848 la Torino di Cavour diviene il centro culturale più importante
della penisola, dove fluiscono moltissimi intellettuali attirati dall’industria
editoriale e dal Parlamento.
A Milano sorgono le più iniziative culturali contro il governo austriaco; si
segnale il Politecnico (1839-1844, 1859-1866) fondato da Carlo Cattaneo, che
propugna una cultura laica e razionalista, presentando ai lettori le nuove
pratiche della scienza e gli sviluppi negli studi umanistici.
Cattaneo aggiorna il classicismo laico di Giordani e Leopardi proponendo
una lingua comunicativa che sintetizza i diversi filoni linguistici della
tradizione letteraria nazionale, andando dunque ad indicare una proposta
alternativa a quella di Manzoni.
Vicino a Cattaneo è Carlo Tenca (1816-1883), che fonda il Crepuscolo (1850-
1859), che propone una linea patriottico-liberale e propone una critica
militante.
Tra i saggi di Tenca si deve segnalare Delle condizioni della oderna letteratura in
Italia (1846), uno dei primi tentativi in Italia di una critica sociologica della
letteratura.
3. SVILUPPI E CRISI DELLE PROPOSTE ROMANTICHE
1. COSTRUIRE LA NAZIONE
I primi governi del Regno d’Italia, con Cavour e la Destra Storica, cercando
di completare l’unificazione della penisola: nel 1864 la capitale è trasferita a
Firenze per avvicinarsi a Roma; nel 1866 l’Italia, alleata della Prussia, dichiara
guerra all’Austria: è la Terza Guerra d’Indipendenza, in cui l’esercito italiano
è sconfitto, ma le vittorie prussiane fanno sì che sia preso il Veneto; la guerra
franco-prussiana del 1870 permette invece all’Italia di prendere Roma.
La conquista della città crea una frattura netta con il mondo clericale: Pio IX
scomunica i re d’Italia e vieta ai fedeli di partecipare alla vita politica dello
Stato (‘’Non expedit’’).
La borghesia reagisce aderendo alla massoneria, che fa propaganda anti-
clericale e repubblicana; nel frattempo il governo elimina i dazi e unifica le
leggi, che però sfavoriscono il Sud, rurale e poco industriale.
Si pone il problema del ‘’fare gli Italiani’’, ossia di creare un’identità
nazionale; problema non da poco a causa dell’enorme tasso di analfabetismo,
combattuto introducendo l’istruzione pubblica a carico dello Stato.
Il dibattito sulla lingua diventa problema istituzionale: il governo crea una
commissione, presieduta da Manzoni, che arriverà a produrre un testo
(Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla), in cui si ripropone il modello
del fiorentino contemporaneo, cosa che trasforma i Promessi Sposi nel punto di
riferimento per la lingua scolastica.
Nel 1876 il governo passa alla Sinistra Storica di Agostino de Pretis (1813-
1887), che si allea con la Destra nel 1882 (politica del ‘’trasformismo’’),
coinvolta nel processo di creazione di una religione laica dello Stato.
A questa viene educata la borghesia urbana, ormai classe dirigente della
nazione, che si dota di una propria identità culturale basata su patriottismo,
laicità e paternalismo verso il proletariato.
Dura la vira dei contadini, che a causa delle crisi del mondo rurale, sono
spinti all’inurbamento, contribuendo all’aumento di popolarità di anarchici e
socialisti.
2. GLI SCRITTORI CONTRO IL MERCATO: LA BOHÈME, L’ARTE PER
L’ARTE, IL NATURALISMO
Per scelta al di fuori del mondo universitario, gli scapigliati portarono avanti
una rivolta letteraria e culturale contro lo stile di vita e la mentalità borghese.
Ispirato come tutti gli scapigliati da Baudelaire, Emilio Praga (1839-1875) è
autore della raccolta poetica Penombre (1864), in cui descrive il senso di
smarrimento storico attraverso una ‘’violenza blasfema’’ alle due maggiori
istituzioni culturali del tempo: Manzoni e la religione, aggredita tramite
elementi satanici.
Con Praga entrano anche nella poesia italiana elementi provenienti
dall’ambito del brutto, del macabro e del grottesco.
