G. Verdi

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GIUSEPPE VERDI

LA VITA
Compositore italiano (Roncole di Busseto, od. Roncole Verdi, Parma,
10 X 1813 - Milano, 27 I 1901).

Il villaggio delle Roncole, a 7 km dal comune di Busseto, oggi in


provincia di Parma, apparteneva al dipartimento del Taro, soggetto al
governo francese, quando Giuseppe Verdi vi nacque, primogenito di
Carlo, e di Luigia Uttini. Dopo il crollo dell'impero napoleonico quei
paesi si trovarono inseriti nel ducato di Parma, assegnato alla vedova di
Napoleone, Maria Luisa d'Austria: in realtà, un protettorato, sottoposto
all'influenza dominante del governo austriaco nel Lombardo-Veneto, sia
in campo politico sia in campo economico e culturale.
I genitori di Verdi erano povera gente: gestivano una piccola osteria alla
quale era annesso un negozietto d'alimentari e generi vari, per i quali si
rifornivano presso un grossista di Busseto, A. Barezzi, ricco
commerciante e distillatore di liquori, presidente della Società
filarmonica della cittadina, fanatico di musica, come spesso avviene in
quella fertile pianura della bassa Lombardia ai confini con l'Emilia, e
buon dilettante di strumenti a fiato.
Alcune leggende sull'infanzia di Verdi tendono provarne l'alta
predestinazione. La sua vita sarebbe stata salvata dalla madre, che col
bimbo in braccio si rifugiò accortamente nel campanile quando le truppe
del generale Suvaroff passarono attraverso il paese, inseguendo i francesi
in ritirata e seminando strage e massacri.
Un prete che aveva redarguito il piccolo Giuseppe, distrattosi nel servir
messa, e con un urtone sgarbato l'aveva fatto ruzzolare sui gradini
dall'altare, ne avrebbe ricevuto una colorita maledizione dialettale ("Dio
t'manda na sajetta").
Pochi anni dopo un fulmine caduto sulla chiesa uccise questo prete e
altre cinque persone. Di qui - sostengono alcuni - il tremendo peso che ha
sempre la maledizione nella drammaturgia verdiana (si pensi, per
esempio, a Rigoletto e Simon Boccanegra). Quasi a consolazione del
torto subito in quell'occasione fu esaudito il vivissimo desiderio del
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bambino di potersi applicare alla musica, e gli venne comperata una
vecchia e malandata spinetta.
Leggenda non è che l'accordatore chiamato a ripararla, certo S.
Cavalletti, ammirato per "la buona disposizione che ha il giovanetto
Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento", non volle
compenso alcuno per il suo lavoro e ne lasciò testimonianza in un
cartello appiccicato all'interno della spinetta: quale oggi si conserva nella
Casa di riposo per musicisti fondata da Verdi a Milano nel 1899.
Nella chiesa delle Roncole Verdi faceva pratica col vecchio organista
Baistrocchi, che ben presto sostituì nelle funzioni domenicali, anche
quando A. Barezzi, vivamente interessato alla disposizione musicale del
bambino, ebbe persuaso i genitori a metterlo in pensione a Busseto,
perché studiasse la musica col maestro F. Provesi, maestro di cappella
del Duomo e capo della banda municipale, e le altre discipline col
canonico Seletti.