Un passo in avanti rispetto al lavoro di Praga venne fatto dall’amico Arrigo
Boito (1842-1918), poeta e musicista che lavora a diversi libretti d’opera usati
da Verdi.
La trasizione bohémiene è molto più decisa nell’opera di Boito rispetto a quella
di Praga, rispetto al quale arricchisce la gamma delle provocazioni e delle
rime dissacranti.
L’assoluto dominatore della scena poetica negli ultimi trent’anni del secolo è
però senza dubbio Giosuè Carducci (1835-1907), il cui successo è dovuto: sia
alla sintonia tra produzione letteraria e immaginario della classe dirigente; sia
alla convergenza tra la sua figura di professore-vate e le esigenze culturali
della nuova Italia.
Il merito di Carducci è quello di aver restaurato gli antichi istituti letterari e di
aver rilanciato un’etica borghese legata alla religione laica del patriottismo.
Carducci si forma in Toscana negli anni delle rivolte risorgimentali, a cui però
non partecipa, concentrandosi sullo studio filologico-erudito della letteratura
italiana.
In quegli anni la poesia è dominata dal gusto sentimentale e spirituale di
Prati, a cui però Carducci, da laico e democratico radicale, si sente estraneo;
ciò lo spinge a recuperare il materialismo di Giordani e Leopardi nelle Rime
(1857).
Nel 1860 il primo governo unitario lo nomina professore di eloquenza presso
l’Università di Bologna, dove rimane per il resto della sua vita.
Ispirato dall’ambiente democratico-repubblicano della Seconda Repubblica,
in questi anni divine mazziniano e aderisce alla massoneria, divenendo un
fervente anticlericale.
I testi di questo periodo, inizialmente confluiti nei Levia Gravia (1868) e nelle
Poesie (1871), trovano collocazione definitiva nei Levia Gravia e Giambi ed Epodi
(1882), caratterizzati da una retorica classicista.
In questa raccolta Carducci riesce a realizzare un nuovo genere di poesia
civile, che trae la propria bellezza dal patrimonio culturale/ideale della
nazione.
Carducci si fa portavoce della razionalità laica e materialista del progresso
sociale, ma allo stesso tempo attacca il Cristianesimo e rievoca i grandi
episodi storici, letti in chiave mazziniana/massonica come tappe del grande
percorso umano nella lotta contro tirannia ed oscurantismo.
Nel 1879 una storia extraconiugale gli permette di ravvivare la propria vita
privata, devastata dalla morte del figlio Dante nel 1879; nel frattempo si lega
agli ambienti della Sinistra Storica e soprattutto si avvicina alla monarchia,
divenendo così il ‘’vate’’ della nazione.
Anche in ambito letterario emergono novità , in primis l’adesione ad una
poetica dell’arte pura ispirata dal movimento parnassiano.
Ora Carducci si propone di comporre una poesia ‘’oggettiva’’, in grando di
riprodurre l’armonia e la perfezione degli antichi e immune dal
sentimentalismo romantico.
Questo rinnovato classicismo si tramuta nella raccolta delle Odi barbare
(1887), dove Carducci attinge alla metrica del Rinascimento, che a sua volta
poggiava sulla metrica quantitativa antica.
Influenzato dalle grandi scoperte archeologiche del tempo, il poeta toscano fa
risuonare nella lingua e negli spazi dei moderni (come la ferrovia) la perduta
musica della poesia greco-latina, creando un ordine e delle sonorità nuove.
Il nome ‘’odi’’ è un richiamo alla raccolta del più grande poeta latino, Orazio
(65 a.C.-8 a.C.), a cui si richiama anche riprendendo il nome dell’amata: Lidia.
Nel testo emerge chiaramente una concezione aristocratica della poesia, in
questo caso mutuata da Leopardi.
Si afferma in conclusione un classicismo estitico-etico, che adora in chiave
neo-pagana la vitalità della natura, i concreti piaceri della vita, la luce e
l’amore per Lidia.
Il poeta-vate parla così ai contemporanei, offrendo loro un neopaganesimo
idealizzato, fatto di patriottismo, di un ethos laico e di autocontrollo razionale
da contrapporre alla crisi scapigliata e alla morale cristiana.
Sul versante politico recupera la grandezza della Roma antica per costruire il
mito nazionalista dell’Italia come l’erede del prestigio e del dominio romano.
Le Odi barbare hanno un successo enorme proprio presso la borghesia, anche
per la familiarità di questa con la poesia classica.
Anche nelle successiva Rime nuove Carducci si sforza di esprimere sentimenti
intimi in modo oggettivo: nel Pianto antico, componimento per la morte del
figlio Dante, non usa mai la parola ‘’io’’ e per rendere il dolore utilizza la
metafora dell’albero prosciugato dalla linfa vitale: ‘’mia pianta/percossa e
inaridita’’.
Le Rime nuove esplorano le moderne misure romanze della rima e del verso,
ma attraverso la stessa matrice patriottica e parnassiana delle Odi barbare; il
richiamo a vicende epiche/antiche serve invece a compensare l’assenza di un
patrimonio epico medievale italiano.
Carducci si presenta in sostanza come l’assoluto dominatore del mondo
letterario italiano e autore culminante della tradizione letteraria nazionale; la
nomina a senatore nel 1890 va letta come un riconoscimento del prestigio e
come il segno dell’adesione alla politica reazionaria di Crispi.
Nel 1906 riceve anche il premio Nobel, ma a quest’altezza egli è ormai il
simbolo di un mondo scomparso.
L’industria editoriale punta ormai sempre più sul romanzo, che apre agli
autori italiani un mercato immenso, fino ad allora dominato da autori inglesi
e francesi.
La figura del romanziere va sempre più professionalizzandosi: si svecchia lo
stile, la sintassi diventa semplice e scorrevole, si punta sulle avvenuture e su
elementi esotici o fantastici per compiacere tutti i vari gusti.
La narrativa di consumo si sgancia così sempre di più da quella più
ambiziosa a livello letterario; si è più volte parlato dello straordinario
successo dei romanzi d’appendice.
Sulla scia del romanzo di Sue I misteri di Parigi (1843), si scrivono sempre più
storie macabre di delitti ambientate nei bassifondi delle grandi metropoli.
I lettori borghesi preferiscono invece romanzi mondani caratterizzati da un
moderato realismo, e che spesso hanno come fulcro degli amori impossibili
dell’alta società; temi frequenti sono donne fatali, storie d’adulterio,
corruzione, speculazioni finanziarie.
La crescita dell’alfabetizzazione femminile fa sì che anche le donne entrino
nell’industria editoriale come romanziere e come lettrici; a queste ultime
sono loro dedicate racconti edificanti e il nuovo genere del romanzo rosa.
Le scrittrici narrano invece la condizione più realistica, ritraendo protagoniste
costrette a fare i conti con il codice culturale del tempo che le vuole madri
pronte a sopportare qualsiasi cosa per la famiglia.
Anche bambini e adolescenti divengono parte del pubblico: nasce infatti la
narrativa per l’infanzia, che coniuga divertimento ed intento educativo.
Il romanzo Cuore (1886) di Edmondo di Amicis (1846-1908) diviene il vero
best seller del proprio tempo, divendo il romanzo giovanile per eccellenza per
diverse generazioni di Italiani.
Il romanzo segue un anno di una classe di scuola elementare a Torino, nella
quale confluiscono bambini e personaggi provenienti da tutte le classi
sociali, alle quali è rivolto l’invito ad adottare un comportamento umanitario,
di collaborazione, patriottico, orientato al lavoro e al sacrificio (secondo i
principi dell’etica borghese).
L’altro capolavoro per ragazzi di quest’epoca è Le avventure di Pinocchio (1883)
del fiorentino Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, 1826-1890).
Nel testo si coniugano elementi fiabeschi all’anarchica vogli di libertà dei
bambini, legati però assieme da una macrostruttura narrativa che si attiene ad
un progetto educativo: i tratta di un’inedita sintesi tra il genere adulto e
realistico dei romanzi di formazione, con l’elemento fantastico della favola
(fate, orchi, esseri antropomorfi).
L’opera diventa un capolavoro involontario, che all’epoca ebbe meno
successo di Cuore, ma divenendo in seguito una delle favole per ragazzi più
amata di sempre.