LA CASA NATALE

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Ben presto il Provesi dichiarò, come già il Baistrocchi, che Verdi non
aveva più nulla da imparare, ed allora il Barezzi ottenne per lui una borsa
di studio dal Monte di Pietà perché andasse a perfezionare gli studi a
Milano.
Nel conservatorio di questa città Verdi non fu accolto perché, a 19 anni,
superava largamente l'età massima d’ammissione, e pare che nella prova
di pianoforte non avesse dimostrato qualità eccezionali, tali da
giustificare un'eccezione al regolamento.
Si mise perciò a studio privato presso un buon maestro, V. Lavigna, che
l'istruì nell'armonia, contrappunto e fuga. A 20 anni ebbe occasione di
distinguersi dirigendo un'esecuzione della Creazione di Haydn presso un
circolo di dilettanti milanesi: sostituì all'improvviso un direttore assente,
e si disimpegnò brillantemente, stringendo utili relazioni nell'ambiente
dell'alta borghesia.
Disgraziatamente la morte di Provesi (1833) lo costrinse a rientrare a
Busseto per succedergli nella direzione della banda municipale e
nell'insegnamento della musica presso la Società filarmonica. Invece non
ottenne il posto d’organista, perché la protezione del liberale Barezzi lo
poneva in luce di sovversivo agli occhi della parrocchia.
La città fu divisa da una vera e propria guerra civile tra i verdiani e i
sostenitori di G. Ferrari, l'organista prescelto dal Duomo. Coinvolto in
una rete di meschine piccolezze provinciali, Verdi ingannava il tedio
musicando un libretto d'opera che aveva portato con sé da Milano:
secondo ogni probabilità Rochester, di certo A. Piazza, che più tardi,
trasformato su suggerimento dell'impresario Merelli e con intervento del
poeta T. Solera, divenne la sua prima opera, Oberto, conte di San
Bonifacio. Nel 1836 sposò Margherita Barezzi, figlia del suo protettore,
dopo aver vinto a Parma il concorso per il posto di maestro di musica nel
comune di Busseto.
Scaduto il triennio, ed avendo tentato invano di piazzare l'opera ormai
terminata al Teatro Ducale di Parma, si trasferì a Milano (1839) con la
moglie ed il figlio Icilio; la primogenita, Virginia, era morta in
tenerissima età a Busseto. Grazie alle relazioni che Verdi aveva stretto
con gli ambienti musicali dell'alta borghesia milanese, Oberto, conte di
San Bonifacio venne accolto alla Scala per alcune recite di beneficenza,
ma la malattia del tenore Moriani durante le prove ne impedì la
rappresentazione.
L'impresario B. Merelli, colpito dalla buona impressione che l'opera

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aveva prodotto sui cantanti, assunse Oberto, conte di San Bonifacio e lo
fece rappresentare alla Scala (17 XI 1839), dove ebbe un buon
successo. Di conseguenza l'impresario offrì a Verdi un contratto per due
opere comiche ed una seria. Accintosi a musicare il vecchio libretto
buffo di F. Romani Il finto Stanislao, ribattezzato Un giorno di regno ,
Verdi, cui era morto il secondogenito poco prima della rappresentazione
di Oberto, conte di San Bonifacio, fu colpito da un nuovo lutto: il 18 VI
1840 Margherita Barezzi fu stroncata da una violenta encefalite. Non è
da stupire che un’opera buffa composta in tali circostanze non riuscisse
felicemente. Un giorno di regno crollò malamente alla Scala (5 IX
1840) e Verdi attraversò una crisi di scoraggiamento.
Tuttavia non gli venne meno la fiducia di Merelli che lo persuase ad
esaminare un libretto di T. Solera, Nabucco. Verdi ne fu conquistato e
dopo qualche riluttanza accettò di musicarlo. L'opera trionfò alla Scala (9
III 1842), e il coro famoso degli Ebrei in esilio, “Va', pensiero, sull'ali
dorate......", segnò il primo di quegli incontri incendiari tra il genio
melodico di Verdi e le speranze nazionali d'Italia, che dovevano fare di
lui il maestro del Risorgimento italiano.

LA CAMERA DA LETTO

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Negli anni che seguirono Verdi cercò accanitamente il successo, con
tenace e realistica praticità. Una meta ben precisa si presentava in quel
tempo al suo felice esordio: contendere, e possibilmente strappare a
Donizetti il primato operistico nazionale.
Per raggiungere questo scopo era necessario farsi conoscere ovunque,
esser presente su tutte le piazze teatrali, e pertanto occorreva produrre
moltissimo. Verdi si buttò a testa bassa nella conquista del successo: dirà
più tardi che questi furono i suoi "anni di galera", e non è da stupire che
spesso, in queste circostanze, le preoccupazioni artistiche fossero
soverchiate da quelle commerciali.
Il successo di Nabucco venne subito ribadito con un'opera che ne
ripeteva lo schema grandiosamente corale e collettivo, in parte ispirato
alle grandi opere serie rossiniane: furono I Lombardi alla prima crociata
(1843), su libretto che Solera trasse abilmente dal fortunato poema del
Grossi.
I sentimenti nazionali, e perfino municipali, che in Nabucco erano
esplosi per una fiammata spontanea, venivano esplicitamente lusingati
nella scelta di questo soggetto.
Il coro che tanto entusiasmo aveva destato in Nabucco otteneva qui una
replica puntuale con il coro dei crociati lombardi che, torturati dalla sete
nel deserto palestinese, sognano i verdi prati e le dolci colline della terra
natia. Tuttavia non era possibile continuare a ripetere indefinitamente la
formula di quest'opera collettiva, che assorbe il dramma individuale dei
personaggi in un grandioso urto di popoli: tra l'altro per ragioni pratiche,
perché si trattava d'opere costose e di difficile realizzazione, e poco
avrebbero potuto circolare fuori dei grandi teatri. (Si dice che per
Nabucco si fosse reso necessario aumentare l'organico del coro, e
rifiutandosi l'impresario, Verdi se ne fosse addossato la spesa.)
Da questo tipo d'opera, che risaliva a Mosè di Rossini, Verdi fece perciò
ritorno verso un'opera a personaggi, con trame individualistiche.
Era in sostanza lo stampo del melodramma tragico di Donizetti, ma fin
da Oberto, conte di San Bonifacio Verdi aveva mostrato di sapervi
portare un colorito cupo d'intensa drammaticità, una rudezza scontrosa di
modi espressivi che scartava la tenerezza dell'elegia: un'energia virile e
feroce, proprio di quella nuova Italia carbonara, che s'era definitivamente
lasciata alle spalle i ricordi dell'Arcadia.
Questo tipo d'opera individualistica, in cui l'astuzia dei librettisti o la
passione degli ascoltatori riesce sempre ad infilare sottintesi politici ed

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agitatorî, viene realizzato con un'intensità quasi forsennata in Ernani
(Venezia 1844), su libretto che il veneziano F. M. Piave trasse dal
dramma di Victor Hugo.
In seguito I due Foscari (Roma 1844), Giovanna d'Arco (Milano 1845)
ed Alzira (Napoli 1845) segnano un crescente rilassamento del senso di
responsabilità artistica; né può dirsi realmente alto il valore di Attila
(Venezia 1846), quantunque quest'opera conoscesse un successo
eccezionale per le sue trasparenti allusioni patriottiche e per l'energia
selvaggia del ritmo e dello strumentale.
Altra cosa è Macbeth, scritta nel 1847 per Firenze, città cui si attribuiva
un gusto artistico più raffinato: in questo primo incontro con Shakespeare
Verdi cercò di approfondire l'efficacia drammatica della declamazione
melodica e lavorò con inusitata accuratezza.

MARGHERITA BAREZZI

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Riveduto ed ampliato nel 1865, Macbeth rimase una delle migliori opere
di Verdi. Fatto significativo: quest'opera la dedicò al proprio benefattore,
A. Barezzi. Con non minore impegno lavorò ai Masnadieri (Londra
1847), sua prima opera scritta espressamente per l'estero su libretto
schilleriano di A. Maffei: ma il risultato non corrispose pienamente alle
intenzioni.
Il Corsaro (Trieste 1848) fu scritto di mala voglia per soddisfare un
vecchio impegno. Nella Battaglia di Legnano, scritta per Roma
repubblicana (1849), poterono venire esplicitamente in luce le istanze
patriottiche fino allora insinuate, per così dire, di straforo e
compatibilmente con le pretese della censura: singolare perciò il rilievo
che acquista il dramma sentimentale dei personaggi (il solito triangolo di
due uomini intorno ad una donna) in confronto al rimbombo guerriero
degli eventi pubblici.
Con la sconfitta delle speranze nazionali nel 1849 si chiude il ciclo
giovanile della produzione verdiana. Da un lato il clima e il costume
della nazione, nella momentanea stanchezza seguita all'insuccesso della
rivoluzione, non si addicevano più ad un'arte sommaria, violenta,
entusiastica e bruciante di patriottici furori, ma al contrario favorivano un
certo ripiegamento su interiori motivi psicologici; d'altra parte, Verdi
aveva ormai vinto la propria battaglia personale: si era praticamente
impadronito della situazione teatrale italiana, sulla quale regnava
incontrastato, e la dolorosa morte di Donizetti (1848) non fece che
sancire un successo ormai scontato. Verdi era sicuro del proprio
avvenire, ed era anche ricco: ai terreni già acquistati alle Roncole con i
propri guadagni d’operista aggiunse nel 1848 la villa di sant'Agata, di cui
fece la propria residenza.
Vi si stabilì insieme con la cantante Giuseppina Strepponi, la prima
interprete di Nabucco, che fin da Oberto, conte di San Bonifacio aveva
divinato il genio del giovane compositore, e che nei lunghi anni
d'esistenza comune esercitò su di lui una discreta e benefica influenza,
donna colta e garbata com'era, al corrente di quelle mode artistiche
internazionali, e in particolare parigine, che Verdi, nella sua rude essenza
contadina, tendeva a sottovalutare.
Il loro matrimonio avvenne nel 1859 e non diede luogo a discendenza
diretta. Questo mutamento di circostanze pubbliche e private è da tener
presente per comprendere la nuova fase in cui entra l'arte verdiana,
dapprima con qualche incertezza (Luisa Miller, Napoli 1849, Stiffelio,