Ciò è dovuto soprattutto alla fusione di motivi romanzeschi, situazioni della
gothic novel, del mito biblico (la balena), della leggenda popolare (il Paese dei
Balocchi), i miti classici (le metamorfosi).
Questo però non offusca lo sguardo crudemente realistico sulla vita sociale
contemporanea: Pinocchio vive la miseria, la fame e i soprusi delle autorità.
Tuttavia le sue peripezie, anche nei momenti più drammatici, non risultano
mai lacrimose in quanto a prevalere è sempre la gioiosa voglia di divertirsi
tipica della mentalità ribelle dei bambini e la loro distanza dal mondo degli
adulti.
7. L’ARTE DEL ROMANZO: GLI SCAPIGLIATI, DOSSI, I VERISTI
Nel 1887 sale al governo il leader della Sinistra Francesco Crispi (1818-1901),
che domina la scena politica per un decennio.
Gli ultimi quindic’anni dell’Ottocento fanno emergere tutte le contraddizioni
dell’epoca post-unitaria, precipitando il paese nella ‘’crisi di fine secolo’’.
La crescita demografica italiana si scontra con un’economia stagnante, con la
miseria dei contadini, costretti ad emigrare.
La massiccia scolarizzazione e l’allargamento sel suffragio ha immerso nel
sistema politico nuovi cittadini, desiderosi di allargare i loro diritti: si
diffondono così i sindacati e viene fondato il Partito Socialista Italiano (PSI),
in cui convivono i ‘’riformisti’’, sostenitori della lotta parlamentare, e i
‘’massimalisti’’, fautori della rivoluzione; sempre in questa stagione si
diffonde notevolmente l’anarchismo.
Anche la Chiesa prende posizione: con l’enciclica Rerum Novarum (1891) papa
Leone XIII (1878-1903) critica le ingiustizie del capitalismo e condanna i
socialisti; nascono così cooperative e associazioni cattoliche.
Il sacerdote marchigiano Romolo Murri (1870-1944), dirigente di una di
queste organizzazioni cattoliche, punta ad una democratizzazione della
società italiana secondo principi cristiani.
Le sue posizioni si allineano a quelle dei cristiani ‘’modernisti’’, che cercano
di coinciliare teologia cristiana e scienza; nel 1903 questi vengono condannati
dal nuovo papa Pio X (1903-1914).
In questi anni emerge la figura dell’intellettuale polemista, capace di
orientare il dibattito politico-culturale attraverso formule e provocazioni
tipiche del giornalismo.
La maggior parte di questi adotta posizioni ultra-conservatrici, ostili alla
massa incolta e alle sue rivendicazioni sociali e fautori di un nuovo tipo di
patriottismo: il nazionalismo, che li porta ad identificare lo Stato come un
organismo che per sopravvivere è costretto a cercare potenza ed espansione.
Crispi, pressato da socialisti e nazionalisti, opta per una via autoritaria che
assecondi entrambi: cerca di favorire la colonizzazione e di accrescere il
prestigio internazionale del paese sostenendo l’imperialismo coloniale in
Africa.
Gli Italiani sono però sconfitti dagli Abissini nella battaglia di Adua (1896),
che costa il governo a Crispi, costretto a dimettersi; l’umiliazione subita non
fa altro che alimentare il sentimento imperialista e autoritario dei nazionalisti.
L’apice della crisi è toccato con il triennio 1898-1900, quando si susseguono la
rivolta di Milano (1898) contro il rincaro sul prezzo del pane e l’assassinio
del re Umberto I (1878-1900) compiuto a Monza dall’anarchico Gaetano
Bresci (1869-1901).
Il nuovo re Vittorio Emanuele III (1900-1946) promette di ripristinare la pace
interna, affidando il compito al liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), che
promuove il compromesso tra le parti sociali e coinvolge nella gestione dello
Stato i socialisti e i cattolici.
Molti intellettuali reagiscono alla crisi di fine secolo mettendo sotto accusa la
cultura positivista, a cui viene opposta la teoria della decadenza, capace di
rappresentare al meglio le angosce di ceti medi ed élites di fronte alle nuove
rivendicazioni socialiste.