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Trieste 1850), e poi a vele spiegate con quella triade di capolavori che
sono Rigoletto (Venezia 1851), Il Trovatore (Roma 1853) e La Traviata
(Venezia 1853), quest'ultima caduta alla prima rappresentazione, ma
passata l'anno dopo al più durevole successo.
In queste tre opere Verdi conduce a perfezione lo stile operistico che si
era elaborato in Italia nella prima metà dell'ottocento e che egli stesso
aveva vigorosamente sospinto oltre le posizioni del gusto belliniano e
donizettiano.

RONCOLE DI BUSSETO

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Paragonarle alle opere della vecchiaia di Verdi e chiedersi se queste o
quelle siano superiori non ha alcun senso, tanto sono diverse le
circostanze storiche e ambientali da cui i rispettivi gruppi di opere sono
germogliati: il fatto prodigioso è la perenne freschezza di sensibilità con
cui Verdi sentì la necessità di aggiornamento, e vi provvide in forma
originale, facendo tesoro delle esperienze artistiche europee, senza
infeudarsi ad alcuna di esse, e senza lasciarsi ostacolare, d'altra parte,
dalle proprie convinzioni conservatrici.
Dal punto di vista del valore artistico assoluto, non si può negare che
dopo Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata si assiste ad un momentaneo
declino: ma mentre il declino sopravvenuto dopo Ernani era dovuto a
trascuratezza e a reale peggioramento d'ispirazione, qui si sente che
questo apparente abbassamento ha in sé qualcosa di positivo, poiché è
dovuto allo sforzo di allargare il proprio orizzonte e di impegnarsi in una
ricerca consapevole dello stile.
Opere come I Vespri siciliani (Parigi 1855) e Simon Boccanegra
(Venezia 1857) sono certamente inferiori a Rigoletto e al Trovatore, e
nello stesso tempo si sente che rappresentano un'istanza più avanzata e
complessa di civiltà artistica, un'aspirazione a cose più alte.
L'imbarazzo della ricerca scompare in quel capolavoro felice che è Un
ballo in maschera (Roma 1859), venuto dopo un rimaneggiamento di
Stiffelio in Aroldo (Rimini 1857), mentre nella Forza del destino
(Pietroburgo 1862) i germi di novità stanno a fianco con ricadute plateali
nell'antico stile di sommaria esasperazione drammatica dei contrasti.
Ormai completamente al riparo dall'assillo del bisogno, Verdi rallentò il
ritmo della propria produzione ed ogni sua opera, generalmente su
ordinazione di grandi teatri stranieri, risulta da questo momento assai più
accuratamente elaborata.
S'inserisce in questa fase il rifacimento di Macbeth, per il Teatro Lirico
di Parigi (1865). Nutrito d'idee musicali profondamente originali e
sapientemente trattato nella ricchezza dello strumentale e nella
sottigliezza delle sfumature vocali, Don Carlos (Parigi 1867) tardò
tuttavia fin quasi ai giorni nostri ad ottenere il riconoscimento che spetta
a questa fase interessantissima, di morbidezza psicologica quasi
decadente, dell'europeismo verdiano.
Nella nazione finalmente riunita e libera Verdi occupava naturalmente un
posto glorioso: Cavour, che condivideva con lui la passione per
l'agricoltura, l'aveva chiamato nella prima Camera dei deputati; in

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seguito era stato nominato senatore. Liberale di destra in politica, fu pure
in arte spinto, dall'importanza stessa della sua carica, verso una posizione
conservatrice: non vide di buon occhio l'inquietudine di giovani artisti
come A. Boito, F. Faccio e G. Martucci, i quali si sforzavano di aprire
alla vita musicale italiana gli orizzonti rivelati dalla grande arte
strumentale del Romanticismo tedesco.
Il canto era, secondo Verdi, la vocazione e il dominio della musica
italiana, e volernela allontanare sarebbe stato sconoscente leggerezza. Il
successo dell'arte wagneriana e la sua prima penetrazione in Italia
contribuivano ad avvelenare la polemica artistica.

GIUSEPPINA STREPPONI

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Il "torniamo all'antico, e sarà un progresso", scritto da Verdi a F. Florimo
in una lettera del 1871, pesò a lungo, in maniera non benefica, sulle
vicende della vita musicale italiana. Si può senz'altro riconoscere che
l'istinto artistico di Verdi, quale lo sorresse nell'infaticabile evoluzione
dei suoi ultimi anni, era fortunatamente assai più lungimirante delle
opinioni che egli pubblicamente professava: opinioni, del resto, alle quali
egli fu addossato dalla forza delle circostanze e dagli obblighi della sua
posizione d’alfiere del melodramma italiano nei riguardi della crescente
fortuna wagneriana. Si può scorgere in Verdi il rarissimo esempio d'un
artista che predica male, e razzola benissimo.
La composizione d'un Quartetto per archi, avvenuta a Napoli nel 1873,
proprio mentre Verdi manifestava la propria ostilità verso le tante
"Società del Quartetto" che cominciavano a sorgere nella penisola,
s’inserisce come un episodio pungente e significativo della lotta verdiana
contro la penetrazione dell'arte tedesca, lotta che è pure un'inconfessata
ed originalissima assimilazione.
Per il teatro, Verdi non scriveva ormai più che in occasioni eccezionali.
Dal Cairo gli venne l'ordinazione di un'opera, la cui esecuzione s'inserì
nel quadro delle celebrazioni nazionali egiziane per l'apertura del canale
di Suez.
Così come aveva lottato selvaggiamente in giovinezza per affermare il
proprio primato nel campo operistico nazionale, ora Verdi si batteva con
lo stesso scopo sul piano mondiale.
Parve a tutti che Aida (1871) avesse ad essere l'ultima e la più perfetta
delle sue opere: vicino alla sessantina, ricco e glorioso, Verdi si
congedava ormai da quell'affascinante mestiere teatrale che era stato la
passione e il tormento della sua vita.
La sua natura schiva e selvatica, l'amore schietto per il lavoro dei campi,
il desiderio di quiete e di solitudine lo risarcivano ampiamente
dell'inevitabile nostalgia per il distacco dalla tumultuosa esistenza
teatrale. La morte di Alessandro Manzoni, da lui venerato come un santo,
gli offrì l'occasione per cimentarsi in tutt'altro genere musicale, con la
composizione della Messa di requiem (1874).
Il destino artistico di Verdi sembrava avviarsi a conclusione sulla
falsariga rossiniana, secondo una consuetudine che voleva gli operisti
italiani, dopo le fortune mondane della carriera teatrale, approdare ai lidi
severi della musica sacra, quasi a consacrazione di acquisita maturità
nello stile più dotto.

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Fu a questo punto, dopo alcuni anni di intelligente ozio creativo nel
patriarcale ritiro di sant'Agata, agitati peraltro da una passione tutt'altro
che senile per il soprano Teresina Stolz, grande interprete della Messa di
requiem e delle sue ultime opere, che si profilò l'inatteso miracolo d'un
trionfale ritorno di Verdi al teatro, su posizioni di gusto così
straordinariamente aggiornato, da lasciarsi alle spalle quegli stessi
novatori stranieri contro i quali egli si era battuto, e tali da costituire un
retaggio di fecondi sviluppi all'avvenire della musica italiana. Il miracolo
che Rossini non aveva avuto voglia di compiere dopo Guglielmo Tell,
cioè di rinnovarsi a 37 anni, Verdi lo compì dopo aver varcato la soglia
della settantina.

VILLA SANT’AGATA

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Un rifacimento di Simon Boccanegra, opera sfortunata a cui Verdi era
sempre rimasto affezionato, gli aveva avvicinato, in qualità di librettista,
Arrigo Boito. Tra i due artisti c'erano stati in passato grossi malintesi e
nubi polemiche gravissime; ma ora Boito era largamente guarito dalle
sue intemperanze giovanili, e nutriva verso il grande vegliardo
un'ammirazione così sinceramente devota, che dopo infinite titubanze e
scrupoli e timori, Verdi finì per lasciarsi sedurre dall'idea di musicare,
senza impegno, e quasi per esperimento, un libretto che Boito trasse
dall'Otello di Shakespeare. Per la prima volta Verdi scriveva un'opera
che nessuno gli aveva ordinato, rinnovando in sé, e nel costume
dell'opera italiana, quello stacco che Beethoven aveva operato rispetto a
Mozart, dando inizio al Romanticismo, con la sua esigenza di assoluta
libertà creativa.
Il tragico inglese era stato per tutta la vita il modello della drammaturgia
verdiana: ma dopo il casuale incontro del Macbeth, Verdi non aveva più
osato affrontarlo, scoraggiato dall'impossibilità di trovare librettisti degni
di quegli argomenti.
Appunto per questa ragione aveva dovuto esser dimesso il progetto
lungamente accarezzato d'un Re Lear. Ma ora per la prima volta Verdi si
trovava a disporre d'un librettista d'eccezione: se non un grande poeta,
Boito era un grande letterato, abilissimo verseggiatore, uomo di larga
cultura e di gusto moderno, e per di più musicista, esperto delle esigenze
teatrali; la devozione con cui si mise al servizio del genio verdiano
costituisce forse un titolo di gloria maggiore che le sue stesse opere,
musicali e letterarie. L'opera venne composta lentamente e in gran
segreto: ma dopo le perplessità iniziali, Verdi sentì rinascere in sé
l'impeto d'una nuova estate creativa. La morte di Wagner, sopravvenuta
nel 1883, riprodusse in certo modo la situazione del 1850, dopo la morte
di Donizetti, quando Verdi aveva raggiunto la sua prima perfezione con
Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata: ancora una volta era il primo, il più
grande.
Dopo il trionfo di Otello (Milano 1887) più che mai parve che l'artista
avesse detto la sua ultima parola; ma ancora una volta riuscì allo zelo
geniale di Boito e alle comprensibili insistenze dell'editore Ricordi di
smuovere il vegliardo dalla sua volontà di riposo.
Forse giocò, nella decisione che vinse le sue estreme riluttanze di fronte
al progetto di Falstaff, la molla di un risentimento segreto che Verdi
aveva covato per tutta la vita dopo il fiasco crudele di Un giorno di

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regno: il desiderio di smentire la comune convinzione che lo voleva
negato al genere comico, feudo incontrastato della musa rossiniana.
Resta da vedere fino a che punto Falstaff, che la sera del 9 II 1893
lasciò alquanto disorientato il pubblico della Scala, sia veramente
comico, o più esattamente sia un'opera buffa, nel senso tecnico e
tradizionale del termine, e quanto invece ribadisca in forma scherzosa
l'amaro e realistico pessimismo di cui è alimentata l'etica verdiana.
Certo è che l'opera apre, insieme con Otello nuove vie al dramma
musicale e compie il prodigio d'una carriera musicale semisecolare, che
iniziatasi su posizioni rossiniane, termina perfettamente a suo agio nel
clima europeo determinato dalle presenze di Wagner e Brahms.

I GIARDINI DI
VILLA SANT’AGATA

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Nessun artista seppe mai fronteggiare, restando sempre a galla, così
radicali cambiamenti come quelli avvenuti nel mondo durante la lunga
esistenza di Verdi. Quand'egli nacque, in un dipartimento dell'impero
napoleonico, l'illuminazione si faceva ad olio, e l'unico mezzo per
spostarsi sulla faccia della terra era il cavallo, con relative carrozze.
Quando morì, nel regno dell'Italia unita, la lampadina elettrica inventata
da Edison stava soppiantando l'illuminazione a gas, e da un paio d'anni
Agnelli aveva fondato la Fiat.
Gli ultimi anni della robusta vecchiaia di Verdi furono amareggiati dalla
tristezza della solitudine: uno per uno erano scomparsi gli amici delle
antiche battaglie artistiche, nel 1897 morì anche Giuseppina Strepponi. Il
vegliardo s'aggirava solo coi suoi ricordi nelle stanze della villa di
sant'Agata. Per passatempo si applicò all'industriosa composizione dei
Quattro pezzi sacri, per voci sole e per voci ed orchestra, che furono
eseguiti all'opera di Parigi nel 1898.
Certamente non sapeva – e si comincia ad intendere soltanto ora - che
stava facendo, sul versante italiano della musica, l'equivalente di quanto
aveva fatto Brahms col Canto del destino, la Rapsodia per contralto, il
Canto delle Parche e la Nenia.
La morte lo colse a Milano, dove soleva trascorrere l'inverno: i suoi
funerali diedero luogo ad un'immensa manifestazione di cordoglio
nazionale.

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PIAZZA VERDI
A BUSSETO

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