Il nuovo clima favorisce la rivalutazione dello spiritualismo d’epoca
romantica, e allo stesso tempo il mondo artistico-letterario viene investito da
una comune inclinazione all’estetismo, dal frequente tema della decadenza e
il richiamo ai procedimenti stilistici del simbolismo francese.
Con ‘’estetismo’’ si intende la propensione ad estremizzare l’ideale
parnassiano di ‘’arte per l’arte’’: il culto del bello diviene il valore supremo di
un fenomeno di costume, rappresentato dall’eccentrica figura del ‘’dandy’’,
che modella la propria vita come un’opera d’arte.
Il gusto decadente si rifà alle poetiche di Baudelaire e Flaubert, proponendo
una bellezza bizzarra e corrotta dal cruciale elemento del vizio, presentato
spesso sotto forma di erotismo raffinato e perverso.
Letteratura e arti figurative rievocano lo sfarzo, il culto del piacere e la
corruzione morale dei grandi imperi decadenti: Roma, Costantinopoli,
Alessandria.
In opposizione al primato parnassiano dell’oggettività personale però, si
impone in questi anni l’esigenza dell’unicità della vita interiore attraverso
un linguaggio inafferrabile.
In Inghilterra il punto di partenza del nuovo ideale estetista è da collocare nel
gruppo letterario-artistico costituitosi attorno al poeta/pittore Dante Gabriel
Rossetti (1828-1882), che si richiama al Medioevo e al Quattrocento italiano.
Nel 1848 egli fonda la ‘’Fratellanza Preraffaelita’’, che eleva a posizione
egemone l’epoca pre-rinascimentale, facendo così emergere atmosfere
rarefatte e sognanti, ricche di dettagli raffinati e preziosi.
Il poeta Algernon Charles Swinburne (1837-1909) innesta l’ideale di bellezza
femminile prerafaellita sull’immaginario erotico braudeliana, creando così la
figura della donna fatale, luogo comune della letteratura di quest’epoca.
A Walter Pater (1839-1894) si deve invece attribuire l’elaborazione di una
teoria dell’estetismo, che crea un canone estetico, che da Platone va ai quadri
di Leonardo da Vinci.
Nella Germania del secondo Ottocento si impone invece l’irrazionalismo, che
fiorisce in ambito filosofico-musicale, in primo luogo grazie al recupero
dell’opera di Arthur Schopenauer (1788-1860), soprattutto Il mondo come
volontà e rappresentazione (1819).
Schopenauer presenta un mondo dominato dall’incosciente impulso vitate
della ‘’Volontà di vivere’’, che spinge uomini e animali a conservarsi in vita
ricercando il piacere, che però non viene mai soddisfatto.
Il filosofo tedesco individua nell’arte, ma soprattutto nella musica, il mezzo
privilegiato per liberarsi dalle pulsioni della Volontà di vivere, che è del tutto
indifferente alla sofferenza causata all’uomo dal mancato soddisfacimento dei
propri piaceri.
Il pensiero di Schopenauer, schiacciato da quello del contemporaneo Hegel,
influenza il lavoro di Richard Wagner (1813-1883), che espone la propria
poetica ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849).
Il compositore tedesco sogna di restituire alla musica quel valore ‘’sacra’’ che
aveva nella tragedia greca: progetta così una ‘’opera d’arte totale’’, capace di
unire parole, musica e azione drammatica.
L’obiettivo del teatro wagneriano è quello di muovere le emozioni degli
spettatori, ponendoli in comunione con il mito.
Questo risultato è perseguito con la tetralogia L’anello del Nibelungo (1854-
1872), in cui Wagner fonde il canto degli spettatori e la sinfonia dell’orchestra
in un unico impasto sonoro da cui emergono i ‘’Leitmotiv’’ (‘’motivi
conduttori’’), che devono imprimere delle atmosfere emotive nella memoria
degli spettatori.
Il fascino di Wagner e Schopenauer conquista anche Friedrich Nietzsche
(1844-1900), filologo e filosofo che nella Nascita della tragedia (1872) propone
una modalità rivoluzionaria di concepire la tragedia greca, concepita come la
perfetta sintesi tra la perfezione classica e armonica dell’apollineo e
l’incomprensibile forza del dionisiaco (ossia ‘’gioia, dolore e conoscenza’’).
Nietzsche propone così una visione di grecità totalemente opposta a quella
allora dominante (elaborata dal Wilamowitz), basata sulla compresenza di
pulsioni antitetiche: armonia e disordinatà vitalità/ebrezza.
In seguito però Nietzsche si allontana da Schopenauer e Wagner, per arrivare
ad una critica delle ‘’illusioni’’ artistiche, religiose e filosofiche su cui si
basano i valori etici della civiltà occidentale.
In Così parlo Zarathustra (1885) e nella Genealogia della morale (1887) il filosofo
tedesco parte dalla posizione della ‘’morte di Dio’’ per affermare la caduta dei
valori della religione, abbattuti dalla razionalità scientifica del positivismo
scientifico, che però è essa stessa un’illusione.
Vivere senza i valori morali della religione significa accettare l’eterna
ripetizione dei propri atti, andando al di là dei limiti umani e trasformandosi
così in un ‘’Ubermensch’’ (‘’oltre uomo’’), capace di imporre sugli altri la
propria ‘’volontà di potenza’’, ossia una tensione all’affermazione del se’ e al
possesso.
A fine secolo Nietzsche diviene una leggenda vivente in Europa, e alla sua
morte le sue teorie, purtroppo spesso stravolte ed estremizzate, divengono
strumenti ideologici impiegati in polemiche antipositiviste e antiliberali.
In Francia è attiva invece una nuova generazione di poeti capace di portare
all’estremo le posizioni di Baudelaire.
Il primo e più radicale di questi innovatori è Arthur Rimbaud (1854-1891),
secondo cui chi crea non è realmente consapevole di se’, motivo per cui è
necessario diventare ‘’veggente’’ attraverso un sregolamento di tutti i sensi.
Il viaggio nell’irrazionale e nel proibito è basato sulla capacità del veggente di
attingere a ‘’visioni’’ che trascendono la realtà; ciò è reso nella lingua
attraverso un ricorrente uso della sinestesia.
Quella di Rimbaud è una poesia basata su sensazioni, stati d’animo e
percezioni che si associano liberamente in una poesia dotata di grande potere
evocativo.
La sua opera, nota a pochissimi, viene valorizzata dall’amico-amante Paul
Verlaine (1844-1896), che contribuirà a sua volta alla trasformazione del
linguaggio poetico ottocentesco, sempre più legato all’indefinitezza della
musica.
La sua raccolta Romanze senza parole (1874) si oppone allo stile parnassiano e
adotta registri confidenziali e dimessi e descrivono oggetti e e situazioni
quotidiane, esprimendo in prima persona affetti ingenui, il languore della
decadenza e sfumature.
Con Stéphane Mallarmé (1842) questa ricerca di una nuova lingua poetica
raggiunge livelli nuovi.
Nelle sue poche e complesse liriche Mallarmé aspira ad una lingua suprema,
che si allontani dalla lingua indegna della quotidianità e superi la normale
connessione tra suono e significato.
Per Mallarmé la poesia deve abbandonare l’esattezza parnassiana e ricercare
il ‘’senso misterioso dell’esistenza’’, una suggestione percorsa tramite il
‘’simbolo’’, non interpretabile tramite un codice predefinito, ma perché e
scelto arbitrariamente in base alle idee/sensazioni suscitate.
Nel 1883, con la raccolta I poeti maledetti (1883), Verlaine valorizza la radicale
della poesia sua, di Mallarmé e Rimbaud, creando così una letteratura
d’avanguardia, a cui si adeguano anche gli altri generi.
Joris-Karl Huysmans (1848-1907) scrive il romanzo manifesto A rebours (noto
in italiano con il titolo di Controcorrente, 1884), in cui racconta la vicenda di un
dandy esteta e decadente, Jean des Esseintes.
La mescolanza di estetismo inclusivo e misticismo si accorda perfettamente
alla rinascita spiritualista in atto nelle classi medio-alte.
La ricerca permanente di novità ed esigenza di differenziazione portano però
i principali scrittori a differenziarsi in vari gruppi: