Ragguaglio Di Diritto Privato Romano
Ragguaglio Di Diritto Privato Romano
Ragguaglio Di Diritto Privato Romano
RAGGUAGLIO DI
DIRITTO PRIVATO ROMANO
Premessa
CAI'rroLo I
CAlnroLo Il
CAPITOLO III
CAPETOLO IV
CApIToLO V
CANTOLO VI
CAPITOI,o VII
CAPITOLO VITI
CAPETOLO IX
C..PEoLo X
CAPrE- oLo XI
LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE
GArrrnI,o XII
CAPITOLO XIII
CI\PlToI.o XIV
LE OBBLIGAZIONI Dl RESPONSABILITÀ
CAPITOLO XV
Tavole sinortiche 13, 21, 31, 45, 53, 6!, 85, 117,143,171,189,225.227,259.285,307,
349, 369
Agli inizi del terzo millennio una riforma universitaria tanto sventata
quanto precipitosa ha datogli ultimi colpi ad un'opera di demolizione dell'in-
segnamento universitario italiano che cm stata iniziata poco pig di trent'anni
prima, nel 1969, da un improvvido provvedimento di demagogia populista.
Non è il caso che ne parli distesamente in questa sede, tanto più che l'ho già
ripetutamente fatto col dovuto rigore altrove. Qui in, resta solo da segnalare
che tra le maggiori vittime de/la riforma vi sono, per ciò che attiene agli studi
giuridici, le materie storia grafi che e, in particolare, le discipline dedicate al-
l'analisi del diritto romano pubblico e privato nelle sue strutture e nelle tra-
sfornazioni che queste subirono dal secolo VITI avanti Cristo al secolo Vi della
nostra era. La parola d'ordine del legislatore è stata quella di contrarie e ri-
dune al massimo, non senza favorevoli aperture alla possibilità di eliminarle
del tutto. Direttive di cui hanno tenuto coniprensibilmente conto, nella fisnga-
ia delle Università moltiplicatesi in Italia durante gli ultimi anni, quelle Fa-
coltà di giurisprudenza (o quasi) cui giova per avere clienti fare concorrenza
al ribasso.
Siccome la legge è la legc (sinché non viene abrogata), mi sonoforzato
di adeiiarmi ad essa col presente «Ragguaglio di diritto privato romano», il
quale è relativamente breve, ,io non vuol essere e non è una compiuentegui-
da turistica tra le curiosità giuridiche romane. E siccome oggi tutto ciò che è
anglosassone è di moda, mi spiegherò meglio citando il libricino fiinoso di
Lewis Carrol dedicato ad Ali ce nel Paese delle Meraviglie (piccolo capolavoro
di cui corre in italiano, tra le altre, una gustosa traduzione di Aldo 11usD.
Confesso cioè che mi sono pazientemente calato nei panni del Coniglio bianco
in occasione del processo contro il Rinte di cuori per l'zffizre delle pizzette ru-
bate. «Da (love devo iniziare, 1Waesta?11, chiese il coniglio, inforcando gli oc-
lo I'}&FMRSSA
chiali. «Inizia dal/inizio», disse il Re gravemente, «e va' ava nti finché non ar-
rivi alla fine: poi. fermati>,.
Proprio cosL Questo libro l'ho scritto perché sia letto senza troppa fatica
dal principio alla fine. poi basta. Sul/essenziale non vi si transige. ma in
cambio esso vi è raccontato integralmente in lingua italiana la più limpida
possibile. Il latino figura solo accompagnato dalla traduzione, quindi (per
usare l'agile linguaggio degli studenti) lo si può «saltare»; se non lo si salta, la
sua corretta pronuncia (le lunghe e le brevi, sapete) viene agevolata da oppor-
tuni accenti tonici. I brani stampati qua e là in caratteri tipografici pia picco-
li servono solo da ulteriore chiarimento e talvolta, per chi ne abbia voglia, da
maggiore (ma non indispensabile) informazione. Diciotto tavole sinottiche ri-
chiamano, lungo i1 percorso, le linee principali della narrazione.
Visto che ho citato il Paese delle Meraviglie, mi auguro che il lettore-stu-
dente si comporti dìJ*onte a queste pagine alla stessa condiscendente maniera
di .Alice: interessandosi con naturalezza alle apparenti singolarità degli antichi
romani e, quando gli viene, apertamente criticandole e discutendole. Al termi-
ne del non d1ffi ci/e viaggio egli sarà, quasi senza rendersene conto, un p0' cam-
biato. Un po'piil vicino al livello, non già del laureato comecchessfa in giuri-
sprudenza, ma (cosa ben diversa) de/giurista attento e cauto, che non si mera-
viglia di nessuna meraviglia.
Bibliografia zero. Per pia approfondite notizie sì può far capo alle se-
guenti opere dello stesso autore: Diritto privato romano (12'ed., 2001, con
supplementi bibliografici successivi) e Storia dei diritto romano (12 ed.,
1998). Ma è appena il caso di aggiungere che in qualunque biblioteca uni-
versitaria si trova facilmente di meglio.
A) SlnuIura dello r r -
metropolitano (sede nonnale dei cittadini
3MW teirocitr j pci-i itienziale (sede normale dei suddi Ci)
RLOZÌOne costitt,cnie
governo fILFIZiORO legisLativa (sciaItnente formai L\)
fLLn,.ione sanzicinatoria (specialm giudiziana)
i Funzione amministrati' a
soggetto alt i' o r pretesa (sci tu -ente da norme direttive)] con [acoli
J'ONU giuridico - od oneri annessi
E) Sirorturu dei rop-
(dir. sogaettivo)
[ h) azione (scatuivnte da norme sanzionatorie)
poni giiu*lici .suggetto passivo: Fa) obbligo (nei confronti della pretesa)
i
doi ?re g ridico b) si ggezi o ne (nei confronti dell azione)
{pubblici ( rlrr. pubblico)
oggetto: fonte di inte,esi soggettivi -
pri' ali (= dir. priraw)
.
(c5: usuFrutio) al cui soggetto urivo sono conferiti non solo poteri verso il soggetto
passivo, ma a nclle pure ri asso I ti i ('c oznes).
(6) Rapporti giuridici di debito sono rapporti (assoluti o relativi)
consistenti in un vincolo che si costituisce per effetto di un accadimento
considerato «lecito» dal diritto (cioè per effetto, come vedremo a suo tem-
po [n. 14], di un fatto giuridico involontario o di un atto giuridico lcd-
to). Rapporti giuridici di responsabilità sono rapporti giuridici relativi
(mai assoluti) consistenti in un vincolo clic Si pone a carico di uno o più
soggetti passivi determinati, a titolo di responsabilità (di penitenza) per
aver compiuto in pregiudizio del soggetto attivo un atto «illecito» (es.: la
8 IL DIRITTO PRIVATO ROMANO
I
I nazionale
In agi si ra ti: o) con irssperiui ti: consoli pretori, dii tatore; b)
govern ° co a polesios: censori edili (cLtnlli e l ebei), questori tribu-
ni della plebe (poteri estesi di inmercessio); e) promagistrati
I
popo la z.: cives Ronjat ti (senza limiti: 112 d. C. consiit. Ao to,rh no tra)
romana ternt.; cittadino (com e prima) e provincia le (irnper.n, Routan un:)
universale (con
principato) orga o i zzaz. repubblicana tradizionale (in decadenza)
C) Per classico _ governo
prt ,tceps Roo ramo: (con sua burocrazia)
(sec. 1-IR d. C.)
(s i
j•us vetus (tutte le fonti della vecchia repubblica)
[ordina m. stata le 4 lix swvunt: in te n'enti del rin cip e in particolare: orazlotaes in seno tu
e giuridico eiic:o, mandato, epistu[oe, resciipta;
in te rpret ar sis ceni a t rice della giurisprud. (sper, con li,, respo rideudi)
isis verso (essen zial mente, scritti dei giunsti prec bss ic i e classici iuta)
los ,jovrtiu (solo constif ulivi 115 mm penali: leges)
[ordinam statale I
e giuridico 4 F di le
es (codici Grecomiano e Erniogeniano [privati],
compilazioni reodosiano [ufficiale])
L
di mmv, o di iuta e lees (varie raccolte privare)
{hrstitutio,:es iusri:tion:
Cotpus luris g iitstin ianeo Digia seu Poi
Code, Insilino 'isis
Naveflae di Giustiniano e cl un
Tmoic E. 1 periodi storici del diritto nirnano cd i sistemi nuorenzaivi dcl rclativo diritto (a 5-6).
22 IL DIRInO PRfVATO ROMANO
to delle genti» (iusgentium), in dipendenza dal fatto che i suoi istituti era-
no comuni pressoché a tutte le genti civilizzate di quei tempi [n. 4].
(c) Il diritto pretorio o onorario (ius praetorium ve1 honorarium) fu
anchesso un diritto di origine giurisdizionale come quello scaturito dagli
interventi del pretore peregrino e dall'autorità dei «precedenti» giurisdi-
zionali (ed anzi lo stesso diritto delle genti fu, a stretto rigore, il prodotto
di un diritto pretorio). La sua specificità deriva peraltro da ciò: a) che esso
si formò nel periodo della grande crisi politica da cui fu affetta la repub-
blica nazionale tra la metà del sec. Il e la fine del sec. I a. C.; b) che in
questo agitato periodo, non funzionando regolarmente i comizi e non
provvedendo perciò le leggi pubbliche ad integrare o a modificare molte
normative ormai superate del diritto civile (sopra tutto di quello antico),
si videro costretti ad intervenire con soluzioni innovative i magistrati inve-
stiti della funzione giurisdizionale tra i cittadini, cioè il pretore urbano,
ancora una volta il pretore peregrino ed altri magistrati, tra i quali gli edili
curuli (addetti all'amministrazione della città di Roma) e i governatori
delle province (addetti anche a dirimere 'e controversie tra i cittadini ivi
residenti); c) che le varie nuove regole costituitesi in forza dell'autorità dei
precedenti» non ebbero carattere radicalmente abrogativo di quelle civili-
stiche ufficiali, ma ebbero solo carattere di «soluzioni alternativer> offerte
dai magistrati giusdicenti alle parti in causa purché esse fossero d'accordo
nel rimettersi ai loro criteri di giustizia (solitamente preannunciati da
(editti» emessi al momento dellentrata in carica).
Il diritto alternativo cosf venuto in essere si chiamò «diritto pretorio»
perché faceva capo sopra tutto ai pretori ed ai loro editti, ma fu anche chia-
mato diritto onorario» dal momento che scaturiva anche da altri magi-
strati giusdicenti e che le cariche pubbliche erano considerate e qualificate
«onori» (honores). Nel periodo classico, sopra tutto dopo il sec. I d. C., la
fioritura del diritto onorario si esaurf di pari passo con il sopravvento del
diritto di marca imperiale.
(cO Il diritto nuovo o aggiornato (lus novum) fu il diritto creato so-
pra tutto dai principi (o imperatori) nel corso dei periodi classico e po-
stclassico mediante «costituzioni imperiali» (eonstitutiònesprinctjìum) e al-
tri interventi loro e dei funzionari da loro dipendenti. Di fronte al pro-
gressivo affermarsi del principio che la volontà dei principe ha valore di
legge (<quod pr1ncpi placuit legis habet vzgòrem») i sistemi giuridici forma-
tisi nell'età arcaica o ad opera delle magistrature giusdicenti repubblicane
persero progressivamente ogni capacità di svilupparsi e di evolversi e pro-
26 IL DIRITTO PRIVATO ROMANO
sione limitata alle soie situazioni giuridiche attive (còrnrnode4: essa intese
cioè come patrimonio il complesso dei beni economici formanti oggetto
di godimento esclusivo del titolare (quae dòmini sunt e quac bonafidepos-
sielèntur) e l'insieme dei poteri diretti all'ottenimento od al mantenimento
di quei beni (quel che «est in actionibus petitionibus persecutionibus»): ciò
pur tenendo ben presente che il titolare stesso potesse essere gravato anche
da un separato <passivo» di debiti e gravami (incòmmoa'a). Viceversa in età
postclassica, molto pid opportunamente [n. 3], si ritenne che il patrimo-
nio fosse tutto l'insieme (l'univèrsitas, la globalità) delle situazioni del sog-
getto, comprensivo sia dei vantaggi che degli svantaggi (sia dei commoda
che degli incornrnod4.
Gli oggetti dei rapporti giuridici (è importante notarlo fin d'ora)
non costituivano per i romani delle entità appartenenti ad una categoria
sempre e necessariamente diversa da quella dei soggetti. Vi erano entità
che altro non potevano essere se non oggetti di diritti e doveri, ed erano
le cose inanimate e gli animali subumani; ma vi erano anche entità che
potevano essere, a seconda delle situazioni, tanto oggetti quanto soggetti
di rapporti giuridici, ed erano gli esseri umani (servi, Julii in potestate,
mulieres in manu, liberi in manelpio); e vi era infine la possibilità di ridur-
re ad oggetti (ovviamente, con particolari modalità e limitazioni) gli stessi
soggetti giuridici (ciò nell'ipotesi che fossero obligati, vincolati da un'obli-
gatio verso un creditore).
libertinità (cz-schiavi)
FL0 tini
extraromanità peregdni alicuius civ
Pereiamn dediticti
sesso femminile
Eaddicti
assoggettamento nexi
-J auctoritati
quasi Servilc persotlae
[redempti ab hostibus
- soggetti 11rn ita ti:
Soetri categorie Fper nota censoria
bassezza morale infamia
rsei fisci
condizione sociale -{ humilìores
Lfli glebae
[municipia
I
associazioni
collegia
soggetti un'nate- sodalitates
ridi Icoloniae
fondazioni rpiae causae
lhcmditas iacens
no le loro Famiglie e 'e loro più complesse organizzazioni a contatto coi pubblico, di
cui utilizzavano la fiducia, l'ordinamento giuridico (cominciando dal diritto onora-
rio) li sottopose tutti indistintamente, in caso di insolvenza, cioè di impossibilità di
Far fronte ai debiti assunti, alle procedure esecutive concorsuali sul loro patrimonio
[n, 26]. Inoltre le principali categorie furono regolamentate in modi più o meno in-
cisivi, sino a giungere ai vincoli nel pubblico interesse di cui parleremo tra breve.
del domino; c) gli «ex-liberti», cioè coloro su cui il patrono avesse perdu-
to il patronato per disposizione di legge o per rinuncia.
dini di cattiva condotta. Dal punto di vista del diritto privato, non poche
limitazioni di capacità a carico di persone moralmente riprovevoli furono
introdotte da leggi, da costituzioni imperiali e dall'editto del pretore.
CosE la legge Giulia sugli adulterii del 17 a. C. [n. 351 sanef la incapacità
dell'adultera colta in flagrante ad unirsi in matrimonio con un nato libero
(ingenuu4; la legislazione imperiale cristiana privò il padre di cattiva con-
dotta dell'amministrazione dei beni dei Figli e dell'esercizio dell'azione in-
tesa alla restituzione della dote spettante alla figlia; l'editto pretorio negò
la capacità di difendere nella fase magistratuale dei giudizio (postulare pro
aliis, e talora persino pro se) a numerose categorie di persone indegne.
La giurisprudenza classica dette un particolare risalto alle incapacità proces-
suali sancite dall'editto pretorio e chiamò usualmente infami (infames», di mala
fama, di cattiva reputazione) coloro che ne erano afflitti. Erano tali, in particolare:
la gente di malaffare, cioè gli esercenti attività turpi o socialmente disdicevoli (leno-
ni, meretrici, gladiatori attori ecc.); i militari disonorati, cioè licenziati dall'esercito
con disonore (cd. pi/rio inhonèsta); i dissoluti, cioè i violatori delle regole fonda-
mentali di un buon matrimonio (bigami, adultere colte in flagrante, vedove passate
troppo precipirosamente a seconde nozze); i malfattori, cioè i condannati per reati
(crirnina perseguiti dal diritto pubblico), o per taluni illeciti a reazione privata (de-
lieta dijlirtum, bona vi rapta, iniuria, dolus malus En. 85-87]), o per l'inosservanza
dei peculiari doveri di fedeltà ed onestà connessi a certi istituti (tutela fiducia, depo-
si/lan, societas, mandatum). Nel diritto giustinianeo, l'infamia, accresciuta di nuove
ipotesi, fu concepita come una categoria non pid solo processuale, ma generale di
minorazione della capacità giuridica e implicò numerosi altri effetti limitativi della
soggettività.
(fi La condizione sociale (condicio in civitate) iniluf in modi molte-
plici sia a vantaggio sia a svantaggio dei soggetti giuridici. Lasciando da
parte le implicazioni sul piano del diritto pubblico comportate dalle di-
stinzioni tra patrizi e plebei, tra nobili (nobiles) e non nobili (cd. ignòbilcs
o populares), tra honestiòres e humuliòres, e sorvolando sulla miriade di fat-
tispecie che possono segnalarsi in ordine al diritto privato dell'età classica
e di quella postclassica, riteniamo opportuno sottolineare che in periodo
postclassico l'assolutismo politico e la connessa statalizzazione dell'econo-
mia portarono alla formazione di arti e mestieri necessitati ed ereditari,
cioè di attività di lavoro specializzato obbligatorie non solo per chi le pra-
ticasse, ma anche per i suoi discendenti.
Tra i mestieri ereditari subirono limitazioni di capacità assai intense: a) quello
dei cd, schiavi del fisco (servi fiscO, cioè degli operai (formalmente liberi e cittadi-
ni) addetti alle officine statali; b) quello dei cd. coloni, anche chiamati «servi della
gleba» (servi g1èbc o adscripJciz, cioè delle persone addette alla coltivazione dei la-
I SO( CElTI GIURIDICI IMM,VFERTAI.I 11
(b') Tiipotesi delle pie cause o «opere pie» (piae cùusae) era quella di parti-
mciii destinati per testamento a scopi duraturi di pietà e affidati per questo fine
(causa) ad un ente corporativo o ad un ufficio (la chiesa, il vescovo ecc.) aventi la
qualira giuridica di successori a causa di morte (eredi, legatari, fedecommissari [n.
90-96]). Proprio perciò la giurisprudenza classica ritenne che, anche quando il te-
statore (il cd, «fondatore») non io avesse espressamente disposto, il lascito entrasse
a far parte del patrimonio generale del soggetto giuridico destinatario dei beni e
che quest'ultimo fosse caricato dell'onere (a titolo di modus [n. 191) di realizzare gli
scopi prefissati dal fondatore. Le cose non mutarono di molto in età postclassica,
nella quale il propagarsi della beneficenza privata e pubblica sorto l'influsso della
religione cristiana portò sopra tutto alla creazione di numerosi ospizi di vario gene-
re (per vecchi, per poveri, per pellegrini ecc.). Solo Giustiniano compi passi decisivi
sulla via del riconoscimento della soggettività giuridica alle istituzioni di beneficen-
za, accordando loro la capacità di ricevere legati e fedecommessi per testamento e
quella di stare in giudizio in nome proprio e a mezzo di rappresentanti.
(b2) Dipotesi dell'eredità giacente ()9crèditas iàccns) era quella del patrimonio
successorio in attesa di essere accettato o rifiutato dal chiamato all'eredità (quindi
provvisoriamente senza titolare [n. 94]). A rigor di diritto, il compendio patrimo-
niale era da considerarsi una res nut/fus, una cosa di nessuno, della quale il primo
venuto aveva il potere di impossessarsi, ma sin dalla età classica si avverti 'opportu-
nità) sia pure limitatamente a casi ed a fini del tutto speciali, di trattare l'hereditas
iacens come provvisoriamente sostitu riva essa stessa del soggetto giuridico che
avrebbe Finito per acquistarla. Muovendo da questi spunti, la giurisprudenza e gli
imperatori postclassici furono lentamente portati a ravvisare in essa una sorta di
soggetto giuridico «provvisorio. Giustiniano completò il processo evolutivo affer-
mando senza mezzi termini che lhereditas iacens fosse in ogni caso equiparabile al
titolare del patrimonio in cui si sostanziava (<dominae tocum bbtinep),
a) concretezta
I,) utilità
Requisiti - e) limitatezza
d) disponibilità privata
e) estraneità al soggetto attivo del mpporto
semplici o composte
divisibili o indivisibili
fruttifere o infruttifere
consurnabili o inconsurnabili
Le cose in particnlare
[ungibili o infungibili
mobili o immobili
màllcipi o non rnàrìcipi
commerciabili o non commerciabili (v. in)
Oggetti giuridici
[ nullius in bericie
[in dominio [n. 43]
Le res in conunercfo L in patrimonio -1 in possesso interdittalc [n. 30]
L in detenzione En. 291
rs e
divini religiosae
[sanctae
Le resexlra cot,mercunJ uno'
[publicae
bumani iurìs universitatis
T.woL IV: Gli oggetti giuridici, con particolare riguardo alle cnsc (e. 12-13).
ricchirono del litus mari! (lido del mare, battigia) che era invece piuttosto una rcs
publica.
(i) In base al criterio dell'appartenenza privata le cose in commercio
(e quindi astrattamente in patrimonio dei soggetti del privati) si distinse-
ro, al loro interno in: a) cose di effettiva appartenenza privata (res in b0-
nis akcuizgs), cioè concretamente appartenenti in punto di diritto ad uno
specifico soggetto privato; 6) cose di nessuno (re, nullfus in bonis, o res
nulliu4, cioè cose che non appartenessero o non appartenessero pid, in
concreto, a nessun privato {n, 44 sub gi.
La condizione delle cose di appartenenza privata poteva consistere
in una di queste tre specie: il) essere oggetto di dominio (civile, pretorio,
provinciale [n. 43-48]); 12) essere oggetto di possesso interdittale (posses-
si0 ad interdicta) riconosciuto dal pretore a certi soggetti in certe situazio-
ni [n. 301; i3) essere oggetto di detenzione possessio naturalis), esercitata
in luogo del domino e con pieno riconoscimento della situazione giuridi-
ca di domino della cosa [n. 29].
CAPITOLO III
SoDaARIo: 14. I] ordine giu rid co privato. - 5. La capacità di agire. - 16, Gli atti dì
tonomia privata, 17. la struttura dci negozi giuridici. - 18. La volontà nei negozi
giuridici. 19. Le clausole accidentali dei negozi giuridici. —20. La ostituzìone
nelFartivirà negoziale.
unisoggettivi rcolleuivi
D) go:i giuridici:
piggt [coniplessi
p io rila era I ii
(tra due o più parti)
funilatenli
[]ibera
forma (mani Fe- I 1per la prova
[stazione) Lvi neoi a a Fco n CO
per esistenza - dominante
[assorbente
ilausola
{hsolutìva
sopensiva1
± circostanza Iulura e incerta
F) Negozi giuri- condizionate
dici: eler!ren-
ti accidentali clausola riniiale ]_ ciirostanza at.,a e certa
terniioaje -t finale
materiale
G) Negozi giuridici:
soslitu:'one indiretta (per conto) o diretta (in nome e per conto)
I
presenta 'a Lnecessada n,lontaria o spontanea (gestione di negozio)
TAVOLA V: Quadro gcnemle dellondine giundìco pnh ato e delle sue cause (n. 14-19)
54 LA REALIZZAZIONE PACIFICA DELL'ORDINE PRIVATO
cioè il sistema (che sarebbe stato, oltre tutto, assai pregiudizievole per la
speditezza della vita giuridica) di accertare caso per caso se l'agente, al mo-
mento preciso della commissione dell'atto fosse effettivamente capace di
intenderlo e di volerlo (se avesse insomma la cd. «capacit'a naturale» di
agire). Fu ritenuta sufficiente, salvo evidenza contraria (es.: uno stato di
chiara ubriachezza), la capacità astratta di agire, cioè la sussistenza nel-
l'agente, al momento della commissione dell'atto, di alcuni requisiti che
astrattamente, in considerazione della normalità dei casi, facessero ragione-
volmente indurre la sua idoneità fisica e mentale. Solo nel tardo periodo
classico, e maggiormente nel periodo postclassico, si profilò sempre più
accentuata la tendenza a controllare in concreto, ove sorgessero dubbi o
contestazioni in proposito, il concorso dell'effettiva capacità di intendere e
di volere: la tendenza a ritenere invalido l'atto che risultasse concretamente
compiuto in istato, sia pur momentaneo, di incapacità naturale.
In ciò il diritto romano non fu lontano da quello che è l'orienta-
mento prevalente dei diritti moderni. Va segnalata invece la differenza tra
diritto privato romano e ordinamenti giuridici moderni, in ordine alla ti-
tolarità della capacità di agire, la quale fu riconosciuta non soltanto ai
soggetti giuridici> ma talvolta anche a persone totalmente prive di sogget-
tività. Ragion per cui bisogna distinguere tra: a) capacità di agire «regola-
re», cioè dei soggetti; b) «mera» capacità di agire di taluni non soggetti.
(a) Requisiti della capacità di agire regolare furono, in età storica:
a) l'età pubere; b) l'appartenenza al sesso maschile; c) la normalità psichi-
ca e fisica.
(a') La pubertà (pubèrtas) si aveva per conseguita, secondo l'opinio-
ne dominante, con il compimento degli anni 14 per i maschi e degli anni
12 per le femmine: gli «impuberi» (impzberes: maschi o femmine che fos-
sero) erano privi della capacità di fare testamento [n. 91] e della capacità
di compiere atti illeciti (quindi erano privi della responsabilità per i delit-
ti [n. 84] che avessero commessi), mentre per la commissione di atti leciti
erano approssimativamente differenziati in: a) infanti (infantes), inetti a
parlare distintamente (<qui fari non possunt») e quasi infanti (infantiae
pròximi, atti a esprimersi, ma non in modo sufficientemente affidabile);
b) fanciulli (infantia maiore4, ormai parlanti (fantes) con una certa affida-
bilità nella loro ragionevolezza. Gli ultrasettenni potevano compiere vali-
damente tutti quegli atti che determinassero un sicuro incremento del
patrimonio loro destinato (es.: l'occupazione di una cosa di nessuno, lac-
cettazione di una liberalità), ma per ogni altro arto negoziale (cioè per le
LA CAPACITÀ DI AGIRE 57
vista già dal diritto civile antico, in forza di esso, i sottoposti: a) potevano
intervenire, forse senza neanche l'autorizzazione del padre o padrone, nei
negozi traslativi di dominio [n. 44] o costitutivi di rapporti assoluti su
cosa altrui [n. 491, quando vi figurassero in veste di acquirenti o benefi-
ciari, essendo implicito che l'incremento patrimoniale relativo avrebbe
avvantaggiato automaticamente il padre o padrone; 6) potevano acquista-
re il possesso [n. 59-30] di una cosa, essendo implicito che l'atto sarebbe
andato a vantaggio del padre o padrone; c) potevano anche rivestire i
panni del creditore (stipulans) a Favore del padre o padrone nel negozio di
stipulazione (si-pulatio [n. 67]), ma presumibilmente solo dietro autoriz-
zazione (iussum) di quest'ultimo. Il diritto civile, invece: a) escludeva che
i sottoposti, pur se autorizzati, compissero validamente per il padre o pa-
drone atti (leciti) di alienazione o atti determinativi di obbligazioni
(quindi di passività patrimoniale) a suo carico; 6) stabiliva che per ogni
atto illecito (delictum) effettuato da un sottoposto (non importa se in sta-
to di incapacità di intendere e di volere) la responsabilità primaria rica-
desse sempre, inevitabilmente, sul padre o padrone, al quale era solo con-
cesso di liberarsene mediante «dazione a castigo» (noxac datio) del sotto-
posto all'offeso o ad un terzo che si assumesse per lui la responsabilità
stessa [n. 84].
(62) ilammissione dei sottoposti al compimento di taluni atti leciti
che implicassero un decremento del patrimonio del padre o padrone fu
prevista solo dal diritto onorario e dalla connessa riflessione giurispruden-
ziale del tardo periodo preclassico e del successivo periodo classico. Stante il
larghissimo ricorso che si faceva alla cooperazione dei sottoposti più capaci
(siafulii che servi) nella vita commerciale, il pretore ritenne equo che questi
ultimi creassero obbligazioni a carico dei loro padri o padroni, quanto
meno nei limiti delle «autorizzazioni» (esplicitamente o implicitamente)
ricevute o delle «contropartite attive» agli stessi procurate. I creditori dei
sottoposti furono perciò abilitati ad esercitare contro i rispettivi padri o
padroni 1e cd. «azioni adiettizie» (actiones adiccticiae qualitatis [n. 16]).
Lungo questa via si giunse sino al punto di ammettere che il sottoposto,
purché espressamente autorizzato, ben potesse alienare a terzi un cespite del
patrimonio del padre o padrone utilizzando il negozio non solenne della
«consegna» (traditio) ed altri modi di alienazione a forma libera [n. 44].
(63) IZammissione dei sottoposti all'assunzione di obbligazioni passi-
ve in proprio (cioè obbligazioni a proprio nome e a proprio carico) costi-
tui ovviamente il caso limite. A nostro avviso: a) la «responsabilità prima-
GLI ATtI DI AUIONOMIA PRIVATA 59
ria da atto illecito del sottoposto (e quindi la possibilità ch'egli fosse con-
venuto in giudizio) fu addossata direttamente ai figli ed agli schiavi solo
dal diritto tardo classico e postclassico, in connessione con la decadenza
delle azioni nossali; b) circa le «obbligazioni da atto lecito», bisogna invece
distinguere tra la situazione del figlio maschio e quella degli altri sottopo-
sti (fihiae, liberi in mancipio, npotes, servi): mentre questi ultimi rimasero
in ogni tempo incapaci di obbligare se stessi (sia per il presente sia per il
futuro) e furono ritenuti vincolati verso chi avesse fatto loro credito solo
da un'<obbligazione naturale» (ohtigztio naturalis [n. 59]) alla (eventuale)
restituzione, il figlio maschio (e di primo grado), essendo prevedibilmente
futuro successore del padre, usufruì di un trattamento speciale. Egli fu, in-
fatti, sin dall'età classica, considerato capace di assumere obbligazioni in
proprio (pro se), pur se probabilmente non poteva essere citato in giudizio
per il mancato loro adempimento e pur se sicuramente non poteva essere
assoggettato ad esecuzione forzata (cioè a ductio personale o a bonorum
venditio [n. 26]). solo per le obbligazioni da mutuo (mutuum [n. 70]) si
ammise il creditore a convenirlo in giudizio di cognizione per ottenerne la
condanna, sf da predisporre per tempo l'eventuale processo esecutivo; ma
l'intervento di un senatoconsulto Macedoniano del sec. I d. C. indusse il
pretore a concedere al figlio un'eccezione (cd. exceptio SC. Macedoniani)
intesa a paralizzare anche l'azione creditoria.
16. Gli atti di autonomia privata. Gli atti di autonomia del di-
ritto privato, piti precisamente denominati da noi moderni negozi giuri-
dici (da negòtium, che significa, ripetiamo, affare privato), causarono al-
meno i quattro quinti dell'ordine giuridico romano e furono largamente
intuiti e analizzati dai giuristi romani (sopra tutto a partire dal tardo peri-
odo preclassico). Ma la ricostruzione di una loro disciplina unitaria, che
variò peraltro non poco da un periodo all'altro (sopra tutto da quello
classico a quello postclassico), è frutto di un ardito (e rischioso) tentativo
compiuto dalla storiografia giusromanistica moderna allo scopo di colle-
gare in un tutto organico nozioni a prima vista isolate.
Dato che noi non riteniamo affatto inopportuno (come invece ri-
tengono altri autori) ricorrere allo schema del negozio giuridico per
chiarire le idee intorno alla vita del diritto privato romano, pensiamo sia
utile mettere ben in chiaro che esso: a) era un «atto giuridico», cioè rien-
trava nella categoria generale degli «atri», dei fatti giuridici posti in essere
volontariamente dai soggetti (presupponendo, dunque, la «capacità di
(0 LA REALIZZAZIONE PACIFICA DEIL?ORDrNE PRIVATO
agire» di chi Io compisse); b) era un atto giuridico «lecito», cioè non vie-
tato, né sanzionato dal diritto (implicava dunque che, se il soggetto giu-
ridico intendesse realizzare un cd. «negozio giuridico illecito», indirizzato
cioè ad un fine vietato dal diritto, l'ordinamento giuridico reagisse in
vari modi; o dichiarando il negozio privo di ogni effetto, o riducendo la
sua operatività ai soli effetti leciti, o anche talvolta limitandosi a punire
l'autore del negozio per il cattivo uso che avesse fatto dell'autonomia ri-
conosciutagli); i-) era un atto giuridico lecito produttivo di «effetti ordi-
nativi (relativi cioè esclusivamente a mettere ordine tra gli interessi del
suo o dei suoi autori); I) era un atto giuridico lecito produttivo di effetti
ordinativi «determinati dal suo o dai suoi autori» (espresso, dunque, da
soggetti autorizzati esplicitamente o implicitamente dall'ordinamento a
stabilirne gli effetti); e) era un atto giuridico lecito, produttivo di effetti
ordinativi «conformi alla volontà manifestata dal suo o dai suoi autori»
(subordinato, dunque, alla manifestazione esteriore della volontà, cioè
alla «forma» che la volontà assume per essere riconoscibile dai terzi); f)
era infine un atto giuridico lecito produttivo di effetti ordinativi confor-
mi, oltre che alla volontà manifestata dall'autore o dagli autori, anche
alla cd. «causa», cioè alla «funzione pratica che esso era obbietrivamente
in grado di realizzare».
Tanto premesso, è chiaro che, se di questo schema del negozio giuri-
dico non funzionava il meccanismo, si verificava una mancanza o impe-
dimento paralizzante. Mentre per indicare tale fenomeno i diritti moder-
ni sogliono ricorrere ai concetti di «validità» ed «efficacia (e quindi a
quelli di invalidità o nullità e di inefficacia) del negozio, i giuristi di
Roma, nella loro consueta tendenza al pratico, fecero ricorso principal-
mente al parametro, indubbiamente imperfetto, dell'utilità giuridica del-
l'atto, o meglio della sua «utilizzabilirà» ai fini della produzione di effetti
giuridici. In altre parole, i romani (e per essi i giuristi) ragionarono cosi;
per ogni azione umana «giuridicamente rilevante» ciò che è necessario e
sufficiente accertare è se essa sia effettivamente atta alla produzione di ef-
fetti giuridici o sia invece, alla resa dei conti, inetta a produrre gli effetti
voluti e sia quindi «inefficace». Il negozio efficace, pur potendo essere al
limite anche talvolta irregolare, era pertanto qualificato utile (utile); il ne-
gozio inefficace (valido o invalido che fosse) era invece qualificato inutile
(inutile, inàne, nul/lus momènti ecc.). Quanto al «negozio inutile>), si di-
stingueva tra inutilità iniziale o sopravvenuta, parziale o totale, tempora-
nea o perpetua: se l'inutilità era totale e perpetua, s( che non vi fosse pos-
GLI ATTI DI AUTONOMIA PRIVATA 61
oiziale
invalidità rcon effetti cx nunc
sopravvenuta lcon effetti cx tunc
I
r
totak -
riduzione
LParnk iconversione
tipi
di diritto (nullità)
_fgìudiziaria (annullamento)
1
r i snonbab le
5anatoria
i onvalesc enza
B) /n o fi/iM le acquiescenza
del negozio conferma
Lmti[ica
cause
r
H
pendenza di condizione sospensiva
pendenza dì tennine iniziale
Lifhpimc0t0 sopravvenuto
mertì inef.
ficacia r
dì diritto
tipi
H . risoluzione
giudrziana rscissione
Lltvocazione
TAvolA V1: A) Is capacità di agito (a. 15 e 20). - B) Cinutilità de] negozio giuridico (a. 16-19).
62 LA REALIZZAZIONE pAcrFrcA DELL'ORDINE PRIVATO
I negozi formali (cioè a forma vincolata) del diritto privato classico e post-
classre. saranno descritti nei capitoli V-XIV, ma è opportuno sin d'ora distinguerli
in quattro gruppi: a) negozi librali; b) negozi verbali; c) negozi documentali; i) ne-
gozi a forma complessa.
(al) 1 negozi librali (o «gesta per aes et Libram») erano quelli derivanti dall'anti-
chissimo diritto quirirario e dal pur esso molto antico negozio della «mancipazione»
(vi anczziatio) precivilistica [n. 28]. Essi servivano a Far acquistare ad un soggetto giu-
ridico (il inancipio acc2»iens) diritti assoluti sui sottoposti liberi, sulle cose màncipi,
sul patrimonio, eventualmente sulla stessa persona di un altro soggetto giuridico
consenziente. Siccome tali negozi si compivano con la cooperazione di un portatore
di bilancia (1ibriens: da libra, bilancia), il quale in antico pesava il bronzo non co-
niato (aes rude) dato in cambio dell'oggetto acquistato, Furono usualmente qualifi-
cati «librali». Tali: la mancipazione [n. 44], l'autovincolamento come ncxus [n. 10],
il pagamento librale [a. 62].
(a2) I negozi verbali erano caratterizzati dalla pronuncia di precise e inderoga-
bili espressioni orali (certa verba). Anche quando la pronuncia di queste formule si
verificava davanti a testimoti? (ed è da credere che Fosse unipotesi praticamente fre-
quentissima) la testimonianza degli astanti e la documentazione scritta del negozio
(cioè la testàtio) non costituivano req uisiti sostanziali. Il campo di esplicazione dei
negozi verbali fu duplice: (t) quello della costituzione, modificazione od estinzione di
rapporti obbligatori sopra tutto mediante stipulazione» (stipulatio [n. 67]); b) quel-
lo delle solenni disposizioni di ultima volontà nel «testamento» [n. 91]. Iiinverso
(l'actus contrarius) della stipulazione, utilizzato per estin guere il rapporto obbligato-
rio da esso creato, fu la cd, accettilazione verbale)) (acceptilatio verbis n. 62]).
(a3) I negozi documentali erano caratterizzati da una forma vincolata scritta
[n. 69], possono suddistinguersi in tre gruppi: a) un primo gruppo costituito dal-
66 LA REALIZZAZIONE PACIFICA DELL'ORDINE PRIVATO
ad oggetto la costituzione di una «dote» (dos): causa che disponeva di tre possibilità
di realizzazione negoziale [n. 371; b) il caso della causa transazionale (causa transac-
tienis), cioè della funzione sociale, resa sempre più frequente dall'incremento della
vita degli affari, avente ad oggetto la chiusura di una lite mediante reciproche con-
cessioni tra le parti: caso che poteva realizzarsi in molteplici modi negoziati e che
solo in periodo classico avanzato dispose (nei iimici, peraltro, del cd. «do UN) anche
di un apposito negozio bilaterale (la cd. transactio [n. 80]); c) il caso della causa di
donazione (causa donationis), cioè della funzione sociale avente ad oggetto una «li-
beralità, l'incremento del patrimonio di un beneficiano (il «donatàrius») per ef-
fetto di un corrispondente decremento del patrimonio di un beneficiante (il
«donàton), senza che vi fosse nessuna ragione di debito del secondo verso il primo
(nullo iure cogente»): finalità, quest'ultima, che, sino a quando una decisa svolta
non fu impressa dall'imperatore Costantino in periodo postclassico per il «patto di
donazione» (pactum donationis [n. 79]), poté essere realizzata mediante il ricorso a
negozi di ogni tipo, anche se formalmente a titolo oneroso (negozi traslarivi del
dominio o costitutivi di altri diritti reali, negozi costitutivi di obbligazioni del do-
nante verso il donatario, negozi estintivi di obbligazioni del donatario verso il do-
nante o persino verso un terzo creditore del donatario). Per disposizione dell'autore-
vole legge Cincia (do elonis et munèribus, 204 a. C.) furono tuttavia proibite le «do-
nazioni smodate» (cioè al di sopra di un certo limite: il cd. modus legis Cinciae) tra
«estranei» (non parenti, affini od altre persone di stretta familiarità), sia che avessero
carattere di liberalità morivate esclusivamente dal piacere di arricchire il beneficiano
(a{òna), sia che avessero carattere di liberalità motivate da doveri impegnativi solo
sul piano sociale (manera: cs., regali di nozze, regali di compleanno, contributi del
liberto a spese eccezionali sostenute dal patrono, «palmari» o premi speciali offerti
dai clienti agli avvocati in auspicio del loro maggiore impegno o in rapporto al
felice esito della loro difesa).
Una specie rilevantissima di negozi fittizi era quella dei negozi indiretti, cioè
palesemente intesi a creare un effetto giuridico diverso da quello indicato dalla ma-
nifestazione esterna: ipotesi nelle quali trovava luogo (se lecito) l'effetto giuridico
indiretto. Si trattava, di solito: a) di negozi di antica data che erano stati adattati a
diverse esigenze posteriori (si pensi alla mancipazione [n. 44], che da originario ne-
gozio di scambio di una cosa mancipi con un controvalore espresso in bronzo da
pesare divenne in tempi storici un negozio traslativo del dominio anche a titolo
gratuito o contro il pagamento di una simbolica moneta di minimo valore); b) op-
pure di negozi di data relativamente recente riversati alla meglio entro forme anti-
che (si pensi alla compera Fittizia del patrimonio ereditario effettuata nel procedi-
mento del testamento librale [n. 91]). Fenomeni tutti spiegabili al lume del tradi-
zionalismo caratteristico dei Romani.
(a2) Quando mancasse la evidenza del negozio fittizio, quando cioè
vi fosse una discordanza non evidente tra volontà e manifestazione,
l'orientamento dominante, sopra tutto in età preclassica e classica, fu di
non tenerne conto, e quindi di riconoscere come valido il negozio appa-
rente. Tuttavia, sia pure in casi singoli e non come regola generale, si ri-
tenne inutile il «negozio apparente» (e quindi inesistente la volontà mani-
festata, oppure valida la diversa volontà reale dell'autore o degli autori del
negozio), purché concorressero questi tre requisiti: che la causa della di-
scordanza (cioè la vis absoluta, l'errore di manifestazione ecc.) venisse
chiaramente provata; che il comportamento dell'autore della manifesta-
zione (interessato ad ottenere più tardi l'inutilizzazione del negozio) ap-
parisse oggettivamente scusabile; che non fossero lesi gli interessi dei ter-
zi estranei al negozio. Spunti, questi, che solo nell'evoluzione post-roma-
na si sono trasformati in regole di diritto.
In particolare, se in relazione ad un negozio bilaterale fosse interve-
nuto occultamente tra le parti un accordo simulatorio (inteso ad evitare
in tutto o in parte la produzione degli effetti scaturenti dal negozio appa-
rente), già la giurisprudenza classica manifestò una certa inclinazione
(esaltata poi dalla giurisprudenza postclassica) a conferirgli rilevanza tra le
parti: nel senso cioè che, ove della simulazione si fosse data sicura prova, il
negozio apparente (simulato) valeva di fronte ai terzi, ma era privo di ef-
fetti (in tutto o in parte) tra i suoi coautori, per i quali valeva il negozio
realmente voluto (e dissimulato).
Ipotesi del tutto anomala di accordo simularono fu costituita dalla intesa Fi-
duciaria (fiducia), cioè dalla corrispondenza puramente fiduciaria tra la volontà di
due o più soggetti per determinare, tra loro o rispetto a terzi, effetti giuridici non
previsti dall'ordinamento giuridico. Le esplicazioni principali di questa ipotesi furo-
no due: a) quella del vero e proprio «accordo tra due soggetti viventi, in forza del
Lk VOtONTÀ NEGOZIALE 71
(b) I problemi piú gravi, oltre tutto perché relativi ad ipotesi assai
frequenti, furono sollevati dalla formazione viziosa della volontà manife-
stata, cioè dal fatto che un soggetto si fosse indotto ad un negozio (unila-
terale o plurilaterale) senza la indispensabile libertà di valutazione o di
decisione. La rilevanza sempre pid accentuata di queste ipotesi si manife-
stò a partire dal periodo preclassico, in correlazione col diffondersi della
vita degli affari e col connesso moltiplicarsi delle questioni sollevate, a ri-
flessione pid fredda, dalle vittime della malformazione della volontà. Il
diritto civile offri in proposito possibilità di reazione molto scarse, salvo
che nei casi in cui la giurisprudenza riscontrasse errori vistosi nei quali
fosse incorso per sua inefficienza l'autore del negozio, e ne deducesse
l'inutilità totale o parziale del negozio stesso. Molto pid avanti si spinse il
diritto onorario a causa della frequente e vasta iniziativa dei magistrati
giusdicenci di intervenire contro coloro che eventualmente l'errore, o pid
in generale il vizio del volere, lo avessero scientemente provocato, o alme-
no favorito, in un altro soggetto (in una «vittima» del loro comportamen-
to non corretto, sostanzialmente illecito). Di qui la distinzione, divenuta
sempre piú netta e piú articolata nel corso del periodo classico, tra le ipo-
tesi: a) di dolo malevolo; b) di violenza morale; c) di errore non causato
né da dolo né da violenza morale.
(bi) Per dolo malevolo (dolus màlus) si intese il comportamento me-
scusabilmente malizioso di un soggetto (decèptor, raggiratore), nei riguar-
di di un altro soggetto (decèptus, raggirato), con cui fosse in trattative o in
rapporti giuridici già costituiti, esercitato allo scopo e con gli effetti di in-
durlo ad un'azione pregiudizievole ai propri interessi (<omnis calliditasfaL
lacia machinatio ad circumvenièndumfallèndum decipièndum àlterum
adhibita»). Lazione del raggiratore consisteva nell'aver superato i limiti di
una tollerabile «abilità negoziate» nella cura dei propri interessi (cioè i li-
72 Lk REALIZZAZIONE PACIFICA DELIJORDIN'E PRIVATO
miti del cd. dolus bonus), creando apparenze esteriori o situazioni psicolo-
giche tali da portare la vittima a prendere decisioni chiaramente contrarie
alla propria utilità economica e inducendola quindi, nel caso più frequen-
te, a concludere un negozio del tutto antieconomico. A questa larghissi-
ma accezione della figura del dolo si giunse, dalla giurisprudenza preclas-
sica e classica, non senza resistenze e discussioni; ma è certo che, quando
vi si pervenne, la repressione onoraria relativa costituf un'utilissima difesa
contro le più svariate violazioni del principio di correttezza nelle relazioni
intersoggettive [n. 871.
In età classica i mezzi giuridici intesi a combattere il dolus malta era-
no tre; a) 'eccezione di dolo» (cxceptio do/i); b) la «reintegrazione della
vittima decretata dal magistrato» (in integrum restitutio oh dolum); c) in ul-
tima analisi, l'azione di dolo» (actio de do/o) penale. Ma sia precisato su-
bito che questi mezzi si applicavano solo alle ipotesi (più gravi) di dolo
determinante (dolus causam dans), cioè di dolo che avesse determinato il
soggetto a concludere un negozio che mai avrebbe altrimenti concluso. Ai
casi di «dolo incidentale» (do/io [matta] incidens), cioè di raggiro che aves-
se indotto un soggetto a concludere il negozio a condizioni più onerose di
quelle che avrebbe diversamente voluto, sarebbe stato eccessivo applicare
rimedi troppo radicali e si provvide caso per caso, con espedienti vari, al
fine di realizzare una «riduzione» delle condizioni negoziali ad equità.
(h2) Per violenza morale (vis compu/slva) ovverossia per «timore nego-
ziale» (metus), si intese la situazione di oppressione psichica in cui taluno (il
coàctus, il costretto») avesse compiuto unattività giuridica, e in particolare
un'attività negoziale, subendo la ingiusta minaccia [n. 87] di altra persona
(controparte di un negozio bilaterale o terzo estraneo al negozio). Non sem-
pre, ovviamente, il timore negoziale aveva rilevanza giuridica; solo se esso
era stato determinato dalla minaccia di un male notevole (alla persona stessa
del coactus o alle persone di suoi stretti congiunti) e solo se il male minac-
ciato aveva carattere di illecito morale o giuridico, il pretore ritenne iniquo
che la vittima della minaccia subisse le conseguenze di una attività svolta in
istato di menomazione della sua volontà. Pertanto egli concesse anche alla
vittima (al coactus): a) un'<eccezione di timore (exceptio metto); /i) una
«reintegrazione d'autorità» (in integrum restitutio ol' metum); i) un'<actio
quod menu causa' penale.
(0) Lerrore di fatto (èrrorfactz) fu concepito come la ignoranza to-
tale o parziale di una circostanza di fatto, dalla quale fosse dipesa la dcci-
ione del soggetto a concludere i! negozio. Non si sortilizzb circa il punto
LA VOLONTÀ NEGOZL&LE 73
condizione potestativa negativa senza limiti di tempo, cioè della condizione so-
spensiva negativa rimessa alla volontà della persona che traesse vantaggio dal nego-
zio (es.: «lego cento a mia moglie se non si sposera»). In questa ipotesi gli effetti
del negozio non si sarebbero potuti produrre prima della morte del beneficiato,
perché non prima di allora si sarebbe avuta la sicurezza del verificarsi della condi-
zione (nell'esempio: mancai-e nuove nozze). Ad evitare questo inconveniente, il
giurista Quinto Mucio Scevola (sec. I a. C.) suggeri ai pretori la prassi, largamente
utilizzata, di concedere ai beneficiati l'immediato godimento delle attribuzioni
loro fatte, purché promettessero solennemente ai controinteressati, mediante una
stipulazione pretoria [n. 26] (cd. cautio 114uciana), il ripristino della situazione
originaria (restitzhio) nell'ipotesi che compissero in avvenire l'attività dedotta nega-
tivamente in condizione.
(a) Nel sistema del diritto civile antico (ius civile vetta), sorto in cor-
relazione ad un'economia agricola familiare di tipo autarchico, fortemente
restia agli scambi, il principio esclusivistico fu disapplicato solo in casi di
stretta necessità (es.: quello del curatore del pazzo) e nelle ipotesi affini di
particolare convenienza quali quelli, già indicati a suo tempo [n. 151, dei
sottoposti (liberi o schiavi) che compissero affari in luogo del padre o del
domino quando costoro fossero impegnati in guerra o nella vita politica.
Ai soggetti giuridici estranei alla famiglia era pertanto interdetto,
non solo di compiere atti diminutivi del patrimonio di un altro soggetto,
ma anche di compiere atti accrescitivi (cioè comportanti acquisti) di quel
patrimonio (<per extraneam personam adqu/ri non potest», si disse). È pe-
raltro probabile che si sia andato affermando nella pratica quotidiana, sin
dagli inizi del sec. III a. C., il ricorso da parte dei soggetti giuridici ad un
particolare tipo di soggetto estraneo, affinché li aiutasse ed eventualmente
li supplisse nell'amministrazione familiare: il procuratore o sovrintenden-
te (procuràtor) che era solitamente un liberto [n. 101 il quale esercitava,
con la palese fiducia del patrono, mansioni di «factotum» (procuràtor om-
nium bonorum): talora perché espressamente nominato dal patrono e ta-
laltra perché spontaneamente indottosi a curarne gli affari, sopra tutto in
ipotesi di sua assenza forzata, a causa del rapporto di patronato.
(b) La situazione cominciò ad essere alquanto diversa con la forma-
zione del sistema del diritto civile moderno (ius civile novu,n): sistema,
come sappiamo, venuto in essere in un'epoca di scambi economici assai
intensi e caratterizzato da negozi a forma libera. L'uso, per non dire la ne-
cessità, di concludere «negozi a distanza», tra soggetti che non fossero tra
loro a personale contatto (inter absèntes), valorizzò il ricorso allo scambio
di messaggi o all'invio di sostituti materiali, cioè alla negoziazione per let-
tera (per epistulam) o per mezzo di messaggero (per nuntium).
Ma non bastava. Spesso occorreva che alla negoziazione a distanza
provvedessero, con latitudine di poteri e di iniziative, persone di fiducia in
qualità di rappresentanti quanto meno indiretti. Di qui, nel quadro di
una vasta rete di rapporti di affari coperta dal contratto di mandato [n.
77], l'affermazione del mandato nell'interesse del mandante (cd. manda-
tum mea gratia). Questa prassi agevolò notevolmente l'inserimento parzia-
le dell'istituto del procuratore nel diritto privato: quando il procuratore
fosse stato espressamente incaricato del compimento di determinati affari
(uno o anche più) dal soggetto giuridico interessato agli stessi (nel caso
quindi del cd. «procuràtor unius rei»), era pronta a coprirlo la veste giuridi-
80 LA REALIZZAZIONE PACIFICA DELL'ORDINE PRIVATO
piedi. Per le obbligazioni assunte dal «capitano» nell'esercizio della sua funzione il
creditore aveva azione per l'intero (in sotidum) contro l'arniarore (l'exercitor navis).
L'azione istitoria (actia institoria) ebbe applicazione nell'ipotesi che un sog-
getto giuridico avesse preposto palesemente (cioè in modo che fosse chiaro a tutti)
un figlio, uno schiavo o un estraneo (servizi altrui o persona libera), alla gestione di
una bottega (tabèrna) o di una qualunque sua impresa commerciale fuori dell'am-
bito del commercio marittimo. Il nome di azione istitoria derivò dal fatto che inni-
tor (<preposto») veniva usualmente chiamato l'addetto alla gestione delle botteghe:
ciò che lo differenziava da un mandatario era la notorietà rispetto ai terzi della
preposizione all'attività commerciale praepositio negotiuioni.
Dazione tributoria (actio tributòria: in traduzione approssimativa, «asione di
attribuzione di parti») si applicò nell'ipotesi che un figlio o schiavo avesse impiega-
to, in tutto o in parte, in un certo affare, il «peculio» (peculium [n. 34]) a lui con-
cesso dal titolare della potestà, essendo quest'ultimo a conoscenza della sua specifi-
ca iniziativa. Se in dipendenza dell'affare si determinava uno stato di insolvenza, i
creditori erano ammessi ad ottenere dal pretore che il compendio del peculio (la
cd. nierxpeculiaris) ed i suoi eventuali successivi incrementi formassero oggetto di
una «distribuzione» proporzionale fra tutti (di una ad,ribatio a ciascun creditore di
una quota proporzionale al suo avere). Di compiere la ripartizione era incaricato,
ovviamente, il soggetto giuridico titolare del patrimonio di cui la merxpeculiaris fa-
ceva parte: l'aio tributoria era intesa appunto alla sua condanna nel caso che egli
avesse dolosamente attribuito meno del dovuto ad uno o pio creditori.
L'azione da benestare (actia quoti iussu) Ri concessa al creditore di un figlio o
schiavo contro il rispettivo padre o padrone nell'ipotesi che l'affare fosse stato com-
piuto per esplicito benestare dello stesso: nell'ipotesi cioè che il soggetto avesse
dato un espresso ordine (iussum) al sottoposto facendolo in qualunque modo sape-
re al creditore. AH'autorizzazìone preventiva era equiparata la successiva ratifica (i-a-
tihahitio).
Unione per il peculio (actio de peculio) fu accordata ai creditori del figlio o
dello schiavo contro il padre o padrone, nell'ipotesi che costui, pur non avendo
preposto il suo subordinato ad un esercizio commerciale e pur non avendolo auto-
rizzato ad un certo affare col contraente, avesse comunque assegnato al sottoposto
la gestione di un peculio, I creditori del sottoposto erano in tal caso ammessi ad
agire contro il padre o padrone nei limiti del patrimonio peculiare (dumt?ixat depe-
cullo).
L'azione per il ricavo (actio ne in reni verso) fu una variante dell'azione per il
peculio. Posto che un figlio o un schiavo privi di peculio, avendo contratto un'ob-
bligazione, avessero «riversato» in tutto o in parte il ricavo dell'affare (ad esempio,
L somma ottenuta in mutuo) nel patrimonio (nella «reo)) del loro padre o padrone,
si ammetteva il creditore ad agire contro quest'ultimo in ordine al ricavo da lui in-
Eroi ta ro e nei limiti dello stesso.
(c2) Per gestione di negozio in senso stretto (libera negotiorum alieno-
rum gestio) si intese dai giuristi la cd. «gestione d'affari» spontanea, cioè
82 LA REALIZZAZIONE PACIFICA DELEORDINE PRIVATO
Sommario: 21. La realizzazione coattiva dell'ordine privato. 22. Le procedure delle azio-
ni di legge. -. 23. Le procedure formulari. - 24. La struttura delle formule proces-
suali. - 25. Lo svolgimento del processo formulare. - 26, Gli istituti complemen-
tari delle procedure formulari. - 27, Le procedure straordinarie.
A) Processo giurisdì-
ionule: Iipi {Pesonale
di esecuzione
patrimoniale
[inrem i
sacramentum un pexonam
r•dichiarative i per iudicis (arbitrive)
postulationem
Lper condEctionem I
P, ],i, actiones J
Eper manus iniecrionem i
Lesecuve 4 ductio debitoris) I
3) Procedure romane
ordivarie (ordo {P capinnem T-
iudicioru
di cognizioneper formulas iudiciales
ordinana L(fasi in iure e apud iudicen)
cxhibitoria
[per formulns - ìntcrdìcta{reslìtutorìa
prohibitoria
inicerale
bonorum venditio
Ppcr
4
Ltionem
bonorum pnssessìo curn re
C) Procedure romane Ragni tio rnagistratuum re
straordinarie (cara
ordioem) cognitio pÌncipis (tutto i] processo in iuTa)
l'aro iuclìcis
Jpars pro actore }thema decid r ip
a pars pro reo endum tcondemnatio
D) fomufa r [iussum iud[caodi
di giudizio
h -[elementi accidentali:-[ demo ns tra tio, adiudicatì o.
'cripti, taxalio, exceptio (etc.)
TAVOLA VII: A) I tipi di processo giuridizionale (n al). -3) Le procedure ordinare: per azioni di
legge (n. 22) e formulari (i. 23-26). - C) Le procedure straordinrìe (a. 27) - D) Struttura
delle formule giudizrn!i (o. 24).
86 LA REALIZZAZIONE COATTIVA DELFORDINE PRIVATO
I sistemi procedurali che si seguirono (ma che per qualche tempo co-
esistettero e si fecero concorrenza tra loro) furono, nel lungo arco di tempo
della storia di Roma, i seguenti tre: a) quello delle procedure basate su
azioni di legge» (per legis actiones); b) quello delle ((procedure a impianto
formulare») (per formuLa); c) quello delle «procedure straordinarie» (extra
ordinem). Il terzo sistema, dilagato in periodo classico e in periodo po-
stclassico, va denominato «straordinario» (fuori dell'ordinario) a causa del
fatto che gli altri due costituivano la «giustizia privata ordinaria» (ordo iu-
diciorum privatorum) e furono sino alla fine riconosciuti formalmente
come tali.
Il procedimento in iure (cosi detto perché si svolgeva nel luogo in cui il magi-
strato sedeva su un palco detto trib4nale ivi impersonava l'autorità del iu4, serviva ad
instaurare la controversia nei suoi termini formali ed appunto perciò reclamava come
indispensabile la presenza di ambo le «parti» contrapposte: pertanto, se il Convenuto
rifiutava di seguire l'attore davanti al magistrato giusdicente quando riceveva da lui la
«citazione in giudizio (la vocatio in ius) attore, dopo aver fatto constatare il rifluto
da testimoni, poteva trascinarlo in ius a viva forza (operando nei suoi confronti una
«presa corporale, cioè una manus iniectia stragiudiziale), salvo che intervenisse uno
speciale girane (denominato vindex) ad assumersi la personale responsabilità della
sua comparizione ad altra data. Trovandosi finalmente i due davanti al magistrato (in
iure), se questultimo riteneva opportuno la remissione al giudice, la liti, contestatio
(letteralmente: la presa di conoscenza da parte di più testimoni) era il momento con-
clusivo essenziale acché il giudice fosse informato in modo preciso e incontestabile
dei termini della controversia (114.
Il giudice (iudex) o l'arbitro (arbiter) del procedimento di accertamento era
solitamente unico ed era un privato cittadino prescelto dal magistrato tra i nomi-
nativi iscritti in un'aggiornata «lista generale di persone atte (e disposte) alla fin-
zione giudicante (album irMicum) e senza avere particolare riguardo alle sue cogni-
zioni giuridiche, richiedendosi pie che altro in lui qualità di equilibrio e buon sen-
so. Tuttavia si formarono nell'antica Roma anche due collegi giudicanti specializ-
zati, che venivano eletti dai comizi tributi per tutto l'anno di carica del pretore: a)
il collegio dei centnmviri (centz,nviri), i quali giudicavano (talvolta al completo e
talvolta in commissione ristretta) talune controversie di maggiore risonanza sociale
(prevalentemente, questioni ereditarie [n. 93]); h) il collegio dei decemviri giudi-
ziali (decémviri srlitihns iudicandis) i quali erano veri e propri magistrati minori e
avevano il duplice compito di presiedere i giudizi centumvirali e di decidere in li-
nea esclusiva tutte le delicatissime questioni di accertamento della libertà o schiavi-
tù dì un individuo (cd. «processi di libertà» [n. 46]).
La sentenza (sententia ìudicìs) con cui si chiudevano i processi di cognizione,
anche se emessa su investitura ricevuta dal magistrato giusdicente, era pur sempre un
atto proveniente da un privato (o, nel caso dei centumviri e decemviri, da magistrati
di minimo livello): essa non poteva quindi coartare oltre certi limiti la persona del
soccombente e non poteva, in particolare, imporre a quest'ultimo di restituire al-
88 LA REALIZZAZIONE COATTIVA DELLOI4OINE PRIVATO
estesa esercitata, nel quadro del nuovo diritto imperiale, dalle procedure
straordinarie (cognitio extra ora'incm).
(a) Le caratteristiche generali delle procedure formulari di accerta-
mento furono solo in parte diverse da quelle delle azioni di legge. Il proces-
so cognitorio, di regola, fu del pari distinto in due «fasi», quella davanri al
magistrato (in iure) e quella (eventuale) davanti al giudice (apudiudicem),
ed il procedimento giudiziale corrispose anch'esso, in buona sostanza, a
quello del sistema processuale più antico.
Mutò invece notevolmente il procedimento davanti al magistrato (in
iure). Le parti non si recavano più a pronunciarvi dichiarazioni solenni e
rigide (certa verba) scelte entro un numero ristrettissimo di formulazioni
predererminate, ma ricorrevano al magistrato giusdicente per discutere tra
loro e con lui, informalmente, la questione concreta (spesso del tutto nuo-
va) che le divideva; dopo di che il magistrato, valutando con criteri di sano
equilibrio (aèquitas) le opposte ragioni, manifestava se ed entro quali limiti
avrebbe dato sfogo alla pretesa dell'attore, se e sino a che punto avrebbe so-
stenuto le difese del convenuto. Alla fine si perveniva, tra parti e magistrato,
alla impostazione concordata (conceptio verbòrum) di una specifica formula
di giudizio (formula iudi cii, detta anche, per breviloquenza, iudicium) alla
quale si sarebbe dovuto attenere il giudicante; ed è ovvio (e già, del resto,
sappiamo) che solo quando una certa regola di giudizio, relativa ad un certo
tipo di questione, si fosse sufficientemente consolidata, essa passava ad esse-
re recepita nell'editto magistratuale a titolo di formula del suo editto (for-
mula editti), cioè come «schema» di giudizio già predisposto per ogni futura
questione dello stesso tipo.
Dessenza del processo stava dunque nella «convenzione rrilaterale»
da cui scaturiva di volta in volta la regola di giudizio (iudicium). Quando
si fosse pervenuti all'accordo, l'attore, facendosi forte della implicita ap-
provazione del magistrato, scandiva a voce ben chiara al convenuto la for-
mula di giudizio concordata (iudicium concèptum) ed il convenuto dichia-
rava dal canto suo di accettarla (il che si diceva «d;ctàre et accip ere iva'i-
cium»). Sulla base di tale accordo a tre, cui si usò applicare per tradiziona-
lismo l'antico termine di contestazione della lite (litis contestatio), il magi-
strato giusdicente emetteva un decreto (iussum ìudicandz) con cui incari-
cava il giudice di procedere al giudizio.
(b) La conoscenza delle procedure formulari, ancor pid di quella del-
le legis atti ones, è essenziale per lo studio del diritto privato: non solo per-
cI,é molta parte di quest'ultimo si formò o si sviluppò in sede processuale
LE PROCEDURE FORMULARI 93
cia) erano azioni civili e personali (non honorariae e non in rem) il cui iudicium at-
tribuiva al giudice un largo margine di valutazione discrezionale, e cioè il potere di
stabilire a suo criterio tutto quanto il convenuto fosse tenuto a dare o fare in base
ai principi della buona fede (qwfdquid dare facci-e oportet exjìde bona). Le «azioni
arbitrarie (actiones arbitrariae, anche dette iudicia arbitraria) erano azioni persona-
li o reali il cui iudicium attribuiva al giudice, per 'ipotesi che si convincesse del
buon diritto dell'attore, il potere di far precedere alla condanna un esplicito avver-
timento (pronuntiàtio) con il quale rendeva noto alle parti le conclusioni cui era
pervenuto e dava in particolare al convenuto la scelta (arbitrium de restitu?ndo) tra
il subire la condanna pecuniaria o il ripristinare (restitJere) spontaneamente lo stato
giuridico da lui alterato (e quindi essere assolto).
(b5) La distinzione tra iudicia legittima e imperio continentia acquistò pecu-
liare rilevanza per effetto della legge Giulia del 17 a. C. Si applicò ad ogni specie di
azione formulare (sia ci vi/i, che honoraria, sia in rem che in personam) e riguardò la
struttura delle relative «regole di giudizio (dei iudicia concepta). Iiudicia furono
definiti legitima (»legittimi») se si trovassero ad avere le seguenti tre caratteristiche:
a) di riguardare una lis intercorrente tra un attore e un convenuto ambedue cittadi-
ni romani; 6) di essere relativi ad un processo celebrato a Roma-centro (non oltre
la prima pietra miliare dall'urbe); c) di rimettere la decisione ad un giudice unico
che Fosse cittadino romano (e non alla decisione di più recuperatores o di un mdcx
non romano), ludicia quae imperio continentur (delimitati dall'imperium magistra-
tualei) furono conseguentemente denominati gli altri. In ordine ai iwdicia legittima
la legge Giulia stabili, per dare un tempo congruo all'espletamento del processo,
che la sentenza potesse essere pronunciata entro 18 mesi dalla data della liti, conte-
statio; per gli altri iudicia valse invece la regola generale che la sententia iudicis, es-
sendo fondata su un conferimento di poteri da parte di un certo determinato ma-
gistrato giusdicente, dovesse essere pronunciata entro l'anno di carica del magistra-
to che avesse emesso il decreto relativo: scaduti i termini per la pronuncia della
sentenza, si verificava infatti (salva conferma del magistrato subentrante) l'estinzio-
ne del procedimento apud iudicem per cd. «morte della lite (mors liti5).
(66) La distinzione tra azioni dirette e utili (actiones directae e actiones uti/es)
viene qui costruita, su suggestione di terminologie romane, allo scopo di far diffe-
renza tra: le azioni civili chiaramente identificate nei loro contenuti e nei loro limi-
ti e dette anche perciò azioni dirette (actiones directae, cioè azioni «rettilinee»); e i
molteplici adattamenti utilitaristici che delle azioni dirette furono fatti dal ius ho-
norarium (e in parte dalla stessa cognitio extra ordinem) per poterle indirettamente
impiegare, più o meno deformandole, al di Fuori ed al di là della sfera di applica-
zione loro propria (donde la terminologia di utiliter agcre). Tra le azioni utili (azio-
ni, potremmo dire, «di ripiego») possono essere segnalate: a) quelle con una traspo-
sizione di soggetti, che consisteva nell'invitare il giudice ad emettere la sua senten-
za tra attore e convenuto sulla base dell'accertamento di un rapporto intervenuto
non tra loro due, ma tra uno di essi ed altri o esclusivamente tra altri (generalmen-
te in veste di loro rappresentanti o di loro sottoposti privi di capacità giuridica [n
20]): il che si otteneva (come sarà più chiaro tra poco) indicando nella condemnatio
LA STRUTTURA DELLE FORMULE PROCESSUALI 95
I nome delle parti processuali, ma indicando nella intentio il nome dei veri prota-
gonisti (e responsabili) del rapporto controverso; b) quelle con la finzione di un re-
quisito civilistico (cd.fictio iuris civili!) che consisteva nell'invitare il giudice a con-
dannare (o ad assolvere) il convenuto> dando fktiziamenre per scontata la esistenza
di un requisito del ius civile in realtà inesistente (es.: l'actio Publiciana del domino
pretorio [n. 47])t e) quelle con limitazione estensiva di un'actio originaria, che
consisteva nel creare un'azione sostanzialmente nuova, ma giustificata dal fatto di
essere costruita sul modello formale di un'azione preesistente relativa ad un caso
analogo (es.: le actiones ad cxemplum actionis legis Aquitiae, concesse dal pretore in
ordine a fattispecie di danneggiamento non perseguibili sulla base letterale della lex
Aqwilia de damno dato (n. 87]).
de non petendo opposta alI'actio del creditore che si fosse impegnato expacto a non
esigere mai più il debito. Le «exceptiones dilatoriae» (»eccezioni dilatorie») erano
quelle di cui il convenuto poteva giovarsi solo in certi periodi di tempo o in certe
circostanze, si che l'attore poteva evitarle (e vincere la causa) se aveva l'accortezza di
non promuovere l'azione in quei periodi di tempo o in quelle circostanze. Se poi
l'attore, malgrado l'opposizione di una exceptio dilatoria (si pensi all'ipotesi di un
convenuto che eccepisse il parto di inesigibilità del credito sino ad un certo termi-
ne), anziché ritrarsi o modificare il suo atteggiamento per poterla evitare, insisteva
nell'azione proposta, giungendo cosi alla litiscontestatio, non solo il convenuto an-
dava assolto, ma l'azione non poteva più riproporsi.
Clausole affini all'exceptio, che articolavano ulteriormente la dialettica del
giudizio, erano: la replicatio dell'attore all'excptio del convenuto (che eliminava, se
fondata, l'efficacia dell'cxccptio e riportava quindi alla necessità di condannare il
convenuto ove risultasse fondata l'intentio); la dupticatio del convenuto contro la
replicatio; la tr,plicatio dell'attore contro la iluplicatio ecc.
(a) Parti processuali (parta, o anche litigatotes, advcrsari[) erano di regola, nei
ruoli di attore e di convenuto, gli stessi soggetti del rapporto giuridico litigioso
(cioè del rapporto in ordine al quale era insorta controversia): salvo eccezioni che
abbiamo visto a suo tempo parlando della «mera capacità di agire» [n. 15 e 20],
erano dunque esclusi dal processo coloro che mancassero di soggettività giuridica
(jilii, servi, taluni peregrini). Se vi era concorso di due o piú persone nella posizio-
ne di parte attrice o di parte convenuta, era ammesso (e in taluni casi era necessa-
rio) che esse agissero congiuntamente nel cd. litisconsorzio attivo o passivo (consor-
tium eitisdem litis). Non era richiesta l'assistenza tecnica» delle parti ad opera di
patrocinatori (dcfcnsorcs) versati in materia giuridica, ma in ordine ai casi più deli-
cati e complessi le parti non trascuravano né di munirsi del responsum favorevole di
qualche rinomato giurista, né di ricorrere alla abilità dialettica e alla facondia di
advocati, patroni, oratores.
Quanto alla presenza delle parti in iure e apud iudicern, essa non era, di tego-
la, indispensabile: vi furono anzi casi di «sostituzione necessaria» nell'attività pro-
cessuale per i soggetti immateriali e per gli incapaci di agire, mentre furono previ-
ste, al di fuori di quei casi, possibilità di sostituzione volontaria [n. 20], cioè decisa
dalla parte stessa al fine di essere esentata dal parlare personalmente o addirittura
dal presentarsi in giudizio, in due ipotesi: a) quando la parte si presentasse almeno
una volta in curi, per indicare alla controparte un suo uomo di piena fiducia, il cd.
cògnitor (letteralmente: conoscitore, stretto conoscente), come suo rappresentante
LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO FORMULARE 99
diretto e questa nomina fosse accertata (oltre che dal cognitor) dall'avversario; b)
quando, in assenza della parte, si presentasse in iurc un terzo, asserendo di essere
procuratore speciale procuràtor ad litem) o addirittura amministratore generale
(procurator òrnnium bonorum) della parte stessa ed assumendosene, subordinata-
mente al consenso della controparte, la rappresentanza indiretta,
(b) Il procedimento in iure (davanti al magistrato»), considerato nel suo svi-
luppo normale, aveva inizio con la comparizione delle parti davanti al magistrato
ed aveva termine con la litiscontestatio.
La comparizione del convenuto era richiesta dall'attore, come già per la legis
actio, mediante la in ha vocatio (citazione): atto di invito, che creava un obbligo
del chiamato a seguire immediatamente l'attore davanti a1 tribunale del magistrato
giusdicente e che giustificava, ma in età storica solo in astratto, il cosringimento
fisico del convenuto in caso di recalcitranza. Ad evitare l'accusa di «citazione teme-
raria», cioè fatta alla leggera, e al fine di mettersi al riparo dalle responsabilità rela-
tive, l'attore usava accompagnare la vocatio con un'indicazione sommaria della pre-
tesa che intendeva far valere e dell'azione che si proponeva di esercitare: questo pre-
annuncio dell'editio actionis giudiziale (cioè della esposizione in iure dell'azione) era
solitamente pur esso denominato, non senza equivoci nella terminologia, editio ac-
tionis (beninteso <stragiudiziale»). Per poter prendere tempo ed ottenere dall'attore
un difFerimento della comparizione il convenuto soleva promettere, mediante un
vadimonium» (stragiudiziale), il pagamento di una congrua penale in caso di as-
senza nel giorno richiesto dall'attore: in mancanza di che (o comunque in mancan-
za del consenso dell'attore), egli si esponeva al successivo esercizio nei propri con-
fronti di una azione penale infact:m e, se non si presentava nemmeno in questo
caso, poteva essere dichiarato «lacirante (làtitans), cioè colpevolmente restfo al pro-
cesso, dando modo all'attore di ottenere dal magistrato la missio in bona a suo dan-
no con il rischio di una rovinosa bonorurz v,,diti,.
Avvenuta la comparizione del convenuto in iure, poteva darsi (ed era anzi fre-
quente) che il procedimento durasse troppo a lungo per poter essere esaurito in
una sola udienza e che occorresse perciò un differimento della causa. In tal caso
'attore invitava il convenuta alla «ricomparizione» nella nuova udienza purché ade-
risse ad un vadirnonium (<vadimonio giudiziale») da lui Formulato, e cioè gli pro-
mettesse solennemente, in cospetto del magistrato, dì essere presente all'udienza di
rinvio, o altrimenti di pagargli (eventualmente col supporto di garanti) una con-
grua summa vadimonii. Se il convenuto non era in grado o si rifiutava di prestare il
vadìmonium richiesto, il magistrato lo considerava, a quanto sembra, responsabile
di «mancata difesa» (indefensui) e pronunciava quindi, a suo carico e a favore del-
l'attore, la missio in bona.
Di fronte al convenuto comparso effettivamente in iure l'attore: a) procedeva
alla formale edicio actionis (esposizione dell'azione»), cioè ad una indicazione pun-
tuale della propria pretesa, designando eventualmente (se era già prevista dall'edit-
to) Isformula edittale relativa; b) rivolgeva pertanto al magistrato la «postulati'o
tionis», cioè la richiesta di concedergli un apposito iudicium. Sul punto il convenu-
to era libero di intavolare una discussione, illustrando i motivi di fatto o di diritto
100 lÀ REALIZZAZIONE COATEIVA DEL ORDINE PRIVATO
per cui l'actio contro di lui esercitata dovesse essere denegata sul momento dal ma-
gistrato o comunque sicuramente respinta dal iva'ex. A seguito di questa discussio-
ne e (indipendentemente dalle richieste delle parti), sulla base dei suoi propri e di-
screzionali rilievi il magistrato giusdicente decideva: a) se 'azione fosse da denegare,
da respingere perché improcedibile, cioè perché inammissibile per ragioni formali;
h) subordinatamente, se 'azione, pur essendo procedibile, rosse da dcncgarc perché
manifestamente infondata o iniqua; c) subordinatamente ancora, in quali termini
l'azione, essendo procedibile e non manifestamente infondata, Fosse da trasfondere
in un iucjicium.
In talune ipotesi l'editto permetteva all'attore di procedere ad un'interrogado
in iure (interrogazione davanti al magistrato) del convenuto, allo scopo di accertare
prima della litiscontestatio se egli fosse verametite il titolare de]I'obbligo (per esem-
pio: interrogatio aH reus heres sit, intesa a stabilire se il convenuto fosse l'erede del de-
bitore originario). La risposta affermativa o la risposta mancata o reticente conforta-
vano l'attore a proseguire nel processo; la risposta negativa (che poteva anche essere
non veririera) lo poneva al bivio tra il rinunciare all'azione processuale o l'insistervi,
assumendosi il carico dì provare che il convenuto aveva dichiarato il falso.
Affinché il procedimento in ira-e pervenisse alla litiscontestatio, cioè all'accor-
do di rimettere la questione al giudice, non era sufficiente la comparizione del
convenuto, ma occorreva una cooperazione attiva del convenuto con l'attore e il
magistrato: sia prestando le rautìoncs processuali richiestegli e sia, sopra tuto, ma-
ifestando il suo consenso in ordine al iudicium. La cd. indefensio (mancata dife-
sa) non bastava a giustificare un processo in contumacia (cioè in assenza ritenuta
colpevole) del convenuto, ma implicava che il procedimento in iscre subisse una
sospensione». Per costringere indirettamente il convenuto a lite,;; contestare (op-
pure ad effettuare la confessio in iure, di cui parleremo) furono però escogitati vari
sistemi, che confluivano, in ultima analisi, nella solita miss/o in bozza a carico del-
I 'indfensus: il convenuto aveva quindi tutto l'interesse ad addivenire alla co ntesta-
zione della lite, piuttosto che correre il rischio di una procedura concorsuale sul
suo patrimonio.
(c) La Ihis co,,testatio (litiscontestazione»: vecchia terminologia per un con-
certo del tutto nuovo) era il momento» processuale in cui, raggiuntasi l'intesa a tre
circa la persona del giudice e la formulazione del iva'icium: a) da un lato, il giusdi-
cente proclaniava formalmente il nome del giudice (a'atìo iva'ici); b) dall'altro lato,
l'attore scand i va i precisi terin in i de] iva'icium al convenuto otte nen done un coi' -
portamento (anche di silenziosa acquiescenza) affermativo (dicta;io et acceptio indi-
cii). La vecchia terminologia si adattò al nuovo istituto per il fatto che, di solito,
anche in questo caso alcuni tes ti morii (knes) erano chianiat i ad assistere alla vicen -
da e che inoltre si procedeva ad una documentazione probatoria scritta (testano)
per informate meglio il giud icante circa i termini del iudicium. Concettualmente
indipendente dalla litiscontestatio, sebbene il più delle volte taci amen te implicato
da essa, era il iussum iva'icandi rivolto dal magistrato al giudice cioè l'investitura di
quest'ultimo (se ed in quanto fosse presente o fosse adeguatamente informato dal
magistrato stesso) nella polestà di giudicare.
IO SVOLGIMENIO DEL PROCESSO FOI(MULkRE 101
Effetto della litiscontestatio era la res in ina'icium dedueta, detta anche rer indi-
canda (cosa giudicanda», «regiudicanda»), vale a dire la fissazione non pid retrarra-
bile o modificabile, della materia del contendere nei termini indicati dal merito del
iudicivm. Le parti erano quindi da quel momento reciprocamente obbligate a subire
le conseguenze della sententia che avrebbe emesso il giudicante: l'eventuale condem-
natio, il convenuto; l'eventuale abso/utio di quest'ultimo, l'attore.
Effetto del iussupn iudicandi era l'investitura del giudicante nella potestà di
condannare o di assolvere il convenuto entro il termine Finale (termine peraltro,
prorogabile con nuovo iussnm zudnandz) di IS mesi dalla litiscontestatio per i iudi-
cia tegiti ma o dell'anno magistra tuale per i iudicia imperia conti tientia.
(d) Eccezionalmente, ad una decisione senza liti, coyztestatio (e senza necessi-
tà del successivo procedimento apud iudiccm) si poteva pervenire, nel corso del
procedimento in iute, a causa: a) di una confessio in iure; 6) di un iroiurandum in
iure a carattere decisorio. Entrambe queste ipotesi avevano effetti equiparabili a
quelli di una sententia iudicis.
(dO La confessio in iure (sconfessione,
davanti al magistrato») consisteva nel
riconoscimento esplicito, operato in iure personalmente dal convenuto, del buon
fondamento della pretesa dell'attore, quindi dell'esistenza dell'azione sostanziale
vantata da quest'ultimo. Si usava dire, a questo proposito, che «confesszis pro iudica-
to ch (il confesso vale come giudicato), e ciò stava a significare due cose: a) anzi-
tutto, che la confessio faceva stato tra le parti alla stessa guisa di una sententia iudi-
ris; 6) secondariamente che la confessio relativa ad un'azione intesa ad ottenere una
certa pecunia (una somma dì danaro) era pienamente equiparata ad una sententia di
condanna a quella somma e dava quindi adito all'esecuzione forzata. Se l'azione era
intesa all'ottenimento di un certum cile non fosse somma di danaro», ma necessi-
tasse di una traduzione in danaro, oppure se essa era intesa al conseguimento del
controvalore di un incertun, la confessione del convenuto non valeva ad eliminare
del tutto la necessità di addivenire alla litiscontestatio ed alla successiva sententia: di
questa vi era pur sempre bisogno, se non per accertare il buon diritto dell'attore
(ormai riconosciuto dal convenuto), almeno per stabilire la mmmii condemnationis
che il convenuto era tenuto a pagare.
(d2) Il iusiurandunz in iure («giuramento dava n ti al magistrato») era il solen-
ne giuramento del buon fondamento delle proprie ragioni che una parte (convenu-
to o attore) era invitata a compiere (mediante una ddatio iwrìsiunandi, un »deferi-
mento a giurare') dalla sua con rroparte. Se il destinatario dell'invito a giurare si as-
sumeva la responsabilità religiosa e giuridica di giurare di aver ragione (cioè del ius
iurandunì dare), il suo buon diritto era posto fuori discussione, con tutte le conse-
guenze del caso; se invece egli si rifiutava dì giurare, si procedeva alla normale litis-
contestatio, Solo in talune ipotesi di cd. iusiurandum nccessarium (cioè di irrecusabi-
lità del giuramen o) il magistrato appoggiava con la sua autorità la delazione del
giuramento fatta dall'attore al convenuto e trattava quindi quest'ultimo, ove si ri-
fiutasse di giurare, come indefensus. Ma si badi bene: il destinatario del deferimento
a giurare (attore o convenuto che fosse) poteva sempre rovesciare la situazione, in-
vitando a sua volta la controparte (con una rehatio iurisinnandi, «riferimento» o ti-
102 LA REALIZZAZIONE COATTIVA DELt]ORDIN'E PRIVATO
lancio del giuramento) a giurare essa di avere ragione (cioè di non dover subire la
condanna, se in situazione di convenuto; oppure di dover ottenere la condanna, se
in situazione di attore) in conseguenza di che la decisione della controversia era ri-
messa appunto alla controparte,
(e) Il procedimento apud iva'icern (<davanti al giudicante»), cioè la iudicatio
della procedura formulare di accertamento, aveva inizio: in astratto, nel momento
della lii iscontestatio, cioè nel momento in cui, chiusa la fase in iurc con l'emissione
del iussurn iudicandi, si apriva la decorrenza dei termini per la pronuncia della seri-
tenza; in concreto, nel momento in cui una delle parti (generalmente, ma non neces-
sariamente, l'attore) provvedeva a comunicare alla controparte, rendendolo altresi
noto al giudicante (iva'ex, arbiter, recuperatores), un invito a comparire» davanti al
giudicante stesso in un certo luogo e in Lilla certa ora di un giorno non festivo dila-
zionato di almeno altri due giorni (cd, comperendinatio, cioè rinvio sino a tutto il
poidomani, anche detta inrèrtiurn o altrimenti).
La normalità era che il procedimento si svolgesse in contraddittorio tra le parti
(al pari di come era richiesto per la fase in iure) e che il giudice desse ascolto ad am-
bedue i contendenri (audiatur et altera parn). Tuttavia, se la parte convocata non
compariva, né dì persona né in persona di un suo sostituto (cognitor o procurator che
fosse), l'attività dì giudizio si svolgeva in sua assenza (o sin quando perdurasse la sua
assenza) sulla base dei soli elementi addotti dalla parte diligente: il che spiega come
essa avesse tutto l'interesse ad essere presente sin dall'inizio, e come poi tutte e due si
adoperassero ad influire sul convincimento del giudicante non solo di persona, ma
anche con l'ausilio (patrccinium) di efficaci difensori (patroni, advocati. oratore,).
Quanto al giudicante, egli esordiva con un solenne giuramento (iusiurandum
iidicis) che lo impegnava davanti agli dei a svolgere la sua funzione non solo con as-
soluta imparzialità, ma anche con piena diligenza nel procedere alla direzione delle
udienze ed alla flssazione degli eventuali rinvii (diffissiones) in modo tale che fosse
evitata la mors liti:. Ove al magistrato giusdicente giungessero (principalmente per
iniziativa di una parte insoddisfatta) notizie attendibili di un suo comportamento
gravemente irregolare, il giudice poteva ricevere l'ordine di sospendere momentanea-
mente la sua attività o addirittura il divieto di portarla a termine.
Il procedimento si svolgeva, spesso in molteplici udienze, con dibattimento
orale, ma era uso documentario in iscritto (con la cd. «verbalizzazione» dellinguag-
gio corrente odierno). La direzione spettava al giudicante, il quale: da un lato, era
tenuto a lasciar parlare le parti ed a permettere loro di proporre le prove che rire-
nessero opportune (il che si diceva causac co,4icctio, cioè impostazione della causa);
dall'altro, era libero di disciplinare la durata degli interventi e l'ordine delle produ-
zioni, ed era altresi autorizzato a procedere, se lo ritenesse opportuno, a un «inter-
rogatorio ilberc» di Lino O dì ambedue i contendenti, per ottenerne chiarimenti e
delucidazioni. Non era libero invece il giudicante di basare la sententia su indagini
svolte personalmente o per sua iniziativa (inquisitioner)', anzi egli era strettamente
tenuto a giudicare sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dai litiganti (ma-
t, allikàta et probà:a). L'onere della prova (ònus proba'id:) spettava, di regola, a chi
affermasse una circostanza, non a chi la negasse (ci incumbi: pro batio qui dicit, non
LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO FORMULARE 103
qui negat»): quindi spettava all'attore in ordine alle affermazioni contenute nell'in-
tentio o nella replicatia, mentre gravava sul convenuto in ordine alle affermazioni
contenute nell'exceptio o nella duplicatio.
Mezzi di prova (probationes), o comunque di convincimento del giudicante
(iargumcnta»), potevano essere: i documenti; le testimonianze (testimònia), sopra
tutto se spontanee (che avevano quasi il carattere di interventi a difesa); le consu-
lenze tecniche dì esperti; i «fatti furori» (cioè talmente e tanto diffusamente cono-
sciuti, da non aver bisogno di dimostrazione); le rilevazioni dirette del giudicante.
Ancora, erano mezzi di prova (logicamente molto efficaci, ma comunque mai deci-
sivi) : le «3m miss ioni delle parti,, (integranti la ccl. conJ?ssio in iudicio); e il iusiuràn-
dum in litep,i (giuramento sulla cosa con tes tara»), proposto (non imposto) all'atto-
re dallo stesso giudicante, affinché stimasse il valore della cosa controversa (lis) o
del danno sofferto.
Dalla valutazione del materiale probatorio, rimessa esclusivamente al suo «li-
ber. convincimento», poteva, peraltro, ben darsi che il giudicante non riuscisse a
trarre elementi per una serena decisione a favore dell'attore o del convenuto. in
questa ipotesi gli era permesso di effettuare la rinuncia al compito di emettere la
sentenzia, purché affermasse con giuramento che la soluzione non gli riusciva chia-
ra (iwrare reni sibi non / ìqu?re). In tal caso la causa era rimessa dal magistrato alla
cognizione di un altro giudice (mutatio iudici4.
(i') La sententia iudicis (sentenza giudiziale), con la cui proclamazione (pro-
baio sententiac) si chiudeva la fase apud iudicem del processo, era un atto comples-
so, costituito: a) da un parere» sulla controversia contestata, che il giudicante e,na-
nava a conclusione della cognitio da lui effettuata (sententia in senso stretto); h) da
un conseguente e connesso «provvedimento» di condernnatio, adiwdicatio o absolu-
tio, che il mdcx emanava in forza dei poteri conferitigli dal magistrato mediante il
iwssum iudicandi (iudicatum in senso stretto). Il giudicato poteva consistere: in un
mero accertamento (nel caso dell'absolutio e della decisione dei pratiudicia), in un
accertamento costitutivo (nel caso dell'adiwdicatio), in un accertamento con con-
danna (nella maggioranza dei casi). Se il giudicato non si risolveva in un'adiudica-
tio, ma consisteva in una condemuatio, il convenuto diveniva titolare di una obbli-
gazione di eseguire la condanna (obligatio indicati) nei confronti dell'attore.
L'eventuale condanna del convenuto consisteva sempre in una somma di da-
naro, determinata già nel iudiciurn oppure rimessa alla valutazione del giudice (con-
demnatio pecuniaria), e mai in zsa'n reni. Ad essa il convenuto poteva sfuggire (ot-
tenendo perciò l'assoluzione) solo se restituiva preventivamente la cosa di cui avesse
spossessato l'attore o se dava preventivo soddisfacimento all'attore del suo credito
dì cosa determinata (satisfacuo actor:). Molti giuristi (i cd. Sabiniani), giustamente
basandosi sulla separazione concettuale esistente tra senuntìa in senso stretto e
provvedimento, sostennero pertanto che il convenuto potesse sino all'ultimo mo-
mento ottenere in ogni caso l'assoluzione, ove restituisse la cosa o eseguisse la pre-
stazione (e in questo senso si disse «otnnia iudicia absotwtoria esse).
La sententia indici: poteva essere invalida solo per motivi di Forma e, in partico-
lare, per la non corrispondenza del pronunciato del giudicante alle limitazioni a lui
104 LA RRAI,IZZAZIONE COATF!VA DEljORt)INF PRIVATO
imposte dalla regola di giudizio, cioè dal iudicium formulato in sede di liti, conteflti-
tio. La sentenza validamente emessa era irrevocabile dal giudicante, inoppugnabile
dal soccombente, inevitabile dalla parte che non avesse (o non avesse più) interesse
alla sua pronuncia. Particolarmente rigorosa era la regola dell'inevitabilità», la quale
si riferiva: a) alla parte (attore o convenuto) assente apud iudirem; 6) alla parte che si
Fosse tardivamenre accorta di aver omesso di fare iscrivere nel iudicium u n'exceptio (o
una repticatio ecc.) a suo favore (o si fosse accorta di aver prodotto un'exceptio, o una
replicatiti ecc., intempestiva); e) all'attore che fosse incorso in «eccesso di domanda
pLuris pnis io), che avesse cioè preteso con l'intentìo tiri diritto più vasto o più inten-
so di quanto il giudicante avrebbe potuto accertare: nel qual caso, dato che il giudi-
cante on poteva sfuggire all'alternativa tra il dichiarare esattamente fondata o non
esattamente fondata l'intentio, la conseguenza era l'assoluzione dei convenuto.
g) La sententia isdicis validamente emessa (o la confessio in iure nei casi in cui
era ad essa equiparata) determinava la re: indicata ( cosa giudicata» o regiudica-
la»), cioè la definizione incontestabile e irretrattabile (per il passato e per il Futuro)
della questione insorta tra le parti e portata all'esame del giudicante, quindi la fine
della lire tra le partì.
Conseguenza della cosa giudicata era, a maggior ragione che per la i'egiudi-
canda, il divieto di identità di causa, cioè il divieto di riprodurre la stessa questio-
ne in giudizio, vale a dire: non solo la inammissibilità di un nuovo procedimento
apnd iudic'ern ( che sarebbe stato invalido), ma sopr,tutro la cd. «preclusione di altre
azioni tra le stesse partì» (o i loro successori o rappresentanti) in ordine allo stesso
merito (bis de eàdeni re ne sii actia: non vi sia azione due volte per la stessa questio-
ne). L'eventuale divieto non produceva sempre le stesse reazioni: a) se si trattava di
indicia legitirna relativi ad actiones in pci-soriani e in itis conceprne, la ?ade,n re, indi-
cata era rilevabile dal giudice ex officio (anche se il convenuto non lo chiedesse o
non lo segnalasse) sino al momento della pronuncia della sententia, con la conse-
guentut che il convenuto andava assolto; 6) se si trattava invece di altri indicia (cioè
di indicia legieùna in pci-soriani con formula in factum, di indicia !egitiina in reni e
di izidicia imperi, continentia), la esistenza di un'identità di regi ud ira ta o di reg i u-
d icanda (cioè l'esistenza di una èadeni rei indicata o di una ?adcrn re; indicanda) do-
veva essere fatta valere dal convenuto, nella Fase in iure, mediante la formulazione
di un'apposita «eccezione di identità di causa» (exccptio rei ìndìcatae ve1 in iva'iciu,n
dednctae). In questa seconda ipotesi la posizione del convenuto era, dunque di
gran lunga meno Favorevole, potendo egli ben essere condannato di nuovo per una
questione identica ove non avesse provveduto a opporre tempestivamente (in iure
l'eccezione.
A prescindere dall'efficacia preclusiva, la cosa giudicata e la cosa giudica nda
(o meglio, gli arti di cui esse erano espressione: litiscontestatio,confessio in iure,
sentii) aveva rio una «e0] cacia ordinativa» taci riguardi della parti e di ogni altro in-
e ressa t o all a controversia: costoro erano, i mi fatti, tenuti per l'avvenire a sottostare al
preciso regol ame'i to di interessi risultante dalla re, iuc/icanda o dalla re! indicata.
Ovviamente, erano invece sottratti a tale regolamento di interessi i terzi estranei
alla controversia (rer i,,t,',' olio urti, tersi,, ?2eq2#9 nocère neqnc proa'èssc dcbet). Nate-
GLI ISTITUTI COMPLEMENTARI DELLE PROCEDURE FORMULARI 105
voli difficoltà pratiche derivarono, peraltro, dalla necessità di stabilire quando si ve-
rificasse e quando non si verificasse il caso dell'<ddentir'a di causa» (cioè dell'èadem
res, iudicanda o iudicata). In linea approssimativa, i giuristi romani giunsero a sta-
bilire che la cosa giudicata o giudicanda: a) incontrassero i loro «limiti oggettivi»
nei fatti anteriori o coevi al momento della decisione (oltre i quali Fatti non era
possibile ammettere la efficacia della litiscontestztio e rispettivamente della scnten-
tia); b) incontrassero i loro «limiti soggettivi» nelle persone delle parti in causa, dei
loro successori e dei loro aventi causa a titolo particolare (oltre i quali soggetti l'ef-
ficacia della litiscontestatio e rispettivamente della sententia non era estensibile).
(I,) L'esecuzione forzata della sentenza di condanna, nella ipotesi che il soc-
combente non adempisse l'oblzkatio indicati, non era conseguibile sulla base della
stessa sentenza. Acché si formasse il «titolo esecutivo», giustificante appunto 'ese-
cuzione forzata, occorreva che l'attore passasse a promuovere una speciale «actia iu-
dicati», intesa ad ottenere la piena conferma della sentenza a suo favore e, per con-
seguenza, la condanna del convenuto al doppio della primitiva summa condemna-
tionis. Ma il convenuto poteva addurre, a sostegno della sua ostinata riluttanza al-
l'adempimento (cioè a conforto della sua cd. infitihtia), solo argomenti intesi a di-
mostrare la invalidità della sentenza (invalidità limitata, come già si è detto, a que-
stioni di forma): il che generalmente lo sconsigliava dal pervenire alla litiscontestatio
e dall'esporsi alla condanna nel duptum, inducendolo sia pur con ritardo e malvo-
lentieri, al pagamento della somma dovuta o almeno alla confessio in im-e del suo
obbligo (confessione che gli evitava il carico del duptum, pur avendogli concesso
qualche ulteriore momento di respiro).
Il titolo esecutivo costituito dalla sentenza di condanna conseguente all'actio
iudicati (o dalla confessione del torto nel procedimento in iure aperto con quell'azio-
ne) dava finalmente all'attore la possibilità, sempre che il soccombente insistesse nel
non adempiere, di agire contro lo stesso soccombente con la legis actio per
iniectionem allo scopo di farselo assegnare in potestà (addicere) dal magistrato e di
essere ripagato del proprio credito mediante il suo lavoro. La procedura relativa si
semplificò, dopo la iex lutia del 17 a. C., sino al punto che bastava al creditore la cd.
ductio debitori,, cioè la «traduzione» in iw del debitore, e ivi la richiesta formale
dell'addictio al magistrato, per poter conseguire il risultato. Tuttavia le difficoltà e le
mitigazioni comportare dall'adozione di questo sistema erano ormai tanto ingenti,
che ad esso si ricorreva esclusivamente nell'ipotesi in cui il debitore si fosse ridotto
sul lastrico e qualcosa si potesse ricavare da lui solo utilizzando il suo lavoro subordi-
nato: per pochi che egli avesse di beni, meglio era far capo al procedimento della im-
missione conservativa nel suo patrimonio (missio in bona [n. 26]).
nei riguardi dei reni, ed inoltre egli era ammesso ad esigere i crediti del fallito pres-
so i debitori di lui, agendo in sua sostituzione con speciali azioni onorarie.
tenori limitazioni che Furono imposte prima dalla cd. Aegge delle citazioni» del
426 e poi dai divieti giustinianei di discostarsi dai principi della grande compila-
zione del 529-534, la conclusione è che la libertà dei giudici fu in pratica sempre
più mortificata.
Le caratteristiche generali delle procedure extra ordinem (e in parti-
colare della cognitio extraordinaria principis) furono le seguenti sei: a)
l'unità del procedimento, nel senso che l'attività di istruzione e di giudi-
zio non venne pid rimessa al giudice privato, ma fu esercitata dallo stesso
funzionario imperiale (o magistrato speciale) davanti al quale la causa era
stata promossa; b) l'ufficialità del procedimento, nel senso che il funzio-
nario-giudice, una volta introitata la causa, aveva poteri assai lati di inda-
gine (di inquisitio) sul merito dedotto alla sua cognizione, pur non po-
tendo andare al di là delle richieste formulate dalle parti (ultra pn/ta par-
tium); c) la procedibilità contumaciale, nel senso che la presenza del con-
venuto (e la sua adesione all'impostazione della questione di decidere)
non fu più indispensabile, potendosi la procedura espletare, sino alla pro-
nuncia della sentenza, in contumacia, cioè nell'ingiustificata assenza del
convenuto o anche talvolta dello stesso attore; ti) la impugnabilità delta
sentenza, nel senso che contro la sentenza ritenuta ingiusta il soccomben-
te ebbe la possibilità di ricorrere, ai fini di una revisione, al funzionario di
grado superiore, sino ad arrivare al prefetto del pretorio e talvolta addirit-
tura all'imperatore; e) la specificità della condanna, nel senso che la con-
danna non fu più necessariamente pronunciata in una somma di danaro,
ma venne pronunciata nella stessa prestazione oggetto di controversia,
traducendosi in equivalente pecuniario solo se l'esecuzione in forma spe-
cifica della prestazione non fosse più possibile; J) la esecutività ufficiale,
nel senso che, anche in dipendenza dell'ufficialità del procedimento,
l'esecuzione forzata della sentenza di condanna fu rimessa ad appositi uf-
ficiali giudiziari statali (gli apparitòres o offlciales).
Tanto premesso sul piano generale, non crediamo che valga la pena
di descrivere minuziosamente le svariate vicende delle procedure straor-
dinarie, sopra tutto in periodo postclassico. Ci limitiamo a ribadire che
il processo straordinario, pur essendo sostanzialmente sempre più diver-
so dalla procedura formulare ordinaria [n. 25], ne conservò o cercò di
imitare esteriormente le forme e il relativo linguaggio (es.: intentio, con-
demnatio, exceptio, praescnptio ecc.): il che può trarre in inganno chi leg-
ga poco cautamente le fonti di conoscenza a noi pervenute attraverso le
compilazioni postclassiche.
112 LA REALtZZAZIONE CCAYfIVA DELEORDINE PRWATC)
advocati, che con l'andar del tempo furono sempre pi6 frequentemente utilizzati
come rappresentanti tecnici delle parti.
(lì) Jiistruzione probatoria nei processo di cognizione fu sottratta al dominio
SoMMARIo: 28. I rapporti assoluti del diritto privato. - 29, TI possesso. - 30. Il possesso
interditrale, -. 31. La comunione dei diritti assoluti. - 32. TI regime della comunio-
ne dorninicale.
rgenuh zia
indifferenziata 4
Ldomesti Ca
r- riparto in quote i
patria potestas
familiari (e. VI) iI manus
potestas SUL l'bti in mancipio
Da ritalis
L aurorirà maritale sine
va ra [ami! iari
r oncia impuberum
tutela m Lein
in senso
I c. VII)
proprio i 1cura Erriosi, prodigi etc,
cura rninorDm
r servitures praediorum
reali di godimento I ususfructus e affini
I (c. X) isuperficies
in senso J L emphvteusis
impropr!o
} reali di garanzia r da [ìducia cani creditore
IX) -1 da pignus datum
Lc L da pignus
Tonio, VITI: A) Le ipotesi del possesso (n. 29.30). - B) Le ipotesi della comunione di diritti assoluti
(n. 31.32) - C) I rapporti giuridici assoluti (cap. VI-IX).
118 I RAPPORTI GIURIDICI ASSOLUTI
sotto mano erano sottoposti «provvisori», che potevano essere anche affrancati
(manuinissz) o dismessi per effetto di divorzio, e che tornavano in tal caso alla loro
condizione giuridica precedente: o di capi a tutti gli effetti delle loro famiglie, o di
sottoposti del loro capo originario. In terzo luogo, gli schiavi erano invece oggetti
«normali» di rapporti giuridici (ed appunto perciò furono inclusi più tardi tra le
cose), ma con questa particolarità: di poter essere eventualmente affrancati alla stre-
gua dei liberi sottoposti a mancipio e di diventare per questa via, essendo privi di
una famiglia romana di origine a cui far ritorno, non solo liberi, ma (si noti) anche
cittadini e soggetti di diritto privato. In quarto luogo, i discendenti agnatizi (in
senso stretto e in senso lato) erano oggetti giuridici «a titolo temporaneo», ma po-
tenzialmente erano soggetti giuridici, perché sarebbero divenuti indipendenti, in
un futuro più o meno lontano, allorché il capofamiglia della loro stirpe agnatizia
fosse scomparso: essi vennero pertanto contraddistinti anche col termine di «liberi»
(o di rapita»), cioè di membri in qualche modo già influenti nella vita della comu-
nità. Le premesse di una dissoluzione del roancipuco,> schema giuridico troppo ele-
mentare per ricomprendere realtà sociali ed economiche tanto disparate, furono co-
stituire appunto dalla progressiva diversificazione delle esigenze poste dai suoi og-
getti sul piano della realtà sociale ed economica.
(a3) Al di fuori degli elementi della famiglia ora indicati nessun altro cespi-
te) abbiamo detto) aveva rilevanza per il diritto quirirario. Ogni altro cespite inte-
ressava solo l'ancora debole ed approssimativo ordinamento (si badi: non giuridi-
co) della città, cioè il cd. «ordinamento statale», e costituiva: a) oggetto di co-
munanza» dei cittadini nel loro insieme; /4 oppure oggetto di «possesso materia-
le» (possessio) dei singoli capifarniglia. In comunanza dei rives tutti erano i terre-
ni non assegnati al mancipio delle famiglie, cioè i terreni che nei cd. tempi storici
sarebbero stati poi qualificati come agro pubblico, terra della comunità (ager pu-
blicu4. In possesso dei singoli patres, cioè in loro disposizione materiale (priva di
specifica rilevanza giuridica, ma non certo di consistente rilevanza sociale), erano
le «cose non familiari» (res non familiares: cose mobili e anima/la non màncz:pz).
Ed è ovvio che le cose non màncipi in tanto erano appetite, apprese e custodire
dai loro possessori) in quanto costituissero ai loro occhi «ricchezza» in senso eco-
nomico, cioè mezzi esuberanti rispetto alle strette necessità Familiari e perciò mi-
I izzabili per Finalità di consumo o di scambio, di maggiore agiatezza e potenza so-
ciale: nella quale ipotesi il termine utilizzato per qualificarle fu tradizionalmente
quello di «pecunia.
(b) Sarebbe azzardato voler precisare minuziosamente il processo storico di
transizione dall'assetto dianzi tracciato del ius Quiritium al successivo assetto del
diritto civile antico (ms civile vetws): è pii facile individuare gli stacchi tra posizioni
estreme che cogliere attendibilmente i vari passaggi tra le posizioni di partenza e
quelle di arrivo. In linea molto approssimativa, ed altrettanto ipotetica, le cose un-
darono presumibilmente cosf. Per un verso la sfera dell'ordinamento giuridico si
estese dall'àmbito originario della famiglia sino a ricomprendere anche quello della
cd. pecunia; per un altro verso la crescente diversificazione tra gli oggetti di potestà
giuridica, in una società che andava facendosi sempre più articolata e complessa, re-
I RAPPORTI ASSOLUTI DEL DIRITTO PRIVATO 121
teressi erano limitati alla famiglia ed agli elementi essenziali al suo funzio-
namento (fami//a e re: familiarcs), e perché alla tutela della qualifica di ca-
pofamiglia era sufficiente l'istituto consuetudinario del mancipio (manci-
plurn) sulle stesse. Ma era inevitabile che, con il passar del tempo e con il
progresso economico della società quiritaria, si verificasse una parallela
estensione degli interessi dell'ordinamento giuridico anche agli altri og-
getti (alle cose non familiari, cioè alle re: nec màncipt), e che pertanto il
possesso (in origine relativo soltanto a queste ultime, alle cose non mànci-
pi) entrasse a sua volta progressivamente nel mondo del diritto.
Fu quanto in effetti avvenne, probabilmente a partire dal sec. VI a.
C., sebbene sia subito da aggiungere che avvenne solo in modo alquanto
imperfetto.
(a) Per intendere appieno la storia del possesso in Roma, è opportu-
no precisare meglio quale fosse la differenza tra possesso e mancipio ai
tempi della vigenza del diritto quiritario. I due istituti erano diversi es-
senzialmente per ciò: a) che il possesso consisteva nel «fatto giuridica-
mente irrilevante» (rilevante cioè solo sul piano genericamente sociale)
della disponibilità attuale cd effettiva di una cosa (pia precisamente, di
una cd. re: non familiari) e durava sino a che questa materiale disponibi-
lità non fosse andata perduta; b) il mancipio consisteva invece nel «dirit-
to di godere e disporre di un oggetto (pid precisamente, di un cespite
rientrante nella fami//a, di una cd. re: familiari:) e sussisteva indipenden-
temente dalla disponibilità di fatto del suo oggetto.
(a1) Dato che il possesso era estraneo al diritto quiritario e che il suo
riconoscimento da parte del costume sociale era collegato alla disponibili-
tà effettiva di una cosa, è evidente che possessori potevano essere non
solo i capifamiglia, ma anche tutti i loro sottoposti in stato di libertà:
pensiamo tuttavia che anche nel costume sociale dovesse essere diffusa la
prassi che i capifamiglia, valendosi della posizione di preminenza assegna-
tagli dal diritto nei confronti dei sottoposti, reclamassero per sé le cose
possedute da questi ultimi. Comunque, quali che fossero le vicende inter-
ne delle singole famiglie, la coscienza sociale (non ancora quella giuridica,
si badi), ispirandosi ai principi generali della volontà divina (del fa:), rite-
neva lecita l'attività esercitata individualmente dal possessore a difesa da
ogni attacco di altri, anzi probabilmente riteneva lecita anche un'azione
di forza che il possessore esercitasse per il recupero della cose non familia-
ri quando del loro possesso fosse stato privato da altri con la violenza
(vi) o con il sotterfugio (nlam»).
126 I RAPPORTI GIURIDICI ASSOLUTI
stituzione della cosa allo spogliato, salvo che quest'ultimo avesse prece-
dentemente conseguito in modo viziato (vi clam precario) la cosa stessa
dal suo aggressore. Se lo spoglio era stato attuato in modo chiaramente
preordinato, con uso delle armi o con l'ausilio di una banda di uomini,
l'interdetto (cd. «de vi armata») ordinava la restituzione in ogni tempo e
in ogni caso.
In età postclassica i due interdetti per la ritenzione del possesso rimasero dif-
ferenziati dal punto di vista formale, ma all'iJtrubi fu applicato lo stesso regime del-
l'ztti possideti:: con tuela cioè del possessore attuale. Gli interdetti recuperatori fu-
rono invece formalmente e sostanzialmente unificati in un unico interdictum «de
vi" (anche detto «interdictum momentàriae possessionis», relativo cioè ad un impos-
sessamenro da ritenere del [urto passeggero), che era privo della limitazione «nec vi
nec clatn nec precario», ma poteva essere ottenuto solo entro l'anno dallo spoglio
violento,
(1') Le ipotesi di possesso interdittale anomalo furono costituite da
tutte le fattispecie di possesso per altri (possessio pro alieno) alla cui difesa
il pretore avesse destinato qualche speciale interdetto (diverso, beninteso,
dai quattro interdetti accordati a tutela del possesso normale).
Due le sottospecie: 61) quella del possesso da concessione elargito
dal magistrato per motivi vari (es.: «rrtissio in possessionem», «bonorum ,pos-
sessio») e protetta con interdetti o in altri modi; b2) quella del possesso su
iniziativa privata, tutelato dal magistrato nei seguenti casi: il caso del su-
perficiario [n. 551; il caso dell'usufrattuario [n. 531; il caso di coloro che
esercitassero di fatto un diritto di servitù prediale [n. 501.
In ordine alle ipotesi di possesso su iniziativa privata, la giurispruden-
za classica, per sottolineare il fatto che esse non erano assistite da una tutela
possessoria normale, parlò talvolta di quasi possesso (quasi possessio): ter-
minologia che, come vedremo tra poco, la giurisprudenza postclassica
intese in senso assai diverso.
La grande importanza assunta dal possesso interdirrale nella prassi giuridica
romana determinò una larghissima elaborazione giurisprudenziale dell'istituto, so-
pra tutto con riguardo a quello che fu denominato il possesso per antonomasia, cioè
con riguardo al possesso interdittale normale. Si trattò, peraltro, di un'elaborazione
piuttosto disordinata, assai poco coerente nell'uso delle terminologie, nella quale
non sempre sono fàcilmente differenziabili gli apporti classici da quelli postclassici.
La giurisprudenza classica ebbe, probabilmente, sempre ben chiaro il concet-
to che la possessio (e cos( pure la quasi possessio) fosse una «res farti», cioè 'esercizio
di mero fatto, non giustificato dal diritto oggettivo, delle facoltà spettanti al sog-
getto attivo di un rapporto assoluto (in senso proprio): che essa fosse, insomma, un
rapporto extrag iuridico. La protezione interdittale accordata al possessor non valse a
132 1 RAPPORTI GIURIDICI ASSOLUlI
modificare questa concezione di fondo, perché idi intrrdicta erano, agli occhi dei
giuristi classici provvedi men ti giudizi ari «di urgenza, intesi non ad accertare in li-
nea definitiva un diritto soggettivo, ma a tutelare l'ordine sociale in attesa di un
accertamento cui si sarebbe eventualmente provveduto sulla base di separare artio-
nes. Pertanto un vero e proprio diritto» ad ottenere la tutela possessoria non era
concepibile, ed appunto perciò la giurisprudenza classica insistette rigorosamente
nell'affermazione che, per aversi possessio, non bastasse la volontà di possedere,
I'4nimus possidendi», ma occorresse inevitabilmente il concorso del «còrpore porsi-
dere», cioè di un'effettiva ed evidente disposizione concreta della res.
La giurisprudenza posrclassica, che considerava gli interdicra alla stregua del-
le actiones ordinarie (e spesso li denominava per appunto «actiones») si orientò
invece, sia pure in modo incerto, verso la concezione della polsessia come rapporto
giuridico, produttivo quindi di un vero e proprio diritto del possesso, alla tutela
giurisdizionale della sua situazione. Di più. Agli occhi della giurisprudenza po-
stclassica perse notevolmente importanza il «rorporc possidere» ed acquistò rilievo
dominante o addirittura decisivo l'elemento volontaristico, cioè l'an/nus possiden-
di»: lo scadimento del «corpore possidere» fece si che per possessio si intendesse, non
più la sola disponibilità materiale di una rei (corporahs), ma ogni esercizio di fatto
delle facoltà implicate da un diritto soggettivo (considerato alla stregua di una cd
res incorporaiis), cioè il comportarsi esteriormente come titolare di un certo diritto
non solo assoluto, ma anche relativo; la preminenza del1'anirnus possidendi» ( della
volontà di possedere) fece si, a sua volta, che la distinzione tra «possessio» e oierca-
tro» (cd. «possessio natura/is») non fosse fatta più dipendere dall'esistenza o dall'ine-
sistenza di una tutela possessoria, ma dal Latro che l'ànimus del possessor fosse inte-
so al possesso pieno (fosse cioè anirnws possia'endO, piuttosto che inteso alla deten-
zione (per la quale bastava un animus a'ctincndO. Di conseguenza rovesciandosi le
posizioni classiche, si ritenne (almeno tendenzialmente) che chiunque esercitasse
di fatto un diritto (proprio o altrui) con animus possidendi», e non con semplice
«anirnus derinendi» fosse un cd. possessore del diritto (poss?ssor iuris) ed avesse ti-
tolo alla tutela possessoria, di urgenza, della sua situazione apparente, salvo a ve-
dersi in sguito, con approfondito accertamento processuale, se egli Fosse realmen-
te il titolare del diritto vantato. Alla giurisprudenza posrclassica (o principalmente
ad essa) deve dunque attribuirsi la creazione della figura del possesso di diritti
(possessio iuris), la quale servi a ricomprendere tutte le ipotesi di esercizio di fatto
di un diritto (non solo assoluto, ma anche relativo), che fossero diverse dall'eserci-
zio di fatto del do,ninium su una res.
(c) A proposito di elaborazione giurisprudenziale dell'istituto, meri-
tano una considerazione più approfondita (prescindendo, peraltro, dalle
deviazioni posrclassiche relative alla «possessio iuris) i due indicati ele-
menti costitutivi del possesso: il «corpus» e l'animum.
(ci) La materia del possesso (corpus posscssionis), espressa anche con
la terminologia del «possedere materialmente» (possidère corpore), era l'in-
sistenza materiale di un soggetto sulla cosa e si verificava appunto qualora
IL POSSESSO INTERDITFALE 133
neva per conseguenza che le cose di cui lo schiavo in fuga avesse acquistato il
possesso spettassero al possessore dello schiavo e non al dominus di lui, né tanto
meno allo schiavo stesso (che, non essendo soggetto giuridico, era incapace di
possesso proprio). l'i diritto giustinianeo i casi di possessio animo retenta furono
considerati addirittura casi conformi a regola, ritenendosi ormai che l'animus Fos-
se normalmente sufficiente alla CO nservazione del possesso purché all'inizio del
possesso stesso vi fosse stato anche il corpus.
consorzio dei fratelli succeduti ereditariamente al padre morto [n. 94)); 1')
il consorzio imitativo (consortium ad exemplumfrat-rum suorum), che era
pid precisamente un consorzio tra estranei costituito ad imitazione del
consorzio fraterno. fi «consorzio fraterno» si istituiva per natura di cose
sul patrimonio ereditario tra i discendenti del capofamiglia defunto (i sui
heredes) dal momento della morte di lui sino a quando non fosse stata
provocata la divisione del compendio ereditario stesso; il «consorzio imita-
tivo» si istituiva convenzionalmente, mediante l'esercizio di una speciale
azione di legge (probabilmente, una in iute cessio [n. 47]), tra coloro che
volessero per un qualunque motivo mettere insieme un complesso patri-
moniale comune. Mentre del consorzio imitativo (ad exemplum J+atrum
sucrum) sono evidenti, innegabili le affinità con l'istituto della società af-
fermatosi più tardi nel seno del diritto civile moderno [n. 76], assai dub-
bia è la rapportabilità alla società (o alla categoria generale della conven-
zione associativa) del consorzio fraterno, cioè della figura originaria.
Caratteristica del consorzio era, ribadiamo, che ogni consorte aveva
un «diritto integrale>) sul patrimonio consortile: con facoltà, dunque, non
soltanto di godere tutte quante le cose comuni, ma anche di disporre per-
sonalmente delle stesse con effetto vincolante per tutti gli altri consorti.
Ma è ovvio che gli altri consorti, essendo titolari di un identico diritto SII
tutto il patrimonio, difficilmente si adattassero a subire le iniziative unila-
terali di un loro concorrente: è pensabile quindi che essi potessero bloc-
carle con una esplicita «opposizione» prchìbitio) e che in tanto uno dei
consorti riuscisse ad agire indisturbato in luogo di tutti gli altri, in quan-
to costoro si fossero preventivamente messi d'accordo con lui circa i crire-
r della sua gestione. Quanto agli oggetti del consorzio fraterno, è bene
specificare che essi probabilmente non includevano i discendenti liberi
(/21/i e mulieres in manu) dei singoli fratelli, ma erano limitati ai cespiti
economici in attesa di divisione fra tutti gli eredi: schiavi, animali, fondo,
attrezzi ecc.
Che il consortium ei-no non cito sia sempre rimasto nello stato in cui ce lo de-
scrive, schernatizzando, il giurista Gaio, non è nemmeno da pensare. Già per il con-
sorzio imitativo è dubbio che le parti abbiano mai omesso di regolare, agli effetti
interni i poteri di disposizione illimitata spettanti a ciascuna di esse. È plausibile
comunque, che anche nel protòtipo dei consorzio fraterno si sia assai per tempo
pervenuti ad un superamento del sistema costituito dal potere di disposizione e dal
contrapposto iusprohibendi di ciascun consorte: sia pure agli effetti interni, anche i
frati-cs non poterono fare a meno di accordarsi sulla elezione di uno di loro (even-
n'al menre il più a n7iano) ad amministratore unico del patrimonio ereditario. Se-
LA COMUNIONE DEI DIItFrrT ASSOLUTI 137
nonché era sempre possibile che, di fronte ai reni, uno dei consorti, pur non essen-
do l'amministratore dei beni comuni, si iicesse avanti a disporre delle cose a suo ar-
bitrio (per esempio, per alienarle ad un extraneus) prima che gli altri potessero cor-
rere ai ripari con la probibitio: difficoltà, questa, che non compensava sufficiente-
mente il vantaggio costituito dalla «concentraiione» dei capitali spettanti ai singoli
consorti. Ecco probabilmente perché l'istituto del consortium (non solo come con-
sorzio Fraterno, ma anche come consorzio imirarivo) decadde piuttosto rapidamen-
te nell'ambiente del diritto preclassico e al suo posto si preferi utilizzare: o l'istituto
della società, di cui parleremo a suo tempo [n. 76], oppure quello della comunione
organizzata di cui passiamo subito a parlare.
(c) La comunione organizzata (cd. commznio iuris Romani) divenne,
ad opera della giurisprudenza preclassica e classica, la soluzione caratteri-
sticamente romana della contitolarità dei diritti assoluti su una cosa o su
tutto un patrimonio. A differenza del consorzio, essa si conformò piena-
mente al presupposto logico che due o pid rapporti restano sempre di-
stinti tra loro se, pur coincidendo in tutto il resto (e in particolare nel-
l'oggetto), non coincidono nei soggetti attivi. A ciascun comunista, infat-
ti, la giurisprudenza riconobbe non piti un diritto esclusivo, ma un dirit-
to pari a quello degli altri (e con esso concorrente) in ordine all'oggetto
comune: un diritto parziario, limitato cioè ad una parte ideale del tutto.
Con riguardo al dominio, cioè al caso statisticamente più importante
di comunione (il caso che noi chiameremo, ma che i Romani mai chiama-
rono esplicitamente, del «condominio»), le fonti affermano recisamente
che sulla stessa cosa non è ammesso un dominio per l'intero (in solia'um)
di due o più persone (duorurn ve! p/ù rium in solidum dominium esse non
potest): il che significa, in ordine alla cosa comune, l'esclusione della cd.
«proprietà unica integrale» di ciascun condomino e l'implicazione che cia-
scun condomino era solo domino parziale (dominio pro parte) della cosa e
che a lui spettava solo una quota dell'intero (pan domini;). Con ciò i terzi
(per esempio, coloro che volessero acquistare la cosa comune) vennero ad
essere avvertiti che titolari del diritto sulla cosa in condominio erano tutti
i condomini messi insieme (o, naturalmente, un rappresentante regolar-
mente nominato da loro tutti).
Naturalmente ciò non impediva che un singolo condomino, esorbi-
tando illecitamente dalla sua quota, utilizzasse, in linea di fatto, tutta
quanta per se stesso la cosa comune: ecco perché, in relazione a questa
ipotesi, si continuò a riconoscere un diritto di interdizione degli altri
condomini (o anche, nell'interesse di [urti, di uno solo tra essi), esercita-
bile contro di lui allo scopo di riportarlo entro i limiti del suo diritto.
138 I ICAPPORII GIURIDICI ASSOLUTI
95]), valevole per la divisione dei complessi patrimoniali successori; h) I'actio fi-
pziurn rcgundorurn (azione di regolamento dei confini») esercitata tra proprietari
di immobili confinanti per la determinazione dei confini tra gli stessi (cioè, in so-
stanza, per l'eliminazione di una situazione di cominzinio in ordine alla zona incerta
tra le varie proprietà); e) l'actio commuti divia'undo (<azione di divisione degli og-
getti in comune») azione generale per la divisione della communio dominicale [n.
44]. Il sistema si mantenne sostanzialmente intatto nel diritto postclassico.
Le azioni divisorie, comportando, oltre l'aggiudicazione, un'eventuale con-
dernnatio di qualche comunista a conguagli in danno (a «quidquid dare facere aper-
te: alterum alteri»), permettevano di risolvere non soltanto il problema della divi-
sione Fra tutti i condomini, ma anche eventuali problemi di responsabilità e di ri-
sarcimento fra gli stessi. Solo attraverso il loro esercizio poteva, quindi, un comuni-
sta far valere contro gli altri e eventuali sue pretese in dipendenza di ripartizioni
ingiuste, di abusi, di danni e via dicendo.
SOMMARTO: 33. I rapporti assolu fam li ari - 34. La patria potestè. - 35. 11 matrimo-
nio. - 36. (;li effetti del matrimonio. - 37. Il regime patrimoniale del niarri-
nlohIiu.
gliaro del rapporto piti importante fra tutti a patria potesta; En. 341; c) dì fermarsi
infine, e a ungo, sul ratto giuridico in certo modo centrale di tutto il sistema dei
rapporti familiari, il rnatrzmonzurn [ n. 37-38].
(a) La potestà paterna (patria potèsta4, in senso stretto (e proprio),
era la potestà spettante al capofamiglia (aterfami1ias) maschio sulle per-
sone che fossero a lui legate da discendenza agnatizia (filiifami/ias [n. 91).
Essa si conFigurava cioè come la situazione attiva di un rapporto giuridico
assoluto intercorrente tra il capofamiglia e gli altri soggetti dell'ordina-
mento, i quali erano tutti tenuti al rispetto dei suoi poteri familiari sui
figli e sugli ulteriori discendenti.
La derivazione dell'istituto dal rudimentale mancipio quiritario in-
differenziato si rivela chiaramente all'esame di quelle che, ancora in epoca
storica, erano le caratteristiche facoltà del capofamiglia in ordine ai di-
scendenti (facoltà, per vero dire, divenute assai per tempo più teoriche
che pratiche): a) il ius uitac ac nrcis; b) il ius vendendi; c) il ius noxae dan-
di; d) il ius exponcndi.
(al) Il diritto di vita e di morte (ius vitae at necis) era, indubbia-
mente, la facoltà di tutte più dura: il capofamiglia aveva, infatti, la possi-
bilità di uccidere, se lo ritenesse opportuno o necessario, i suoi figli. Tut-
tavia sin dai più antichi tempi il sentimento religioso e la coscienza socia-
le limitarono in concreto l'esercizio di questo potere. In età preclassica
l'abuso di esso Fu colpito da deplorazione dei censori in sede di censi-
mento (nota censoria) e in età classica la giurisprudenza ritenne che il fi-
glio non potesse venire ucciso senza che il padre ne avesse prima udite le
giustificazioni; anzi i principi arrivarono sino ai punto di infliggere (extra
ordinem) la pena della deportazione con confisca dei beni (deportatio in
insulam) a chi comunque avesse ucciso il proprio figlio. Ma furono rea-
zioni sporadiche. Solo in periodo postclassico, per influenza della religio-
ne cristiana, l'istituto venne dapprima fortemente compresso e poi prati-
camente abolito. Costantino, agli inizi del sec. IV, puoi come reato di
omicidio l'uccisione volontaria del fihiusfamilias.
(a2) Il diritto di dare a castigo (iws noxae dandi) era la facoltà del
capofamiglia di effettuare l'abbandono riparatore (noxae a'editio) al sog-
getto giuridico estraneo che fosse stato offeso dal figlio (oltre che da ogni
altro sottoposto: liber in mancipio, mulier in manu, servus) mediante la
commissione di un illecito privato (delictum). Il capofamiglia dell'offen-
sore, rinunciando alla potestà sul sottoposto, lasciava alla vittima (o al pa-
ter della vittima) il diritto di castigarlo nella misura (anche estrema) che
I RAPI'ORII ASSOLUTI FAMILIARI 143
capacità sessuale
esogafilta
[ presupposti nlonoanlia
con ti it iu in
[orna: libem
elemen ti negozi ali { causa l il a: famiglia sai ta potestà dci m rito
vokn t: affect io mar, tal is consen sus) perseverante
B) MQ tnhtIoniEflu
ios:u,n i { morte o capiuis derninutio
venir meno di in presuoposio
I cause ostintive soprawenu la i Il ice, là del la causa
venir meno delVaffectto maritalis
I
pro[ecticLa [Per
dote per dM10 dotis
adventicia per promissio dotis
[annessi patrimnnialì
donazione obnuzioie
tra poco, venissero dal loro pater (il titolare della patria potestas o della ma/Isis)
mancipari ad un altro paterfamitiai, in esplicazione del itis vendendi. Oltre che allo
scopo di effettuare una reale alienazione (a titolo oneroso o gratuito) del sottopo-
sto, la nianciparis fità era spesso (anzi, in periodo preclassico e classico, quasi esclu-
sivamente) operata dal paterfarni/ias al Fine di impostare i procedimenti dell'eman-
cipatio e deIladoptìo in. 341.
Ipotesi anomale (e affievolite) di personat in causa mancipii (se addirittura
non si trattò di ipotesi del tu[to estranee Ala categoria) furono quelle degli addirti,
dei nexi, degli auctorati, dei redempti al' hostibus [ n. IO]: Fattispecie che potevano
concernere anche la subordinazione (limi tua e temporanea) di un paterfamilias al-
l'altro e che potevano essere estinte sia con la manumissìo, sia col successivo riscatto
ad operi ed iniziativa del sottoposto o di un terzo.
(e) La mano maritale (manus maritati,) era la situazione attiva di un
rapporto assoluto analogo (ma non identico) alla patria potestà, avente ad
oggetto una donna di provenienza estranea alla famiglia ed entrata a far
parte della stessa, in condizione parificata a quella di una figlia (fìliae
loro), allo scopo di procreare figli al capofamiglia o ad un suo discenden-
te. Dei collegamenti tra mano e matrimonio (e del cd. «matrimonium
coro manu») parleremo a suo tempo [n. 351: qui va solo precisato che in
età classica l'istituto, ormai ben poco praticato, venne piuttosto sfruttato
solo per frodare la legge sulla tutela delle donne [n. 40], cioè allo scopo
di procurare alla donna un marito di comodo (generalmente un vecchiet-
te, detto ironicamente senex coimptionalis) in luogo del tutore (cd. «con-
ventio in manum extranei tuteLie ev:tandae gratia»).
Ecntrata della donna sorto la mano (conventio in manum) implicava
che la donna: a) se sottoposta (alieni iuris), perdesse ogni legame (anche
ereditario) con la propria famiglia di origine; b) se giuridicamente auto-
noma (sui iuri4, apportasse al marito (o, essendo questi a sua volta un
sottoposto, al suo capofamiglia) tutto il proprio patrimonio. Morto il ca-
pofamiglia: la moglie di lui diveniva giuridicamente autonoma (sui iuris)
e ne era erede come discendente agnatizio [n. 92]; la moglie del figlio (il
quale diventava autonomo, cioè capofamiglia) passava (filiae foto) sotto la
mano di quest'ultimo.
(e') Fatti costitutivi della n,anus ,narìralis erano: a) la ronfarreatio; b) la
coèinptio; c) I' usus maritati,.
La conJarreatio (coniiirreazione) erd una cerimonia religiosa ad effetti giuridi-
ci compiuta davanti al fiamen Diàtis (Forse anche al pòntzfex maxirnu4 e a dieci te-
stimoni: il complesso rituale (nel corso del quale la moglie diceva tradizionalmente
al marito di voler essere nella vita il suo sinonimo al femminile: «n15i tu Ca/ti,, et
ego C,zia'>) implicava, tra l'altro, clic i due nubendi spezzassero un pane di Carro in
onore di Iupiter Fàrrcus,
146 I RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI
(a2) Solo attraverso una lunga evoluzione, che pare si sia conclusa nell'età del-
le XII tabutae o poco più in là, il matri,nonizem e la manhes si fusero nell'istituto, che
già conosciamo [n. 33], della «manin maritalini, di cui fu considerato presupposto
essenziale il connubium (ammesso a fatica anche tra patrizi e plebei) e di cui furono
riconosciuti come atti costitutivi, oltre Lì canfarreatia, la comptio e 1'wsus maritati;
[n. 33]. A prescindere da questo cd. «matrimanium cum manu», rimase tuttavia sem-
pre aperta la possibilità eccezionale di una «manus sine mao-i mania», cioè di quella
Forma putestativa che derivava dalla coéinptio effettuata con un estraneo non a fini di
unione coniugale (comptio rum cxtranea», anche detta «coémptio fiduciaria»).
(a3) Sullo scorcio dell'età arcaica e agli albori del periodo preclassico, dunque,
nel sistema del i"; civile vctus, si pose ulteriore problema di fare del matrirnoniurn
un istituto produttivo pur sempre di poteste!; sui fili!, ma non anche di manus sulla
uxor ciò ad evitare che costei perdesse i suoi legami (e le sue aspettative successorie)
con la familia di origine, oppure ad evitare che essa, se sui mn;, fosse privata del
proprio patrimonio. A questo scopo la giurisprudenza pontificale sfruttò in sede in-
terpretativa una norma decenivirale, la quale probabilmente si limitava a precisare
che l'uno maritati; dovesse ritenersi incompiuto se, prima delta scadenza dell'anno,
la donna portata in casa come moglie si Fosse allontanata dalla casa stessa per almeno
tre notti (tre notti coniugali) di séguito: pertanto essa consigliò al marito e alla moglie
di evitare la confarreatio e la coémptio e di prescegliere il sistema dell'tu,es, praticando
pelò annualmente l'assenza della moglie per un trinactiun: cioè per tre notti conse-
cutive (trinoc-tij usurpatio»). Con questo espediente la ma/lu; non si sarebbe realiz-
zata, ma i fili! sarebbero egualmente spettati, man mano clic nascessero, al marito (o
al paterfamilias di lui) in virtù di un'altra antica regola: quella che i frutti naturali di
un oggetto giuridico sono attribuiti al soggetto che ha operato la semina (messi;
semèntem seq:eitzen. «chi semina raccoglie»). Si Formò, in tal modo, il cd. matrimo-
nium sine manzi, in ordine al quale, ovviamente, il trinactium divenne con l'andar
del tempo una nera finzione: la convivenza volontaria dei coniugi nella casa maritale
era quanto bastava accllé la loro unione valesse come matrimonium.
(a Nel periodo classico, stando al i"; tu;, la manus maritati; aveva ormai,
come sappiamo, applicazioni ridotrissime, mentre il matriinoium per antonomasia
era quello senza mano maritale (sine manzi). Ma il matrimonium, si badi, non eta con-
siderato dalla giurisprudenza come un «rapporto o un insieme di rapporti giuridici.
Esso era considerato invece come un «ano giuridico negoziale» a struttura bilaterale
ed «a catattere continuativo: negozio cioè consistente nella voluta convivenza tra i
coniugi e perdurante dall'inizio di questa convivenza sino alla fine della stessa per
morte di un coniuge o per il venir meno (in uno o in ambedue) della volontà distare
insieme (affecfio maritati;). La massima seconda cui «è il consenso dei coniugi a dar
luogo al matrimonio (<'consensusfacit nuptias») stava a significare, nella visione della
giurisprudenza classica, la essenzialità di un durevole, continuativo, ininterrotto
consensus (sentire insieme, essere d'accordo) dei coniugi per l'esistenza delle nuptiae:
l'essenzialità, insomma, dì un «consensu; persevérans» come per la societas [n. 76].
(6) Nel periodo postclassico la concezione classica del matrimonium fonda-
mentalmente non cambiò; tuttavia, principalmente per la influenza del cristianesi-
154 I RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI
mo e per intervento del ius novum, essa si corruppe e modificò in molteplici im-
postazioni particolari, avviandosi ad una radicale trasFormazione, che si sarebbe pe-
raltro perfezionata solo in epoca post-romana. L'avversione al divortium indusse a
conferire un valore determinante al solo momento iniziale dei consenso dei coniu-
gi ed a ritenere che il matrimonio dovesse continuare necessariamente a sussistere
sin quando non intervenisse a estinguerlo la morte o una nuova, specifica e mani-
Festa volontà contraria alla sua sussistenza. La massima «consensusfacit nuptias» ac-
quistò pertanto, progressivamente, il senso che le rzwptiae fossero la conseguenza in-
declinabile (quanto meno sino al aivonium) di un ((accordo iniziale» tra i coniugi;
sicché il matrimonium passò insensibilmente ad essere concepito non più come un
«negozio» giuridico, ma come un «rapporto giuridico, o meglio come un insieme
di rapporti giuridici, assoluti e relativi (sui Figli, tra i coniugi e via dicendo), scatu-
renti da quell'iniziale incontro di volontà.
(6) I presupposti di un matrimonio secondo diritto (presupposti
valevoli, del resto, anche per il matrirnonium cum manu) furono quattro:
a) la capacità di unione sessuale dei coniugi; b) lesogamia; e) la mono-
gamia; la reciproca capacità matrimoniale. Un'unione tra due persone
che pur completa degli elementi essenziali di un matrimonio, non rispe-
tasse questi presupposti era inconcepibile per la civiltà romana, e dunque
da considerarsi come giuridicamente irrilevante.
(61) La capacità di unione sessuale dei coniugi era data dalla diffe-
renza di sesso (cioè dalla cd. «eterosessualità»), dall'età pubere e dalla con-
creta attitudine al congiungimento.
La ovvia necessità della differenza di sesso implicava qualche difficoltà in or-
dine agli «ermafroditi (herrnaphroditi), cioè agli individui di sesso ambiguo, i quali
erano considerati atti al matrimonio solo se Fossero approssimativamente inquadra-
bili, per la prevalenza dei caratteri relativi, in uno dei due sessi. L'esigenza, altret-
tanto ovvia, dell'età pubere fìiceva ripresentare, in tema di capacità matrimoniale, i
problemi di accertamento della pubèrtas agitati in tema di capacità di agire: proble-
mi ch'erano, presumibilmente, risolti allo stesso modo En. 151. Quanto all'attitudi-
ne al congiungimento, la si intendeva nel senso pia largheggiante, nel senso cioè
che dovevano esservi tutti gli organi essenziali alla riproduzione, a prescindere da
ogni rilevanza circa la loro funzionalir: capace di unirsi era pertanto l'individuo
sterile, il cd. impotente» (spada), salvo che fosse vistosamente privo o privato di
organi riproduttivi (castratus, eunuchu4.
(62) Cesogamia comportava che i coniugi: a) non provenissero dalla
stessa famiglia agnatizia; 6) non fossero tra loro parenti di sangue (cogna-
ti); c) non fossero tra loro correlati da preesistente «affinità».
La prima esigenza (non tra agnati») valeva anche in relazione ai figli acquisiti
per adozione (più precisamente, in relazione sia agli arrogati sia agli adottivi in sen-
so stretto): anzi, se un Figlio adottivo veniva emancipato, sussisteva sempre l'impos-
IL MATRIMONIO 155
sibilità delle nozze con i parenti in linea terra (non con quelli in linea collaterale)
della famiglia di adozione. La seconda esigenza (non tra cognati») valeva tra tutti
i cognati in linea retta, mentre per i cognati in linea collaterale valeva solo Era fratelli
e tra zii e nipoti, sia della stessa famiglia sia di famiglie diverse. La terza esigenza
(non tra affini») valeva nel senso che, una volta avvenuto lo scioglimento del ma-
trimonio, l'ex-coniuge non poteva andare a nozze con quelli che erano stati suoi
«affini» (adflncs [ n. 36]), cioè con gli ascendenti o discendenti (agnari o cognati che
fossero) dell'altro ex-coniuge.
Il diritto onorario (e per esso l'editto pretorio) trattò come infami (infame4,
con tutte le conseguenze relative [n. IO], coloro che avessero pubblicamente fatto
matrimonio, o anche solo fidanzamento, con due persone contemporaneamente. A
termini del diritto nuovo postclassico, sia perché il matrimonio era visto come un
rapporto giuridico conseguenziale al consenso iniziale e sia perché la poligamia era
una consuetudine di certe province orientali che si voleva assolutamente sradicare,
la «bigamia» fu punita addirittura come reato,
(64) La reciproca capacità matrimoniale (connabium) derivava dal-
l'esigenza antichissima che i matrimoni avessero luogo solo tra persone
appartenenti alla stessa comunità culturale.
Alle origini l'àmbito delle persone ammesse al connubio era tanto gelosamen-
te limitato, che i plebei ottennero la possibilità di unirsi matrimonialmente con i
patrizi solo dalla leggendaria lex Canzdeia dei 445 a. C. Ma col passare dei secoli le
limitazioni furono sempre pie ridotte. Comunque, in età classica, prima della co-
stituzione Antoniniana del 212 d. C., la reciproca capacità matrimoniale era rico-
nosciuta dal diritto antico solo tra cittadini romani e tra cittadini e Latini edera
concessa, ma solo in casi di volta in volta determinati, tra cittadini e stranieri di
certe categorie. Maggior larghezza mostrò il diritto nuovo dei principi nei confron-
ti dei militari, cui fu spesso elargito, a titolo di privilegio, il connubio con donne
straniere (evidentemente incontrate nelle province, sopra tutto di confine).
(c) Elementi essenziali del negozio matrimoniale, da esaminare più
da vicino, furono: forma, causa e volontà.
(ct) La forma del matrimonio era libera. Non erano richiesti, dal
punto di vista giuridico (anche se si trattava di esigenze fortemente senti-
156 I RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI
tutto nella «incapácitao successoria, cioè nel «divieto di acquistare» (càpere), in tutto
o in parte, ciò che fosse stato loro lasciato per testamento (cd. «relictum)) [n. 94]; 1,)
per evitare che l'assenso paterno al matrimonio degli alleni iuris fosse ingiustamente
rifiutato, Sa ammesso il ricorso degli interessati al magistrato; e) a favore di coloro
che si fossero sposati con «,natrùnonium iustu'n ac legitimum», rispettando cioè non
solo 1e prescrizioni del ius civile ma anche quelle della tex lu/la et Papia, ed avessero
(o avessero avuto) almeno un figlio, furono previste varie agevolazioni.
Il minimo dei tre Cigli (quattro, se nati da donna libertina) determinò la For-
mazione del cd. diritto della figliolanza (1w liberorum) con numerosi vantaggi di
carattere personale ed economico (possibilità di ottenere le magistrature con antici-
po sui tempi normalmente prescritti, esenzione dai gravami di pubblico interesse,
cioè dai «rntrzera p:blica, sottrazione delle donne alla tutela mulierum e via dicen-
do). Un sistema, come si vede, alquanto rigido, che era però mitigato dalla potestà
attribuita al senanis e al princepi di concedere a titolo di privilegio il «ius trium vel
quattuor liberorunm (il privilegio di «fingern> la presenza dei tre o quattro figli) an-
che a coloro che non si trovassero in regola con la /ex lidia et Papia.
(e) Lo scioglimento del matrimonio poteva dipendere: a) dalla mor-
te o dalla perdita della libertà (capitis deminutio maxima) di uno dei due
coniugi; b) dal venir meno di un presupposto del negozio; e) dal venir
meno di un elemento essenziale del negozio stesso e, in particolare, dal
venir meno della volontà coniugale, cioè dal divorzio.
(e!) Nella concezione classica, il divorzio (divortium: da «divèrtere,,
scostarsi l'uno dall'altra, scindersi coniugalmente) era il fatto giuridico
della cessazione, in uno o in ambedue i coniugi, della volontà di vivere
matrimonialmente. Non era necessario cioè che vi fosse una volontà spe-
cifica di divorziare, purché esistesse e fosse certo il dato di fatto della ces-
sazione della volontà matrimoniale. Tuttavia, data la rilevanza del divor-
zio particolarmente riguardo allo stato dei figli, la prassi sociale e la giuri-
sprudenza concorsero nel far si che il divorzio si effettuasse di solito, a
scanso di equivoci e di conseguenze svantaggiose, mediante un negozio
giuridico di accertamento e conferma dell'avvenuta cessazione del con-
senso coniugale.
Il divorzio, pertanto, si desumeva: o da comportamenti incompatibili
con la volontà coniugale (es.: la separazione di letto e di mensa, la sottra-
zione Rirtiva di cose del marito da parte della moglie); oppure da una di-
chiarazione unilaterale recettizia (generalmente trasmessa da un portavoce
o con una lettera: per nuntium» o <per ktrcras») di ripudio (repzdium). In
genere, se si ricorreva alla dichiarazione di repudium questa era Fatta da
un sol coniuge all'altro (il più delle volte, per uso sociale, dal marito) ed
era sufficiente ad accertare la fine del consenso.
IL MATRIMONIO 159
36. Gli effetti del matrimonio. - Nella concezione del diritto anti-
co (civile e onorario), corrente sino a tutto il periodo classico, dal negozio
giuridico bilaterale qualificato «matrimonio>) (e cioè, per intenderci bene,
dal cd. matrimonium sine manu) scaturiva un fascio di effetti e implica-
zioni che non è possibile riversare entro un unico stampo, ma che erano
tutti connessi al concetto ed al termine di affinità» (at/finitas): parola che
letteralmente indica la contiguità tra i confini, cioè tra i fines, di due en-
tità ben distinte tra loro (es.: due fondi agrari, le tribù territoriali ecc.). Si
162 r RAPPORTI ASSOLUTI FAMILIARI
conveniente e più equo (<quod meliu, aequius cnr»): l'azione dotate, infat-
ti, se pur non era proprio un'azione di buona fede [a. 23], era fortemente
analoga alle azioni di buona fede. Il giudice aveva quindi il potere di sta-
bilire volta per volta la giusta entità dei cespiti dotali da restituire.
In ordine all'actìo rei uxoniae vi erano da distinguere tre ipotesi: a) se lo scio-
glimento era dipeso da divorzio, l'azione era esercitata dalla stessa moglie sui iuris,
ovvero, trattandosi dì moglie alieni iuris, dal pater fami//at di lei, ma con il suo
specifico assenso ipne, «adiunctaJiliac persona'); 6) se lo scioglimento era dipeso
da morte del marito, valevano le stesse regole, ma con l'avvertenza che, ove il mari-
to avesse lasciato alcunché alla moglie nel testamento, la moglie (o per lei il poter)
non poteva ottenere sia il lascito sia la dote, ma aveva la scelta tra Cuno e l'altra
(casi stabiliva il cd. «edictum de alièrutro»); c) se lo scioglimento del matrimonio
era dipeso da morte della moglie, l'azione per la restituzione spettava al pater fami-
ha, dì lei, ma solo nei limiti della do; profecticia, mentre la dote non a pane profecta
rimaneva al marito.
(c) La giurisprudenza preclassica e classica formulò, in sede di appli-
cazione pratica dell'azione del patrimonio dotale, un vero e proprio stabile
regime della restituzione della dote (più precisamente, della «reintegrazio-
ne della dote), concretantesi essenzialmente in quattro principi: a) ic cose
infungibili [n. 13] ricevute in dote erano da restituirsi allatto stesso dello
scioglimento del matrimonio; 6) le cose fungibili potevano essere, invece,
restituire in tre rate annuali (annua, L,ima, trima die); c) i l marito non era
responsabile della mancata o parziale restituzione delle cose infungibili di-
strutte o danneggiate senza suo dolo, salvo che, ricevendo le cose stesse dal
costituente, non avesse espressamente dichiarato di considerarle per il loro
valore (aestimatio) anziché per la loro individualità, con ciò obbligandosi a
restituire in ogni caso il conrrovalore della dote (acstimatio doti,); t/) il ma-
rito aveva, infine, in certe determinate ipotesi, il diritto a parziale ritenzio-
ne della dote (retcntiones doti,), talora nel senso di poter restituire qualcosa
meno del dovuto, talora invece nel senso di poter trattenere qualche ogget-
to dorale sinché non gli fosse stato dato quanto dovutogli.
Le ipotesi di ritenzione dotale (rcte,,Iio dotis) furono, più precisamente, le se-
guenti cinque.
(ci) Ritenzione per i figli (retentio propter libero:). Sciogliendosi il matrimo-
nio per morte della moglie, il marito poteva trattenere il quinto delle re, dotate, per
ciascun Aglio; sciogliendosi il matrimonio per divorzio determinato da colpa della
moglie il marito poteva trattenere un sesto delle res dotales per ciascun figlio.
(c2) Ritenzione per il malcostume (retentio propter mores). Sciogliendosi il ma-
trimonio per divorzio causato da immorale comportamento della moglie, il marito
aveva la scelta tra: a) l'a gire contro la moglie con un «iva'iciurn de rnoribar (giudizio
168 1 RAPPORTI ASSO LUI l FAMILIARI
inteso ad ottenere una condanna pecuniaria della moglie per la sua condotta ripro-
vevole); b) il chiedere forfettariarnenre la restituzione ( repetitio da non confondersi
con la vera e propria retentio) di un sesto del patrimonio dotale nella ipotesi di con'-
portamento particolarmente grave (mores graviores) , di un ottavo nell'ipotesi di com-
portamento frivolo ma non grave (marci fcviore4.
(c3 ) Ritenzione per ic spese sostenute (retentio propter impensas). Il marito
poteva trattenere quanto occorresse a ripagarlo per tutre le spese utili da lui compiu-
te ad onera matrimonii ferenda, purché fossero state preventivamente o successiva-
mente approvate dalla mulier. Nessun compenso spettava al marito per le spese vo-
luttuarie. Le spese necessarie alla conservazione delle rei dMa/cs erario invece detratte
ipso iure dal patrimonio dotale (.impcnsac necessaria, datcz ipso iure minuwnt»),
(c Ritenzione per le cose donate (retentio propter res donatai). Posto il divie-
to di donazioni tra coniugi, il marito che avesse ciò malgrado fatto una donazione
alla moglie poteva trattenere dalla dote l'iniporto della donazione stessa,
(c5) Ritenzione per 1e cose sottratte (retentio propter rei amotas). La sottrazio-
ne di cose mobili al marito da pane della moglie legittimava, come si è detto [n.
36], il marito all'esercizio contro la moglie dell'an/o rerum amotarum, ma il marito
poteva cogliere l'occasione della restituzione della dote per effettuare direttaniente
a retentio del controvalore delle cose sottrattegli.
(e) Nel diritto nuovo di età postclassica il regime della dote subi pro-
gressivamente una radicale evoluzione, sopra tutto a titolo di sviluppo del
principio che la dote doveva essere sempre «restituita» alla moglie in caso
di scioglimento del matrimonio. Per conseguenza di questo principio, il
marito passò ad essere considerato semplice amministratore ed usufruttua-
rio dei beni dotali, di cui la rirolarità fu riconosciuta alla moglie.
Giustiniano, volendo riformare organicamente l'istituto della dote, aboli l'ar-
tio rei uxariae, lasciando sussis te re la sola azione (actio ex stipulatii) che classica-
mente competeva per Li sola restituzione della cd, dote recettizia. Ma fece di più:
Fissò la presunzione assoluta che, correlanivamente alla stipulazione di dote fosse
avvenuta una stipulazione di restituzione della stessa e conferf quindi all'actio ea, sii-
psi/atti (anche detta «an/o de date) le sostanziali caratteristiche dell'an/o rei uxoriae,
proclamando la sua natura di gitidizio di buona fede.
Sempre in sede di riforma, Giustiniano: abolf lcdirtum de a/tè rutro, presu-
mendo che, se il marito non avesse lasciato alla moglie esplicitamente il legato in
sostituzione della dote (legatum pro dote), dote e legato potessero cumularsi; abol
anche le retentiones, sostituendo ad alcune di esse delle azioni specifiche.
(e) Altro tipo di regolamento patrimoniale del matrimonio era quel-
lo della donazione obnuziale, un istituto che prese cittadinanza nel dirit-
to romano solo in età postclassica. In tale epoca andò infatti diffonden-
dosi l'usanza, di provenienza orientale, che prima del matrimonio il fi-
danzato donasse alla fidanzata un quid che questa aveva il diritto di te-
nere per sé nelle ipotesi: che egli non mantenesse il suo impegno; che il
IL REGIME PATRIMONIALE DEL MATRIMONIO 169
SOMMARIO: 38. I rapporti assoluti parafamiliari. 39. La tutela degli impuberi. - 40. La
tutela delle donne. - 41. Le curatele. - 42.La cura dei minorenni.
r
omo est in Eive j morte della donna
passaggio della donna sotto manus
TAvoLA X: A) La tutela degli impuberì (n. 39) e delle donne (n. 40). - E) Le cumtele (n. 41-42).
gere ed amministrare quella familia di cui era non solo l'esponente, ma il capo
responsabile nei confronti degli altri Quirites.
(b) A termini della legislazione patrizia del periodo arcaico (ius legitirnum ve-
tu!), le caratteristiche ora accennate si mantennero e si precisarono non soltanto in
ordine agli impubcrcs, alle mulieres, ai finiosi, ma anche in ordine ai prodigi. Le
Dodici Tavole offrono al proposito elementi preziosi di valutazione.
(j,) E probabile che la legislazione decemvirale non contenesse prescrizioni
specifiche relativamente alle potestates sugli impJberes e sulle muliercs. La condizione
di queste persone, dopo la morte del loro paterfami/ias, era coinvolta nelle sorti di
tutta lafamilia pecuniaque del defunto [n. 901, e cioè: a) o la potestas era assegnata
alla persona designata dal defunto, giusta il precetto «uti legassiP b) oppure essa si
trasferiva agli adgnati gentilesquc, giusta il precetto «si intestato moritun. Dunque, im-
pwberes e mulieres non uscivano, con la morte del pater, dallo stato di soggezione
familiare, ma passavano sotto lapotestas di un altro soggetto, che era generalmente
un membro della stessa parentelaagnatizia. Probabilmente lasoggezione degli impubere:
maschi aveva fine con il raggiungimento dell'età pubere, mentre le mulieres (prive
della maschilità propria di un vero pater) restavano in porestate vita natural durante.
(b2) Relativamente ai patresfamiliarum usciti vistosamente di senno (furiò-
si»), la legislazione decemvirale, per quanto è dato di supporre, non riformò l'ami-
co principio quiritario, secondo cui essi erano da considerare alla stregua dei parrcs
defunti o capite deminuti, con l'effetto che in ordine alla loro familia si apriva la
successione: essa si preoccupò soltanto, e in aggiunta, di salvaguardare la loro con-
dizione personale, stabilendo che, se un paterfamilias diventava fieriosus, sulla sua
persona e sulla sua pecunia (cioè su quel patrimonio sussidiario che non rientrava
nel manczpium quiritario) En. 281, si instaurasse la potestà degli agnati e dei gentili
(si paterfamiliasfiiriosus escit, adgnatum gentiliumquc in eo pecuniaque cito potestas
esto»). Mentre i sui heredes del firiosus (o, in mancanza, gli ad,ati gentilesque) se
ne dividevano (secondo l'antica tradizione) la familia, la eventuale pecunia di lui
era attribuita agli adgnati suoi collaterali o ai genti/cs, in forza (e a compenso) del-
l'assegnazione agli stessi della potestà personale su di lui (<potcstas in co»): potestà
personale che sarebbe stato evidentemente inconcepibile lasciar andare ai sui bere-
de,, cioè ai discendenti che erano stati (o sarebbero dovuti essere) suoi sottoposti.
(0) Non si hanno notizie precise circa le disposizioni decemvirali relative al
caso del prodigus, cioè all'ipotesi del paterfamilias rivelatosi vistosamente incapace
di comportarsi come tale e, in particolare, di gestire oculatamente i suoi poteri sulla
familia pecuniaque con specifico riguardo ai sottoposti liberi ed alle re, familiare,,
insomma, incline non soltanto a dissipare il proprio aggregato familiare, ma anche
a mettere indirettamente in pericolo l'intera civitas. È certo però che il paterfarnilias
prodigus, se riconosciuto pubblicamente tale e bloccato mediante una solenne diffida
(interd(ctìo) magistratuale, sia stato sottoposto dai a'ecemviriad unapotestas degli agnati
e dei gentili analoga a quella relativa al jùriosus, Dunque, per quanta è dato supporre,
anche in ordine alla familia del prodigus si apriva la successi0 dei sui heredes, mentre
sulla sua persona e sulla sua pecunia la potestàspetravaai collaterali (adgnatiogenti/es),
con esclusione in ogni caso degli eventuali discendenti già stati in sua potestas.
LA, TUTELA, DEGLI IMPUBERI 173
a beneficio dei soggetti giuridici che fossero incapaci di agire a causa del-
l'impubertà. Essa non riguardava solo i maschi, ma anche le femmine: le
quali passavano con il raggiungimento della pubertà dalla tutela impube-
rum quella mul/erum, proprio perché nella prima si ravvisava il comune
denominatore della peculiare assistenza dovuta a chi, maschio o femmina
che fosse, ancora soffrisse di quella particolare incapacità di intendere e di
volere che deriva dall'immaturità degli anni.
Se questa era la nuova funzione dell'istituto, tuttavia la vecchia
struttura potestativa di esso, per quanto fortemente alterata, resistette
fino a Giustiniano. Lo dimostra principalmente il fatto che, riguardo al
patrimonio dell'assistito (pupillus), il tutore non era un puro e semplice
amministratore, ma aveva facoltà di vero e proprio titolare: in altri termi-
ni, il patrimonio pupillare era una sorta di «patrimonio separato» del tu-
tore, di cui questi poteva disporre a guisa di titolare (domini loco), salvo a
dover poi rendere conto del suo operato al pupillo, cui in definitiva il
patrimonio stesso era riservato. D'altra parte, siccome le responsabilità
del tutore per la diminuzione o la cattiva amministrazione del patrimonio
pupillare erano molto pesanti e il patrimonio stesso era riservato al pupil-
lo per l'epoca in cui avesse raggiunto la pubertà, è spiegabile che di esso
fosse considerato titolare anche il pupillo, e per certi aspetti prevalente-
mente o esclusivamente il pupillo: in una visione giuridica che, se non fa
onore alla logica, riflette tuttavia l'ambivalenza determinatasi per l'incon-
tro delle vecchie strutture con la funzione nuova dell'istituto tutelare.
(a) I fatti costitutivi della tutela degli impuberi furono tre: a) l'as-
segnazione testamentaria» (datio tutoris testamentaria), cioè la nomina di
un tutore testamentario; b) subordinatamente alla mancanza di un tutore
testamentario, la designazione, giusta quanto disposto dalle leggi delle
XII Tavole, del tutore legittimo (tutor legitimus); c) subordinatamente alla
mancanza di tutori testamentari e di tutori legittimi, la «assegnazione ma-
gistratuale» (&ztio magistratus), cioè la nomina di un tutore decretale o
Atiliano. Tuttavia in varie ipotesi particolari, allo scopo di surrogare o di
coadiuvare in tutto o in parte i tutori ordinari, furono previste, da speci-
fici provvedimenti di governo, anche talune figure di tutori speciali: tu-
tori che, peraltro, il diritto postclassico fu generalmente orientato a qua-
lificare piuttosto come «curarori».
A seconda del tipo di tutela, erano richiesti, almeno in orig ine, particolari
requisiti di capacità dei tutori. Ma col tempo le differenze, almeno sotto questo
profilo, vennero meno quasi del tutto, si che in periodo classico i req uisiti richiesti
LATUTELA DEGTJTMPU8ERI 175
per ogni tipo di tutor erano, oltre la soggettività giuridica, la piena capacità di agire
e particolarmente il sesso maschile. Solo in cm postclassica si cominciò a fare qual-
che ammissione a favore delle donne, e in particolare, con singole concessioni im-
periali, a favore della madre vedova nei riguardi dei figli.
(al) Il tutore testamentario (tutor testamentarius, anche detto talvolta
«dativus») era assegnato dal capofamiglia al figlio impubere nel suo testa-
mento (o nei codicilli confermati dal testamento {n. 91]) mediante una for-
mulazione imperativa tradizionale (<IL. Titius ilberis mci: tutor esto» o «L.
Titium liberis mci, tutorem do»). La nomina aveva effetto automatico (ipso
iure), nel momento in cui si verificava l'acquisizione successoria da parte
dell'erede istituito. Il tutore designato poteva peraltro esimersi dalla carica
mediante un successivo e solenne rifiuto della tutela (abdicatio tutelar).
La giurisprudenza e il diritto nuovo dell'età classica allentarono in numerosi
punti la rigidità dell'istituto, avvicinandolo sempre pie alla tutela Atiliana. Purché
intervenisse una conferma magistratuale a titolo di sanatoria (<wonfinnatio lx inqui-
sitione»): a) furono ammesse anche designazioni in forma diversa da quella tradizio-
nale; b) fu concesso al pater di nominare il tutore anche al jllius emancipatus, al
suus exhe,edatus, al postumus suus; e) furono riconosciute (con prevalenza sulla tutela
legitima) le nomine fatte (in mancanza di quella del pater) dalla materfamilias, da
altri parenti, dal paironus. In tutte queste ipotesi il tutor testamentarius acquistava il
suo titolo nel momento della conferma magistratuale, anziché in quello (preceden-
te) dell'acquisizione successoria.
Un altro allontanamento della tutela testamentaria dalle sue origini si ebbe,
sempre in diritto classico, quando, a partire da una costituzione dell'imperatore
Claudio (41-54 d. C.), si negò al tutore testamentario la libertà di esercitare a suo
piacimento l'abdicatio tute&ze (il ripudio del suo titolo), e si condizionò la sua esen-
zione dall'ufficio al fatto che egli adducesse valide ragioni di scusa (excusationes),
cosf come era stabilito per il tutor Atilianus. Nel sec. Il d. C. l'abdicatio trae/ge fu
addirittura abolita.
mità: prima i fratelli derivanti dallo stesso padre (expatre); poi i fratelli
del padre e cosi via. Venendo a mancare gli agnati più vicini (proximO,
il titolo passava (contrariamente, si badi, a quantp avveniva per la suc-
cessione) a quelli meno stretti. Se vi erano più chiamati dello stesso gra-
do, essi erano «contutori» (contutores) dell'impubere. La subordinata vo-
cazione dei gentili era praticamente desueta già in età preclassica.
t probabile che in antico il tutor legitimus, alla stregua di tutti gli aa?gnati
genti/esqwe, potesse non accettare la tutela e potesse altresi operare la cessione giudi-
ziaria (in iure cessio) ad altri della tutela in un primo momento accettata- In età pre-
classica e classica, invece, l'investituta del tutor legitimus aveva luogo ipso iure, non
era ammessa ahdicatio e (diversamente che per la tutela mulierum [n. 40]) non era
valida la cessione ad altre persone: se il tutore legittimo effettuava la in iure cessio
tutelae, egli restava titolare dell'ufficio, pur se questo era esercitato vicarialmente
dal cessionario. Solo in periodo postclassico fu esteso al tutor legitimus il regime
delle cxcusationes caratteristica della tutela atiliana.
In periodo postclassico, data la connessione esistente tra tutela legitima e suc-
cenio ab intestato, avvenne che, pur rimanendo fermo in linea di principio il siste-
ma classico, il ius novum imperiale mostrò una certa propensione ad ammettere
deroghe che portassero all'incarico di tutore anche i cognati e la madre del pupillo.
Giustiniano, in armonia con il suo riordinamento della successione intestata, stabili
per esplicito che la tutela legitima andasse conferita secondo questi nuovi criteri.
(a3) Il cd. tutore atiliano (tutor Atilianus, o decretalis, o dati vie: in
senso stretto) fu istituito da una legge Atilia dei primi anni del sec. Il a.
C., la quale, forse confermando una prassi magistratuale ancora prece-
dente, dispose che, in mancanza di tutore testamentario o legittimo, qua-
lunque cittadino (cioè un qui vis ne populo) potesse rivolgersi nel pubblico
interesse al pretore affinché nominasse all'impubere un tutore di sua scel-
ta: la madre e altri parenti stretti erano addirittura obbligati alla richiesta
(postulatio) relativa.
La nomina del tutor era fatta originariamente dal praetor con l'assistenza della
maggioranza dei tribuni plebis. Ai Romani delle provinciae provvidero le lego, lidia
e Titia (sec. I a. C.), conferendo il potere di nominare il tutor ai governatori delle
province stesse (praesides provinciaruin). In età classica competenti alla nomina in
Roma divennero anche i consules, mentre poi, sul Finire del Il sec. d. C., fu creato,
sempre in Roma, un apposito «pretore per la tutela)> (praetor tute/arius>).
La tutela atiliana ebbe, sin dall'inizio, caratteri evidentissimi di
funzione, di servizio pubblico (mj1nus publicum): caratteri che progres-
sivamente si estesero, tra l'epoca classica e quella postclassica, agli altri
due tipi di tutela. All'ufficio il «tutore designato» poteva sottrarsi solo
ottenendo dal magistrato tutelare il riconoscimento di comprovate ra-
IAJUTELA fl]GJ.I IMPUIERI 177
malversatore era condannato alla pena dei doppio dei valori sottratti (du-
plum). Probabilmente l'istituto fu esteso, già nell'età classica, anche agli
altri tutori.
0) La promessa di salvaguardia del patrimonio del pupillo (sati,-
datio rem pupilli salvamfore) era una stipulazione pretoria [n. 26] con la
quale il tutore prima dì assumere la tutela prometteva al pupillo di am-
ministrare il suo patrimonio facendo diligentemente tutto ciò che compe-
tesse al suo ufficio (iquidquid ex tutela clari fieri oportet»). In caso di ina-
dempimento, il pupillo esercitava l'azione (cc stttuLitu) al termine della
tutela. Ma la stipulazione non era imposta in ogni caso. La si soleva im-
porre solo in due ipotesi: a) quando il tutore fosse legittimo o fosse no-
minato da un magistrato municipale (cioè non da un magistrato della
repubblica); b) quando vi fossero più tutori di uno stesso pupillo, tra i
quali ad uno soltanto si volesse affidare la gestione effettiva.
(c Lazione di tutela (actio tutelae) era un'azione di buona fede, in-
famante, concessa al pupillo dopo esaurimento della tutela, contro il
tutore affinché fosse condannato a tutto quanto al giudice paresse da pre-
starsi a termini di buona fede (quidquid dare facere oponet exflde bona»).
L'azione (esercitabile, in età classica) contro ogni sorta di tutori) fu con-
cessa, sempre in età classica, anche al tutore contro il pupillo (come actio
contraria tutelae) per ottenere il rimborso degli oneri economici da lui
incontrati. Quanto alla misura della responsabilità del tutore [n. 88], essa
fu variamente determinata coi procedere dei secoli: a) in età classica il
tutore era responsabile, generalmente, solo per le anomalie di gestione
dipese da dolo malevolo; 6) in età postclassica egli fu ritenuto responsabi-
le non solo per dolo, ma anche per colpa; c) in diritto giustinianeo la sua
responsabilità fu trattata in modo ancora più rigoroso e si estese al man-
cato impiego nella gestione tutoria della diligenza che egli avesse esercita-
to nella gestione del patrimonio proprio (€diligentia quam suis rebus aa'hi-
bèri soler,: cd. culpa in concreto).
(d) La finzione del tutor impuberis, rivelata per una parte dal co-
stume sociale per l'altra parte dalle responsabilità giuridiche poste a suo
carico, era insomma quella di assistere con onestà e diligenza il pupillo
sino ai raggiungimento della pubertà, facendo in modo che egli non aves-
se a soffrire pregiudizi personali o patrimoniali a causa della sua incapaci-
tà di agire. Essa si traduceva nei seguenti tre ordini di doveri specifici.
(dl) La sorveglianza sulla condotta personale del pupillo. Questa
Rinzinne Ri ridotta) dal costume sociale dei tempi piú avanzati, ai mini-
tATUTELA DEGLI IMPUBERI 179
voi quattuor liberorum): questo per disposizione della legge Giulia e Papia
[n. 35].
Le vicende della tutela delle donne obbedivano alle stesse regole va-
levoli per la tutela degli impuberi, ma con qualche variante legata alle
peculiarità dell'istituto. In particolare, le donne avevano larga possibilità
di scegliersi esse stesse un tutore di loro gradimento e potevano ottenere
l'estinzione dei rapporto tutelare, non solo attraverso l'assunzione tra le
Vestali o il conseguimento del privilegio della figliolanza, ma anche ri-
nunciando alla soggettività giuridica e acconciandosi a divenire sottoposte
alla mano potestativa (mulieres in manu) di un soggetto giuridico che fa-
cesse loro da marito di comodo [n. 33].
(a) Il tutore testamentario (tutor testamento ehnus) era designato dal
testatore negli stessi modi della tutela degli impuberi, ma poteva sottrarsi
con maggiore facilità alla carica. Per lui l'abdicazione (abdicatio tutela e)
rimase disponibile sino a quando la tutela delle donne non fu pid osser-
vata. Se il tutore testamentario era dato alla donna da chi avesse avuto su
di essa la mano potestativa (non quindi dal titolare della patria potestà),
il testatore poteva anche concedere alla donna di scegliersi essa stessa un
tutore di gradimento (tutor optivu4,
Si distingueva, a riguardo dell'optio tutori,, tra: a) una scelta del tu-
tore «limitata» (optio tutoris angusta), nell'ipotesi che la donna ottenesse il
diritto di scegliersi il tutore non pid di una volta o di un certo numero
determinato di volte; I') una scelta del tutore «illimitata» (optio tutoris pie-
na), nell'ipotesi che la mulier ottenesse il diritto di scegliersi quanti tutori
volesse, l'un dopo l'altro o separatamente per singoli affari diversi
(6) 11 tutore legittimo era: ci) per la nata libera (ingenua), l'agnato piI
stretto (quindi, per la donna che fosse stata sottoposta a mano maritale, in
primo luogo il suo figlio di sangue, ma fratello sul piano agnatizio), subor-
dinatamente (ma per pura teoria) un gentile; 6) per la nata schiava (liber-
ta) il patrono (subordinatamente i suoi discendenti); c) per la donna
emancipata, il suo manomissore.
Jjesercizio (non la titolarità, si badi) della tutela legittima poteva essere trasfe-
rito ad altri mediante la cessione davanti al magistrato (in iure cessio tutehze) , dandosi
luogo alla figura del tutore cessionario (tutor cessici us).
La tutela legittima delle nate libere (ingenuae) fu comunque abolita, sin dal sec.
I d. C., da una legge Claudia (de tutela mulierum).
(c) Il tutore atiliano (tutore per legge Atilia) era nominato negli stes-
si modi e con gli stessi criteri valevoli per la tutela degli impuberi; ma in
82 1 RAPPORTI ASSOLUTI PAFAMIf,tARI
le, alle indicazioni testamentarie eventualmente fornite dal padre del folle
e, subordinatamente, alle relazioni di parentela agnatizia e cognatizia.
Le funzioni del curatore erano: a) di sorvegliare la persona del folle,
provvedendo alla sua assistenza ed al suo mantenimento; b) di ammini-
strare per conto di lui il patrimonio separato di cui era titolare, approssi-
mativamente allo stesso modo della gestione (negotiorum genio) spettante
al tutore di un infante. Al termine della gestione (che era segnato dalla
guarigione o dalla morte del pazzo), il curatore doveva renderne il conto
agli eredi o allo stesso paziente risanato e poteva essere convenuto, per la
cattiva gestione, con un'azione gestoria (actio negot-icrum gestorum).
Le potestà familiari spettanti al folle di sesso maschile (sui fui, le
mulieres in manu, i liberi in manczio) rimanevano dunque, almeno nel-
l'epoca storica, praticamente inesercitate o erano di fatto (ma non di di-
ritto) esplicate per conto del demente dal curatore. L'unica potestà para,
familiareche il folle maschio fosse ammesso validamente ad esplicare,
malgrado la malattia, era quella, peraltro eminenteniente nominale, di
tutore muliebre.
(6) La curatela del prodigo (cura pròdigi) dei tempi storici aveva an-
ch'essa subito, non meno della cura del pazzo, una sensibile evoluzione
rispetto all'assetto fissato nelle )UJ Tavole.
Il curatore era privo di ogni potestà sulla persona del prodigo, il
quale, se di sesso maschile, conservava pienamente il diritto all'esercizio
delle potestà familiari e parafamiliati. Egli era invece titolare del solo pa-
trimonio economico del prodigo (anzi, in età preclassica e classica, solo di
una certa parte di quel patrimonio) e in questa veste aveva l'ufficio (mu
nus) di amministrarlo nel suo interesse e di restituirlo a lui od ai suoi
eredi: non era considerato, più semplicemente, un mero amministratore
di quei cespiti per il fatto che la sua originaria potestà sul prodigo lasciò
ancora a lungo, almeno sul piano formale, la propria traccia.
Il prodigo assoggettato a cura non era (si badi) un qualsiasi dilapi-
datore, ma era colui che, avendo ereditato non per testamento i «beni
aviti» (<bona paterna avitaque»), li amministrasse rovinosamente con dan-
no della propria famiglia e, indirettamente, di tutta la comunità cittadina.
La cura del prodigo era inoltre subordinata ad una formale interdizione
(interdictio) pronunciata in sede di giustizia (in iure) dal pretore. Comun-
que essa non si estendeva alle ricchezze acquisite dal prodigo a titolo di-
verso dalla successione intestata dai suoi ascendenti (per esempio, ai beni
ottenuti testamentariameute da un terzo).
LA CURA DEI MINORENNI 185
È dubbio se il prodigo fosse considerato guaribile da quella che era più una
endemica debolezza del carattere che una vera e propria malattia dello spirito.
Tieventualit'a della guarigione doveva essere considerata praticamente rarissima.
Per quanto riguardava la persona del curator, i modi della sua designazione i
suoi poteri sul patrimonio separato da restituire al prodigus o ai suoi successori e,
finalmente, i suoi doveri di amministrazione, l'istituto della cura prodigi ebbe
strutturazioni e sviluppi paralleli a quelli delta cura Jiiriosi, con la sola accennata
differenza che il curator non aveva potestà sulla persona del prodigo. Coerente-
mente alla funzione assistenziale da essa acquisita, la cura prodigi si estese però, in
età posiclassica, dai soli beni aviti all'intero patrimonio economico del prodigus: al
quale ultimo venne tuttavia riconosciuta una capacità di agire paragonabile a quel-
la dell'infantia maior [n. 151 o per certi risvolti, del mina, [n. 42].
(c) Tra le curatele minori del diritto privato possono indicarsi: le tu-
rete debilium personarum e le cura turelari.
(ci) I curatori dei minorati (curatores debilium personarum, cioè dei
cd. handicappati) erano nominati dal pretore o da altri magistrati (o fun-
zionari imperiali) tutte le volte che si presentasse la necessità o l'evidente
opportunità di prestare un'adeguata assistenza, ai fini del compimento di
specifici atti giuridici, ai soggetti che fossero muti, sordi o altrimenti mi-
forati nel loro fisico.
(c2) Curatori tutelari possono essere definiti il «curatore dell'impu-
bere» (curator impuberis) e il «curatore della donna' (curator mulieris),
ambedue di nomina magistratuale. Essi avevano il compito di prestare
aiuto come curatori aggiunti (curatores adiunctz) al tutore inidoneo al-
l'esercizio delle sue funzioni o materialmente impedito (per esempio, a
causa di un viaggio) dall'esercitarle. In età postclassica fu loro riconosciu-
ta anche la facoltà di sostituire integralmente il tutore.
La legge, pertanto, introdusse un actio popularis (aperta cioè a tutti, al qui vis de
populo) avente carattere penale e da esercitarsi contro chiunque avesse operato a
suo vantaggio un'opera di «abbindolamento» (una «circumscriptio») di un minore di
età (maschio o femmina, sui iuris o alieni iuris). Da questa legge trasse successiva-
mente spunto il praetor per concedere ai minori dei 25 anni, sempre che fossero sui
iuris (e, almeno di regola, maschi), due rimedi contro l'autore della circumscrzptio,
o comunque contro colui che utilizzasse nei loro confronti il negozio ottenuto
mediante circumscriptio: a) un'eccezione (exceptio legis Laetoriae), intesa a paralizza-
re l'azione esercitata contro di loro per &r valere il negozio; b) un provvedimento
di ripristino integrale (in integrwm restitutio ex lege Lanci/a) inteso alla reintegra-
zione dello status quo ante, in caso di avvenuta esecuzione del negozio.
(a2) E pensabile che, di fronte a questa situazione, coloro che entravano in
rapporti di affari con un adulèscens, specie se maschio (e quindi non assistito da
un tutor), abbiano preso la precauzione di esigere ad ogni buon conto, cioè allo
scopo di ridurre il rischio di una futura exceptio o in intcgrwm restitutio, che l'ad,,-
lescens si facesse confortare nella negoziazione dal parere Favorevole di una persona
maggiorenne. Di qui derivò probabilmente l'uso che i mincres si rivolgessero essi
stessi al praetcr per ottenere a nomina, di volta in volta che avessero bisogno di
indurre qualcuno a commerciare con loro, di un curatore speciale (curator ad ce,-
tam causani): questo curator, assistendo al compimento del negozio, esprimeva il
suo «ccnsensus», nel senso peculiare di un «parere di conformità» in ordine all'uti-
lità dell'affare.
(a3) L'utilità oggettiva, ormai largamente riconosciuta, dell'intervento del
curatore speciale sugger( al praetor, tra la fine del periodo preclassico e l'inizio del
periodo classico, di costringere indirettamente gli adulescentes a non farne mai a
meno: e ciò egli ottenne col sistema di mostrarsi molto restio a concedere l'in
integrum restitutio, sopra tutto dopo il decorso di un anno dai fatti, quando gli
risultasse che il minore avesse agito senza il consensus di un curator. Mentre la
sussistenza dell'exceptio manteneva elevato 'interesse alla nomina del curatore da
parte di coloro che entravano in affari con i minori, il pericolo di perdere o di
vedersi ridotta la copertura dell'in integrum restitutio convinse largamente i mino-
renni stessi a chiedere in ogni caso di essere assistiti da un curator. La richiesta
del curator divenne, pertanto, un fatto normale, ed anzi sempre più spessa il cu-
rator non Fu più nominato per singoli affari, ma assunse una posizione stabile di
coadiutore e consigliere dell'adulescens,
(aeò Nel corso del periodo classico (precisamente, per iniziativa di Marco Au-
relio) il curator minoris passò ad essere, da assistente occasionale del minore impe-
gnato in un affare o in un processo, un sauratore stabile» del minorenne. E fu que-
sto l'inizio di uno sviluppo, per gran parte postclassico, in forza del quale il cura-
tore del minore (curator minorir), senza essere un titolare di potestà sull'adulescens e
senza esercitare un'integrazione della sua volontà del tipo dell'autorizzazione tuto-
ria, fu tuttavia considerato, per maschi e per femmine al di sotto dei venticinque
anni, una sorta di continuatore del tutor irnpuberis, con funzioni e responsabilità
concentrate nell'amministrazione del patrimonio economico del minorenne.
LA CURA DEI MINORENNI 187
SOMMARtO: 43. 1 rapporti assoluti dominicali. 44. Le vicende del dominio quiritario,
45. La tutela del dominio quiritario. - 46. La potestà padronale sugli schiavi. 47.
I rapporti affini al dominio quiritario. 48, lI dominio unificata.
rdomnio qLLiritario I
cd- propnetà pretorLa dominio unificato
specie HLcd. Proprietà provinciale
rnnomissione .vindicta»
r affrancazio ne pie n a m Remissione • ce nsii.
in anelli issione • est amen (o *
[potealà pa d ronak su gli cchi." -j
mano miss ioni prclorie
LaffIancarione ridotta-f leggi Fufia Caninia, Sua SenZLJ,
L Gioilia Norbana
facoltà
r itendi
- ius friiendi
[ ius abLLtencli
dir
limiti del dominio immobiliare -j intercapedine perfer'ca
intcrdetti sul taglio degli alberi e stilla raccolta dei fnhttL
r al luvion e
inc reni enti il uv tali atLl'or,
isola nata nel fiume pubblico
alveo derclitto da turro, pubblico
fnuur,cazioite
confusione
Ropporu -- -
noIuri
-
L esiont 5di mobil a LnimObi! i - senI Lnagione p La Rio g iene, i ned i fLca zi One -
fil mobili a mobili: saldatura, tessitura, i ntu ra sc ritt Lira UOO e, pit tu i
specificazione
vicende
• i aggiudicazione
assegnazLone giudiziale i est ma rione giudiziale
Fdi cose di
occupazione I da caccia e ptca
da riirovamento di tesoro
L
{: moldai
usutapione (rts habilis, titulua, [ides, possessio. tempus»)
mancipazionc (di cose uiàncipi)
cessione davanti al magistrato Idi cose niàncipi e non)
tradizinne (di cose non màncipi)
-
azione di rivendica
r interde to quem fu o doni. (per i olmo bili)
lazione esiblioria (per mobili)
arionc negaiora
difesa CCCLX LO RC di gius to doni in io
giadiziaria Cauziline di danno temuto
denuncia di nuova opera
interdetto quod vi aol clam»
- azione per il con te ni RI ente del l'acil u a piovana
TAVOLA XI: A) I rttpponi assoluti dominicali (ci 44-45.47 e 48) inclusisi della potestà padrnnale sugli
schiavi (a. 46).
190 I RAPPORTI ASSOLUTI I)OMfNI(7ALI
sione» fatta dalla repubblica alle famiglie, essendo convinzione radicata che
tutto il territorio romano fosse, per principio di base, terreno (extra com-
mercium) di pertincnza della comunità nei suo insieme e, per essa, della
repubblica e dei suoi organi di governo (ager publicus). Di fronte alle
molteplici altre specie di concessione che del terreno pubblico si potevano
fare e si facevano, quelle in dominio quiritario avevano la caratteristica di
essere «concessioni illimitare», quasi come cessioni di sovranità sugli appez-
zamenti di terreno, derivanti da una solenne e sacra ripartizione e assegna-
zione ai soggetti degli appezzamenti stessi (divisio edadsignatio agrorum»).
Ovviamente, le assegnazioni di più antica data erano basate più sul fatto
che non vi fosse memoria di un regime diverso (cioè, come si diceva, «ab
immemorabili') che su effettivi elementi di prova; le assegnazioni pid re-
centi, e particolarmente quelle di territorio attribuito alle colonie, erano
invece praticate con minuzia e documentate in modi molto precisi.
Altre limitazioni poste dal ius civile al elominium immobiliare, delle quali so-
litamente si parla, furono invece del tutto apparenti, se non addirittura inesistenti.
Apparente fu la limitazione connessa all'esistenza di un «muro comune (di unpàries
cornrnunis) tra due proprietari contigui: se la necessità di procedere alla riparazione
del muro comportava un obbligo di contribuire alle opere e alle spese relative da
parte dei due proprietar?, ciò non era perché i loro diritti fossero limitati, ma era
perché essi erano condomini de! muro. Apparente fu anche la limitazione connessa
alle «inimissioni nel fondo altrui» (immissiones in alienato) di fumo, calore, esalazio-
ni, rumori, scuotimenti e simili provenienti dal fondo vicino: se esse dovevano essere
prodotte solo nei linniti del minimo tollerabile, mentre oltre quel limite erano vietate
al proprietario del fondo vicino, ciò era affermato dalla giurisprudenza in omaggio
al principio generale del divieto di ledere l'altrui diritto (»ìftcrum non laedcre»). lire
sistente fu infine il divieto degli «atti emularivi» (acta ad aemulationem), cioè delle
operazioni fatte sul proprio fondo all'unico scopo di gareggiare col vicino e di dargli
molestia: divieto che ben si attaglia a certe note rivalità di età postromana (basti
pensare alle gare tra talune famiglie medievali per costruire la torre più alta), ma che
la lettura delle fonti romane non sembra suffragare.
rerdetto sui taglio degli alberi del vicino; b) dell'interdetto sulla raccolta
dei frutti caduti nel fondo vicino.
Jiinterdetto sui taglio degli alberi (interdictum de arbòribus caedMdis) era un
interdetto proibirono concesso a favore del proprietario di un fondo nell'ipotesi
che gli alberi del fondo vicino sporgessero sul suo ad un'altezza inferiore ai 15 piedi
(circa quattro metri e mezzo), oppure che gli alberi di un giardino pensile sovra-
stante sporgessero comunque sull'edificio inferiore. Al proprietario del fondo in tal
modo invaso era riconosciuta la Eacoltà di recidere personalmente i rami di altezza
inferiore ai 15 piedi o gli alberi che sporgessero dal giardino pensile (caèdere àrbo-
re4, sempre che non vi provvedesse il loro proprktario. L'interdetto proibiva ap-
punto a costui di molestare il proprietario vicino nell'esercizio di queste Facoltà,
ponendo con ciò non tanto un limite al dominus degli alberi, quanto una maggior
tutela a favore del domins del fondo invaso.
L'interdetto sulla raccolta dei frutti (interdictum de glande legènda) era un
interdetto proibitorio che, sviluppando una norma delle XII Tavole, vietava al pro-
prietario del terreno, su cui fossero andati a cadere frutti del fondo vicino, di im-
pedire al proprietario di quest'ultimo di raccogliere sul suo terreno tali frutti (Iègere
glande4. Tuttavia il proprietario dei frutti non poteva recarsi sull'altrui fondo a
proprio piacimento, ma solo una volta ogni due giorni (<tenia quoque die'); e in
ogni caso il proprietario del fondo vicino in tanto doveva subire l'ingresso dell'altro
proprietario sul suo fondo, in quanto non avesse provveduto a raccogliere egli stes-
so i frutti ed a restituirli, come suo dovere, facendosi eventualmente rimborsare le
spese della raccolta.
cera ecc.) utilizzate per scrivervi. Ne conseguiva che l'autore dello scritto
non poteva reclamare il suo prodotto intellettuale presso il domino del
materiale scrittorio, e che questi aveva tutto il diritto di distruggere lo
scritto oppure di diffonderlo, in una col materiale scrittorio, fra i terzi.
(0) Nell'ipotesi di pittura (picti1ra) con colori propri o altrui di una
tavola (tabula) in dominio di un terzo, molto si discusse se il domino della
tavola dipinta (tabulapicta) acquistasse il dominio dell'opera pittorica o se,
invece, l'opera spettasse al pittore, salvo indennizzo del valore della tavola
al suo domino. La ragione del dubbio era in ciò: che, mentre per un'opera
scritta su materiale altrui può ammettersi che essa sussista indipendente-
mente dal materiale, in quanto è bastato pensarla per realizzarla (né è
escluso che essa sia riprodotta dall'autore su altre copie), per il dipinto
l'opera creata non è scindibile dalla tavola.
(e) Fatti di specificazione (speci,fìcàtio) furono considerati quelli per
cui una persona diversa dal domino quiritario, da lui non incaricata, ope-
rasse una trasformazione di materia prima o di manufatti di quel domi-
no, in modo da creare una cosa formalmente diversa (<mova spccies): cosf,
ad esempio, nel caso in cui da una massa di metallo si traesse una statua,
o nel caso di un vestito derivato da una pezza di stoffa, o nel caso di
confusione di due o pi6 ingredienti che desse luogo ad un prodotto di-
verso (come era la frittata fatta dal cuoco con uova altrui). In queste ipo-
tesi alcuni giuristi davano preferenza al lavoro dello specificatore ed attri-
buivano perciò a costui il dominio della cosa risultante (della nova spe-
cies), mentre altri ritenevano che la proprietà della materia di origine non
si perdesse dal domino pur se essa fosse stata da altri trasformata in modo
da essere resa irriconoscibile. In età postclassica si formò una curiosa opi-
nione intermedia (una media sententia) tra le dottrine citate: se la nuova
specie era reversibile allo stato primitivo, si riteneva che essa appartenesse
al domino della materia; altrimenti si riteneva che essa spettasse allo spe-
cificatore, purché non fosse in mala fede.
(f) Fatti di assegnazione giudiziaria sono da qualificare i casi di at-
tribuzione (diretta o indiretta) del dominio quiritario da parte del giudi-
ce. Tali Furono i seguenti.
(f') I2aggiudicazione (adiudicàtio) era il provvedimento del giudice
di un'azione divisoria mediante il quale, in adesione alla parte della for-
mula giudiziale che era denominata anchessa adiudicatio, si assegnava in
proprietà singola ad un soggetto una cosa comune o parte di una cosa co-
mune [n. 24 e 321.
I,EVICENDE DEL DOMINIO QUIRITARIO 199
terreno altrui, sia pure senza autorizzazione del domino del fondo: questi poteva
esercitare le azioni a tutela del suo dominio contro il cacciatore che avesse operato
l'invasione, ma non aveva alcun diritto di reputarsi domino della cacciagione rac-
colta sul proprio fondo, a meno che si trattasse di animali costituenti il reddito
normale del fondo stesso. Gli animali generalmente selvatici, ma praticamente ad-
domesticati (manswefacti: ad cs., i colombi), non potevano tuttavia essere cacciati,
né comunque essere acquistati in a'ominium dal cacciatore, salvo che avessero per-
duto, allontanarisi dal fondo, l'istinto del ritorno (cd. «animu, revertendi).
(g2) Se non si trattava di i-cs nultiws, ma di cose abbandonate (res deretictae),
cioè di cose (generalmente mobili) che fossero stare inequivocabilmente lasciate
per sempre, è discutibile in quali casi ed in che momento il dominio ne fosse per-
duto dal domino e fosse acquistato dall'occupante. Secondo alcuni giuristi, il a!o-
minium non si perdeva con la semplice e materiale dismissione della cosa (dei-clic-
no), ma si perdeva nel momento dell'occupazione da parte di chi raccogliesse l'og-
getto abbandonato; viceversa, secondo la dottrina che Fini per prevalere) il domi-
nio si perdeva subito dal derelinquente, sempre però che si trattasse di un vero e
definitivo abbandono delle cose stesse, e non di un rilascio provvisorio del loro
possesso o di un loro involontario «smarrimento». D'altra parte, siccome vedremo
tra un momento che il diritto classico pretese, senza eccezione alcuna, che le cose
mancipi già appartenenti a qualcuno fossero acquistabili solo mediante mancipatio,
in iure cessio o usucapio, Finché ebbe rilievo la categoria delle cose mancipi 1e cose
abbandonate si poterono acquisire con l'occupazione solo se si trattasse di cose
non mancipi: in ordine alle cose mancipi, l'occupazione altro non era che il primo
momento del periodo di tempo richiesto per la successiva usucapione (tcmpus ad
usucapioncm).
(g3) Fatto di occupazione era anche il ritrovamento di un tesoro (inuèntio
thcsàurz), inteso questo come una quantità di monete (o di cose mobili pregiate)
depositata in luogo segreto da tempo immemorabile, sicché non ne Fosse più repe-
ribile il proprietario (vvetus quaedam depositiopecuniae, cuius non èxstat memoria, in
iam dominus non habeat). È probabile che, nei tempi più antichi, il tesoro fosse
considerato come accessione del fondo in cui era ritrovato; ma nel corso delletà
classica venne formandosi il concetto che esso dovesse spettare almeno in parte a
colui che lo avesse ritrovato (inv?ntor). Più precisamente, si ritenne: che il tesoro
scoperto in fondo privato dal relativo domino fosse integralmente di costui; che il
tesoro scoperto in fondo non proprio, ma a séguito di specifiche ricerche (data
opera), appartenesse integralmente al ritrovatore; che il tesoro scoperto per puro
caso andasse per una metà al ritrovatore e per l'altra metà al privato o all'autorità
pubblica o religiosa cui appartenesse il fondo. Ma si trattò di criteri non sempre e
U, tutto uniformi.
il carattere fittizio del processo, il magistratus poteva anche non essere il praetor (o
altro magistrato giusdicente), purché fosse titolare di ùnperiurn, e poteva essere ad(to
anche entra ius, fuori dal luogo ove sorgeva il suo trihdnat
(m) La tradizione della cosa (tradz'tio «cx iusta causa»), era la conse-
gna della cosa stessa da un soggetto ad un altro. Essa determinava il tra-
sferimento del dominio civilistico dal tradente all'accipiente se ed in
quanto concorressero quattro requisiti: a) che la cosa fosse non mancipi;
b) che la cosa si trovasse nel dominio quiritario del tradente; c) che il tra-
dente volesse effettivamente trasferirla in dominio all'accipiente e che
questi effettivamente manifestasse la volontà di accettarla; d) che sussi-
stesse una circostanza oggettiva tale da giustificare, secondo l'ordinamen-
to giuridico, il trasferimento della proprietà sulla cosa.
Tra 'e giuste ragioni di trasferimento (iustae causae traditionis) possono essere,
ad esempio, annoverare: la causa so/vendi, se la consegna di re! nec manczvi era ef-
fettuata per estinguere (so/vere) un'obbligazione; la causa credendi, se la consegna era
relativa a danaro o ad altre cose fungibili allo scopo di crearsi un diritto di credito
facendo un mutuum all'accipiente; la causa dotis, se la consegna era effettuata a fine
di datio dotis; la causa donationis, se la consegna era effettuata a fine di arricchimento
della controparte. Non erano invece iustae ca,isae traditionis, e pertanto non com-
portavano il trasferimento del dominio: la donazione ad un coniuge En. 361; il de-
posito e il comodino (negozi traslativi della sola detentio [n. 71]); il pignus e la de-
positi0 in sequcstrem (negozi costitutivi solo di possessio ad interdicta En. 30]); ed altre.
Quanto al requisito della consegna della cosa, che avrebbe dovuto costituire
il fondamento essenziale della traditio, attenuazioni numerose e di varia natura an-
darono diffondendosi nel corso dell'età preclassica e dell'età classica. Cosf, ad esem-
pio: si affermò l'uso di considerare valida come traditio delle merci contenute in un
magazzino la consegna delle chiavi del magazzino stesso (cd. «traditio syrnhòlica»
della giurisprudenza medievale); si usò considerare valida come traditio di cose si-
tuate a una certa distanza la indicazione delle cose stesse dall'alto di una posizione
eminente, senza necessità di toccarle e farle toccare materialmente (cd. «rraditio
longa manu). Furono questi i casi iniziali di un lungo sviluppo, che porrò alla for-
mazione della «tradizione fittizia, di cui parleremo tra poco {n. 48].
mezzi, altri ne furono contemplati, dal diritto civile o dal diritto onorario,
per difendere il dominio quiritario dalle altrui insidie, cioè da attività
esplicate da terzi, che ponessero in pericolo il pacifico e completo godi-
mento della cosa: a') la cauzione di danno temuto; e) la denunzia di nuova
opera; iO l'interdetto quod vi aut clam; g) l'azione per l'acqua piovana.
(a) Con l'azione di rivendica (rei vindicatio) il domino agiva contro
colui che si fosse impossessato a proprio esclusivo favore della sua cosa,
chiedendo di riottenerla in possesso o, quanto meno, di essere ripagato
del valore della stessa sulla base dell'accertamento della sua situazione di
domino quirirario (dominio ex iure Quiritium).
E azione si esercitava, nei tempi phi antichi, con la procedura della legis actia
sacramenti in rem. Ma questa procedura, come si è visto a suo tempo [n. 22], era
troppo complessa e dispendiosa per poter essere conservata in epoche più progredi-
re. Sembra pertanto che ad essa le parti abbiano rinunciato ancor prima dell'intro-
duzione della procedura Formulare e che, in questo periodo di transizione, esse si-
ano state solite discutere e risolvere le controversie di proprietà con l'espediente
della utilizzazione della sponsio [n. 671 e della conseguente legis actia per iudicispo-
stulationem: sistema della cd. «tegis actio per sporsionerm. Più precisamente, il domi-
nus civilistico spossessato della cosa, avendo interesse a riottenerne la disponibilità,
prendeva l'iniziativa di farsi promettere dalla controparte, mediante il ricorso ad
una sponsio (cd. spowio praeiudicialio'), il pagamento di una somma simbolica per
il caso che gli riuscisse di dimostrare nel successivo giudizio il suo titolo di proprie-
tà. Forte di questa «promessa pregiudiziale», egli citava quindi la controparte in itts
con la legis actio per iwdicis postutationem. Se il convenuto non operava il riconosci-
mento del suo diritto (mediante confessio in iure), la lite imperniata sulla sponsio e
sul suo buon fondamento (vale a dire sull'accertamento del dorninium ex iure Qui-
ritium in ordine alla resi passava ad essere risolta dal iudex senza la necessità di pa-
gare la dispendiosa summa sacramenti.
Anche dopo l'adozione del sistema formulare, la rei uindicatio poteva ancora
esperirsi attraverso un sistema corrispondente all'antica legis actia per sponsionem,
cioè mediante un'<actio per sponsionem», quindi mediante un'azione in personam.
Tuttavia il procedimento di gran lunga prevalente divenne rapidamente quello della
cd. «formula petitoria» (formula di richiesta), che era un'actio in rem. Senza bisogno
di strappare una preventiva sponsio alla controparte, l'attore la conveniva in ius e da-
vanti al magistrato affermava la sua qualità di dominus cx iure Quiritium, chiedendo
la restituzione della cosa: in caso di diniego del convenuto, la «regola di giudizio»
(il cd. iudicium) veniva pertanto ad essere formulata come un invito al giudice
acche condannasse il convenuto al controvalore della cosa contesa ove gli risultasse
che proprietario della cosa Fosse effettivamente l'attore (ed ove il convenuto non
prevenisse la condanna mediante la restituzione allattore della cosa stessa),
(a') Convenuto nella rivendica era, di regola, il possessore effettivo
della cosa al momento della litisconresrazione. Ad evitare astute manovre
LA TUTELA DEL DOMINIO QUIRITAIUO 205
del convenuto stesso per sottrarsi alla condanna, si ritenne che questa po-
tesse essere chiesta e irrogata anche nei confronti dei cd. possessore fitti-
zio («lìc'tu: possèssor»), cioè: a) di colui che, per coprire il vero possessore
della cosa, si fosse lasciato trascinare in giudizio, evitando di mettere in
chiaro sin dall'inizio di non esserne possessore a proprio vantaggio (qui
liti se òptulih); 1') oppure di colui che avesse maliziosamente trasferito ad
altri il possesso della cosa all'unico scopo di sottrarsi alla rivendicazione
(qui dolo dèsiit possidére').
La rivendicazione nella formula petitoria era un'azione arbitraria [n.
231, cioè esigeva che il convenuto, se al giudice paresse aver egli torto, fosse
da costui preventivamente invitato a decidere se restituire la cosa onde
essere assolto (arbitrium de restituendo). Solo se non effettuava la restitu-
zione della cosa il convenuto era da condannarsi al pagamento di una som-
ma pari al valore che avesse la cosa rivendicata nel momento della senten-
za del giudice (quanti ea re: erit). L'<estimazione giudiziale» (litis aestima-
tio) del valore della cosa controversa ((IS) era operata solitamente col ricorso
ad un giuramento sul valore della cosa stessa (iwsiurandum in litem), che
il giudice deferiva all'attore; ed era questo un motivo di piú acché il con-
venuto fosse spinto ad evitare mediante la restituzione della re: la condan-
na pecuniaria, che sarebbe stata presumibilmente assai alta.
Nel vecchio processo della legis actia sacramenti in rem il convenuto era tenuto
a offrire dei garanti (praedes) della restituzione della cosa o del pagamento del suo
valore in caso di soccombenza [o, 66]. Nel processo successivo egli doveva prestare,
a titolo sostitutive dei praea'es, urla promessa personale fu. 26), garantita però da
terzi (quindi una satisdatio), e cioè: una «cautio pro praede liti5 et vindiciarum» nel-
l'ipotesi di actio per sponsionem; oppure una «satisdatio iwdicatum so/vi» nell'ipotesi
di formula petitoria. In caso di rifiuto di prestare la satisdatio (per iattanza o per im-
possibilità di trovare garanti solvibili), il possesso della cosa controversa era negato
al convenuto e trasferito imperativamente all'attore, purché questi fosse disposto ad
offrire a sua volta satisdazione (cd. «tra nslatio possessionin): in questa ipotesi l'attore
era esentato dall'onere della prova e il convenute, volendo riottenere il possesso della
cosa, era tenuto egli stesso a provare (come se fosse l'attore) il fondamento del suo
titolo di proprietà. Naturalmente, le parti potevano anche rinunciare alla satisdatio,
accontentandosi di una semplice repromissio.
Nella procedura «per formulam pnitoriam» il possessore era tenuto a restituire
all'attore anche i frutti (fuctus) che la cosa avesse prodotto. Se il possesso era stato
iniziato in buona fede) i frutti da restituire erano quelli percepiti dopo la liti5 con-
testatio; se il possesso era stato iniziato in mala fede, erano da restituire anche i
frutti percepiti prima della litis contatati, cioè siri dal momento dell'impossessa-
mento. Nel diritto giustinianeo, in cui la procedura formulare aveva ceduto il po-
206 I RAPPORTI ASSOLUTI OOMtNICAL[
sto alla procedura straordinaria, il possessore di inala fede era tenuto a resti tutte
non soltanto i frutti raccolti (percèpti), ma anche quelli raccoglibili (percipièndz),
cioè quelli che egli avrebbe potuto ottenere dalla cosa se l'avesse sfruttata più razio-
nalmente.
Per ciò che riguarda le spese incontrate dal convenuto durante il possesso
della cosa (impensae), il ius honorarium ammise che al convenuto si dovessero risar-
cire quelle necessarie cd utili (ma in nessun caso quelle voluttuarie), purché risul-
tasse essere stato possessore in buona fede, e a questo fine gli accordò un'exreptio
doli da opporre all'attore; dell'exceptio doli non vi fu più bisogno nel iw novum po-
stclassico, dato che il risarcimento delle spese era calcolato direttamente dal giudice
in sentenza. In diritto giustinianeo, al possessore) sia di buona che di niala fede, si
riconobbe il diritto al recupero, in ogni caso, delle spese necessarie: al possessore di
buona fede si riconobbe, in più, il diritto al rimborso delle spese utili (nella som-
ma minore tra lo speso ed il migliorato); a tutti e due si riconobbe un «ius totien-
di», cioè un diritto di asporto» dalla cosa di tutte le accessioni che vi fossero state
operate, sempre che questa asportazione non implicasse un danneggiamento della
cosa nel suo complesso.
(a2) Il punto debole del processo rivendicatorio era costituito, quan-
to meno nella procedura formulare, dalla mancata difesa (indefensio) del
convenuto, cioè dal fatto che il convenuto si rifiutasse di addivenire alla
litiscontestazione in ordine alla formula giudizialc proposta dall'attore e
avallata dal magistrato giusdicente. Per costringere indirettamente il con-
venuto a non sottrarsi al processo e a difendere il suo possesso (rem de-
findere') o almeno ad effettuarne il trasferimento (translà zio possessiònis)
all'attore, furono creati due mezzi processuali complementari un inter-
detto per la restituzione delle cose immobili, oppure un'azione per l'esibi-
zione delle cose mobili.
L'interdetto «quem fundum» ( cosf denominato dalle parole iniziali della for-
mula) era un interdetto restitutorio relativo alle cose immobili. Con esso il magi-
strato ordinava al convenuto di restituire la cosa (restitaerc rem), cioè di trasferire il
possesso all'attore. Se il convenuto non possedeva la cosa, né aveva fatto dolosa-
mente in modo da perderne il possesso, gli bastava resistere all'ordine interdittale,
sicuro di essere assolto nel procedimento di cognizione ad esso conseguente. In
caso contrario, il suo interesse era (potendo ancora farlo) di trasferire il possesso
della cosa all'attore (con la riserva di agire in rivendicazione contro di lui in un se-
condo tempo), oppure di decidersi ad accettare, cos( come pronunciatagli dall'atto-
re, la formula giudiziale della rivendica: altrimenti sarebbe stato condannato nel
processo interdittale.
L'azione esibitoria (actio ad ex/,ihèndurn) era relativa alle sole cose mobili
(schiavi compresi) ed offriva al rivendicante una garanzia anche maggiore dell'in-
terdetto. Di fronte alla mancata difesa del convenuto, l'attore) se la cosa contestata
non era già stata portata davanti al magistrato, passava ari esercitare nei suoi con-
LATUTELA DEL DOMINIO QUIRI]ARIØ 207
Fronti un'azione personale arbitraria, con la quale chiedeva la consegna della cosa o,
in mancanza la condanna di lui al controvalore della cosa al momento della sen-
tenza giudiziale (qwanti ca res crit). Se il convenuto non possedeva la cosa, né aveva
fatto dolosamente in modo da perderne il possesso, egli non aveva che da resistere
alla nuova azione; in caso contrario, gli conveniva (potendo ancora farlo) operare
subito la restituzione, oppure decidersi a difendersi. E finalmente, se egli si rifiuta-
va di contestare la lite in ordine all'azione personale, scattavano a suo danno le
conseguenze dell'esecuzione personale (duci iubère) o dell'immissione della contro-
parte nel patrimonio (missio in bona).
(b) Lazione negatoria (actia negatoria) era promossa dal domino con-
tro colui che proclamasse illecitamente la titolarità di un diritto reale limi-
tato sulla cosa, e più precisamente la titolarità di una servitù o di un usu-
sfrutto [n. 50-54]. Essa mirava a contestare l'esistenza di questo diritto e
ad affermare la piena libertà della cosa da ogni vincolo estraneo al potere
assorbente del domino: si chiamava «negatoria» appunto perché caratteriz-
zata dalla negazione di un diritto reale sulla cosa. Alla condanna nel valore
della cosa al momento della sentenza (quanti ca res etit), il convenuto po-
teva sottrarsi con la restituzione della cosa stessa. Nell'ipotesi di mancata
difesa del convenuto, erano a disposizione dell'attore, come per la riven-
dicazione, l'interdetto «quem fitndum» o l'azione ad exhibendum.
(c) Il domino poteva anche opporre un'eccezione di giusto dominio
(exceptio iusti domini;) a chi, ritenendo il suo dominio infondato e rite-
nendosi domino in vece sua, gli contestasse la disponibilità della cosa me-
diante una rivendicazione. Generalmente egli seguiva questa via, sobbar-
candosi all'onere della prova (e rinunciando alla comoda posizione pro-
cessuale del convenuto, che si limitava a negare La pretesa dell'attore),
quando aveva motivo di temere che il pretore volesse favorire le ragioni
dell'attore: ad esempio, quando gli premesse di dimostrare di essersi reim-
possessato per un giusto motivo della cosa mancipi di sua proprietà dopo
averla precedentemente venduta e consegnata (vèndita ac tràdita) alla
controparte (attrice, in questo caso, come diremo tra poco [n. 47], con
l'azione Publiciana).
(d) La cauzione di danno temuto (cautio damni in/ecti) era una sti-
pulazione pretoria consistente in una solenne promessa (cautio) garantita
un terzo (dunque una satisdatio) con la quale chi fosse proprietario di un
edificio in pericolo o costruisse azzardatamente un edificio sul proprio
fondo assicurava al domino del fondo o dell'edificio vicino di risarcirgli il
danno che sarebbe potuto derivare al suo fondo o al suo edificio da even-
tuali crolli: un danno «non fatto» (inj'ectum), ma soltanto temuto.
208 I RAPPORTI ASSOLUTI DOMINICALI
vicino, se a causa di lavori compiuti sul fondo di costui @opus manzi factum) si
fosse determinato un afflusso o un maggior afflusso di acque piovane sul fondo di
lui. Il vicino era tenuto a risarcire all'attore ogni spesa incontrata dal proprietario
del fondo invaso dall'acqua per evitare il danno e rimettere le cose al Icz. posto.
decadenza del Fenomeno della schiavitù. Gli apporti dì schiavi si ridussero norevol-
men te, elevandosi con ciò il prezzo della merce-schiavo sui mercati; d'altro canto,
si moltiplicarono le istanze dei servi (istanze già numerose e pressanti nel periodo
precedente) sia per una congrua remunerazione del loro lavoro (con la conseguente
moltiplicazione dei peculi, servorun,), sia per l'affrancazione, spesso da loro stessi
pagata utilizzando i perutia, dopo un certo periodo di soggezione. Il cristianesimo
indubbiamente lavori questo processo, pur essendo ben lontano, quanto meno nei
fatti, dal combattere l'istituto della schiavitù come tale. Fu giocoforza pertanto che
leco no in ia ro tn a 'la tornasse ad orien cars i verso il lavoro libero co ne surrogato di
quello schiavistico, e sa questa strada cercarono di porsi gli imperatori con le loro
illusorie, e comunque effimere, politiche di dirigismo economico. Di qui sorse e si
propagò, nel mondo posrclassico, quel largo e vario ceto dei «semi liberi» [n. IO],
vincolati alla terra o ai mestieri, che in luogo degli schiavi mancanti, furono sfrut-
tati, nella decadenza economica generale, per dare in qualche modo alla produzio-
ne l'alimento di lavoro di cui essa aveva bisogno.
(b) La condizione giuridica degli schiavi (statu, servoru,n) era, come
si è detto a suo tempo [n. 13], quella delle cose mancipi. Ma si trattava,
per molteplici riguardi, dì oggetti giuridici del tutto particolari.
(b I) Durante la schiavitù i servi erano, all'interno della fami//a, su un piano
non diverso da quello dei fi///, delle uxores in mani' e dei liberi in ,na,,c,io, tanto
vero che con i fitii essi erano accomunati nella dizione di personac in potcstate [n.
8]: al do,,,jnus (e anc le alla domina) spettava quindi su di essi il ira vitae ire necis
il ha vendeneli e il ho noxae dandi [n. 34].
Se utilizzati neLla domi,s, cioè prevaLentemen re in città (o nella sede di una
colonia civiupn Roma,,orum) e a lle dirette dipendenze del domù,us, gli scIi iavi costi-
tuivano la cd. fami//a urbana (servorutn) con una varietà di impieghi (manuali, ar-
igia uI i, n'lt ti rai i amministrativi) che poteva essere, in relazione al rilievo sociale
ed economico dei padrone anche molto vasta e che portava spesso i più dorati al
godimento, in pratica, di un tinutaccento identico a quello dei sottoposti liberi:
possibilità di essere otiliurni cotti e sos ti tu ti del dominio (con connessa attribuzione
di ti na «me,, capacità di agire»); uu rn,hi di Fiducia (e spesso cli speciale d elicatez-
za) 'iell'anlniiilistrazìorlc domestica: Facilità di ottenere adeguate retribuzioni cdi
crearsi un peculium sciolte (del q LI te p0 reva no far parte persino ai t ri sch i ivi); con-
segue n te gCiii ià di essere a Tranci ti (non di rado ri scatta ndosi col pecu/ium) dopo
un certo periodo dì tempo e di passare allo stato di liberti, eventualmente come
exercitores come iflstitorr, o addirittura come procuratores omniuin bonorum dei
loro antichi paci ioni.
5e ari1 izzari dai ricchi propriciad fonditici a distanza, particolarmente nelle
vi//at rustiche e nei (at/finii/a, gli schiavi integravano una fami/la rustica (servorum),
tra 1e poche o niol te di cui i loro domini disponessero, e si trovavano alle dirette di-
pendenze del l'a inni in istra ore rela ti vo, il « cilicio, che era spesso o n I iberto o addi-
ri ttu ra tino schiavo di rango superiore. Il trattamento cui i servi venivano sottoposti
era sovente, in tal caso assai crudo, determinando in essi Sri moli di astensione dai
212 I RAPPORTI ASSOLUTI DOMINICALI
iure Quiritium e quello sostanziale del cosf detto proprietario pretorio: il «plenum
ius» si verificava quando i due doininia si unificassero, per via di usucapio, nella
stessa persona.
(b) La «possessio ve1 ususJ*uctus dei fondi provinciali» era una locuzio-
ne di comodo con la quale si soleva indicare un altro tipo di rapporto as-
soluto in senso proprio affine al dominio quirirario e che si usa denomi-
nare, in traduzione libera, proprietà provinciale.
L'istituto si configurò, sebbene in modo sporadico e non del tutto
chiaro, come situazione attiva di un rapporto puramente imitativo del
dominio quiritario, il quale atteneva a cose immobili che non potevano
costituire oggetto di quest'ultimo, e più precisamente a terreni che non
erano siti nelle tribd cittadine dell'Italia peninsulare o nei municipi e co-
lonie romane (jùndi in agio Romano), ma che facevano parte del territo-
rio provinciale (agri provincia/cs): terreni sottoposti ad una potestà pub-
blicistica dello stato (o dei suoi rappresentanti) ed inseriti pertanto tra le
cose fuori commercio (respublicae {n. 13]). Dato che il potere pubblico,
salvo eccezioni, non amministrava direttamente questi terreni, ma usava
concederli in utilizzazione indefinita ai cittadini privati contro il paga-
mento di un tributo (che si diceva st1endium nelle province gestite dal
senato e tributum nelle province assegnate alla gestione dei principi), i
soggetti giuridici concessionari dei terreni (dei fondi stzpendiarii o tribu-
tarii) erano praticamente assimilati a domini degli stessi. Siccome però la
concessione era revocabile, la giurisprudenza classica, evitando studiata-
mente di usare la terminologia del dominio, parlò di «possesso», proba-
bilmente per derivazione dal termine adoperato in antico rispetto alle
concessioni delle terre pubbliche, e parlò aggiuntivamente anche di «usu-
frutto», verosimilmente allo scopo di porre in rilievo l'analogia esistente
tra il concessionario di un fondo provinciale e la figura dell'usufruttuario
[n. 53]. Ai titolari del «possesso o usufrutto» gli editti provinciali conce-
devano un'azione utile imitativa della rivendicazione (ad exemplurn rei
vindicarionis), per permettergli di reclamare la restituzione del fondo di
cui gli fosse stata concessa l'utilizzazione Uhabere possidèrc utifrui li-
cère,) da parte di chi lo avesse spossessato.
Modo caratteristico di acquisto della proprietà provinciale fu, per in-
tervento del diritto nuovo in età classica, la prescrizione per lungo decor-
so di tempo (praescrfptio longi tempori4: istituto che era ricalcato sulla
greca paragraphé. Dato che i fondi stipendiari o tributari non costituiva-
no oggetto di dominio civilistico e perciò non potevano dar luogo ad una
218 I RAPPORTI ASSOLUTI DOMINICALI
mente impostata sulla essenzialità del requisito della volontà (ànimus tra-
dènd,) di colui che la effettuasse a scopo di trasferimento del dominio.
Tuttavia in diritto giustinianeo: a) per il trasferimento del dominio sulle
cose mobili fìni per essere ritenuta bastevole la pura e semplice consegna
delle stesse; b) per il trasferimento del dominio sulle cose immobili si
affermò la consegna degli atti costitutivi della proprietà (cd. i< craditio per
chartam») accompagnata da un accordo scritto (scrzptura) e possibilmente
integrata dalla cd. «insinuazione (insinuatio), cioè dalla cura di di inseri-
re (jnsinuàre) una copia o un riassunto del documento nei processi verba-
li e nei pubblici registri tenuti da funzionari imperiali o da giudici.
Jfl pii, si ampliarono e moltiplicarono i casi di tradizione fittizia (traa'itio
fina), nel senso che alle figure già note della cd. traditio syrnbolica e della ;raditio
longa manu (relative, luna e l'altra, a cose mobili e immobili) vennero ad aggiun-
gersi la sraditio brevi manu e il constitiitum possessorium.
La traditi, brevi /nanu era ravvisata nel mutamento dello stato d'animo delle
parti riguardo alla cosa: si verificava cioè nell'ipotesi che colui il quale deteneva la
cosa a nome di altri (per esempio a titolo di comodato o di locazione) cominciasse
a un certo momento, con il consenso (espresso o tacito) del dominin, a possederla
come propria acquisendola quindi al suo dominin,,:.
Il constitutum possessorizirn era ravvisato nel mutamento inverso dello stato
d'animo delle parti: si verificava cioè nell'ipotesi che colui il quale possedeva la cosa
in nome proprio e a titolo di a'omìnium volesse trasferirla ad altri conservando a se
il solo ci ritto dì utilizzarla, e quindi continuasse a detenerla con intenzione
opportunamente mutata (come usufruttuario, affitruario, comodatario ecc.).
CeVUtO in dono nella provincia assegnatagli, le cose del fisco, le cose del principe, i
bona materna ed altre specie via via indicate (non senza variazioni) dalle costituzio-
ni imperiali.
(c2) Si richiese, in secondo luogo) che l'usucapiente esercitasse sulla res habilis
la possessio civilis (o «ad usucapionem») e che questo esercizio fosse esente da ogni
interruzione» (usurpatio) quanto meno nell'animus. Secondo il diritto classico, la
morte del possessore non dava luogo ad interruzione, ma determinava la successione
nel possesso (successiopossessionis») a favore del suo successore universale mortis cau-
sa (non però del legatario). Secondo il diritto postclassico (che raccolse uno spunto
forse già offerto dalla praescriptio longi temporis classica), l'interruzione fu esclusa
anche nell'ipotesi di trasferimento a titolo particolare (ad un legatario o ad un ac-
quirente inter vivor) e si ammise che al tempo maturato dal primo usucapiente si
aggiungesse quello maturato dall'acquirente (cd. accessio possessionis),
(c-3) Si richiese, in terzo luogo, che la possessio ininterrotta della res habilis
fosse giustificata da un titulus, cioè da una ragion d'essere, da una situazione ogget-
tiva che l'ordinamento (e prima ancora, la coscienza sociale) ritenesse atta a liceiz-
zare la trasformazione, col tempo, della possessio in dominium (cd. fatta causa tini- -
possesso della Tn, un diritto altrui. La bonajìdes era però iniziale», era cioè richie-
sta solo al momento della presa di possesso, non dopo: si diceva quindi che «la
mala fede sopravvenuta non nuoce («ma/a fida supervènienr non nocet»). Solo in
alcuni casi eccezionali si prescindeva dal requisito della buona fede.
(c5) Si richiese, in quinto luogo, che la ininterrotta possasio ad usucapioncm
della ,es habilis si protraesse per una durata minima (tempus), che Giustiniano por-
tò a: 3 anni per la usucapio delle rei mobiles; IO anni per la praescriptio Longi tempo-
ris di Ta immobilcs, quando usucapiente e domino della res risiedessero nella stessa
città (praescriptìo «inter praesentes»); 20 anni per la praescr:ptio longi temporis di res
immobilcs, quando usucapiente e domino risiedessero in due città diverse (prac-
scriptio «inter absentcs»).
SOM MARIO: 49. I rapporti asso] tiri su cosa altrui. - 50. Le servitù prediali. - 51 tipi di
servirti prediali, -. 52. Il reginle delle servitù prediali. - 53. L' ust,irurro. 54. I rap-
porti alìni all' usufrutto. - 55. La superficie. -_ 56. L' enfiteusi - 57. 1 rapporti
assoluti di garanzia.
l'alternativa di una limitazione del dominio originario entro gli stretti limiti di un
vincolo posto al domino della cosa per il beneficio che da questa cosa potesse rica-
vare 'estraneo. Perciò) ad esempio) se il fondo di Tizio era utile anche al vicino
Cìio (per trailsirarvi, per portarvi il bestiame all'abbeverata ecc.), 'e soluzioni
as tra r tamen re possibili erano tre: che Tizio si obbligasse a puro tiro lo « rela r vo»
verso Gaio; che Tizio e Caio divenissero condomini» del fondo appartenente in
origine al solo Vizio; che Tizio concedesse a Calo un diritto sul proprio Fondo (che
era cosa altrui per Ca i o) o addirittura che questo diritto su cosa altrui (izu in re
alièna) fosse imposto, nei casi di stretta necessità, dall'ordinamento. Il favore del-
l'ordinamento (oltre che della mentalità ovvia mente individuai isuca dei soggetti
privati) fu orientato verso la prima o la terza soluzione.
r
dcdLizione di LiufrtLtro
Cnstiuzione -j leiuo per rivendicazione
patitilzione con supulacione
tradizione imperfetta
b) usufruito
E conaolidazionc
estinzione _j rinuncia (remissio)
I inuttliznztonc
A) Rapporti di morte o sva]utat. personale dcli usufruccuano
odi,ne,rro
me zz i iud zia ri [ ciad icutio .... ctus. a nca torta in! cide ai
i!iierdiciale
d) enhietisi (da io5 in ago vectiza]i ecc.) {
azione rea le
T,,.,, XII. 1 rapporti assnittri su cliMi altrui (0. 49 e 53-56) anche ta, XIfl]
I
226 I RAPPORTI ASSOLUTI SU COSA ALTRUI
(pziius azturn), per cui il creditore otteneva sin dall'inizio il possesso del-
la cosa (mobile o immobile) oppignorata; 6) lipoteca (hypothèca, o con-
vèritio pignori:»), per cui la cosa rimaneva nella disponibilità materiale del
concedente (debitore o terzo garante), essendo però vincolata alle conse-
guenze dell'eventuale inadempimento.
aquae hausus
fli si ich peco ris ad aqua io a dp LIISUS
peeoris pascendi
h airna e [od endae
cretae eimendac
re go a n
Seniiil stillicidi - -
nec Iuarrnpi
prediaii Dumints
cloacae
tigni ininutteisdì
urbone one's ferendi
tipi proteendi. proiciendi
a]tius non iollendi
ne luminibtLs officiatLjr
ne prospeclui offkiatur
[ pretorie
iJTegolari -J provinciali
L anomale (altius tolleodi. Iuminibtis oiciendi
[vindicatio servitutis
ole a i giudiziari ac [io nega oria
H
Ltnterdicia
delle «servitù prediali in senso proprio (gr;ivanti cioè su un fondo a favore c'ei
pro p rieta rio di un ,li,. fondo vicino); b) quel i a delle cd. «,ervinA perso n'i » (se,-
vitute's personarsim») , cosf dette perci gravanti su una cosa anche mobile a favore
di persona non proprietaria della stessa): calegoria in cui rientrano per 'appunto
l'usufruito e i diritti affini,
(a') Già abbiamo detto a suo (cm po [o. 28] clic tal un i diritti pi-ed i ali (iuTa
p raedìorum, cioè I'iter, I'actus, la via e l'aquaea'uczus) sono sorti in epoca antica,
anche se non in I ichissima, presumibilmente tra la fine del sec. VI e gli inizi del sec.
V a. C., CO me ma n i festazio n i co in pi cm ciii ari del manciptuin i rnmob EI iare nel suo
aspetto più evoluto: di un manc,pium cile avendo superato gli stretti confini ed i
con lessi o tino nEi del l'o rE icello familiare (/ierediu ,,i) , sì esplicava s e] Fondo sito in
territorio cittadino (fie,;dus in agro Romano) a fini di s fru rta in Cn to eco no mico ci ella
stesso. Qui possiamo aggiungere cile 'identificazione di queste origini dell'isi ituto
non è suggerì ra soltanto dalla storia economica di Roma, ma è suffragata anche da
un indizio di notevole importanza. A differenza di tutte le ili re, 1e quattro antichis-
sime servi t sopra i nd i care era no quali Icate, in età storica, servitutes mànczpi» ed
eta lo costituite, ce me vedremo, non solo media mite in iii re ce,io, ma anche ed es-
senzialmente mediante nanczpatio. Si ptib ritenere pertanto, con su flìcìcnre sicurez-
za, che la ioro fo rmazio ne sia proprio av,enuta in ti n'età pri tuo rd iale, quella dal ius
Q u iritiun n cui la sfera dell'o rd in anie n tu era tuttora limitata i1 nancipzum e i
rapporti relativi (le oh/igationcs) a ncora non avevano conseguito quella rilevanza
gi t'ridi ca clic fu loro rico n usciti ta sol 0111 to dal ms legitimu 'o vetus. e in pi r colare
dalle XII flivole (451-450 a, C.): dato che l'unica forma giuridica disponibile era a
quel epoca il mancipium, fu cv iden tenien te in quella fo rin a che dovettero riversarsi
le prime servitù prediali, dette poi appunto servitutes ma urii.
(a2) Il mancipium dei titolare dci fondo dorninane sulla zona di fondo 5cr-
vente necessaria al passaggio o all'acquedotto non ebbe mai, probabilmen re, carat-
tere esclusivo: sarebbe stato norginevA, escludere radicalmente dal godE mento di
quella zona il ti tol.l re del t'o ud0 se rven te e sarebbe stato an tiecnn o in ico spezzetta',
citi est' ti I ti in o. È presumibile che il problema del concorso dei due titolari s alla stes -
sa zona di fondo serve n te fosse risolto ricorre odo al consorriun/ rrcto Pon cito En
LE SERVITO I'REDfAI,! 229
311, cioè alla comunione solidaristica in una sua applicazione specifica. In prosie-
guo di tempo, man mano che si afIrmò e prese consislenza (sovr2pponendosi agli
originari istituti del mancipium e della possessio extragiuridica) il dominium ex iure
Quiririum, la soluzione del consortinm venne però accantonata in omaggio al prin-
cipio che non vi possono essere due o più diritti di proprietà sulla Ressa cosa
(duoru,n vel p/urium in solidum dominium esse non poco»): fu giocoforza, pertan-
to, che il elomininm del titolare del fondo dominante si affievolisse e si trasfigurasse
progressivamente sino al punto da essere concepito come un semplice ius in re alle-
mi, che limitava si, ma non contrastava o escludeva il dominium, formalmente
unico e solo, del titolare del fondo servente.
(0) Le ragioni per cui, giunte le cose a questo stadio, non si effettuò, nel
quadro del ms civile vetus, il trapasso ad una concezione del rapporto tra i due domini
come rapporto relativo, ed anzi molte altre servitutes praedii sopravvenute a quelle
originarie (cioè le cd. servitutes nec manczpJ) vennero anche esse trattate come rap-
porti assoluti, furono due: a) il tradizionalismo (o, se si preferisce, la forza di inerzia)
connesso con un istituto di alta simichità e di vasta diffusione; b) il vantaggio no-
tevole oflèrto al soggetto attivo (proprietario del fondo dominante) dalla disponibi-
lità di un'actio in rem, esperibile erga omnes in luogo di un'actio in personam, che
sarebbe stata esperibile solo nei confronti del proprietario del fondo servenre. Sopra
tutto questa seconda considerazione spinse più tardi i Romani a creare, anche fuori
del campo delle servitutespraediorum, altri iura in re aliena in ipotesi in cui la situa-
zione del non proprietario della in fu ritenuta degna di particolare tutela.
(b) Caratteristica delle servitù prediali, almeno fino all'esaurimento
dell'età classica, fu la cd, tipicità delle esplicazioni. I soggetti giuridici,
nella concezione corrente, non avevano a loro disposizione la possibilità
di porre in essere tutte le Figure di servito che gli piacesse di escogitare:
essi avevano solo la scelta tra vari «tipi» già affermatisi nella prassi ed aval-
lati dalla giurisprudenza in base a considerazioni di opportunità e di fun-
zionalità oggettive. Ciò non impediva la formazione di nuovi tipi di ser-
vird, ma la rendeva praticamente assai lenta e laboriosa, condizionandola
comunque al riconoscimento da parte della comunità (e per essa princi-
palmente la giurisprudenza) della effettiva e rilevante utilità economica di
ogni nuovo tipo di rapporto.
Anche quando si diffuse Lina visione unitaria delle servitù prediali
in generale, la «categoria» relativa non fu posta a disposizione dei priva-
ti affinché la utilizzassero, attraverso la messa in opera di nuovi e speci-
fici negozi costitutivi, a loro discrezione. Le categorie delle servitù pre-
diali, e più in generale quella delle servitù (praediorum e personarum), e
più in generale ancora quella dei diritti su cosa altrui furono concepite
esclusivamente a Vini classificatori delle preesistenti e consolidate figure
tipiche.
230 t RAPPORTI ASSOLUTI SU COSA ALTRUI
proprietario del fondo dominante. Principio, entro certi limiti, non estra-
neo agli altri diritti su cosa altrui.
(cZ) Terzo principio: quello della possibilità del rapporto: l'esercizio
della servitù doveva essere materialmente possibile. A questo fine occorre-
va, ovviamente, che i fondi fossero, se non contigui, quanto meno vicini,
per modo che potesse tra essi esistere quella materiale ed immediata cor-
relazione che costituiva il fondamento pratico della servitù. Principio,
anche questo, valevole per qualunque diritto assoluto su cosa altrui.
(e4) Quarto principio: quello della perpetuità della causa (meglio
detto: permanenza della funzione oggettiva della servitù). Affinché una
servitù prediale potesse essere costituita occorreva che i fondi Fossero in
condizioni tali da rendere possibile in modo permanente, duraturo, a tem-
po indeterminato (o, come sì usava dire, in perpètuum) l'esercizio della
servitù: ad esempio, la servitù di acquedotto si poteva costituire relativa-
mente a corsi d'acqua viva o di acqua perenne, ma n°11 relativamente a
cisterne o a stagni o ad altri collettori artificiali di durata limitata o incerta.
In adesione a questo principio, in periodo classico, pur ammettendosi che
le servitù potessero essere volontariamente estinte, non si riteneva conce-
pibile che esse fossero costituite con la predeterminazione del momento
della loro estinzione. Invece in periodo postclassico si ritenne valida anche
una costituzione a termine o sotto condizione.
(cS Quinto principio: quello della indivisibilità del rapporto. La ser-
vitù, essendo una qualità di tutto il fondo (quà/itasfiindi), non poteva che
sorgere od estinguersi per intero. Pertanto si escludeva clic un solo condo-
mino potesse Costituire una servitù e si richiedeva, a questo fine, il concorso
della volontà di tutti i condomini; al contrario, se il proprietario di uno
dei due fondi acquistava una quota di condominio sull'altro fondo, si
ammetteva che la servitù sussistesse per intero Se il fondo dominante o il
fondo servente veniva diviso, la servitù, in forza della sua caratteristica di
indivisibilità, persisteva per intero, sempre che la situazione del fondo
servente non fosse resa più gravosa: a parte ciò dunque, ciascuna frazione
dei fondo dominante dava diritto all'intera servitù, cos( come ciascuna parte
del fondo servente determinava il dovere di sopportare la servitù per intero.
(c6) Sesto principio: quello della inalienabilità del diritto. La servitù,
essendo un diritto inerente al fondo, una sua qualità oggettiva, doveva
seguirne le sorti. Non era ammessa dunque un'alienazione separata della
sola servitù: questa poteva essere alienata esclusivamente mediante il tra-
sferimento del fondo ed esclusivamente a favore dell'acquirente del fondo.
232 I RkPPOIUI ASSOLUTI SU COSA AIIIWI
(c?) Settimo principio: quello per cui la servini non può comportare
prestazioni di fare (servito in faciena'o consistere nèquit»). Il proprietario
del fondo servente non poteva essere dunque tenuto ad un'attività positi-
va (j2cere) in favore del proprietario del fondo dominante. Un'apparente
eccezione a questo principio si ebbe nei riguardi della servitù avente per
oggetto il dovere da parte del proprietario del Fondo servente di sostenere
con un muro o con una colonna di sua proprietà il peso di un fondo odi
una parte del fondo dominante, che a quei muro o a quella colonna si
appoggiasse (sèrvizus ònerisferéndi» [ n. 51]): il proprietario del fondo
servente era tenuto a riparare il muro o pilastro di sostegno del fondo do-
minante ed eventualmente a ricostruirlo (reflc?re parietem), ma quest'ob-
bligo era considerato, nell'opinione dominante, solo un dovere accesso-
rio, assolutamente in sottordine rispetto a quello caratteristico e Fonda-
mentale della sopportazione del peso del fondo dominante (onusfert4.
Sempre a proposito del principio «servitus in faciendo consistere nequhl» si ten-
ga presente, peraltro, che esso non rigLiardava il proprietario del fondo dominante.
Dal punto di Vista di cos Lii, la servitus poteva essere, in far ti: a) canto « posi va» (o
,,affermativa»), se comportava un suo diritto di Jkcere al quale il proprietario del
fondo serven te non potesse opporsi (cs: il diritto di passaggio su fondo a I tru i); b)
quanto « nega iva», se coni portava un su o di ri E tO di pretcnd ere che il proprietario
del fondo serve n te si as ccc esse dal compiere una cerca attività (es. : servitia altius
non toLleri/i)
date); i) quelle consistenti nei diritto di «prelevare sabbia oppure creta» dal
fondo servente (servitus arènae fodièndac e servitus cretae cxirnèndae»).
(a2) ServiM urbane o «di città» (servitutespraediorum urbanorum), ti-
piche dei fondi urbani e tutte non mancipi, furono le seguenti: a) quelle
consistenti nei diritto di «riversare l'acqua piovana» dal proprio retro sul
fondo altrui, la prima cosf come l'acqua cade dal cielo (cioè goccia a goccia,
stilla a stilla), la seconda mediante grondaie (fizmina) artificiali (servitutes
stillicidii ejluminis); b) quella consistente nel diritto di far passare le proprie
fogne di scarico» (cloàcae) attraverso il fondo altrui (servitus cloacae); e)
quella consistente nel diritto di «infiggere travi» (tigna) o altri materiali
costruttivi nei fondo altrui (servitus t-igni imrnittend,); ci) quella di cui si è
già parlato pocanzi [ti. 50 sub e], consistente nel diritto di esigere dal pro-
prietario del fondo servente il «sostegno dell'edificio dominante» mediante
una struttura muraria (parete o colonna) (servitus onerisferendi); e) quelle
consistenti nel diritto di «sporto», cioè di far sporgere il proprio tetto,
oppure i propri balconi, o altre strutture di un edificio, al di sopra del fondo
altrui, in modo da coprirlo (tègere) in parte (servitus protegèndi e servitus
proieièndO; f) quella consistente nel diritto di esigere dal proprietario del
fondo servente la «non elevazione» del suo edificio al di sopra di una certa
altezza (servitus àltius non tollèndt); g) quella consistente nel diritto di esi-
gere dal proprietario del fondo servente che le costruzioni da lui erette su
quest'ultimo non arrechino «pregiudizio alle luci» (offi'cere lumlnibus), cioè
alla luminosità offerta dalle aperture (finestre, balconi ecc.) destinate a por-
tare la luce naturale all'interno del fondo dominante (servitus ne Lumini bus
offlciàtur); h) quella consistente nel diritto di esigere dal proprietario del
fondo servente che le sue costruzioni non arrechino «pregiudizio al prospet-
to» (offlcereprospèctuO, cioè ad una certa veduta ben determinata goduta
dal fondo dominante (servitus ne prospèctui officiàtur).
(b) Accanto alle «servitù regolari» ora descritte, le fonti romane reca-
no tracce di servitù irregolari, cioè variamente difformi dalle regole civi-
listiche. Tali: a) le servitù pretorie; b) le servittii provinciali; c) le servitù
anomale.
(b/) Le cd. servitù pretorie (servitutes praetoriae) furono rapporti
analoghi, ma non identici alle servito del diritto civile: principalmente
quelle costituite mediante semplice tradizione (messa a disposizione non
formale) e quelle in cui l'utilità non fosse rapportata al fondo dominante,
ma piuttosto alla persona del suo attuale proprietario (anche dette, per-
ciò. «servitutespersonfle»). A questi rapporti concesse talvolta tutela, quan-
IL REGIME DEtIE SERVITÙ PREDIALI 235
do fosse equo farlo, il diritto onorario, con mezzi che lo stato delle nostre
conoscenze non permette però di identificare in modo preciso.
(1,2) Le cd. servitd provinciali furono rapporti analoghi alle servitd
civilistiche, ma aventi ad oggetto fondi delle province: fondi in ordine ai
quali, non potendo esservi il dominio quiritario, non potevano esservi
nemmeno vere e proprie servitù. Esse si costituivano mediante convenzio-
ni atipiche rafforzate da stipulazioni (<pactiones et stz ulationes»), cioè me-
diante negozi creativi di mete obbligazioni, e ricevevano una tutela asso-
luta solo attraverso la concessione magistratuale di azioni utili, approssima-
tivamente corrispondenti a quelle delle servitta civilistiche.
(1,3) Servitii anomale, cioè irregolari in senso pieno (abnormi»),
furono alcune altre che risultano da certe fonti, ma di cui la struttura non
è chiara del tutto.
Tali: a) la servitus altius tollendi», la quale comportava il diritto di fabbricare
nel proprio fondo (cioè nel Fondo dominante) o di fabbricarvi oltre una certa alrez-
za b) la «servitus tuminibus offìciendi», la quale comportava il diritto di oscurare le
luci altrui stando nel proprio fondo; c) la «servitas stilticidii velflurninis non in/cr-
tendi», la quale comportava il diritto di astenersi dallo scaricare le acque piovane o
quelle di una condotta sul retto o sul terreno del vicino (con ciò eventualmente
sottraendo a quest'ultimo il vantaggio di utilizzare in via di risulta le acque stesse).
Tre «servitú» (urbane), che come si vede, altro non erano, in sostanza, se non
esplicazioni del dominio sul proprio fondo e che vanno ritenute costruzioni dottri-
nali posrclassìche, le quali vogliono esprimere la possibilità spettante al proprietario
di un fondo, quando non sia gravato da servir6 nei riguardi dei proprietari dei
fondi vicini, di esercitare ogni facoltà compresa nel suo diritto: cosa ovvia sino ad
un certo punto, se si ricordano le numerose «servim di legge> circa l'altezza e le
luci degli edifici introdotte dalla legislazione postclassica [n. 48].
zioni naturali dello stato dei luoghi non implicassero la loro estinzione,
ma soltanto l'impossibilità del loro esercizio: pertanto, quando questa
possibilità fosse con opportuni interventi ripristinata (a meno che non
fosse trascorso il termine del non uso), la servitù riprendeva vigore. Inve-
ce le servitù urbane tra edifici si estinguevano allorché l'edificio dominan-
te o l'edificio servente fosse stato demolito, salvo che la demolizione fosse
avvenuta come presupposto della ricostruzione dell'edificio.
(c) Mezzo processuale fondamentale a tutela delle servitù fu l'azione
di rivendicazione della servitù spettante al proprietario o al possessore del
fondo dominante contro il proprietario del fondo servente quando questi
ponessero ostacoli all'esercizio concreto della servitù (vindicatio servitutis,
anche detta da Giustiniano «at-do confessoria»). Il proprietario del fondo
asserito essere servente poteva, peraltro, contestare l'esistenza della servitd
mediante un'azione negatoria (actio negatoria servitutis), intesa ad ottenere
l'accertamento che il preteso fondo servente era invece libero [n. 451.
coltivazione del flindu;) provvedesse egli flesso. 5e la locatio condurti, rei [n, 751
o, meglio ancora, il commodatw,n rn, 711 fossero stati, a quei tempi, già salda-
mente affermati nel ius civile Romanorum, può anche darsi che si sarebbe fatto ri-
corso dai testatori ai rapporti puramente relativi da essi scaturenti: siccome invece
(come diremo a suo tempo) ciò non era ancora avvenuto, la giurisprudenza sug-
gerf la via del lascito al beneficiano del diritto di usare della cosa fruttifera ('uti»)
di appropriarsi dei suoi frutti (frui»), con obbligo di puntuale restituzione della
cosa stessa alla scadenza del rapporto. Si trattava, in altri termini, di dare all'usu-
fruttuario un potere giuridico analogo a quello riconosciuto al titolare di un ins
praedii, quindi un diritto erga omnes: di (lui la conseguenza per cui il in, utendi
fruendi passò a poter essere costituito non solo inter vivo; dall'erede (che fosse sta-
to gravato a questo fine da legatum sinendi modo o da legatum per daranationem),
ma anche morti; causa, cioè direttamente dallo stesso testatore, mediante legatum
per vindicationem [n, 961.
Siccome dall'essersi itìizialrnente riconosciuto ad un soggetto il solo diritto di
percepire i frutti di una cosa, si passò poi ad attribuirgli il diritto di usare della cosa
produttiva (donde la regola del diritto romano classico «J-uctus sine usa esse non po-
test)), si può capire per quale motivo ed in quale senso l'usufrutto sia stato conce-
piro, in antico, come una «pan dominii», oppure anche come una pars rei». Jiusu-
frutto fu inteso come pan dominii, o come pars rei (cioè come parte della cosa
oggetto di dominio civilistica), nel senso che si ritenne che potesse sorgere un vero
e proprio diritto di proprietà sui frutti di una cosa solo dal momento in cui questi
frutti fossero effettivatnente percepiti: di modo che sino a quel momento vi era
uno stretto inquadramento del diritto dell'usufruttuario entro la sfera del domi-
nium del proprietario della cosa fruttifera.
È bene avvertire, peraltro, che i romani, pur avendo avuto chiara visione,
sopra tutto alle origini, del carattere di frazionamento della proprietà nell'ipotesi di
usufrutto, non giunsero mai alla conseguenza di ritenere che si potesse avete un
usufrutto sulla cosa propria. Essi rimasero Fermi nel principio, già proclamato in
tema di servird prediali, «nemini re; sua servip>. La distinzione tra «usufrutto forma-
le», cioè spettante a petsona diversa dal proprietario, e «usufrutto causale», cioè
spettante allo stesso proprietario, si profilò soltanto nel Medioevo sulla base di al-
cune fonti indubbiamente interpolate.
(a) Caratteristiche essenziali dell'usufrutto furono: a) la correlazione
con la destinazione economica della cosa b) la correlazione con la perso-
na dell'usufruttuario; c) la temporaneità.
(al) La correlazione con la destinazione economica della cosa im-
plicò che l'usufruttuario non potesse mutare la struttura e la destinazione
attuale della cosa, neanche se ne derivasse una valorizzazione della cosa
stessa: solo in età postclassica si diffuse (opportunamente) una larga tolle-
ranza nelle ipotesi in cui la cosa fosse stata dall'usufruttuario oggettiva-
mente migliorata.
242 I RAPPORTI ASSOLUTI SU COSA ALTRUI
Per essere immesso nell'esercizio effettivo del diritto, l'usufrurruario era quin-
di tenuto a garantire specificamente, nei riguardi del nudo proprietario, la conser-
vazione della cosa e la sua restituzione alla scadenza: il che egli corroborava di so-
lito mediante la prestazione di una stipulazione [n. 67], detta cauzione usufruttua-
ria (cautio ususfructuaria), con la quale prometteva inoltre di sostenere le spese ne-
cessarie per la manutenzione della cosa fruttifera.
(a2) La correlazione con la persona dell'usufruttuario (solitamente
espressa anche coi termine ambiguo di «personalit'as» dell'usufrutto) im-
plicò che l'usufrutto fosse inscindibile dalla persona e dall'attuale situa-
zione giuridica dell'usufruttuario. Originariamente, dato il suo carattere
alimentare l'usufrutto fu anzi strettamente limitato ai soggetti corporali
(alle cd. persone fisiche), non ritenendosi concepibile un usufrutto a fa-
vore di enti immateriali [n. 11]: limitazione che fu completamente supe-
rata solo in periodo classico.
Dal principio di personalità conseguiva: a) che solo l'usufruttuario poteva
godere dell'usufrutto, la cui titolarità egli non poteva dunque trasferire ad altri; b)
che cause ineluttabili di estinzione dell'usufrutto erano, anche se non fosse ancora
scaduto il termine prefissato la morte naturale e la svalutazione giuridica (capitis
deminutio) dell'usufruttuario.
(a3) La temporaneità dell'usufrutto importava che esso dovesse esse-
re costituito a termine e che, se non costituito a termine, esso (come
abbiamo visto or ora) non potesse comunque durare oltre la vita dell'usu-
fruttuario.
Nel caso di usufrutto costituito senza termine a favore di un soggetto imma-
teriale (es.: di un municipio), si discusse circa la durata del diritto. I giuristi classici
risolsero la questione subordinando la estinzione del rapporto all'estinzione dell'en-
te, cioè al non uso del diritto da parte di quest'ultimo. Il diritto postolassico-giusti-
nianeo fissò il termine massimo dell'usufrutto a fvore di enti associativi in cento
anni (pari alla pita tarda età di una persona fisica: «finis vinte longaèvi hòminis).
Nel legatum per vinhicationen2 costitutivo dell'ususJ*uc:us (non cosf nell'in iure
cessio e nella mancipatio cum dectuctione, che erano actus legitimi) si poteva inserire
la clausola condizionale della cd. repetitio ususJhictus (ripetizione dell'usufrutto)
per l'ipotesi che l'ususfructuarius soffrisse una capiti: deminutio: in forza di essa
l'usufrutto passava, verificandosi la capiti, derninutio, ad altra persona designata dal
testatore. In diritto postcEassico la repetitio usuuctus fu ammessa anche in caso di
morte dell'usufruttuario e a favore degli eredi di quest'ultimo.
rrettanre cose della stessa qualità di quelle da lui ricevure e consumate (il tantun-
dem eiusdcm generis). L'istituto ebbe fortuna e fu esteso, in periodo postclassico,
anche alle cd. cose deteriorabili » (in particolare alle vesti), stabilendosi alt res che,
anziché essere obbligato alla restituzione dell'esatto tantunden,, il «quasi usufrut-
tuario» potesse procedere al pagamento dei controvalore in danaro della cosa asse-
gnatagli in quasi usufrutto.
(6) [uso senza frutto (usus sineJ*uctu) di una cosa inconsumabile,
fruttifera o anche infruttifera (istituto solitamente designato solo come
uso»), fu riconosciuto sin dai periodo classico e consistette appunto nei
solo diritto assoluto (valevole erga omnes) di usare una cosa altrui entro i
limiti dei propri bisogni o dei bisogni della propria famiglia.
U:u:is, pur essendo in linea di principio senza frutto (sine fructu) poteva tal-
volta anche non essere completamente esente dalla possibilità di appropriarsi dei
frutti della cosa: il che avveniva nell'ipotesi che la cosa rosse fruttifra e i suoi frutti
fhssero abitualmente percerri, almeno entro certi limiti, ai Vini della sua utilizzazio-
ne. Ad esempio, l'usus di un fondo rustico implicava di solito anche la facoltà dcl-
lusuario di coglierne qualche fiore e qualche frutto per l'ornamento della casa o
per l'imbandigione della tavola, e cos( pure di attingervi acqua sempre per impieghi
strettamente domestici. La giurisprudenza classica e quella postclassica favorirono
largamente questa in terp re razione tollerante e Giustiniano stabili, in termini gene-
tali, che I' usua rio potesse percepire tutti i fiurti che occorressero al sostentamento
suo e dei suoi familiari (<'quod ad victupn sibi suisque suJJicia).
(c) Il diritto sui frutti senza uso della cosa (fructus sino usu) fu co-
struzione prevalentemente scolastica, sebbene con qualche precedente
nell'usanza preclassica del legato (sinendi modo) di concessione della mera
raccolta dei frutti. Esso implicava, come indica la denominazione, il po-
tere del fruttuario di percepire i frutti di una cosa fruttifera senza peraltro
utilizzarla.
(I) Il diritto di abitazione (habitatia) era, in età giustinianea, un
rapporto assoluto su cosa altrui, in forza del quale il soggetto attivo (ha-
bitàtor) aveva il diritto (erga omnes) di dimorare in una casa altrui ed
eventualmente anche di darla in locazione a reni.
incerto se lhabitatio, pur essendo stata sicuramente conosciuti in diritto
classico, fosse da questo concepita come un vero e proprio rapporto giuridico reale
in senso improprio. La questione Fu risolta da Giustiniano proclamando l'babiratio
un diritto sui generis (un iis p roprìu in con «natura speciali.o) distinto sia dall'uso
che dall'usufrutto.
(e) L'istituto delle opere degli schiavi (cperae servorum) comportava,
in età giustinianea, il diritto assoluto di valersi dell'attività di schiavi al-
[rai. Anche questo istituto ebbe certamente radici classiche, ma è proba-
246 I RAI- PORTI ASSOLUTI SU COSA ALTRUI
diritto assoluto autonomo 'e opere degli animali (operae animatiurn) oltre che degli
schiavi.
I terreni statali interessati si d ist in gti evano in due categorie: a) i «fiindi rei
p rivatae», di pertinenza del fiscur Caesarìs (che aveva ormai assorbito l'acrarium
populi Romani; b) i «fluidi patrimoniates», di pertinenza diretta dell'imperatore
(rientr,iiiii cioè nel cd. «parrimoniu nì priizc-ris). Ma le concessioni relative, pur
essendo analoghe a quelle municipali, non Furono esattamente ìnquadt'ate nello
schema formale del in, in agro vecrigali. E a questo proposito bisogna distinguere il
sistema prevalente nel sec. IV da quello prevalente nel successivo sec. V d. C.
Nel sec. IV il. C. si distingueva, generalmente, tra «itt! perpetuum», relativo ai
fundi rei privatae, e sii,, einphyteuticarium», relativo ai flindi patrimoniales, ricalcato
quest'uI ti no sul modello greco della empbjteusis. Sia il concessionano del in! per-
petuurn Clic queflo del ms empbyteuticarium era no tenuti al paga ne n to di un Canone
periodico, generalmente in natura, al coriceden te: ma la concessione in fui perpetuum
non era revocabile e non era più ritoccabile nelle sue moda! ità meli tre la concessione
ci lui emphy:euncarium era, al meno formalmente, soggetta a essere periodicamente
rin novata e ritoccata nelle clausole. Il iuspnpetuunz, dunque, non ammettendo mo-
dificazioni, implicava che la proprietà, dal punto di vista economico, si staccasse man
mano dal concedente per passare, nei suoi aspetti positivi, tutta a vantaggio del
concessionario; il mi emphyteuticariuni, invece, almeno sul piano Formale, implicava
clic fosse perennemente e opportunamente riveduto il rapporto Ira concedente e
copicessionario al fine dcl mantenimento dell'equilibrio economico tra i due.
Nel sec. V d. C. i due cennati sr ruti Finirono tuttavia per fondersi in un
sr turo un i a rio, il qua le assu rise la de no in inazion e prevalente di fu, enzphyteutica
riti???. L'istituto com posi ro: a) ma nte n ne le pecul il r i tà del isis perpetuum, cioè la per-
petuità e la i nva riabil i rà del canone ma conservò del l'antico ms empì;yteutzcaruun (in
senso strel ro) la cara teris rica della possibilità da parte del concedente di reagire alla
cattiva amm iii istrazione del fondo revocando la concessione; b) concedente del di-
ritto non fu più soltanto il princepr, ma lo furono anche gli esponenti di grandi
famiglie, i cd. «potentioresi i quali erano divenuti Frarra to. attraverso risurpaziorii
e coi cessio n i di favore dell' impera [ore, latifondisti, cioè p ra i camen te proprietari di
vasr iss ime este ns ioni terriere che non sarebbero stati in grado di amni i cii s tra re di rer-
tani ente, Pert.t i to l'emphyteusis si affermò nel corso del V ed agli albori del VI sec.
d. G., come u i istituto della massi ma i riiio rtanza, in ordine al quale si riprodusse
a discussione, già ponfilLu,si in re ma di in: in agro vectigali, se si t 'at asse di una
concessione a titolo locatizio oppure di ti ,ìa concessione di proprieri. Il dubbio Fu
autoritativametite eliminato (verso il 480 d C.) da una costituzione dell'imperatore
250 I tOPPORTIASSOLU11 SU COSA ALTRUI
Zenone, che parlò di mist/;oprasia, cioè di «locazione mista a vendita, con la con-
seguenti che agili rischio (periculum) relativo al fondo fosse ripartito, salvo patto
contrario, in questo modo: se il fondo era sconvolto irreversibilmente per effetto di
forza maggiore, pregiudic.i ro doveva considerarsi il concedente, sicché il concessio-
nario non era più tenuto al pagamento del canone; se il fondo era danneggiato solo
temporaneamente e i danni erano riparabili, gli effetti dovevano essere subiti dal con-
cessionario, il quale era perciò [urrora tenuto al pagamento del canone,
(I) Quanto ai soggetti attivi del pegno e dell'ipoteca, tra i due isti-
tuti vi fu differenza in questo senso: che la dazione di pegno poteva esse-
re operata soltanto a favore di un soggetto singolo, importando l'attribu-
zione a lui sin dall'inizio del possesso dell'oggetto pignorato, mentre la
convenzione di pegno poteva essere anche operata a favore di più sogget-
ti. Era indispensabile, comunque, che il soggetto attivo fosse effettiva-
mente titolare di un diritto di credito: senza di che la garanzia non avreb-
be avuto ragione di sussistere e sarebbe stata invalida (cd. principio del-
l'accessorietà del pegno al diritto garantito).
Nell'ipotesi di plutalita di soggetti titolari dei diritti nascenti dalla conventio
pignoris, i rapporti tra le stesse erano regolati dal principio «pr/or tèmporepòtior iure»
254 I RAPPORTI ASSOLIJTI SU COSA ALTRUI
(primo nel tempo prevalente nel diritto»): il che significava che aveva titolo al sod-
disfacimento, con preferenza rispetto agli altri (cd. «privilègium cxigèndi»), colui il
quale avesse ottenuto prima degli altri la costituzione a suo favore della hypothcca.
Tuttavia il creditore al quale fosse stata concessa un'ipoteca posteriore aveva un ius
,ffirèndi (diritto di afferra»), vale a dire il diritto di essere surrogato nella posizione
del creditore munito di ipoteca anteriore, se ed in quanto offrisse a quest'ultimo di
rimborsarlo dell'importo della obbligazione e quest'ultimo accettasse.
In età postclassica vennero stabilite alcune eccezioni ai principi ora detti sulla
contirolarità del pignus conventum. Una prima eccezione fu relativa ai cd. crediti
privilegiati (nomina privilegiaria), cioè ad una massa sempre più vasta di crediti
che, per considerazioni di favore attinenti alla loro natura o alle caratteristiche della
persona del creditore, avevano diritto di precedenza, nell'aggressione dei beni del
garante, sugli stessi crediti ipotecari ed erano inoltre anche fra loro graduati: tali,
ad esempio, i crediti del fisco per le imposte, o quelli della moglie per la restituzio-
ne della dote. Una seconda eccezione (introdotta dall'imperatore Leone nel 472) fu
relativa al pignus publicum (risultante da atto pubblico) e al pignus quasi publicuin
(risultante da scrittura privata, ma corredato della firma di almeno tre testimoni),
nel senso che questi tipi dì pignus conventu,jz, essendo confortati da peculiari ele-
menti di certezza, erano da preferirsi ad ogni altra hypotheca, anche se di data an-
teriore.
(e) I poteri del creditore pignoratizio erano più esattamente: a) il
ius possidencli; b) il ius distrahendi. Carattere del tutto eccezionale aveva
un terzo potere giuridico: c) il cd. ius n'tendoni:,
(e-I) Il diritto di possedere (ms possidendz) era il diritto (erga omnes)
all'ottenimento del possesso dell'oggetto del pegno. Nell'ipotesi di pegno
dato, il diritto era inteso al «raccantemmento del possesso» già conseguito
(quindi, al riottenimento dello stesso ove lo si fosse perduto ad onta della
difesa possessoria costituita dagli interdetti) e sussisteva sino al momento
del soddisfacimento del creditore. Nell'ipotesi di pegno convenzionale, il
diritto era inteso al «conseguirriento del possesso)) della cosa (da parte del
garante o di chiunque altro l'avesse ricevuto) in caso di inadempimento.
Anche quando si sostanziava nella possessio attuale, il ius possidendi non
comportava tuttavia, salvo patto contrario, la facoltà di usufruire dell'o ggetto: ad
usare la res pignerata si commetteva ,fitnum uno, ad appropriarsi dei suoi frutti
(sempre che non vi rosse patto contrario) si commetteva fiirtum rei [n. 85], Tra i
parti derogativi di questa regola, piuttosto diffuso era il patto cd. di anticresi
(antichresis), in forza del quale i frutti della cosa erano asse gnati al creditore a ti-
tolo di interessi.
(e2) Il diritto di alienare (iii: distrahendz) era appunto quello di alie-
nare a terze persone, in caso di inadempimento, il dominio quiritario del-
l'oggetto ottenuto in possesso e di soddisfarsi sul ricavato, restituendo ov-
I RAPPORTI ASSOLUTI DI GARANZIA 255
dopo a completa estinzione del debito garantito, il pegno rimaneva in vira (cd,
pinus Gora'ianum») sì ri tanto che bssero sta te est in te le altre obbi gazi (i ni, anche
no ti Coperte da pegno, I rcrcorrcn ti tra e 'editore p ignora tizio e gara i te.
(,g) 1 mezzi di tutela giurisdizionale del creditore pignoratizio fu-
rono: a) linterdictum Salvéanum; b) l'ac'tio Serviana; e) l'arde pignerati-
cia in P-em.
(g1) L'interdetto Salviano (interdi'turn Salvianum) era un ìnrcrderro
restitutorio, di cui poteva valersi il locatore di un fondo rustico per otte-
nere, in caso di inadempimento dell'obbligazione garantita (e cioè in caso
di mancato pagamento del canone), la consegna della cosa oppignorata
(quindi, degli invecta et i//atti) dal locatario o comunque dalloccuparore
del fondo.
interdetto per l'uscita dal fondo (inirrdù'nem de m,rando) e li e era un in re r-
dctro proibitorio di etti poteva valersi il conduttore dì un immobile urbano contro
il i oca te re, nel i 'ipotesi che costui gli in pci1 ssc I' aspo rro del IC SUL cose (o,,,t, et
i/fata) pur essendo stato saldato il Ca noie (cd. «percltsio /ocatòris')
(g2) IJazione Serviana (a(tio Serviana pigneraticia) era un'azione ar-
bitraria in rem concessa al locatore di un fondo rustico per ottenere la
condanna di chiunque (affittuario o terzo) risultasse essersi impossessato,
avvenuto l'inadempimento, della cosa vincolata a garanzia del canone
mediante convenzione di pegno.
(g3) L'azione pignoratizia reale (actio pigneraticia in mn, o vindicatio
p ignoris, o ac'tio quasi Serviana) era ntiIl'a tro che un'estensione in via uti-
le dell'actio Seriiana (con la quale risulta spesso terminologicamente con-
fusa) concessa a tutti i creditori pignoratizi contro chiunque s'imposses-
sasse della cosa oppignorata loro spettante.
CAPITOLO X
SOMMARIO: 58. 1 rapporri relativi del diritto privato. - 59. I tipi delle obbligazioni. - 60.
Isoggetti delle obb!igazioni. - 61. Uoggerro delle obbligazioni. - 62. l]adempi-
mento delle obbligazioni. - 63. Le vicende delle obbligazioni. - 64, 1 fatti modi-
ficadvi delle obbligazioni.
fronte al dilagante fenomeno del credito, dai vari sistemi normativi che
si susseguirono (e che in parte concorsero più o meno a lungo tra loro)
dall'età arcaica sino al periodo postclassico e, in particolare, a Giustinia-
no: dunque, partendo dall'antichissimo diritto quiritario e pervenendo al
diritto nuovo classico e postclassico.
(a) Il sistema arcaico del in5 Quiritium non ebbe riguardo al fenomeno eco-
nomico del credito, ma si concentrò, come abbiamo detto a suo tempo [n. 28], nel
regolamento dell'istituto del maf4cipiurn. Ciò non vuoi dire però che Roma, quanto
meno a partire dalla Lise etrusca-latina della civitas quiritaria (sec. VI a, C.), abbia
ignorato la vita degli scambi di merci e delle prestazioni artigiane. Il punto essen-
ziale è che questa economia di scambio interessava sopra tutto la pecunia extrafami-
liare e si esauriva quasi interamente nel «baratto» di cose (o di prodotti o di risultati
artigianali) contro altre cose, aiutandosi col mezzo di intermediazione cOstituito dal
bronzo non coniato (l'ao rude) o, subordinararnente, dalle monete etrusche e gre-
che giunte sull'onda dei traffici al mercato di Roma: era raro insomma, che inter-
venisse a dinamizzare a potenziare gli scambi la tecnica dei «credito», cioè del rice-
vere oggi con l'impegno di restituire domani o del promettere subito prestazioni di
dare o di fare da eseguire dopo qualche tempo. Conseguenze di questo assetto so-
cio-economico rudimentale furono due: a) che alla creazione dei rapporti relativi
«di debito» presiedeva la semplice «fia'eo, cioè la fiducia reciproca tra le parti, op-
pure (in qualche caso di maggior rilievo, in cui gli impegni erano assunti mediante
il rito antichissimo della sponsio) autorità intimidatrice del «fas»; b) che i rapporti
relativi «di responsabilità» erano ancora ben lontani dall'aver raggiunta una qual-
che consistenza, sicché alla lesione degli interessi personali o economici del pszter,fa-
mi/in non conseguiva una vera e propria responsabilità primaria» dell'offensore,
ma conseguiva direttamente la reazione vendicativa dell'offeso (cosi come autorizza-
ta dal fas), mentre all'inadempimento dei debiti non corrispondeva una precisa «re-
sponsabìlìrà secondaria» dell'inadempiente, ma corrispondeva del pari una reazione
vendicativa (una «manus in,ectw») da parte del creditore insoddisfàtto.
Sin che il bisogno di credito fu esiguo e ambiente economico fu sano, que-
sto sistema elementare ed approssimativo poté essere sufficiente; ma quando, sul
declino del sec. VI e nei primi decenni del sec. V a. C., una grave crisi economica
dilagò in Roma, affliggendo in modo particolare larga parte del cero piebeo, i rap-
porti relativi di debito non poterono non risentirne, perché la richiesta di risorse a
titolo di credito evidentemente si moltiplicò e, per converso, si accrebbe la riluttan-
za delle persone più abbienti a concedere credito senza ottenere adeguate garanzie
di adempimento. La soluzione del problema fu trovata in un espediente: quello del
nexum, che era, come ben sappiamo En. 10 e 281 un adattamento del rnancipiurn
inteso ad assicurare al creditore insoddisfatto la tutela del ius Ql4iritium. in man-
canza di altro, il debitore (oppure un suo amico perlui) mancipava se stesso, me-
diante una «nexi datio, al creditore, divenendo oggetto del suo ;nanripium, e ap-
punto perciò «nexusii, «adstrirrus», «oblìgatus» (nel senso letterale di «materialmente
vincoÌatn)t il che durava sino al giorno in cui un terzo si presentasse a riscattare il
I RAPPORTI RF:LkTlq DEL DIRITTO PRIVATO 259
• naturali l tcnuiooe del pagato): t'a capramiglia e sotcostI (Liberi o schiavi) ecc.
adernipimento
r soddisfaLimenh
esatro
r
niodifkazione -1 deIeazione
cessione de1 crediìo o de! debito
• civili (e
onorane) { da stipulatio ri. 67.68)
da doti diccio (n. 66)
verbali
ObbUg:ioFi. da promissio iuraa liberti (li. 66)
da va intura
la— e Pn ed ia ora fn 56)
I
da [idLicia cum antico (ci. 70)
- reali
da mutuuni (ci. 70)
da dairo pignons (n. Il)
fatti da cornnodarum (ci. 71)
leciti da deposiruni e aFfini (a. 71)
a. C,: legge la quale dispose che i nesci (quindi, per estensione, tutte le persone sui
turi: provvisoriamente ridotte sorto il potere assoluto dì un creditore insoddisfatto)
non fossero da trattare nel modo rigoroso (dai ceppi ai piedi sino alli sopportazione
del cd. ius vitae ac neri5) in cui erano trattari o potevano essere trattati i sottoposti
a pieno titolo (f1ii, servi e via dicendo). Per effetto di questo processo evolutivo,
l'oh/igarus: a) sul piano formale rimase tuttora l'oggetto del potere giuridico ricono-
sciuto al creditor, 6) sul piano sostanziale fu invece sempre più chiaramente visto,
anche nella fase esecutiva introdotta dalla 'nanus iniectia sulla sua persona, come una
mera parvenza di sottoposto a potèstas, cioè come un soggetto giuridico limitato.
In coerenza con questi sviluppi della visione generale di abligatio, la giuri-
sprudenza romana provvide, a parrire dal sec. Il a, C,, ad abbozzare, sia pure in
maniera molto frammentaria e imperfetta, un primo quadro delle causae obligatio-
flum, quindi delle specie diverse dei rapporti relativi disciplinati dall'ordinamento
civilisrico. Con il ricorso ad un linguaggio ancora molto incerto e spesso equivoco,
sul quale non è qui il caso di indugiare, essa distinse abbastanza nettamente i rap-
porti relativi di debito da quelli di responsabilità ma trascurò l'approfondimento
di questi ultimi e concentrò invece le sue analisi sulle diverse fonti da cui scaturi-
vano i primi, quasi che le o61]gationes in senso proprio fossero solo quelle derivanti
da atri giuridici leciti. Dal che consegui il delinearsi di una categoria abbastanza
precisa e articolata delle «obligatione: contractae», a fronte di un coacervo, per ora
non denominato con apposita terminologia, di rapporti (relativi) di responsabilità
derivanti da fatti giuridici involontari e volontari tra i quali ultimi spiccavano i
«delicta».
(ci) Le obligatione: contractae, cioè costituite, messe insieme, «strette» lecita-
mente e deliberatamente tra le parti, furono distinte in tre gruppi, a seconda delle
modalità esteriori della loro creazione: a) quello delle ab/igationes «verbis contractae»,
create con il ricorso a determinate forme espressive orali (verba); b) quello delle obli-
gatioize: «titteris contractae3, create con il ricorso a determinate forme espressive
scritte (lirrerae); c) quello delle obligationes (( re contracta', create con il ricorso ad
inequivoche attività materiali (res). L'elenco non fu completo sin dalle origini, ma
si accrebbe man mano col passare del teni po (e con l'insorgere di nuove istanze
sociali). Le caratteristiche che vanno segnalare sin d'ora sono due: a) che gli atti
costitutivi di obligatione: contractae furono solitamente bi- o plurilaterali, ma pote-
rono essere talvolta anche unilaterali, purché a carattere di atti recertizi, cioè con
effetti subordinati alla recezione da parte del destinatario (caso per esempio, della
doti, dirtio En. 661); b) clic gli stessi atti non giungevano a buon fine, non produ
cevano quindi le corrispondenti obligationes, se una delle parti del rapporto obbli-
gatorio da costituire non vi aderiva ineqtlivocaniente, sia pure con un «silenzio» si-
gniFicativo, il che dimostra che gli atri produttivi di obligationes contractae avevano
tutti, al fondo, natura di negozi giuridici,
(c2) Al di fuori delle obtigationes rontrczctae i rapporti (relativi) di responsabi-
lità primaria e di responsabilità secondaria soffrirono a lungo, come si è detto, di
un'elaborazione concettuale assai meno intensa. Le ipotesi, non tare, di responsa-
bilità oggettiva non furono mai esaminate in modo approfondito e unirario. A
262 I RAPPORTI GIURIDICI RELATIVI
scuole le znst,tutwnes di Gaio abbozzò addirittura una «quadri per tizio ne delle Fonti
di obbligazioni» alquanto ingenuamente ispirata ad amore di simmetria. Affermò
infatti che le ab/igationes possono provenire, oltre che da contratto e da delitto,
«quasi da contratto» e «quasi da delitto» (aut enim ex contractji sunt aut quasi cx
contracru aut cx ,nalcjicio aut quasi ex maleficio»), con ciò tentando di articolare
meglio, attraverso la distinzione tra arti cc ti non piena mcii te contrattuali ed atti
illeciti non pienamente delittuosi, la generica categoria gaiana o pseudo-gaìana del-
le variae causarum Jìrurae.
L'esposizione analitica delle obligationcs, o più in generale dei rap-
porti relativi dei diritto privato, può essere ancorata solo parzialmente, ed
anche in questi casi non sempre con molta sicurezza, alle imperfette e
talvolta contraddittorie concettualizzazioni che ci provengono dalla espe-
rienza romana. Di questa si può dire soltanto: che pervenne assai presto
ad una netta differenziazione dei rapporti giuridici relativi (non sempre,
peraltro, qualificati come ob/igationcs) dai rapporti giuridici assoluti; e
che una differenziazione sostanziale, non terminologica, altrettanto netta
operò, neU'ambiro dei rapporti giuridici relativi, tra rapporti di debito e
rapporti di responsabilità.
Ecco il motivo per cui, dopo che avremo premesso in questo stesso
capitolo un quadro generale dei tipi e delle vicende attinenti a quelle che
denomineremo, per semplificazione di discorso, tutte quante come obbli-
gazioni (obligationcs), passeremo nei capitoli successivi a trattare via via di
quattro raggruppamenti: a) quello delle obbligazioni (lecitamente) con-
tratte (obligationcs contractae) del diritto civile antico (o a quest'ultimo
successivamente attribuite dalle leggi pubbliche, dai magistrati giusdicenti
e dalla giurisprudenza); b) quello delle obbligazioni da contratto consen-
suale (obligationes ex contraetu o consensu contractae) del diritto civile nuo-
vo; c) quello delle obbligazioni non contrattuali (obtìgationes non con-
tractac: provenienti cioè da pacta, da convenzioni cd. «innominate», da
altre cause lecite non convenzionali); d) quello delle cd. obbligazioni di re-
sponsabilità, sia primaria (da delicta civilistici o da altri illeciti successiva-
mente venuti in rilievo giuridico), sia secondaria (da inadempimento di
obbligazioni primarie di debito o di responsabilità).
e non assolverebbe la sua funzione riparatrice se fosse ripartita tra 1e più vi rrime.
Tuttavia, man mano che il concerto di i poenav (intesa come penalità privata) si
allontanò dalle sue origini di vendetta», la giurisprudenza tardo-classica e, con più
larghezza, il diritto postclassico-gi ustinianeo mostrarono una forte propensione a
ridurre il numero delle ipotesi di cumulativirà ex potuti ed a convertire le obbliga-
zioni penali a pluralità dì soggetti da cumulative in solidali.
Furono invece ammesse senza difflcolrà dal ius privatum talune speciali obbli-
gazioni ambulatorie denominate obligarionn propter rem, o (impropriamente)
«oneri reali): obbligazioni gravanti su chiunque si trovasse ad avere in dominio o in
possesso una certa res. Pertanto si ritenne: che il superficiario e l'enfiteuta [n. 55-
56] quali che essi fossero, avessero l'obbligo dì pagare i canoni relativi al diritto ac-
quistato; che qualunque successivo concessionario di fiu2di provincia/cs [n. 471 fosse
obbligato al pagamento dello stìpendium o del tributum; che qualunque attuale
possessore di cose estorte con violenza fosse citabile mediante laccio metto (defini-
ta, appunto per questa sua caratteristica, come «actia in rem scripta» [n. 18]); che
qualunque attuale titolare di potestas o di possessio su un alieni iuris colpevole di un
delitto fosse perseguibile dall'offeso con l'actio noxalis En. 841.
tanto (CS.: «dare aut hominnn Stichum aut centum»). Di esse si diceva che
'e prestazioni erano due o più nel momento dell'obbligazione, ma si ridu-
cevano ad una nel momento dell'adempimento (duae rei ve1 plures szrnt
in obligatione, una áutezn in solutione»).
I! diritto di scelta» della prestazione (iii, e/igèndf) spettava normal-
mente al debitore, ma poteva anche essere esplicitamente rimesso al cre-
ditore o ad un terzo. Se una delle due prestazioni si rendeva impossibile
per fatto non imputabile al debitore, l'obbligazione alternativa si concen-
trava nella seconda prestazione; se invece la prima prestazione si rendeva
impossibile per colpa del debitore e successivamente a seconda diveniva
impossibile per Fatto a lui inimpurabile, il creditore fu ammesso, in peri-
odo postclassico, ad esercitare l'azione di dolo allo scopo di ottenere il ri-
sarcimento del valore medio tra le due prestazioni.
(c) Diverse dalle alternative erario le obbligazioni facoltative. !n esse
la prestazione era una soltanto, ma al debitore era concesso il diritto di
sostituirla con una prestazione diversa (es.; canone di affitto stabilito in
derrate, ma con diritto del debitore di pagano in danaro). Se la prestazio-
ne di base diventava impossibile per causa non imputabile al debitore, è
chiaro che l'obbligazione si estingueva.
(d) Carattere dei tutto eccezionale aveva la prestazione degli interes-
si (usurae o fenus), cioè la prestazione di un tanto in più del capitale in
danaro ricevuto in prestito (sors), da corrispondersi proporzionalmente al-
l'ammontare del capitale stesso ed alla durata della sua utilizzazione da
parte dell'obbligato. Dato che il danaro era ritenuto cosa infruttifera [n.
13], gli interessi erano, di regola, convenzionali, cioè potevano derivare
solo da esplicite (o, in qualche contratto del diritto civile nuovo, implici-
te) convenzioni tra le parti, a titolo di <uorrispetrivo» del sacrificio econo-
mico compiuto dal creditore. Per eccezione si ammise, peraltro, che inte-
ressi cd. "legali» decorressero, a titolo «risarcirorio», nel caso di niora del
debitore nell'adempimento [n. 8 9].
parte degli interessi maruraEl e ancora da versarsi alla scadenza stabilità al creditore
usurae usurarurn»).
(e) Altro tipo caratteristico di prestazione era quello della prestazio-
ne di rendita, consistente in una dazione di danno o di altre cose Lungi-
bili (vino, olio, prodotti agricoli ecc.) ripetuta ogni anno (in singulos
annos') o anche a scadenze inferiori.
La rendita poteva essere: a) «perpetua», se il creditore ed i suoi eredi
avevano diritto ad esigerla senza limiti di tempo b) «vitalizia», se l'obbli-
gazione era limitata alla vita del creditore o dell'obbligato. La ragione
dell'istituto consisteva generalmente in una liberalità, ma poteva anche
corrispondere alla remunerazione di una prestazione ricevuta preventiva-
mente da! debitore (es.: remunerazione per l'acquisto di un fondo).
In età classica la compensazione era riconosciuta solo in casi specifici, tra cui
principalmente i seguenti quattro: a) il caso dei crediti fatti valere mediante iudicia
bonac fidei [ n. 23]: questi credici dovevano essere compensati, a cura del giudicati-
re, con i debiti dell'attore verso il convenuto in base allo stesso rapporto fatto va-
le re in giudizio (ex eaa'em causa); b) il caso dcli 'argen tariu; (ha nch i ere [n 79])
quando agisse contro i] cliente: egli dovevi detrarre dal credito fatto valere l'impor-
to dei crediti dello stesso genere dì cose (es.: danaro, grano, vino) che il cliente
vantasse per qualunque causa nei suo i rigu a rd i (agerc cina colnpensarivne) c) il
caso del bonorum emptor che avesse acquistato in blocco i beni del fallito En. 261:
egli doveva agire contro i debitori del flillito tenendo conto dei crediti relativi a
qualunque genere di cose che eventualmente questi vantassero nei riguardi del faI-
lite, e deducendo il relativo ammontare dalle sue pretese (agere can deductione»);
d) il caso dì chi csetcì tasse I arno de pendio ne i rigua rd i dei pater Jkmi/ias E '. 201:
l'attore aveva l'obbligo di dedurre dall.i sua pretesa relativa al peculio l'importo
delle obbli gazioni naturali del fi/isis o dei serIus nei confronti del fiater [n. 59].
Nelle ipotesi di ludicia bonaefidei il convenuto poteva opporre le ragioni di coni-
pensazione anche apud itidicein, mentre nelle altre ipotesi egli disponeva soltanto di
un' vceprio espe rib i le nella Fuse in ho-e.
I FAFTI MODIFIGATIVI DELLE OBBLIGAZIONI 279
dei debitori ereditari (in-rio titilì, suo nomine): beneficio che fu progressivamente
esteso dalla giurisprudenza anche a varie altre ipotesi e acquistò carattere generale
in diritto giustinianeo. Linconvenien re che non si riusci ad cli minare fu quello
costituito dal far o che il conti-arto dì cessione (in particolare, l'enptio veuditio)
aveva per sua causa negoziale esclusivamente il trasferimento del credito in quanto
tale, non anche la garanzia del suo adempimento da parte dei debitore ceduto, di-
modoch (salvo clic la garanzia del pagamento fosse assunta con negozio a parte) il
LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE
accrebbe man mano col passare del tempo (e con l'insorgere di nuove
istanze sociali), cosf come preciseremo nei luoghi opportuni.
Le caratteristiche che vanno segnalare sin d'ora sono due: a) che gli
atri costitutivi di obbligazioni contratte furono solitamente bi- o plurila-
terali, ma poterono essere talvolta anche unilaterali, purché a carattere di
arti recettizi, cioè con effetti subordinati alla recezione da parte del desti-
natario (caso, per esempio, della doti, dictio); b) che gli stessi atti non
giungevano a buon fine, non producevano quindi le corrispondenti ob-
bligazioni, se una delle parti del rapporto obbligatorio da costituire non
vi aderiva inequivocaniene, sia pure con un «silenzio» significativo. Il che
dimostra che gli atti produttivi di obbligazioni contratte avevano tutti, al
fondo, natura di negozi giuridici [n. 16-17].
{
pronunzia di dote
promessa giurata del ]iberto
vadiatura e prediacura
I
SI LpU azione aggiun Uva (a ds t ipula rio adprom issor)
stipulazione
stipulazione oenale
stipulazioni ui garanzia (sponsio, Fidepromissio,
fideiussio)
clausola stipulatoria
conra
ttte rfiducia (cum amico): cose mancipi
rronsena imuttI.o: cose fungibili
con dominio
prestito a cambio marittimo (con interessi)
reali
rpegno dato (possesso interdittale)
comodato (detenzione)
consegna
H deposito (detenzione)
dominio
I deposito necessario, deposito a] seouestraiarìo
(possesso)) deposito irregolare (dominio)
I
la Lione (sul libro cassa del creditore)
letterali sinafa
chirografo
Obbligazion
da [arti lecì(i
compravendita
da i locazione conduzione
contratto [v. tavola XV]]
i socieffi
[mandato
{ parti protoni
itit mento libero
regolamento di debito (proprio o altrui)
rd patti assunzione bancaria di debito
recezione su nave, in albergo, in stalla
recezione di arbitrato da compromesso
patto di donazione (obbligatoria)
I
xtracon- peuta
j da accordi convenzione ci timatoria
rai tua li i nnoniinati transazione
dazione in prova
TAVoLA XV: Le obbligazioni da fatti leciti (cap XI-X]V. V nnche t., XVL
286 LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE
alizzasse il matrimonium a ragione del quale era stata operata la doti, dictio).
Jiinesistenza (o comunque la non provata esistenza) di una causa negoziale
acquistò rilevanza solo per l'intervento del diritto onorario, nel senso che
all'obbligato furono concessi rimedi giudiziari che paralizzassero l'esigibi-
lità del debito (es.: un'eccezione di dolo) o ripristinassero la situazione pre-
esistente.
Sin dall'età predassica venne fatto peraltro un uso sempre più ridotto della
possibilità di non precostituire una prova dell'bIigatio verbis e di omettere, nella
pronuncia dei verba, ogni riferimento alla causa del negozio verbale costitutivo del-
l'obbligazione (iusta causa oblzkationis»). Nel successivo periodo classico la giuri-
sprudenza si spinse ancora più in là, e cioè pretese che 1e parole stabilire oltre ad
essere grate pronunciate da persone capaci (di diritto e di agire), risultassero fondare
su una causa negoziale (anche inespressa) lecita e costituissero manifestazione Fedele
di una volontà sana (non viziata da errore, da dolo, da minacce), anzi (nel caso della
stipulano) di una volontà concorde delle parti, cioè di una convenzione (conventio):
senza di che) o l'obbligazione era considerata insussisren te iure civili per nullità
dell'atto costitutivo, o quanto meno essa era processualmente inesigibile o fruscra-
bile. Fu lungo questa strada che il diritto postclassico giunse infine alla svalorizza-
zione quasi completa delle obbligazioni verbali nel loro significato più genuino.
Fatti costitutivi di obbligazioni verbali furono: anzi tutto la sponsio o
stzpul&io, di cui parleremo più distesamente tra poco [n. 67-68], e inol-
tre; a) la dotis dictio; b) la promissio iurata liberti; c) la vadiatura; d la pra-
ediatura.
(a) La pronunzia di dote (dotis dictio), della quale abbiamo già fatto
cenno in tema di regime patrimoniale de! matrimonio [n. 371, era un ne-
gozio giuridico unilaterale attinente in origine al cd. matrimonio cum
manzi, che in periodo preclassico e classico era utilizzato come promessa di
dote (sia quanto al matrimonio curn manzi, sia quanto al matrimonio libero)
e serviva perciò allo scopo di costituire un diritto di credito del marito sui
beni dorali indicati in sua presenza da colui che pronunciava la Formula.
L'alta antichità dell'istituto spiega perché fossero abilitati alla dotis dictio solo
tre soggetti: il paterfamilias (padre o avo paterno) della donna alieni ieri,; la stessa
donna, ove fosse sui iuris; il debitore della donna sui iuris, se delegato da costei.
Quanto alla formula, essa si imperniava sulle locuzioni «elotem tibi dico» o «doti tibi
erit (erunt)»: locuzioni aventi entrambe il senso di un «ti assegno in dote» (o «ti sa-
ranno assegnati in dote), le quali andavano di volta in volta completate dall'indi-
cazione dettagliata dei beni dotali e dal preciso riferimento al matrimonio (futuro
o già in atto, rum manzi o sine inanu) da arricchire mediante la dote.
In periodo postclassico la doti, dictia (già scarsamente praticata nel periodo
precedente a causa della concorrenza della promissio doti, [o. 68)) subf una forte
decadenza, pur senza giungere al punto da essere espressamente abolita.
LE OBBLIGAZIONI DA STIPULAZIONE 287
del tutto mediante una parte), dal fatto che consisteva nell'incontro di
una domanda (cioè, letteralmente, di una stipulatio) formulata dall'aspi-
rante creditore con una corrispondente promessa (cioè, letteralmente, con
una corrispondente sponsio o promissio) formulata dal futuro debitore.
L'interrogante (cd. stipu/htor o zeus stzipulandi) chiedeva alla controparte se
intendesse impegnarsi ad una certa prestazione cosi come da lui stesso de-
scritta (es.; spondei dar centum?», «promittis hoc et il/ud tefacere?') e in-
terrogato (cd. sponsor, promfssor, reus prornittendi) esprimeva la sua «ade-
sionc» con l'uso del verbo indicativo della corrispondente promessa (es.:
«spondeo», «promitto»).
Quali siano state le origini e i primi sviluppi del contratto è estremamente
oscuro [n. 58]. Le sole cose che possano dirsi con una certa sicurezza sono le se-
guenti quattro: a) Vistion. ebbe riconoscimento giuridico, in una con 1e obliga-
tiones, solo da parte del ms legitim un: vetus e in particolare delle XII Tavole, le
quali ultime per esso (o uncle per esso) introdussero la speciale legis aclio per iu-
dicis postu/atianein [n. 22]; b) nell'epoca predecemvirale, in cui l'ordinamento
giuridico si limitava al ius Quiritium ed ai ra p Do Cli assoluti ficenci capo al man-
cipium, l'istirtito ebbe rilevanza puramente magico-religiosa (dunque extragiuridi-
ca) e fu largamente usato a Fini di conferma, di copertura, di garanzia di presta-
zioni dovute sul piano meramente sociale della fiducia (/?des), dagli smessi pro-
mittenti o, più spesso, da altri; c) il verbo originariamente usato per la creazione
del vinco lo sacrale fu il verbo «spondère , ri misto in segnica sempre benitato ai
soli cittadini romani; d) la denoni i nazio ne dell'istituto con il termine «stipulatio»
ne in tempi successivi al suo riconoscimento giuridico ed in connessione
col fatto che il suo contenu[o non era più illimitato, ma era costituito da una
prestazione avente valore economico ed era perciò misurato co utabil niente con
riferimento ad una stips o stipula, cioè ad una tessera di legno o di metallo rap-
presentante nell'uso antico 'uni ti dì conto.
Col sopran'enire del bis civile novum e col procedere ulteriore dei tempi) sia
in periodo preclassico e sia in periodo classico, la stipulatio fu resa accessibile anche
agli stranieri, con quest'unica avvertenza: clic la domanda e la risposta non fossero
da formulare con 'uso del verbo spondère» ( che restò limitata, come si è detto, ai
soli cittadini romani), ma fossero da formulare con l'uso di qualunque altra forma
verbale equivalente e persino in lingua greca (pronìiftis?, prornitto, «a'abis?, a'aho»,
«ò&ueiq 5uDosw, ecc.). Si pervenne pertanto alla distinzione tra «seipu/atio iuris
civili,» riservata ai soli rapporti tra cittadini romani, e stipulatio iunis gentiurn
aperta ai rapporti tra romani e non romani, oltre che (se la preferissero) tra romani
soltanto En. 61. Malgrado il progressivo esendimento della cittadinanza sino agli
estremi della constitutio Antoniniana del 212, il ricorso al verbo sponoorc, (equi rud i
alla cd, «sponsio') si ridusse progressivamente sia quasi a sparire.
Anche se non è possibile fare un taglio netto tra periodo classico e
periodo postclnssico, è chiaramente avvertibile, in materia di stipulatio,
LE OBBLIGAZIONI DA STIPULA2IONE 289
tempo esercitasse contro di lui lo stipulans; b) che lo sn:pu/ans era peraltro ammesso
a superarla, ove aggiungesse alla poco credibile prova implicata dal documento altri
e piiit persuasivi mezzi di dimostrazione del Etto di aver effettivamente versato la
somma richiesta.
(a5) La tutela giudiziaria dello stzpulntor nei confronti del promis-
sor inadempientc era affidata ad un'azione personale denominata azione
da stipulazione (actio ex sttpulatu), di cui 'e origini risalivano alla Legis
actio per iudicis postulationem ed alla successiva legis actio per condictio-
tieni [n. 22].
In termini di procedura formulare, si guardava alla già accennata distinzione
tra sttptttatio certi e stzpulatio incerti per distinguerne tra: a) «actia ex st/iOuLatu certi>
(o «actio certi ex stzpuLatz»), diretta ad una condanna al controvalore della res certa
di cui si era promessa la dazione (quanti sa re est»); 1') «actio ex stipulata incerti»,
eventualmenEe limitata da una taxatio [n. 24], diretta ad una condanna al valore
dell'interesse economico implicato dalla prestazione (quidquidpromissorcm dare
facere oportet»). Ove la stiputatio certi fosse attinente ad una quantità di rcs Fungibili
(e la relativa promessa si fosse concretata in una corrispondente datio), si usava
però preferire il ricorso (sulle tracce della tegis actia per condictionein) all'esercizio
dell'actio certae creditae pecuniac o della condictio certac rei spettanti al mutuante
contro il mutuatario [n. 70].
zione (transscriatio) del credito (individuato dal nome del debitore) nella
colonna delle uscire, trasformandola in una nuova obbligazione (derivan-
te da expensilatio) sostitutiva di quella precedente.
A titolo di chiarimento del singolare istituto, va ricordato che i patres fami-
liarum (ed i soggetti giuridici in genere), se mediamente abbienti, usavano tenere
(e conservare, ai Vini dei periodici censimenti pubblici, nonché del controllo da
parte dei loro successori) non solo una ben ordinata cassaforte (arca domestica), ma
anche e correlativamente un libro cassa familiare (denominato codex accepti et
expens:, in cui registravano in equivalenti pecuniari le operazioni compiute, se-
gnandole su due parti o colonne distinte, di cui puna era dedicata alle «entrate»
(operazioni attive) e l'altra alle «uscite» (operazioni passive), per modo da potere
alla fine dell'anno redigere il bilancia e provvedere al pareggio contabile.
Fu appunto di questo codex accepti et expensi che si valsero i soggetti giuri-
dici romani al fine della creazione di obtigationes titteris (nonché, all'inverso, al
fine della estinzione delle medesime mediante l'acccptitatio tineris [n. 63]). Né
deve troppo sorprendere il fatto che l'obligatio si facesse derivare da una registra-
zione fatta dal creditore in un proprio libro da lui stesso conservato, eventual-
mente nemmeno in presenza del debitore, perché i libri di famiglia avevano, al-
meno in antico, sul piano religioso e sociale un'importanza tanto alta, da rendere
difficilmente pensabile che il pater si arbitrasse di alterarli o di registrarvi false
operazioni (di credito, di pagamento, di debito, di ricezione di un pagamento).
D'altra parte, il soggetto che fosse stato arbitrariamente registrato (e chiamato in
giudizio) come obtigatus ottenne probabilmente ben presto dal praetor (cioè iure
honorario) la possibilità di paralizzare lazione del falso creditor mediante un'excep-
tio doti, la quale lo poneva in condizioni di dimostrare al giudicante la manovra
esercitata a suo danno dalla controparte. Comunque, proprio perché con lavan-
zare dei secoli diminui notevolmente, anche in Roma, il margine di sicurezza cir-
ca il fondamento di onestà delle operazioni di expcnsitatio, l'istituto era caduto in
disuso già sul finire dell'età preclassica.
(b, e) Chirografi e singrafe (chirògrapha e sjngraphae) erano origina-
riamente mezzi di costituzione di vincoli obbligatori tra stranieri in par-
ticolare della Grecia e dell'Egitto: atti recepiti poi dal diritto romano nel
corso dell'età classica. Poco si sa di preciso relativamente a questi istituti,
salvo che: a) il «chirographum» (letteralmente: scritto a mano, «autografo»)
era redatto in unico originale dal debitore ed affidato al creditore a titolo
di solenne impegno al pagamento; b) la «syngrapha» (detta anche «en-
graphum»; letteralmente: scritto da due persone insieme) era redatta in
doppio originale e sottoscritta da ambo i soggetti, contenendo egualmente
l'impegno al pagamento di una certa somma.
298 LE OBBLIGAZIONI CONTMVTE
Ignote al diritto arcaico (anche se forse già praticate sui piano extragiuridi-
co dei rapporti sociali di cararrere fìduciario), le obbligazioni da consegna (o più
spesso dette «reali») furono riconosciute come giuridicamente rilevanti solo dal
in5 ci vile vetus e da alcune leggi pubbliche sul]o scorcio del sec. 111 a. C., allor-
quando in Roma prese consistenza l'economia di scambio fondata sull'utilizzazio-
ne del danaro e di altre cose fungibili. Queste cose (che, come sappiamo, erano
nec mancipi) venivano sempre più largamente passate di mano in mano mediante
traditio (e perciò trasFerite in proprietà dell'accipiente) a vario titolo: di donazio-
ne. di dote, dì pagamento informale di una prcesistente obbligazione, o infine di
pres[iro (rnutuum) cioè di provvisoria fornitura di mezzi economici ad un sog-
getto che ne avesse bisogno. Ove il pagamento risultasse ad una più attenta con-
siderazione come non dovuto e, sopra tutto, ove il mutuante volesse riacquistare
in sua proprietà le cose provvisoriamente prestate, era giusto che il dante ne ri-
chiedesse la restituzione allaccipiente in quanto suo debitore: proprio allo scopo
di favorirlo Furono emanate, in quel torno di tempo, le leggi Silia e Calpurnia
istitutive della semplificata legis actio per condictionem [n. 221. Quanto al rappor-
to relativo in cui queste ipotesi si riflettevano, venne naturale qualificarlo come
oh/igatio re contracta.
LE OBBLIGAZIONI DA CONSEGNA IN SENSO PROPRIO 299
mediante una stipulazione comprensiva sia del capitale che degli interessi
(stipu/atio sortis et usurarum).
Al mutuante spettava, a tutela del suo diritto alla restituzione,
un'azione personale (condictio), la quale aveva il nome di «azione per re-
stituzione di una somma di danaro» (actio ccrtae credìtae pecuniae) per i
mutui di danaro, e di «azione per restituzione di una certa cosa (cona'ic-
tio certae rei, detta anche «condictìo triticaria», cioè relativa a tn'ticum, fru-
mento) per i mutui di altre cose fungibili.
La condinio da mutuo (direttamente derivante dall'antica legis artio per coli-
dictionem [n. 22]) non differiva nell:' formula da ogni altra specie dì condietio,
giacché la sua intentio era formulata in modo astratto, quindi senza alcuna allusio-
ne alla fattispecie del prestito, ma cori Li sola asserzione dell'obbligo di restituire.
(e) Va aggiunto che una figura speciale di mutuo fu il prestito ad in-
teresse marittimo (fenus nauticum, anche detto «pecunia traiecticia» cioè,
letteralmente: danaro da trasportarsi oltremare).
Questo istituto, ricalcato su modelli greci e del commercio mediter-
raneo, si trasfondeva nella prassi in tipi negoziali variabili, tutti caratteriz-
zati dal fatto: a) che un finanziatore assumeva su se stesso il grosso rischio
(pericu/um) di dare in prestito una somma di danaro all'armatore o al ca-
pitano di urta nave affinché questi la utilizzasse oltremare, o la impiegasse
per l'acquisto di merci da trasportare oltremare o per la provvista di ma-
teriali e attrezzi della navigazione; 1') che l'accipiente era tenuto a restituire
la somma soltanto nell'ipotesi in cui la navigazione giungesse a buon fine;
e) che in tal caso l'accipiente ripagava il finanziatore con almeno il doppio
della somma di danno da lui ricevuta.
della cosa data in garanzia. Esso consistette nei conferimento del possesso
interdittale di una cosa dall'oppignorante (o debitore pignoratizio) al pi-
gnoratario (o creditore pignoratizio), sulla base dell'accordo che questi: a)
la conservasse a garanzia di un credito proprio o altrui; b) la restituisse in
caso di soddisfacimento (sarisfactio); c) la vendesse, al miglior offerente,
appropriandosi del ricavato (salva la restituzione deIl'hyperocha: n. 57), in
caso di inadempimento.
[istituto fu il pii recente tra quelli riconosciuti dal pretore, il quale
concesse alloppignorante contro il pignoratario, ai fini della restituzione
delta cosa pignorata, un'azione personale di pegno (attio infactum pigne-
raticia in personam; da non confondersi con lardo pigneraticia in rem
spettante al pignoratario contro i terzi che lo privassero della cosa). Al
creditore pignoratizio (pignoratario) si riconobbe invece un'azione con-
traria (iudicium contrarium) contro il debitore (oppignoi-ante) per il rim-
borso delle spese sostenute sulla cosa nell'interesse del costituente, per il
risarcimento dei danni subiti a causa di evizione e per consimili ipotesi.
(b) Affine al mutuo fu il comodato (cornmodatum: «prestito ad uso»;
letteralmente: dato a comodo) consistente nel conferimento della mera
detenzione (cd. possessio naturali,) di una cosa dal comodante al comoda-
tario sulla base dell'accordo che questi la usasse per proprio comodo e la
restituisse poi integra al comodante. Oggetto del comodato potevano es-
sere ovviamente soltanto cose (mobili o immobili) inconsumabili; tutta-
via a questo principio si faceva eccezione allorché fossero date in uso cose
consumabili coi patto che non fossero consumate, ma venissero utilizzate
per scopi diversi da quelli loro normali (come, ad esempio, nel caso che
fossero prestate da una persona a un'altra delle monete affinché il conse-
gnatario delle stesse ne facesse bella mostra con i terzi senza però spen-
derle: «adpompam et obstentationem»). In ogni caso, il comodato, come il
mutuo, era essenzialmente gratuito, all'incirca per gli stessi motivi di ca-
rattere strutturale: ove fosse convenuto un compenso (una merces) per
l'uso della cosa data a comodo, non si aveva comodato, ma locazione di
cosa [n. 75].
L'uso della cosa comodata avveniva normalmente per il vantaggio
del comodatario, ma poteva aver luogo, sempre però a titolo gratuito, an-
che nell'interesse del comodanre o di in terzo. Il comodargrio non poteva
LE OBIUIGAZIONI DI CONSEGNA IN SENSO IMPROPRIO 303
usare la cosa al di fuori dei limiti naturali della sua utilizzazione e dei li-
miti convenzionalmente stabiliti per la utilizzazione stessa: se lo faceva,
commetteva furto (Ji4rtum usus: letteralmente «furto di uso» [n. 85]), a
meno che l'iniziativa fosse stata presa nell'opinione, in buona fede, che il
comodante non avrebbe avuto motivo di vietarla. Al termine del rappor-
to il comodatario era tenuto alla restituzione della cosa comodata, con
tutte le accessioni e i frutti di essa salvo quelli che rientrassero nell'uso
della cosa stessa.
Per far valere le sue ragioni nella ipotesi di mancata restituzione della
cosa (reni rèdditam non esse), il comodante aveva un'azione di comodato
(actio commodati). Egli poteva revocare a suo arbitrio la concessione, cos(
come la potevano revocare, in caso di sua morte, a proprio arbitrio, gli
eredi; tuttavia, per l'ipotesi che la revoca del comodato fosse avvenuta in-
tempestivamente (intempestive), e quindi con danno per il comodatario, il
pretore riconobbe a quest'ultimo un'azione (contraria) contro il como-
dante o i suoi eredi.
(c) L'istituto del deposito (depositum) fu inteso a raggiungere una
delle finalità della fiducia, evitando, peraltro, l'inconveniente pratico ed
antieconomico del trasferimento del dominio sulle cose date in custodia.
Esso consisteva nel conferimento in mera detenzione di una cosa mobile
dal deponente (depòsitor) al depositano (depositìrius) sulla base dell'accor-
do che il depositano la detenesse per conto del deponente (quindi la cu-
stodisse con la normale diligenza del buon paterfamilias, del galantuo-
mo) e la restituisse intatta a richiesta. Dato che della cosa depositata non
si trasferiva il dominio ma soltanto la detenzione, il deposito poteva esse-
re validamente fatto anche dal semplice possessore (e, al limite, persino
dal ladro).
Requisito essenziale del deposito era la gratuità. Se si fosse convenuto
un qualsivoglia compenso, anche minimo, non si aveva deposito, ma lo-
cazione ([n. 751: diverso però il caso che il compenso fosse elargito a puro
titolo di premio spontaneo dal deponente al depositano (cioè a titolo di
honorarium). Ed è appena il caso di aggiungere che occorreva il trasferimen-
to materiale della cosa al depositano, non essendo sufficiente l'incarico di
custodire la cosa: ove, infatti, vi fosse soltanto tale incarico, e tale incarico
fosse accettato, la (attispecie non era di deposito, ma di mandato a custo-
dire (nrnndaturn ad custodiena'um [n. 77]).
In virtù del suo obbligo di custodire il depositano era tenuto ad at-
tuare gli accorgimenti che fossero ragionevolmente necessari per la sua
304 LE OBBLIGAZIONI CONTI1A1TE
lraz,one-condu
r d L,isa per il vodiroesici, del conducLore): mercede a carico del conduttore
di servu, (cd coniraico di Lavorol: mercede carico del conduttore Idatore
zione ([un senso di l', ''.0
iniziale) di cosa via trasFormare 'cd conhtjlto doren): mercede a arico del litcatore
casu speciale: zeRo tielle :nerci ID (Dare (nel caricamento niaritcinlo)
cui essa era rimandata a tempo successivo dalla non ancora realizzatasi
possibilità di precisare oggettivamente le obbligazioni stesse (cosf nell'ipo-
tesi della cd, emptio imperftcta o in quella delle eventuali obbligazioni del
mandante). Ma, sì badi, il consenso non era sempre rigidamente inteso
come un «momento» iniziale determinativo del contratto. Nel caso della
società (socletas) e de! mandato (mandàtum), contratti di cooperazione,
esso doveva sussistere a titolo continuativo anche dopo il momento ini-
ziale, ed il venir meno della volontà di una delle parti (socio, mandante
mandatario) determinava la fine del contratto.
(b) La libertà delle forme dei contratti sta a significare che il con-
senso delle parti non aveva bisogno di particolari manifestazioni esterio-
ri o di determinate condizioni di tempo e di luogo (per Cs., la znitas
àctus), ma era giuridicamente rilevante in quanto tale, come «nudo)
consenso, purché naturalmente fosse esteriorizzato in modo inequivoco.
Le fonti precisano, a questo proposito, che si poteva esprimere la pro-
pria volontà anche a gesti (et nutu solo), che insomma la manifestazione
dell'accordo, comunque fatta, era sufficiente (si{fflcit cos, qui negòtium
gèrunt, ronsensisse»)
(c) La mera obbligatorietà dei contratti sta a signifìcare che essi era-
no produttivi esclusivamente di obbligazioni tra le parti. Non solo non
erano fonti di rapporti giuridici assoluti (in senso proprio o improprio),
ma non implicavano di per sé, per effetto cioè del consenso delle parti,
neppure attribuzioni di possesso o di detenzione. Di conseguenza, essi
non avevano nessuno specifico rilievo assoluto (erga omnes) o verso terzi
determinati, ma operavano solo tra le parti (interpai-tcs), creando obbli-
gazioni tra le stesse.
(a') La bilateralità dei contratti sta a significare che essi erano costi-
tutivi tra le parti di due o più obbligazioni reciproche e interdipendenti,
anche se non corrispertive (cioè di valore economico non equivalente) ed
anche se non tutte attuali (ma alcune attuali ed altre potenziali).
A questo proposito, è opportuno precisare cile: a) per effetto dei due rapiti-ar-
tzis a prestazioni eterogenee e corrispettive (la «emptio vendirio» e la «locatio conduc-
tio» [ti. 73-75]) ciascuna parte assumeva verso 'altra una o pitì obbligazioni di di-
versa natila, ma di valore economico necessaria me n te corrisponde ti re; b) per effet-
to del conzrarrus di cooperazione a prestazioni corrispetrive (la sorirtas [n. 76]) cia-
scuna parte assumeva verso l'altra una o più obbligazioni specifiche, che sì i nqua-
dravano però in un più generale obbligo dì cooperazione alla buona riuscita di uno
o più affari e che dovevano, pertanto, avere un valore economico corrispondente; e)
per efiètto del contractus di cooperazi no e a p restazion i t'uil ate rai i, ma potenzia I -
LE OBBLIGAZIONI DA COMPIWENDYTA 309
niente b I ateral i (il njandazu,n [n. 76]) una parte assumeva (gra [Ui t mente) una o
piú obbligazioni verso l'altra, mentre per quest'ukirna vi era solo la evenru;ilir'a di
essere obbligata, realizzandosi certe condizioni, verso la prima.
(e) Iiazionabilità exjìde boria dei contratti sta, infine, a significare
che, in caso di inadempimento delle obbligazioni da essi costituite, l'avente
diritto (cioè colui che aveva sopportato l'inadempimento) aveva a sua di-
sposizione un'azione di buona fede (iudtium bonaefìdez), che permetteva
al giudicante la pit approfondita valutazione della fatrispecie concreta e il
miglior regolamento possibile delle controversie da essa scaturenti [n. 23].
In particolare il giudicante era in grado di tener conto, ai Ami della commi-
sur:Izione della condanna: a) dei ipacca adzecta (patti aggiunti) A contractus (pur-
ché aggiunti « in continenti», cioè al l'a tt o del primo incontro tra le volontà delle
parti, e non dopo, non cioè «cx intervallo»), senza necessità per 1e parti di formu-
lare exceptiones o separate actiones I ter poterli La valere; 6) di ogni prestazione ac-
cessoria a quella principale o ad essa connessa (frutti, interessi, spese ecc.); e) delle
ragioni per cui dovesse ritetiersi non veri Fi caro il COflseflSUS tra le parti (errore di
manifestazione della volontà, reciproca i ncom1, rensione, simulazione ecc.) o non
San amen te formata la vo bn tà di una di esse (erro' fatti, do/:s ma/in. menti); 4D del
«do/in in contrabendo», cioè del modo nializioso o sfuggente in cui una parte si
fosse coni portata durante le trattati ve precon tra t tual i; e) dei motivi di compensatio.
In età postclassica e giustinianea i caratteri sopra descritti dei quattro con-
tratti consensuali del diritto ormai vetusto non erano pid altrettanto evidenti. A
prescindere dalla commistione concettuale dei rontractus del ius civile novum con
istituti di altra provenienza, va sopra tutto nota o che: a) il consenso in idem piaci-
tu., anche quando poteva ancora essere .nudi,s», fu tendenzialmente identificato
nel solo atto costcttltivo iniziale; 6) in molti casi, come si vedrà, specialmente quan-
do si trattasse di negozi relativi ad immobili, fu richiesto che il consensus si rivestis-
se di forme determinate; c) la mera obblig,noriccri venne meno in ordine ad alcuni
contratti (in particolare: lernptio tenditio), dando luogo ad effetti «ciga omnes» o al-
meno verso terzi d eterni i nati, cioè ad effetti tipici dei ratti cos ti tu ti vi di rapporti
giuridici assoluti (es.: la vecchia ,nanciatio).
1 isti turo dcl 'esnptio venditio, affermatosi nei rapporti di com mercio tra ro-
'nani e peregrini, fece il suo ingresso Hel iis privatuni romano at traverso il isis
civile twvum. La in era obbligato rierà di qti es re contractus (ra n to più s ingolare , se
si riflette ciie la vendita dei diritti greci aveva invece effetti traslacivi reali) è age-
volmente spiegabile ove si tenga presente che i negozi tra romani e stranieri non
potevano evidentemente costituire il dorninìum ex iure Quiritium rapporto stret-
[ame ri re c ivi listico. esseri do peregrini esclusi dai!' utilizzazione dei ius civile vetus,
Fu ò sorprendere (ed è effettivamente assai d isc Lisso) il fitto che i romani non In-
già, nel loro ius civile vetus, u i a vendita ad effetti tali, o non abbia-
no comunque conferito effetti reali all'emptìo venditio allorché l'hanno recepita
inter rives. Ma la risposta, almeno a nostro parere, è faci]e. Anzi tutto, i romani
in pratica conoscevano e applicavano largamen [e la «vendita a con canti», median-
te il ricorso alla 'nanczatìo (o in iure esilio) o traditio della res (rnanripi o nec
mancipi) da alienare e la cc ntestuale traditio (dall'acquirente a! l'alieni n re della
i-cs) del corrispettivo in danaro [n. 441: non vi era, dunque, in materia, alcuna
lacuna da riempire. D'altra parte, gli stessi romani nem meno avevano eccessive
difflcolit a realizzare un trasferimento immediato del do,ninìum stilla res (me-
d an re fiducia o mutuum [n. 70]) contro il corrispondente impegno dell'acqui-
ren e (mediante stipulotio [o. 67]) al paga me [i o differito del ccii trova lo re. Dun-
que, la vera lacuna da Colmare, nei sistema prrvatistico romano, era proprio co-
stituita dalla vendita a realizzazione differita, cioè da un istituto indispensabile
all'evoluto mondo degli affari: istituto che permetteva di impostare anticipata-
mente una operazione economica che sul momento non si sarebbe potuta com-
piere per difetto della mcix, o per difetto del pi-ei/un:, o per difetto di garanzie
del pagamento differito.
In età postclassi Ca, la progressiva decadenza della mancipahio e della in im-e
crssio, la valorizzazione degli atti consensuali (pactiones e: suoulationes) come costi-
tutivi anche di rapporti giuridici assoluti, la depressione economica specie occiden-
tale (clic fece tornare I argarnen te i i uso le p rtcdenz Li li ve id i te a conta l'ti), 1a forte
in (1 uenza in Oriente del modello ellenistico della vendita a effetti reali furono al-
trettanti fattori che concorsero a deterin mare l'evoluzione ]alla emptiv venclitio da
contratto obbligatorio a contratto con effetti reali. Né fu ritenuto più sufficiente,
nella maggio, parte dei casi, il nudzis consensus, perché il in: ilovum, ,i partire da
Costantino, pretese con sempre maggior frequenza la forma scritta per la validità
delle vendite specie se immobiliari. Un tentativo di parziale ritorno all'antico si
ebbe solo con Giustiniano, il quale riaffermò il principio della [nera obbligatorietà
dcli'emptio venditio e fece della forma scritta solo o n'a] ternativ:' , ad a rbi tn o (e ri -
schio) delle parti, di quella orale, tanto per le vendite i mmobì I iari Clic per quelle
no bili8
Allo scopo di determinare l'acquisto del dominio da parte del compratore oc-
correva, come abbiamo detto dianzi, un separavo fatto acquisitivo, cioè una .,no-
una in iute cessio, una tradiiìo (nel di ri tuo giusti nia neo, la sola traa'itio), op-
patio, tira
pure l'usucapio. Anzi molto si discuteva circa il momento del passaggio di proprie-
r. Mentre per alcuni esso avveniva contestualinente all'atto traslarivo della proprie-
t, per altri il dominio si acquistava dal compratore solo a condizione che avesse
anche pagato il prezzo (pretio saluto') o che avesse dato garanzie sufficienti del suo
pagamento, a meno che il venditore avesse esplicitamente accertato di rimettersi
completamente alla sua fida.
(d) Le azioni inerenti al contratto furono l'azione per il venduto
(actio venditi) a tutela del venditore e l'azione per il comprato (actia emp-
ti) a tutela del compratore: ambedue azioni di buona fede, comportanti
l'invito al giudice a condannare il convenuto a «tutto ciò che egli dovesse
dare o fare a sensi di buona fede» (quidquid dare facere oportet ex fide
bona>). Questa struttura di buona fede delle azioni facilitò col tempo l'in-
sorgere di numerose e sottili questioni, quindi una ulteriore specificazio-
ne degli obblighi del venditore e del compratore.
(e) J2obbligazione tipica del venditore era, come si è già detto, quel-
la di far ottenere al compratore la disponibilità della cosa vendutagli, nel
senso di assicurargli il possesso della stessa: possesso denominato usual-
mente «ha bè re licèrc». Non occorreva, dunque, il trasferimento della pro-
prietà, ma bastava la semplice consegna (anche se fatta a mezzo di altri)
della cd. «vacua possessio», cioè del «possesso libero (libero da altrui occu-
pazione) della cosa venduta.
Ottenuta una res nec mancipi in possesso, il compratore ne diventava subito
proprietario; ottenuta in possesso una i-cs mancipi, il compratore ne poteva effettuare
successivamente l'acq uisto in dominium mcd lailte usucapio «pro einptore», ed intanto
godeva della tutela pretoria medi:ì ore l'actìo Publiciana [ n. 47]. Se la cosa non era
stata consegnata al compratore, questi aveva dunque contro il venditore l'actio crnpti
per l'esecuzione dell'obbligo Fondamentale di «tràa'ere Uacuain possessioiiem».
Altre obbligazioni del venditore, sebbene non direttamente dipen-
denti dal contratto, ma derivanti dalla più complessa Fattispecie che ven-
ne a formarsi consuetudinariamcnte in ordine al fatto economico della
compravendita, Furono: a) la responsabilità per evizione; b) la responsabi-
lità per vizi occulti.
(e-T) La responsabilità per evizione (evictio) si aveva in rapporto alla
ipotesi della vendita di una cosa altrui, (a quale poneva il compratore di
fronte al pericolo di dover soggiacere alla rivendicazione del domino della
merce, se questi si avanzasse a Far valere il suo titolo di proprietà: la soc-
combenza nella rivendica era denominata appunto cvictio» (privazione).
314 LE OBBLIGAZIONI DA CONT&JIO CONSENSUALE
Siccome il ve idi (ore non era enuto a rigo r di con ratto, a trasferire il
nitini d'ila mcrr, sorse 'uso di ottenere da lui questa parricola re garanzia attraverso
una di queste due speciali stipulationes: (o la «sn,p i/at/o c/up/ae», mcd ian re cui il
vendi:or prometteva di pagare il doppio del prezzo in caso di evizione (alla stessa guisa
di un /nanctiIiio da/is tentI (o coli I 'oui/ikatio auctoritatis); b) la oiou1,ti, ha bère ticère,
mcci an e cui il venditore si obbligavo (per vend te dì minore n porta nza) ai risi,-
cimento del danno sub(to dal compratore per il mancato otreniniento della cosa. Nel
corso defl'età classica la responsabilità evizione Fini per diventare un natura/e
flcOtji,
ita, vale a dire un elemento naruralnìente connesso con il negozio di compra-
vend salvo diversa volo ad. delle parti: dapprima sì ritenne che il comp rata re, in
caso di rifiuto del venditore alla snp'i/atio, potesse agire contro di lui con l'an/o empli
per costringerlo all'assunzione dell'i in pegno sri p L'la ori o; di poi addirittura, si ri ren-
ne che, anche indipendentemente dalla prestazione della specifica pi-omissio cx
il compratore potesse agire con lactio enipti contro il venditore allo scopo di
essere risarcito del danno derivatogli dalla evizione.
(e2) Circa la responsabilità per vizi occulti della merce (morbi vitia-
,i4, è da dire che inizialmente il venditore non era in alcun modo tenuto
a risarcire al compratore i danni derivatigli dal fatto che la cosa venduta
Fosse risultata affetta da vizi o difetti non apparenti al momento del con-
tratto, pur se sicuramente esistenti già in quel momento; tuttavia sin dai
più antichi tempi si diffuse anche la prassi di accompagnare la compraven-
dita con stipulazioni di garanzia, mediante le quali il venditore assumeva
l'impegno del risarcimento per vizi della cosa venduta, sopra tutto con
riguardo alle vendite degli animali. Gli edili curuli, cui spettavano la sor-
veglianza sui mercati alimentari (cura annbnae) e la relativa giurisdizione,
regolarono poi specificamente questa materia a scopo di disciplina dei
pubblici mercati, sopra tutto per evitare clamorose contestazioni negli stes-
si: nel loro editto essi proclamarono infatti che sui venditori di schiavi e
di animali gravasse 'obbligo di denunciare ai compratori tutti i difetti e i
vizi della cosa > anche e particolarmente se non palesi. Se il venditore si sot-
traeva all'obbligo della denuncia, oppure se la cosa risultava affetta da vizi
che il venditore non potesse dimostrare di avere in buona fede ignorato,
erano accordate dagli stessi edili al compratore due diverse azioni contro
il venditore; a) l'azione redibitoria (adio ,-cdhibitoria, o di restituzione),
esercirabile entro due mesi dalla scoperta dei vizio, allo scopo di ottenere
la restituzione integrale del prezzo; b) l'azione estimatoria (eni/o aestima-
toni: o quanti minori,, cioè di congrua minorazione), esercitabile entro sei
mesi, allo scopo di ottenere una riduzione dei prezzo sulla base di una pii
esatta stima (aestimatio) della merce. La giurisprudenza classica trasse da
tutto ciò la conseguenza che anche la responsabilità per vizi fosse un na-
LE CLAUSOLE ACCIDENTALI DELL,\ COMI']VENDITA 315
turale ,ìeotii e ritenne che la si potesse far valere, salvo patto contrario,
direttamente con l'azione per il comprato.
(f) Uobbligazione tipica del compratore era quella di procedere al
pagamento del prezzo (solutio pretiz) al venditore, cioè di trasferire a que-
st'ultimo mediante consegna il dominio della somma di danaro dedotta
in contratto. A titolo accessorio, il compratore era anche tenuto, per evi-
denti ragioni di equità, a pagare al venditore gli interessi sull'ammontare
dei prezzo a partire dal giorno in cui la cosa gli fosse stata precedente-
mente consegnata, in modo da poter compensare con questi interessi i
frutti della cosa da lui percepiti.
che egli dovesse dare o fare a sensi di buona fede» (quidquid dare fate-
re oportet afide bona»). La grande malleabilità del mezzo di tutela giu-
risdizionale fu l'elemento che più di ogni altro favorr applicazione del
contratto anche alle ipotesi diverse dalla pura e semplice locazione di
cosa.
(ai Cobbligazione tipica del locatore di cosa era di procurare e as-
sicurare al conduttore la detenzione della cosa beata per tutta la durata
del contratto: dunque un'obbligazione di dare.
In caso di evizione (evictzo) di s possessa 'nen ro gi ud 111 rio da parte di un ter-
zo, dato che il conduttore non era domi no ma semplice derentore della cosa. evi-
d entemente altra via non gli era aperta che di agire con ractio tonilucti contro il lo-
o re, allo scopo di costri i gerlo all'ad empi merito o al risa ci in en to.
Dall'obbligo di mantenere la cosa a disposizione del conduttore de-
rivava, a titolo accessorio, l'obbligo del locatore di provvedere appunto
alla manutenzione della cosa beata (cioè al suo mantenimento in stato
dì efficienza) affinché il conduttore potesse pienamente utilizzarla nei li-
miti dei contratto: in mancanza dì che, il conduttore aveva diritto a una
congrua riduzione della mercede, oppure al rimborso delle spese di ma-
nutenzione fatte su stia iniziativa.
Siccome non era necessario che il locarore fosse daini no della cosa ma era
sufficiente che ne fosse possessore o derentore, se il domina della srcss,i (lui o al-
ri che fosse) alienava la cosa loca (a ad un terzo in costanza del contratto di lo-
caz io ne, si a PI cava il principio o emptio tali!! /ocatu m (l'a] e nazio ne della cosa
cli mina la sua locazione): pertanto il nuovo domino era libero di non rener con-
to del contratto di cazione. Principio, questo, contrario alle tendenze degli or-
clinamend moderni.
(a6) Obbligazione tipica del conduttore di cosa era quella di restitu-
ire la cosa beata al termine del contratto. Se la cosa risultava deteriorata
o distrutta, egli era tenuto a pagarne il controvalore, salvo che l'inadem-
pimento non fosse assolutamente a lui i in p utabi le.
Il conduttore aveva inoltre l'obbligo di pagare la mercede a titolo
di «corrispettivo, cioè in corrispondenza al valore oggettivo di utilizza-
zione della cosa ed alla durata del suo godimento. Il pagamento poteva
avvenire in una volta sola o, più usualmente, con versamento di canoni
periodici.
(I,) La locazione di servizi o «contrarto di lavoro (/oiwtio condu(tio
operaruni), essendo derivata dalla locazione degli schiavi, conservò sempre
il marchio di questa sua origine, sicché si ritenne che, almeno di regola,
potesse riguardate (con cb/i gatio infaciendo) servigi prevalentemente ma-
LEOBBLIGAZIONI DAI OC47IONE-CON DUZIONE 321
La locazione di servizi aveva termine per morte del locatore, non ri-
tenendosi possibile che le opere di lui (pur essendo a carattere prevalente-
mente manuale) potessero essere prestate da altri che d lui stesso. Vicever-
sa, se veniva a morte il conduttore, cioè il datore di lavoro, i suoi diritti
e i suoi obblighi si trasmettevano agli eredi, salvo che nel frattempo il la-
voratore avesse trovato altra occupazione.
li diritto postclassico, per influenza del cristianesimo, fu tendenzial-
mente insofferente della locazione di servizi e del concetto di subordina-
zione quasi schiavistica del locatore al conduttore da essa implicato. La de-
cadenza dell'istituto fu accentuata dal fenomeno della scarsezza di mano
d'opera, sia servile che libera, da cui furono poi provocare le disposizioni
del diritto nuovo imperiale sulla servitù della gleba e sulla ereditarietà dei
mestieri [n. 10].
(c) La locazione d'opera o «contratto d'opera» (locatio conductio aperis)
era sorta come locazione, cioè come affidamento di una cosa all'artefice,
con l'obbligo da parte di costui di trasformarla, lavorandola, e di riconse-
gnarla al locatore, contro pagamento di una mercede: era sorta, quindi,
come «locazione di cosa per dedurne un'opera» (locatio rei adopusperJìcien-
dum). Con l'andar del tempo, nel corso del periodo classico, il contratto
si staccò, peraltro, dalla stretta osservanza di questo paradigma iniziate cd
assunse forme variabili: si ritenne pertanto dai giuristi classici che la loca-
zione d'opera sussistesse non soltanto quando un artefice (fabbro, orafo,
scultore, sarto, cuoco ecc.) si impegnasse a trasformare col suo lavoro e con
la sua arte la cosa datagli da un locatore, ma anche quando l'artefice si ob-
bligasse senza aver ottenuto i materiali occorrenti dal locatore e provvedesse
di proprio la materia prima (caso tipico del piccolo imprenditore che si as-
sumesse, dietro congruo compenso, di costruire un edificio, di fabbricare
uno strumento, di approntare un monile ecc.).
Lobbligazione del conduttore d'opera era, precipuamente, quella di
un «fare» consistente nell'apprestarnento dell'opera stabilita: sia provve-
dendovi personalmente; sia, eventualmente, utilizzando l'opera dei propri
schiavi oppure l'opera di altri liberi lavoratori (assunti, questi, mediante
conductio operarum); sia infine col sistema di «subappaltare» l'opera da
compiere ad un altro conduttore, il quale si assumesse nei suoi riguardi
l'impegno di esplicare il lavoro.
Naturalmente quando si effettuava la consegna dell'cpus il /ocatcr aperis aveva
diritto al suo collaudo (adprobàtio cperi4, da farsi, peraltro, viri boni arbitratu, se-
corde vaiurazioni tipiche di un galantuomo, e non con criteri puramente persona-
LE OBBLIGAZIONI DA SOCIETÀ 323
li. Inoltre. I'opus doveva essere apprestaro nel tempo stabilito o, mancando la fissa-
zione del termine, nel tempo ordinariamente necessario per effettuarlo.
Le obbligazioni derivanti da locazione d'opera si trasmettevano agli
eredi nel caso di morte del locatore e del conduttore. Faceva eccezione,
ovviamente, l'ipotesi che l'attività da prestarsi dal conduttore fosse attività
insostituibile, cioè di lui personalmente caratteristica (si pensi, per esem-
pio, alla esecuzione di un ritratto da parte di un provetto pittore).
(d) Altra ipotesi di locazione irregolare era quella del caricamento
marittimo, cioè dell'affidamento ad un capitano di nave (magister navis)
di merci da trasportare mediante navigazione marittima: caso di trasporto
ritenuto molto pericoloso per definizione.
Nell'ipotesi di «avarfa» della nave, e di eventuale getto di merci in
mare fatto per alleggerirla, i Romani si ispiravano ai principi fissati da
una imprecisata (e non romana) legge Rodia (de iactu), i cui principi era-
no osservati da tutti i popoli impegnati nel commercio mediterraneo e si
riassumevano in ciò: che le conseguenze del getto (iàctus rnercium) dove-
vano essere ripartite proporzionalmente fra tutti i caricatori, anche se il
capitano non avesse potuto gettare a mare proporzionalmente le merci
caricate da ciascuno, ma avesse gettato quelle (magari di uno solo) che
prima gli fossero venute sorto mano.
L'effetto della ripartizione proporzionale dei danni fra i caricatori non fu or-
tenuto, sul piano giuridico, attraverso una azione divisoria apposita, ma fu conse-
guito indirettamente, col giuoco delle actiones locati e conductì. Si ritenne infatti: a)
che i caricarmi fossero Iocatores delle merci date in trasporto (ad eas vehendas»: lo-
catores operi:, dunque) nei confronti del magister navis, verso il quale potevano per-
ciò agire per la restituzione delle merci (o per la rivalsa in ordine alle merci non re-
stituite) con le rispettive actiones locan; b) che peraltro il rnagistcr navis, nella sua
qualità di conductor operi:, potesse a sua volta rivaiersi nei confronti dei caricatori
non danneggiati dal getto, e relativamente alla loro quota di danno, mediante l'ar-
tio conducii.
quanto fossero ben chiare (anche se non esplicitamente indicare) 'e ope-
razioni economiche al cui servizio esso si concludeva.
Le origini della sociati: co,isensu cont,ar:a sono discusse. Tutti concordano nel
ritenere che il regolamento tipico dell'istituto, come negozio giuridico costitutivo
di nere ob/igatioties tra le parti, sia stato introdotto dal ius civile novutn sorto la
spinta delle esigenze e delle esperienze del commercio mediterraneo nel sec. lii a.
C.; ma molti, e in modo vario, sostengono che la società meramente consensuale
sia stata il frutto di un adattamento di precedenti istituti del in: civile vena. Senza
negare l'anreriorit:ì e la concorrenza di queste più antiche fatrispecie rispetto alla so-
cinas consensu conrracta, noi riteniamo che la genesi della società meramente con-
sensuale sia da ravvisare esclusivamente in un fenomeno particolare e originale del
commercio mediterraneo: quello della cooperazione Fiduciaria, della alleanza di af-
fari (oggi usualmente detta, con terminologia inglese, (qoint venture») tra due od
eventualmente più imprenditori in vista di operazioni economiche o di tipi di ope-
razioni economiche ben determinate e con assunzione in comune dei rischi alle
resse con nessi Non tanto e solo la n,co,siCa di mettere insieme grossi capitali
quanto l'alta opportunità di assumere (e ripartire) i rischi in comune spinsero gli
operatori economici dell'età preclassica (spesso di nazionalit' diversa, spesso resi-
denti a distanza l'uno dall'altro, spesso cooperanti all'impresa in ittodo diverso, e
cioè talune con i suoi capitali e talaltro con la sua opera «manageriale) a conclu-
dere, sulla base della reciproca fides, sorinates tra loro: società dapprima occasionali
e Imitare nel numero o nel tipo delle operazioni, poi anche (e più audacemente)
estese ad un impegno totale di tutte le loro frze economiche e intellettuali. Ed è
evidente che queste esplicazioni dell'ambiente commerciale più evoluto (oltre che
aperto i1 concorso di operatori economici stranieri con quelli romani) valsero, a
oro volta, a far decadere gli istituti, meno perfetti e sopra tutto meno duttili alle
esigenze della pratica, che avevano avuto diffusione in precedenza
Nell'esperienza del diritto classico, in col l'istituto ebbe la stia massima for-
tuna, 1a soci etas consensu contrada si presen ava, come vedremo, in una vastissima
gamma di esplicazioni e con strutture n°11 sempre rigidamente identiche. Ma,
per quanto riguarda la «causa» del negozio, i tipi fondamentali in cui tutte le ap-
plicazioni, sulla scorta degli edicto praetoris (urbani e peregrini, potevano essere
inquadrate furono due: a) la societas omnium bcmorum; b) la cd. societas unius ne-
gotia tion i:.
In diritto postclassico le visuali classiche non cambiarono di molto, ma cer-
tamente si intorbidarono. In un ambiente economico cui erano oramai quasi del
tutto estranee le iniziative dinamiche di un tempo (e in cui era quasi totalmente
scomparsa la differenza tra due: e peregrini) il concetto di societa: sì avvicinò sensi-
bilmente a quello di romp, gui0, cioè di coni partecipazione nello sfr ti tt amen vo di
beni ed attività da rendere necessariamente comuni tra i soci [n. 31-32]. La nota
diversificar , rispetto alla cummunio vera e propria ne fu solo il vincolo strettamen-
te personalistico tra i mcii: il venir meno di un socio provocava ipso iurc lo sciogli-
merito, e quindi la liquidazione, dei rapporti sociali.
LE OBBLIGAZIONI DA SOCIETÀ 325
In astratto l'editto de pactis comportava che tutti i patti di buona lega, quale
che ne fosse il contenuto, avrebbero ottenuto protezione giuridica dal ius honora-
Ma bisogna subito aggiungere clic, in concreto, sia nelle interpretazioni dei
giuristi e sia nelle applicazioni del pretore, l'editto ebbe un campo di riferimento
molto pi ii ristretto: esso fu inteso solo nel senso clic i soli parta adiccta, cioè i patti
esplicitamente o implicitamente attinenti ad «obbligazioni gita esistenti,, (non dun-
que quelli attinenti a rapporti giuridici assoluti, né quelli intesi a creare ex novo un
rapporto relativo tra soggetti precedentemente del tutto estranei tra loro) sarebbero
stati tutelati nel modo di volta in volta piú opportuno al caso specifico. Quanto ai
mezzi processuali adottati, essi consistettero: a) in generale, in una «exccpt!o pani
conventi' (eccezione di intervenuto patto) contro chi promuovesse un'azione pro-
cessuale senza rispettare il pino (si pensi al pactum de non petendo); b) in ordine
alle obuigationes tutelate dai cd. iudiria /ionae fidei, nell'obbligo imposto it giudi-
cante di tener conio (senza necessità di Forniile interposizione di exreptio) dei parti
accessori i ntercorsi Ira le parti; c) in ordine a talune ipotesi speciali previste (al di
Fuori dell'editto de pactis) da altre clausole edittali, in specifiche actiones concesse a
chi che lamentasse l'inadempimento dell'obligatio (bonoraria) cx parto.
In periodo postclassico, anche per il prevalere della cognitio cetra ordinem
(che era Eicilmente disponibile alla tutela di qualsivoglia rapporto giuridico), 1e li-
nee afferniaresi nei periodi precedenti si anìmorbidirono parecchio, ma non sino al
punto da far perdere ogni individualità, quanto meno nominale, ai vecchi istituti
di carattere puramente «pattizio». Interventi delle leges imperiali si ebbero in scarsa
misura, salvo che in materia di a ai di liberalità (donationes).
Le obbligazioni dapano di cui è utile far cenno in questa sede (a pre-
scindere dagli effetti del «pacturn de non petendo» [n. 63] e da quelli di sva-
riati «parta adiecta», cioè espressamente saggiumi» a singoli negozi, dei
quali abbiamo già detto nei luoghi opportuni) sono, anzi tutto, quelle de-
rivanti dai patti pretori denominati: a) iusiurandum voluntarium; b) con-
stitutum debiti; e) receptum argentarii; a') receptum nautarum, cauponum,
stabulariorum; e) receptum arbitrii. Ad esse vanno aggiunte le obbligazioni
derivanti dall'importante patto legittimo (sancito da costituzione imperiale
posiclassica) denominato: f) pactum donationis.
(a) Il giuramento libero o extragiudiziale (pactum iurìsiurandi o ms-
iuranduns voluntarium) era il patto tra due parti in lite di porre fine alla
lite stessa (e di evitare di trascinarla in giudizio), rimettendone la decisione
ad un giuramento (iusiurandurn) prestato da uno dei due soggetti: a) o il
giuramento confermativo, sul tema «la mia pretesa ad esigere da te una
certa prestazione è fondata'; b) oppure il giuramento contestativo, sul
tema «la tua pretesa ad esigere da me una certa prestazione è infondata».
Nel primo caso, l'autore del giuramento aveva contro l'altra parte
(ove questa non effettuasse la prestazione dovuta) un'azione (actio iurisiu-
334 LE OBBLIGAZIONI NON CONrpAnuAu
rane!,); nel secondo caso, l'autore del giuramento aveva contro l'altra par-
te (ove questa esigesse in giudizio la prestazione non dovuta) un'eccezione
(cxcepz-io iurisiurandO. Le modalità del giuramento e la determinazione
delle potenze divine coinvolte erano rimesse alle costumanze sociali.
(b) Il regolamento di debito (constitutum debiti) era il patto con cui
due (o più) parti regolavano le modalità di adempimento di un'obbliga-
zione di danaro (o di altre cose fungibili) già intercorrente fra loro o fra
uno di loro e un terzo (un aliti,-): il che consisteva nel fissare un certo ter-
mine futuro di pagamento (cioè in un «constitzere diem») ed eventual-
mente nello stabilire altresì che il credito vantato da una delle parti verso
il terzo sarebbe stato pagato, in caso di inadempimento del terzo, dall'al-
tra parte del negozio.
Si distingueva, pertanto, tra: a) «constitutum debiti proprii», inteso a
dare una dilazione di pagamento (eventualmente dietro compenso) a chi
fosse già debitore nel rapporto obbligatorio; b) «constitutum debiti alieni»,
inteso a creare un eventuale sostituto (e quindi un garante) del terzo, che
fosse debitore di una delle parti e che potesse risultare inadempiente.
Contro l'inadempiente dell'oblzkatio creata mediante constitutum debiti il cre-
ditore insoddisfatto aveva originariamente in'eactio pecuniae constinttae,, a carattere
penale, quindi intrasniissibile passivamente e di durata sino ad un anno dalla sca-
denza del termine pattuito. Nel corso del periodo classico il carattere penale venne
meno e rimase all'azione solo la caratteristica dell'annualità. Giustiniano favori
l'istituto, rendendolo applicabile anche alle obbligazioni di cose mobili non fungi-
bili e facendogli assorbire, come vedremo subito, il receptuin argentarii.
(c) Dassunzione bancaria di debito (receptum argentarii) era il patto
con cui un banchiere (cargentarius», esercente di una cd, mensa argentei-
ria) assumeva a proprio esclusivo carico (<in se reczern) il debito di da-
naro che un suo cliente avesse verso un terzo. Questo «accollo» si effet-
tuava (pare) o mediante un accordo a tre (banchiere, cliente, terzo credi-
tore), oppure mediante un accordo tra banchiere e cliente comunicato
dall'uno o dall'altro (in genere mediante chirografo) al terzo.
Contro il banchiere inadempiente il terzo creditore aveva un'arno recepti-
cia», esperibile forse anche nell'ipotesi che frattanto il cliente avesse revocato il suo
ordine di pagamento al banchiere.
Molto diffuso nell'ultima età preclassica e nella prima età classica, cioè in
un'epoca di grande florirura dell'attività bancaria, l'istituto decadde in età potclas-
sia dì pari passo 'cl decadere detieconomia db scambio e della professione stessa
dell'argentarius. Fu perciò che Giusriniano lo cancellò dal diritto vigen re e lo imeni
nel quadro del constiz-utum debiti alieni.
(1) [assunzione di responsabilità del comandante di nave, o del-
l'albergatore, o dello stalliere (recèptum nautae ve1 caupònis ve1 stabu-
&rù) era il patto con cui un comandante di nave, un albergatore o un
gestore di stallatico assumeva a proprio carico (effettuando con ciò un
«recipere») l'obbligo che rimanesse intatto ed indenne (saIvum fore»)
tutto ciò che, in cose inanimate o in animati da trasporto, il cliente
avesse portato con sé nel suo locale. Solitamente il patto era tacito, es-
sendo nell'ordine usuale delle cose che il capitano, l'albergatore, lo stal-
liere assicurassero al cliente che i suoi beni sarebbero stati efficacemente
custoditi e tutelati da lui stesso e dai suoi dipendenti; ma il gestore po-
teva anche respingere o limitare la sua normale responsabilità mediante
una esplicita dichiarazione di discarico comunicata preventivamente al
cliente. E azione a tutela del cliente era un'actio de recepto», intesa al-
l'adeguato risarcimento.
(e) [assunzione dell'arbitrato (receptum arbitrii) era il patto con cui
il soggetto designato da due (o più) litiganti come arbitro in forza di
compromesso (arbitcr ex compromisso) assumeva a proprio carico (effet-
tuando con ciò un «rectpere») la funzione di «decidere come arbitro» (ar-
bitratus», «arbitrium») una divergenza insorta tra i litiganti. Il compro-
messo (compromissum), cui faceva riferimento l'assunzione, era appunto
un accordo tra le parti in lite di rimettere ad un arbitro la decisione della
controversia.
Per vincolarsi più intensamente l'una verso l'altra, le parti usarono molto
spesso ricorrere a reciproche stipulationes poenates, mediante le quali ciascuna pro-
metteva all'altra di pagane una certa penale in danaro nell'ipotesi che si sottraesse
all'eventuale condanna pronunciata dall'arbitro in relazione ad una certa ben deter-
minata controversia. A chiusura di un'evoluzione postclassica piuttosto oscura,
Giustiniano creò il cd. pactum arbitrii ex compromisso (patto di arbitrato da com-
promesso), che aveva tre caratteristiche principali: di intercorrere tra le parti in lire
e tra queste e l'arbitro; di essere a forma probatoria scritta (o documentata dalle
pubbliche autorità); di dover esser conferm,ao mediante giuramento
(f) Il patto di donazione (pactum donationis) fu un pactum legiti-
mum di formazione postclassica, che ebbe vicende non tutte molto chiare
e coerenti tra Costantino e Giustiniano. Esso volle dare assetto di negozio
giuridico apposito (e munito di proprio nomen iuris) ad alcune tra le piti
importanti fattispecie negoziali in cui si riversava, in periodo preclassico e
in periodo classico, la cd. «causa donationim: la quale era, come sappiamo
[n. 17], una «causa autonoma (cioè una causa a negozi plurimi) consi-
stente nella funzione di porre in essere una liberalità (una donatio) fra
336 LE ORgLICA/TONI NON CONTRATTUALI
stipulazioni reciproche tra le parti); b) che a buona parte della giurisprudenza clas-
sica parve opportuno che alle nuove conventiones emergenti dal progresso sociale si
accordasse una tutela giuridica analoga a quella già riconosciuta ai vecchi istituti
contrattuali del ius civile, cioè una tutela costituita da actiones; c che i praetores e gli
altri giusdicenti ordinari, per quanto ben disposti a seguire queste suggestioni, non
erano ormai piú in grado di farlo agevolmente mediante nuovi editti, ma si indus-
sero a farlo solo in modo indiretto e approssimativo, cioè mediante una sorta di
adattamento ai «nova negotia» delle azioni già previste per i contractus civilistici,
quindi col ricorso ad actiones utiles, ari actiones in factian e ad altri ripieghi tecnici
concessi solitamente dì volta in volta, cioè per derrctum.
Dal canto loro, i principe, secondaroiio largamente l'iniziativa, «coprendola»
con la loro cognitio extra ora'inem. Se non fecero di pitL astenendosi cioè dal crea-
re di autorità mezzi giuridici esplicitamente nuovi, fu a causa della toro consueta
politica di formate rispetto dell'antico, particolarmente in materia di ius privatum.
Quanto ai nova negotia, avvenne che alcuni di essi (non tutti) Finirono, a séguito
della loro larga diffusione, per acquistare nell'uso anche il nomen iuris che ini-
zialmente non avevano: il che tuttavia non significa che essi abbiano mai avuto
ciascuno un suo mezzo di tutela giuridica proprio, alla maniera dei vecchi con-
tratti civilistici.
Cominceremo qui col far cenno delle prime sei figure, riservando le
altre ai due paragrafi successivi.
(a) 11 legato per imposizione di obbligo (legatum per damnationem)
era una disposizione testamentaria di cui parleremo più in là [n. 96].
(li) Il legato con prescrizione di permettere (legatum sinena'i modo)
era fondamentalmente analogo al legato obbligatorio, di cui costituiva
una sottospecie. Ne parleremo più in là [n. 961.
(c) La profferta pubblica (pollicitatio) era la «promessa unilaterale>)
di una certa prestazione a beneficio della comunità (generalmente, la pro-
messa di un'opera pubblica). Essa soleva essere fatta da coloro i quali
avessero assunto una carica pubblica (honor), oppure volessero assumerla,
allo scopo di ringraziare per l'incarico onorifico ricevuto o, rispettivamen-
te, per suscitare reazioni favorevoli in vista dell'onore da ricevere (ob ho-
norem decrètum vd decernéndum).
Una forma pit particolare di promessa unilaterale era il votum (voto), cioè
l'impegno assunto verso gli dei (e per essi verso i relativi sacerdoti) ad una certa
prestazione propiziatoria o di ringraziamento.
Pollicitatio e votum furono istituti essenzialmente inerenti all'ordinamento
pubblicistico e ignoti al sistema del ius vetus: tuttavia, in età classica, attraverso il
diffondersi della cognitio extra ordincm, essi si inserirono anche nel ius novum pri-
vatistico. Nel case di votun, si riconobbe ai sacerdoti della divinità interessata il di-
ritto di chiederne l'adempimento extra ordinem. Nel caso di pollicitatio, analogo
diritto si riconobbe in età classica ai pubblici funzionari interessati, ma si ritenne
che l'obbligazione sorgesse solo se e quando l'opera pubblica promessa fosse stata
effettivamente iniziata (opere coqto»). In periodo postclassico, per la pollicitatio
fatta in relazione a una carica pubblica, si proclamò che l'impegno valesse in ogni
modo, mentre per ogni altra pollicitatio (anche, in particolare, se fitta a privati) si
mantenne il principio della subordinazione all'inizio dell'opera.
Per vero, il ius vetzu non conobbe nessun caso di obbligazione alimentare,
perché il carattere rigidamente potestativo della familia romana escludeva la possi-
bilità stessa di concepire un obbligo dei genitori di alimentare i sottoposti e tanto
meno l'obbligo del sottoposto (privo di autonomia giuridica privata) di alimentare
i genitori. L'istituto degli alimenta cominciò a prendere consistenza nel corso del
sec. 11 d. C., quando Antonino Pio e Marco Aurelio lo imposero in casi specifici
assegnandogli una tutela extra vrdznczn. Pio tardi il riconoscimento divenne genera-
le, e in cà postclassica fu, ovviamente, confortato dal cristianesimo, che basò l'isti-
tuto sulla cd. «carità del sangue (càritas sànguinis).
Dobbligo degli alimenti poteva venir meno soltanto per gravi offese che l'ali-
mentando avesse arrecato all'obbligato. L'azione intesa alla sua esecuzione era sotto-
posta a taxatio «in id quodfacere potesi», portava cioè ad una condanna dell'ina-
dempiente entro i limiti delle sue facoltà economiche e non oltre.
requisiti della fartispecie, cioè gli estremi richiesti affinché una li-
bera gestione di affari altrui producesse le accennate obbligazioni recipro-
che tra gestore e titolare furono, in periodo classico, tre: a) la gestio nego-
tiorum afrerius; b) la ge#io sine mandato; c) la genio utiliter coepta.
(a) Occorreva, in primo luogo, che si trattasse di gestione degli affa-
ri di un altro (gestio nego tiorum afrerius). Il gestore era inteso come tale se
compiva attività giuridicamente rilevante, anche non negoziale (es.: la
semina di un fondo), nell'interesse oggettivo ed inequivocabile di un al-
tro soggetto (il dominus negotil).
(1,) Occorreva, in secondo luogo, che si trattasse di gestione non da
mandato (genio sine mandato [n. 771), cioè di attività spontanea del ge-
store: attività cui il gestore non si fosse preventivamente impegnato, per
mandato espresso o tacito, verso il rappresentato (dominus negotii).
(e) Occorreva, in terzo luogo, che si trattasse di gestione utilmente
intrapresa (genio utiliter coepta), cioè di attività concretamente iniziata,
anche se non ancora giunta a compimento, e risolventesi in una reale
utilità, pur se non in un guadagno, per il rappresentato. Dall'affare intra-
preso» (negotium coeptum) scaturiva il diritto del titolare a pretenderne il
completamento e la riversione a proprio favore. Dall'eaffare utile peri! rap-
presentato» (negotium [domino] utile) scaturiva il diritto del gestore a pre-
tendere che il rappresentato se ne assumesse le conseguenze, eventualmen-
te anche onerose, una volta che fosse stato portato a compimento.
Le applicazioni della gestione degli affari, in diritto classico e in diritto
postclassico, furono estremamente varie e talvolta controverse. Sopra tutto si di-
scusse circa il caso in cui il negozio compiuto dal gestore risultasse oneroso finan-
ziariamente per il rappresentato, sebbene a lui sostanzialmente utile, il criterio ge-
nerale che si segui fu quello che l'utilità sussistesse ed impegnasse il rappresentato
quando fossero state compiute erogazioni di carattere necessario o di evidente ap-
344 LE OBBLIGAZIONI NON CONTMTTUALt
portunità, non invece quando fossero state compiute spese superflue (nulla re ui-
guente sed voluptatis causa»).
Si discusse anche circa l'ipotesi in cui un negotium atienum fosse stato intra-
preso dal gestor nonostante la esplicita proibizione del dominus (» ncgotium alienum
prohibente domino utititer coeptum») I giuristi classici riconobbero al negotiorum
gestor se non proprio la normale actio negotiorum gestorum, almeno un'actio utili,
per il rimborso delle spese comunque già utilmente compiute. Giustiniano, invece,
negò ogni rivalsa al negotiorum gestor, a meno che la proibizione del dominus non
fosse pervenuta a conoscenza del gestor dopo l'inizio dell'attività.
La tutela giurisdizionale del rappresentato nei riguardi del gestore
dei suoi affari e di quest'ultimo nei riguardi del primo fu assicurata, come
si è detto, mediante un'azione per affari gestiti (astio negotiorum gestorum,
rispettivamente, directa o contraria) che aveva in età classica due formule:
una in factum ed un'altra in ius «cx fiele bona».
Caso particolare di gestione d'affari fu quello tutelato dallactio Jitneraria
(«azione per i funerali»), cioè dall'azione concessa dal pretore a colui, il quale avesse
sostenuto spontaneamente, in luogo delle persone socialmente tenute a questo
adempimento, le spese necessarie al funerale di un defunto.
improprio) di comodato, deposito e pegno, e dopo che si propagò l'idea della equi-
valenza tra contractus e con ventio, la solatio indebiti non poté che essere estromessa
dal novero dei contratti e passò in quello delle variae causarumfigurae, dal quale no-
vero fini poi per essere riversata nella categoria giustinianea dei quasi contratti.
Il pagamento dell'indebito non escludeva, sempre trattandosi del
caso normale di un'obbligazione di «dare» in senso proprio, che si verifi-
casse il trasferimento della proprietà della cosa data (somma di danaro o
qualsivoglia altra cosa) dal solvente all'accipiente. Il solvente, dunque,
non era più in grado, dopo il pagamento dell'indebito, di esercitare
l'azione di rivendica, ma aveva soltanto un diritto di credito nei riguardi
dell'accipiente al ritrasferimento della proprietà della cosa indebitamente
trasferitagli. Tale diritto alla restituzione si faceva valere mediante un'azio-
ne personale (in personam) denominata azione per la restituzione dell'in-
debito (condictio indebiti).
Per la esperibilità della condietio indebiti il diritto postclassico-giustinianeo
richiedeva il concorso di due requisiti: a) l'error solventis»; b) Ierror accipientis».
Se il solvente non dimostrava di aver pagato per errore, se ne deduceva che egli
avesse voluto gratificarel'accipiente; se l'accipiente non dimostrava di aver ricevuto
per suo errore lindebitum, se ne deduceva che egli avesse commesso furto (sicché al
solvente spettava nei suoi riguardi, non la condicno indebiti, ma la condito cx cau-
sa furfiva, intesa ad ottenere il controvalore della cosa rubata [n. 85]). Tuttavia è
molto discusso se il diritto classico esigesse anch'esso il requisito dell'error soiventis
(salvo che nel caso particolare di adempimento di obbligazioni derivanti da fede-
commesso): i sostenitori della tesi della irrilevanza dell'errore del solvente pensano
cioè che la prova dell'errore compiuto non fosse richiesta, in età classica, per per-
mettere al solvente di esperire vittoriosamente la condictio.
Sia in diritto classico sia in di ritto posrclassico-giusrinianeo, si ritenne peral-
tro che, ove la solsio fosse stata fatta a titolo di adempimento di un'obligatio natu-
rali, In. 591, questo comportamento del dante attribuisse all'accipiente il diritto
alla cd. «solisti retentio» (ritenzione del pagato).
(b) La dazione senza scopo (chitio sine causa), che meglio potrebbe
denominarsi dazione «con sopravvenuta mancanza dello scopo» (datio de-
ficiènte causa), era una prestazione di dare effettuata a favore di un acci-
piente, anche senza una puntuale convenzione tra i due, per uno scopo
ben preciso ed esplicito. Se lo scopo diveniva oggettivamente irrealizzabi-
le, l'accipiente era tenuto alla restituzione di quanto ricevuto. In questa
ipotesi il diritto nuovo, particolarmente del periodo postclassico, conce-
deva al dante un'azione da dazione fatta senza causa (condl ctio sine causa)
analoga alla condictio oh causam datorurn [n. 80] riconosciuta per obbliga-
zioni derivanti da convenzioni del tipo do ut (des, facias)».
346 LE OBBLIGAZIONI NON CONTRATTUALI
(c) La dazione per uno scopo turpe o ingiusto (datio ab turpem vel
iniustam causam) era una prestazione di dare (avente ad oggetto general-
mente danaro) effettuata allo scopo che t'accipiente, anche senza una
puntuale convenzione tra lui ed il dante, compisse una o piti azioni turpi
o antigiuridiche (es., un omicidio) o non fosse impedito dal compierle.
Al dante era riconosciuta la esperibilità di un'azione per la restituzio-
ne (condictio ob turpem [vel iniustami causam), ma solo se non fosse pro-
vato esservi stata «turpitz1do» anche sua, oltre che dell'accipiente. Se vi era
stata «turpitudo» sia del dante sia dell'accipiente, valeva il principio che «a
parità di turpitudine prevale chi tra i due detiene la cosa» (dv pari causa
turpittdinis melior est condii-io possidèntis»).
(d) L'arricchimento ingiustificato (inizbta locupletàtio) era ogni dare,
o fare (o non fare) che per un qualunque motivo, anche se non illecito,
determinasse un arricchimento oggettivamente non giustificato di un sog-
getto, con connesso depauperamento dell'autore della prestazione.
Questa ipotesi ad ampio raggio divenne nel ms novum postclassico, ed in
particolare nel diritto giustinianeo, una fonte di obbligazioni che dette luogo a due
conelictiones del tutto anomale: a) la «condietio ex lege», intesa ad ottenere l'adempi-
mento di qualunque flauti ab1zatio che fosse stata introdotta da una legge senza
specificare un atto particolarmente destinato al suo soddisfacimento; b) la cd. «con-
dictia certi,, (o «condii-tio genera/is»), intesa alla restituzione di qualunque prestazio-
ne fatta ingiustificatamente a favore di altri. Le due condictianes potevano essere
fatte valere, oltre che per la restituzione di un cosa ben determinata (certum) che
fosse stata prestata con profitto ingiustificato dell'accipiente, anche per la rivalsa di
un importo da valutarsi in sede di giudizio (incertum) corrispondente ad una atti-
vità da cui l'accipiente avesse tratto lucro ingiusdficato (nel qual caso si parlò di
«rondictia incerti»).
Sempre nel diritto giusrinianeo l'ingiustificato arricchimento compi, sebbene
in modo non limpido, il salto decisivo per passare da causa di elargizione della con-
dic:io in specifiche ipotesi e con riguardo a specifiche ragioni a principio generale
di applicazione praticamente illimitata. Tutte le volte in cui taluno si fosse comun-
que arricchito a carico di un altro senza una giusta causa, e l'altro non avesse a sua
disposizione un qualche specifico mezzo giudiziario per rivalersi, si ritenne che sul
primo gravasse l'obbligo di indennizzare il secondo nei limiti dell'arricchimento.
Pertanto venne riconosciuta a chiunque la titolarità di un'azione generale (condii-do
genera/is), a carattere di «azione sussidiaria (cioè da esercitarsi in mancanza di ogni
altro mezzo giudiziario), intesa ad eliminare la locuplerazione ottenuta con suo de-
pauperamento da un altro soggetto giuridico.
CAPITOLO XIV
LE OBBLIGAZIONI DI RESPONSABILITÀ
F penalità
- I nossa]'t
caratteri cumulatività
COlULinI
] individualità fintrasmissibilità attiva e passiva)
causali là volontaria (eccezione responsab iliI obb ie Riva)
conseguenze del delitto commesso dal suo sottoposto (oservum ve/flhium defende-
re»). E si noti che la responsabilità do] delitto commesso dal sotEoposto Si trasmet-
teva anche ai successivi aventi potestà sullo stesso (nacxa caput seqwitun, il marchio
della fossa segue l'individuo aurore dell'illecito), sicché l'obbligazione cx delicto re-
lativa era un'obbligazione passivamente «ambulatoria,,, almeno sino a quando il
colpevole venisse a morte. Ad ogni modo nel corso del periodo posiclassico l'isti-
tuto della nossalirà decadde fortemente: Giustiniano abolf l'istituto della nossalirà
Filiale e ridusse quella degli schiavi ad una consegna del colpevole a titolo di risar-
cimento,
Un'antichissima applicazione del principio di nossalirà si ebbe anche in ordi-
ne al caso di paupèries, cioè di «devastazione», e quindi di danno patrimoniale,
causato da bestiame domestico malcautamente custodito. Le XII Tavole introdusse-
ro un'apposita «accia de pauperie», alla quale il dominus delle bestie devastatrici, ove
non volesse riparare il danno con una somma di danaro (noxiam seircire), pareva
sottrarsi mediante la ,wxae dediti, di quelle bestie.
350 LE OBBLIGAZIONI DI RESPONSABILITÀ
In origine l'illecito era costituito dai soli atri di violenza Fisica che ledessero
gli interessi di un gruppo familiare e dava luogo alla talù (la cd. «legge del taglio-
ne»), cioè alla proporzionata reazione all'azione offensiva da parte del capofamiglia
offeso. Le Dodici Tavole portarono ordine e temperamenti alla situazione origina-
ria ed alle incertezze e controversie dalla stessa implicare, distinguendo tre ipotesi:
a) il «membrum ruptum» (<(menomazione dell'integrità fisica»), che consisteva nel-
l'asportazione o inutilizzazione perpetua di un arto e quindi nell'indubbia e defini-
tiva e gravissima diminuzione della integrità fisica del soggetto; b) l'ws fractum»
(fratturazione ossea), che consisteva nella frattura di un OSSO, produttiva, in gene-
re, a guarigione avvenuta, di una malformazione fisica scarsamente influente sulle
attitudini lavorative e sull'estetica della vittima; c) l'«initria> pura e semplice (cd.
«iniuria sfmptex), consistente in ogni altra lesione fisica lieve, di grado minore,
quindi perfettamente guaribile, nonché eventualmente nelle offensive «percosse
(per esempio, schiaffi). Relativamente al mcmbrum ruptum non fu confermata la
liceità della vendetta indiscriminata, ma nemmeno fu abolita la preesistente prassi
del taglione: i decemviri si limitarono a dare rilievo giuridico alla possibilità che le
parti si accordassero con un patto per surrogare la vendetta mediante un risarci-
mento (si membrum rupsit, ni cum cc pacit, talio esto>). Relativamente all'osJ%ac-
tum, fu, invece, del tutto esclusa la vendetta e Ri stabilita una pena pecuniaria fissa
da pagarsi al capo del gruppo offeso (300 assi se la frattura fosse stata prodotta ad
un membro libero del gruppo, 150 assi se fosse stata prodotta ad uno schiavo). Re-
lativamente alla semplice iniuria, fu Fissata infine la pena pecuniaria fissa di 25 assi.
Con l'andar del tempo, il sistema delle XII Tavole si rivelò tuttavia inefficien-
te, anche perché la pena pecuniaria era divenuta sempre pi6 irrisoria a causa della
svalutazione monetaria. Di qui lo spunto per l'intervento del itt8 honorarium. Nel
sec. I a. C. il pretore introdusse infatti l'actio iniuriarum acstimatcria (<azione di
stima delle ingiurie»), infamante, valevole per ogni e qualsiasi caso di lesione offen-
siva, ma intrasmissibile agli eredi della vittima e dello stesso autore dell'illecito:
azione intesa ad ottenere la fissazione di una condanna «in quantum aequum vide-
bitun, una condanna cioè commisurata, sulla base delle valutazioni correnti, alla
entità della lesione prodotta ed alle sue conseguenze di carattere patrimoniale.
Vittima dell'azione ingiuriosa, e quindi titolare dell'azione per la
stima dell'offesa subita (salva la possibilità, quanto allo schiavo, di valersi
in alternativa della legge Aquilia [n. 86]).
Autore del delitto poteva essere, oltre che un soggetto giuridico, an-
che un suo sottoposto: nel qual caso convenuto era l'avente potestà. Il
convenuto poteva, secondo la regola generale, esimersi da responsabilità
mediante la noceste deditio [ n. 841, ma la responsabilità nossale era in tal
352 LE OBBLIGAZIONI DI RESPONSABILITÀ
mano armata, in caso di flagranza, mediante l'uccisione del ladro; ma nelle altre
ipotesi il derubato fu soltanto legittimato ad agire contro il sospetto ladro o contro
il suo capofamiglia mediante un'azione di furto. Per il furto flagrante decadde e fu
abolito il sistema dell'assegnazione giurisdizionale del ladro al derubato e fu intro-
dotta, nei confronti del ladro (o dell'avente potesrà sullo stesso), un'azione di accer-
tamento per il quadruplo della refurtiva. Per i casi di furto non flagrante rimasero
le azioni (per il doppio o per il triplo) già predisposte dalle XII Tavole, ma venne
meno la vetusta perquisitio lance ticioquc se il derubato voleva perquisire la casa del
presunto ricettatore, questo poteva rifiutarsi, e comunque non era tenuto a resti-
tuirgli la resfirtiva. Appunto perciò il diritto onorario formulò due altre ipotesi di
«furto aggravato», concedendo azioni in quadruplum al derubato): a) il «Jitnum
probibitunz» (< furto proibito), che si verificava nel caso in cui l'indiziato di furto si
fosse rifiutato di subire la perquisizione; b) il «fiinum non exhibitum» ( furto non
esibito»), che si verificava nel caso in cui il ricettatore non avesse esibito a richiesta
le cose poi reperite, a séguito di perquisizione, in casa sua.
Il sistema repressivo preclassico rimase formalmente stabile nelle epoche suc-
cessive. Ma, caduta in desuerudine la pratica della perquisizione, caddero progres-
sivamente in desuetudine i quattro casi di furto aggravato ad essa connessi. In di-
ritto giustinianeo le azioni di furto si erano ridotte, pertanto) a quellafi1rti manifi-
sri e a quella Jiini nec maniJèsri.
Come si vede, la regola generale era piuttosto quella del capra tertium, che
non quella del caputprimum. Ma non era questa 'asola singolarità di struttura del
testo aquiliano, perché la legge Aquilia, nel capra secundwm, intermedia tra i due
ora riassunti, stabiliva qualcosa che non aveva nulla a che vedere col danneggia-
mento e che riguardava invece l'adrti»/atio [n. 68]. Tutto ciò induce a sospettare
che il «testo» della lex Aquilia, cosf come era noto ai giuristi del successivo periodo
classico (che son quelli che più ce ne parlano), sia stato piuttosto il frutto di una
strarifìcaiione di leges precedenti.
Lazione spettante al danneggiato contro il danneggiatore (actio legis
Aquiliac) era un'azione penale e reipersecutoria al tempo stesso (dunque,
un'actic mina). Se il danneggiatore riconosceva davanti al magistrato di
aver provocato il danno (cioè rispondeva affermativamente alla domanda
sul se avesse provocato il danno: san damnum dcderi), l'azione (che in
tal caso era qualificata «confessorza») proseguiva contro di lui davanti al
giudice privato esclusivamente allo scopo di determinare, secondo i criteri
stabiliti dalla legge, l'ammontare pecuniario da pagare. Se viceversa il
danneggiatore negava di essere l'autore del danno (e cioè compiva la cd.
injitiatio dzmnr), la fase giudiziale serviva: anzi tutto ad accertare se cioè
avesse provocato il danno dopo di che, risultando al giudice che il danno
fosse stato prodotto proprio dal convenuto, quest'ultimo era condannato,
nel doppio del valore del danno (in duptum).
Titolare dell'azione aquiliana era originariamente soltanto il domi-
no civilistico degli oggetti danneggiati (l'èrus», diceva la legge). Ma in
età classica (e, sulla stessa direttiva, in età postclassica) furono accordate
varie altre azioni (ud/cs o infactum) in analogia alle previsioni della legge
Aquilia (»ad cxnnplum legis Aquiliae») anche a persone diverse dal domi-
no, che detenessero l'oggetto a nome suo (l'usufruttuario, l'usuario, il
locatario, il comodatario), nonché al possessore di buona fede dell'ogget-
to e (caso quasi sicuramente postclassico) al creditore pignoratizio.
La fattispecie del danneggiamento ingiusto venne progressivamente
elaborata in visione unitaria e analizzata in tutte 1e sue varie esplicazioni
dalla giurisprudenza predlassica, classica e postclassica. I requisiti essen-
ziali del delitto (e della sua perseguibilità in giudizio con l'azione aquilia-
na) risultarono, a seguito di questo approfondimento, quattro: a) l'evento
di danno subito da un soggetto; b) la dipendenza causale del danno da
un atto altrui; e) l'ingiustizia dell'arto dannoso; d) il vario tipo di volon-
tarietà del danneggiamento.
(a) Per quanto riguarda l'evento di danno subito da un soggetto (il
cd, danneggiato), vanno precisati tre punti: a) che il danno doveva con-
A RESI'ONSABIIJTA DA [)ANNEGGIA\IENIO INGIUSTO 357
mente assunto. Tali furono una serie limitata di fattispecie in ordine alle
quali la prevalente coscienza sociale ritenne che il debitore, avendo rice-
vuto una cosa in «speciale affidamento», non potesse in nessun modo es-
sere scusato (salvo intervento di forza maggiore o di caso fortuito) per
non averla resa al creditore.
Relativamente a queste fattispecie si usò dire, con espressione contratta e me-
raforica, che il debitore, a prescindere dalle sue ulteriori obbligazioni (di dare, di
facere, di non farne), era tenuto verso il creditore a praestare custodian3, cioè a ga-
rantire che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l'integrità della cosa affidata
alla sua vigilanza, alla sua cura, alla sua attenzione: in caso di mancata restituzione
egli era responsabile verso il creditore senza che quest'ultimo dovesse provare la sua
specifica colpa (nine tu/pa»), quindi esclusivamente sulla base della «custodia» cui
era tenuto. Gli esempi più caratteristici di responsabilità per custodia furono: a)
quello dei comodatario nei confronti del comodante, per avergli questi affidato
gratuitamente e solo nel suo interesse la res commodata [n. 71]; b) quello del lavan-
daio (fi//o) e del sarto (sarcinàtor) nei confronti del cliente (locator aperis [n. 75]),
per il fatto che esercitavano normalmente il proprio mestiere in luoghi aperti al
pubblico e quindi esposti a grande pericolo di furti; c) quello del creditore pigno-
ratizio nei confronti del debitore che avesse compiuto il sacrificio di mettere in sue
mani un pignus (appunto mediante una datiopignoris In. 71]). Ed è quasi inutile
dire che nulla vietava peraltro che si pattuissero tra le parti anche clausole limitati-
ve di tanto estesa responsabilità.
Un terzo gruppo fu quello delle ipotesi di responsabilità commisu-
rate a( vario livello di diligenza comportato dalle specie delle singole
obbligazioni. Tale fu la gran massa dei rapporti di credito non rientranti
nei due gruppi di ipotesi precedentemente accennati: obbligazioni, dun-
que, di dare e di facere, con esclusione di quelle generiche e di quelle im-
plicanti la garanzia della custodia. Indirizzi precisi e dettagliati non si for-
marono. Può solo dirsi, piuttosto all'ingrosso, che la responsabilità del
debitore inadempiente fu subordinata alla volontarietà del suo inadempi-
mento: volontarietà che si espresse con i termini di «colpa» (tu/pa debito-
ris) o anche, senza troppo sottilizzare, di «dolo» (dolus debitoris), cioè con
termini che denunciavano la mancanza nel debitore della diligenza che
un buon capofamiglia (vale a dire un «galantuomo») avrebbe dovuto im-
piegare per tener fede al suo impegno (diligentia beni patris fami/iam).
(b2) Nell'àmbito del diritto nuovo (quindi delle procedure straordi-
narie ad esso inerenti e della giurisprudenza classica e postclassica da esso
influenzata), 1e ipotesi di inadempimento imputabile furono convogliate
verso una sempre piti sottile aderenza alle esigenze delle varie categorie di
obbligazioni. La regola relativa alle obbligazioni negative o alle obbliga-
364 LE OBBLIGAZIONI DI RESPONSABILrTÀ
[heredis sui
adgnatus pioxìntus
I civile i
ge nttles
L
r01•j0 onde liberi (sui e emancipatO
senza per diritto
j onorario
I ordo onde lcgitimi
testamento ordo onde cogna ti
[ordo onde ir ci fixor
a causa
di morte
{discendenti
Giustiniano ascendenti e fratelli germani
con
Urti versa
I INov. 118 Fratelli consanguinei e uterini
altri collaterali
(coniuge superstite?)
T.woi.s XVIII: La successi tino universale o particolare (con speciale riguardo a quella a causa di
morte (11. 9042.
370 LA SUCCESSIONE NEL PATRIMONIO PRIVATO
loro assegnati (bonorum possessi, «sccundum tabutas», cioè «a supporto delle tavole
testamentarie»); c) per ammettere alla successio anche soggetti che il de cuius avesse,
nel suo testamento, tralasciato di nominare (bonorum possessio «contra tabulas», cioè
«in contrasto con 1e tavole testamentarie»). Altri sviluppi della successione contro il
testamento furono comportati, su suggestione della giurisprudenza preclassica e
classica, dalla prassi giudiziale dei centumviri.
Il ius novum e la giurisprudenza del periodo classico e di quello postclassico,
accanto a sviluppi che saranno descritti a suo tempo, operarono in modo apprezza-
bile: prima per il «coordinamento,,, poi per la «Fusione» dei sistemi dell'hereditas e
della bonorum possessio. Sistemi che nella compilazione di Giustiniano erano ormai
unificati spesso nella «successio in izts dejtncti>, anche se furono mantenute le origi-
narie diverse terminologie.
Presupposto della successione nel patrimonio del defunto (successio
in ius defrncti terminologia unificante che adottiamo per comodità di di-
scorso) fu, quanto meno a partire dal periodo preclassico, la chiamata alla
successione (vocatio ad hereditatem o ad bona defrnct1), cioè la designazio-
ne del soggetto destinato ad essere erede o possessore paraeditario dei beni.
Il diritto romano conobbe tre tipi fondamentali di vocazione successoria:
a) la vocazione testamentaria (vocatio ex testamento); b) la vocazione senza
testamento (vocatio ah intestato), che aveva luogo in mancanza di chiamata
testamentaria; c) la cd. chiamata in contrasto col testamento (vocatio con-
tra testa menturn), che aveva eccezionalmente luogo, a dispetto della volon-
tà testamentaria del de cuius, solo in certi casi e subordinatamente a certi
presupposti. Quando vi era un testamento, era anche possibile che singoli
cespiti fossero attribuiti a specifici beneficiari mediante legati (legata) ve-
rificandosi con ciò (secondo la sistematica postclassica) anche una succes-
sione in singoli cespiti (successio in singulas re, dei legatariò. Dentro o al
di fuori del testamento poterono in fine essere disposti anche, come vedre-
mo [n. 96], dei fedecommessi (fideicommissa).
A prescindere dai casi eccezionali di chiamata contro il testamento, la voca-
zione testamentaria prevaleva su quella senza testamento in questo senso: che agli
eredi testamentari (con esclusione, dunque, degli eredi ah intestato) doveva andare
tutto intero il patrimonio «successorio» anche nellipotesi che il testatore avesse di-
sposto solo in ordine a una parte di esso (od anche quando, avendo il testatore di-
stribuito tutto il patrimonio successorio tra pi6 eredi, uno di questi fosse venuto
meno). Si diceva pertanto, con formulazione in verità piuttosto ambigua, che
«nemo pro parte testatus pro parte intestatus dccèdere potesi» (letteralmente: nessuno
può morire avendo testato per una parte del suo patrimonio e non avendo testato
per il resto), volendosi significare (si badi bene) che chi avesse testato solo pro par-
te, cioè solo per una parte del suo patrimonio, avesse con ciò implicitamente esclu-
so applicazione della successione ab intestato per il resto [n. 91].
372 Lk SUCCESSIONE NEL PATRIMONIO PRIVATO
Non di rado il testamentum era munito della cd, clausola codicillare, median-
te la quale il testatore disponeva che, per l'ipotesi di invalidità del testamentum, il
documento avesse almeno il valore di codici/li e 1e disposizioni in esso contenute
acquistassero pertanto carattere di fideìcornmissa.
378 LA SUCCESSONE NEL PATRIMONIO PRIVATO
fossero pio in potestate di lui al momento della sua morte: quindi, sia dai sui here-
des, che da coloro che fossero stati eznancipati dal penerfamilias prima della morte.
Ai «postumi sui» era parimenti assegnata una quota: se la natia possessionis era effet-
tuata dal praetor agli altri richiedenti prima della loro nascita la quota era accanto-
nata in attesa della nascita e affidata all'amministrazione di un «curàtor venti-is,
(«curatore del ventre» En. 9]), cioè di una persona addetta a controllare le vicende
della moglie che il de cuius avesse lasciata incinta (cd. «bonorum possessio ventris
nominn). La bonorum possessio dei liberi era, di regola, inclusiva dell'eredità (<cum
in), quindi con prevalenza sugli eredi civili.
(b2) 12 orlo «unde legitimi» era costituito dai successibili iure civili (cioè dagli
heredes legitimi») nell'ordine di preferenza fissato dalle XII tabulae: anzi tutto gli
heredes sui (se già noti avessero chiesto e ottenuto i bozza come liberi), subordinata-
mente gli agnati (peraltro non limitati a quello ,praximus, ma sino ad esaurimento
dei gradi collaterali agnatizi), subordinata,neiite ancora i gent-ites. La bonorum poi-
sessio dei tegitimi era s,in, re», cioè non era inclusiva dell'eredità, sicché non preva-
leva nei confronti degli heredes legitimi di grado poziote clic avessero omesso di ri-
volgersi al praetor, preferendo l'esercizio delle azioni civili.
(0) Lordo «unde cognati» era costituito dai parenti di sangue (cognat), in
quanto non ammessi all'ordo precedente, graduati in progressione (proximitas) sino
a tutto il sesto grado. La bonorum possessio dei cognati era sempre «fine re.
(b Lordo «unde vii et uxor» era costituito dal «coniuge superstite» (marito
o moglie) del de cuius. A lui la bonorum possessio era assegnata «fine re».
(b5) Ove il de cuius fosse un manumissus (in particolare un liberto): nell'or-
do «unde liberi» erano chiamati per metà i Liberi veri e propri e la sua uxor in manu,
per l'altra metà il patronzu; nell'ordo «unde legitimi» erano chiamati gli eredi civili
(compresi, dunque, il patrono e la patrona); nell'orda «onde cognati» erano chiamati
i parenti di sangue. Subordinatamente, ottenevano la bonoruin possessio (undefa-
milia patroni») i Camiliari e i parenti anche non agnatizi del patrono,
(c) Il diritto nuovo, classico e postclassico, introdusse vari ritocchi al
sistema civilistico, non solo per adeguarlo ai principi della successione
diritto onorario, ma anche e sopra tutto per integrano e correggerlo là
dove esso presentava la sua lacuna più grave: la insufficiente valorizzazio-
ne della cognazione come fondamento della successione intestata.
Vanno particolarmente segnalati i due senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano,
del sec. li d. C., con i quali si provvide rispettivamente ad assicurare la successione
della madre ai figli e la successione dei figli alla madre. In conseguenza di questi
due provvedimenti nortnativi, la madre e i figli furono portati dal pretore a far par-
te dell'ora, «rrnde legitizni».
(d) Giustiniano non riformò il sistema successorio intestato nella sua grande
compilazione, ma lo fece mediante due importanti novelle (nuove costituzioni)
successive alla Compilazione (la 118 del 543 e la 127 del 548). 1 successibili furo-
no da questi provvedimenti ripartiti (sempre con rispetto della regola della successio
ordinum et graduu,n seguita dal pretore) in quattro classi: a) d kcendrnti in linea
TA CHIAMATA CONTO li TESTAMENTO 381
tanto, ogni acquisto effettuato daII'heres al di fuori della successio al suo ascendente
frunasse integralmente a lui.
(h2) Il beneficio della separazione (ben efi cium separationis) fu creato
dalla giurisprudenza classica allo scopo di favorire gli schiavi liberati e
istituiti eredi (heredes necessari,). Dato che usualmente l'istituzione di uno
schiavo come libero ed erede era fatta proprio per poter far operare la
vendita Forzata del patrimonio ereditario nel nome di lui (e per far quindi
ricadere sul suo capo l'infamia conseguente), all'istituito si riconobbe al-
meno la possibilità di ottenere, sempre che l'intromissione (l'immixtio)
non avesse avuto luogo, che gli eventuali suoi acquisti successivi alla ven-
dita del patrimonio ereditato fossero sottratti alle pretese dei creditori
ereditar?. L'esecuzione era effettuata in suo nome, ma ai creditori ereditari
era impedito di rivalersi su lui, in futuro, per quella parte dei loro crediti
verso il defunto che non fosse stata soddisfatta.
(bffi) Il beneficio dell'inventario (beneficium inventàrii) fu introdotto
infine da Giustiniano a favore degli eredi volontari allo scopo di incorag-
giarli all'accettazione di un'eredità prevedibilmente passiva. Il chiamato
poteva, nei trenta giorni dalla notizia della successione, far procedere ad
un inventano dell'attivo ereditario da un pubblico notaio (tabularius) e
dichiarare di accettare la successione entro i [imiti dell'attivo stesso (intra
vires hereditàrias): per il che egli rimborsava i creditori ereditari man
mano che gli si presentassero a riscuotere, ma non era tenuto ad alcun
pagamento verso chi chiedesse il rimborso dopo l'esaurimento dell'attivo
inventariato,
(c) Nell'ipotesi di pluralità di successori, i diritti (trasmissibili) pro-
venienti dal de cuius spettavano ad essi a titolo di comunione ereditaria,
nel senso che ne erano tutti insieme titolari. Conseguentemente gravava
su tutti insieme i successori la responsabilità per i debiti del defunto. Per
ottenere la «divisione ereditaria» tra i comunisti, se non interveniva un
accordo tra gli stessi, si ricorreva dagli interessati all'esercizio di un'appo-
sita azione divisoria dell'eredità (actia familiae erciscundae [n. 321).
(ci) Se uno tra i piú chiamati ad una comunione successoria non
voleva (a causa di rinuncia) o non poteva (a causa di morte o altro)
operare l'acquisizione successoria, gli altri chiamati avevano un diritto
di accrescimento (ius adcrcscendi), in forza del quale tutto ciò che sa-
rebbe a lui spettato (sia in attivo che in passivo) si accresceva (e riparti-
va a favore loro. Se i chiamati a succedere avevano frattanto già operato
l'acquisi-tionc succcssoria della loro parte, non era dunque loro possibile
LE CONSEGUENZE DELLA SUCCESSIONE 389
vilistico spettava, come mezzo di difesa giudiziaria del suo titolo di ere-
de, un'azione reale denominata petizione di eredità (hereditatis petitio); al
successore pretorio era concesso, a tutela del suo potere giuridico di ac-
quisire i beni del defunto, l'interdetto «quorum bonorum»,
(dl) La petizione di eredità (herea'ztatis petitio) era una azione spet-
tante all'erede contro chiunque, trascurando questa sua qualifica, pre-
giudicasse concretamente i diritti (assoluti o relativi) da lui acquisiti a
causa della successione: essa tendeva, dunque, anzi tutto all'accertamen-
to della qualifica di erede e, subordinatamente, alla condanna di colui
che avesse usurpato i diritti assoluti e relativi costituenti il patrimonio
ereditario.
Malgrado questo suo vastissimo arco di applicazione, si trattava tuttavia, nella
forma, di un'actio in reni, si che il convenuto era sempre qualiFicato «posS?sWfl: il
che si spiega solo riportandosi alle origini dell'istituto, che nel sistema del in; Qui-
ritiu,,z, cioè prima del riconoscimento giuridico delle obligationes En. 581, consistet-
te in una vindicatio (più tardi trasfusa in una legi; artio sacramenti in rem), con la
quale l'hercs reclamava gli oggetti del rnancipiuin del proprio antecessore presso il
possessore abusivo. Nella procedura dell'ordo iudiciorum privarorum il convenuto
era condannato al conrrovalore dell'eredità al momento della sentenza del giudice
(quanti Ca i-cs erit»); tuttavia, essendo l'hereditaiì, pctitio un indi ciura arbitrariurn
[n. 23], egli poteva assicurarsi l'assoluzione mediante io spontaneo preventivo ripri-
stino dello statu; quo ante.
Convenuto poteva essere, in diritto classico: a) il cd, poss?ssor pro herèdn
cioè colui che posseciesse» il patrimonio ereditario affermandosi, in buona o in
mala fede, berci e confidando di poterlo dimostrare; b) il cd. «possèssor pro possesso-
re», cioè colui che possedesse in tetto o in parte il patrimonio ereditario senza af-
fermarsi heres, ma col semplice e inequivocabile animus sibi babeneil, confidando
che l'attore non riuscisse comunque a provare il proprio titolo di erede. Sulla base
di un senatoconsulto Giuvenziano (129 d. Ci. la giurisprudenza classica ritenne
che potesse essere convenuto anche chi più non possedesse le rei hereditariae per
averle preventivamente alienate; spunto in base al quale il diritto postclassico am-
mise che l'azione potesse essere esercitata persino contro il cd, «fictus possessor»
(<possessore fittizio»), cioè contro colui che si fosse sbarazzato dolosamente delle rei
hereditariae («qui dolo desiit possidere») o che dolosamente si fosse dato a inrendcre
quale possessor delle stesse (qui dolo liti se optulit») allo scopo di lasciare frattanto al
vero possessore il tempo di acquistarle per usucapione.
(d2) L'interdetto quorum bonoruin (cosf denominato dalle parole
iniziali della formula) era dato al successore di diritto onorario (bonon,m
possessor) per ottenere da chi li possedesse (ed eventualmente anche dal-
l'erede civilistico, nel caso di bonorurn possessio cum re) la restituzione dei
beni a lui attribuiti dal pretore 11 dubbio se a lui il pretore abbia conces-
LA SUCCESSIONE PER LEGATO E PER FEDECOMMESSO 391
rio, insegnò che il giorno della riserva del diritto, il momento da cui i]
legato era «riservato» al legatario (eI/e, cèdens) coincidesse in ogni caso con
la morte del testatore: regola che si applicava sia ai legati puri che a quelli
sottoposti ad un termine iniziale certo nel quando. Per i legati sottoposti
a termine incerto nel quando oppure a condizione sospensiva era invece
necessario attendere il giorno dell'avveramento della circostanza terminale
o condizionale, cioè il momento dell'esigibilità del diritto (dies vèniens).
fini per essere assorbita dalla cognitio cxtra ore/inciti dei principi: pertanto l'ingresso
dei fedecommessi nei mondo del diritto divenne indiscusso e fece s( che essi assu-
messero carattere surrogarorio (e, in caso di conflitto, addirittura prevalente) non
solo rispetto ai legati, ma anche rispetto alle istituzioni di erede.
(I) Un'applicazione speciale del fieieicommissum fu costituita dal cd.
fedecommesso di eredità (fideicommissum hereditatis), cioè dalla richiesta
rivolta all'erede di trasmettere, in tutto o in parte, la sua eredità (o la sua
quota ereditaria) ad altra persona: cosa resa piuttosto complessa dal fatto
che l'eredità era comprensiva di crediti e debiti, di cui la cessione al fede-
commesso era turraltro che facile.
Un senatoconsulto Trebelliano (56 o 57 d. C.) dispose che il fedecommissario
di eredità Fosse parificato ad un erede (hcredz loco) e godesse quindi di azioni ere-
d irarie in via utile. Un successivo senatoconsulro Pegasiano (dell'eti di Vespasiano:
forse 75 d. C.) stabili peraltro che, in ogni caso, aIIhcres rogatu:, cioè richiesto di
trasferire eredità al fedecomn,issario, fosse riservato un quarto dell'asse ereditario
(cd. «quarta Pegasiana»), ad imitazione della quarta Falcidia.
(e) Il fedecommisso diventò, in tal modo, un istituto molto diffuso,
che in periodo poscclassico mostrò chiara tendenza ad assorbire in sé
quanto meno i legati, tanto più che per questi ultimi non vennero più
richieste forme determinare. Giustiniano concluse il processo evolutivo
equiparando negli effetti i legati ai fedecommessi (per òmnia exaequàta
sunt legata fideicommissis»).
INDICE DEGLI ARGOMENTI
Pauliana 89 -. onorario 23
- penale 84 - penali 23
- per appropriazione indebica 36 - - create dal diritto onorario: annualirà 84
per corruzione di schiavo altrui 87 - - intrasmissibilita attiva 84
per i funerali 82 - - - ereditaria 84
- per il comprato 73 -. -. -. passiva 84
- per il condotto 75 - - riconosciuto dal dir. cm: perpetuità 84
-. per il contenimento dell'acqua piovana 45 - personali 23
per il locato 75 - reali 23
- per il peculio 20 -. reipersecutorie 23
- per il ricavo 20 -. utili 23
- per, il socio 76
- per il venduto 73 Banchiere 79
- per la conferma della senrenza 25 bassezza morale IO
-. per la distrazione dei conti 39 beneficio dell'astensione 95
- per la restituzione dell'indebito 83 - dell'inventano 95
- - di una somma di denaro 70 -. della cessione dell'escussione 68
per l'integrazione della legittima 93 - delle azioni 68
- per timore 18 - della divisione 68
- personale 8 - della separazione 95
- del mutuante 70 beni caduchi 94
di pegno 71 - materni 34
- pigneratizia reale 57 -. vacanti 94
popolare 84 bilateralità dei contratti 72
-. processuale 21 bis de eadem re 25
- Publiciana 47
- - applicazioni 47 Caccia 44
-. reale 8 caduca 94
-.- superficiaria 55 canone 56
- reciproca 71 capacità astratta di agire 15
redibicoria 73 - dei tutori 39
- reipersecutoria 84 - di agire 15
-. sacramentale relativa a una cosa 22 - dei ubendi 35
- - - alla persona del convenuto 22 - di essere istituiti eredi 91
-. Serviana pignoratizia 57 - di testate 91
- sostanziale 21 - di unione sessuale dei coniugi 35
-. triburoria 20 caparra 74
- utile imitaciva della rivendicazione 47 capitano della nave 20
azioni adiettizie 20 capofamiglia 28, 49
arbitrarie 23 carattere prevalente della proprietà preroria 47
- civili 23 - provvisorio della proprietà pretoria 47
con trasposizione di soggetti 23 - sostitutivo della proprietà pretoria 47
- derivanti da locazione di cosa 75 caratteristiche della locazione di opere 75
di buona fede 23 caricamento marittimo 75
- di legge 22 caso fortuito 88
- distretto diritto 23 castrato 35
- dirette 23 causa del dredito 44
-. inerenti la compravendita 73 del matrimonio 35
- miste 23, 84 - della stipulazione 67
398 INDICE DEGLI ARGOMENTI
convenzionato 57 - - anomalo 30
- dato 57 - - uormale 30
-necessari. 57 - naturale 29
- - giurisdizionale 57 para-ereditario del patrimonio 26
legale 57 - - - contro il restamellto 93
- promesso 57 - - - secondo il testamento 91
risultante da atto pubblico 57 - - - senta testaniento 92
-. - da scrittura privata - per conto di altri 29
-. volontario 57 - perse stessa 30
penalità delle obbliga, primarie da illecito 84 - su iniziativa privata 30
percezione dei frutti 44 sviluppo storico 29
perduranza del consenso delle parti 77 possesso re del diritto 30
periodo arcaico 5 - effettivo 45
- classico 5 - fittizio 45
- del lLXttO 35 possibilità della prestazione 61
- postclassica 5 posta sacramentale 22
- preclassico 5 posrlìminio 9
permuta 80 postumi 9!
perpetuati. abligationis 89 - adgnati 91
persona 8 - alieni 91
- giuridicamente autonoma 9 - altrui 91
- subordinara a manci pio 33 - propri del testatore 91
- sui iuris 9 -nn 91
personalità della presta, del locat. di opere 75 potere giuridico 3
persone giuridicamente dipendenti 9 poteri del creditore pignoratizio 57
- giuridiche Il potestà 28
minorate 15 - domi n icale 46
pertinenza 13 - familiari spettanti ai folle 41
pesca 44 padronale 28. 46
perirum processuale 24 - paterna 33
petizione di eredità 95 -. sui liberi subordinati a mancipio 33
piacevolezza atrrartiva 50 praestare cusrodiam 88
piantagione 44 precario 80
piccura 44 precarista 80
piombatura 44 p red iatu ra 66
pittura 44 prelegato 96
plebaglia 9 premessa 24
pluralità di soggetti 60 prenome 9
podere ereditario 28 resa corporale stragi idizial e 22
pontefici 6 prescrizione acquisitiva per lungo tempo 47, 48
possesso 29 - - per decorso di lunghissimo tempo 48
- a proprio conto 29 - esti n Uva del credito 63
-. civile 29. 48 presenza delle parti 25
-. come rapporto giuridico 30 prestazione 61
- da concessione 30 —degli interessi 61
- di diritti 30 - di rendita 61
- elaboraaione giurìsprL]denzìale 30 - in itiogo di adempimento 62
-. extragiuridico 29 prestito ad interesse niari ti i mo 70
-. interditrale 30 presunr.ione muciana 36
INDICE DEGlI ARCONI ENTI 409
servi 9 - universale 76
- della glcha 10 sodalizì 11
scrvitt 52 soddisfazione 62
- anomale 51 soggetti attivi 57
- Ca regoria generale 50 - - del dominio civilistico 43
-. concorso dei due titolari 50 - delle obbligazioni 60
-. di acquedotto 5' - giuridici 3
- di cammino Si costituenti la doic 37
- di condurre 51 - - i mmarerial i Il
—di strada 5! - - incapaci dì agire 38
- inalienabilirà del diritto $0 - - incorporali Il
- i pidivisibi I ir del rapporto 50 - - inregrali 9
- irregolari 51 - - limitati IO
- legali 48 - passivi di'! dominio 43
- malicipi 5 soggetta attivo 3
- negative 52 - - del l'adenipimenro 62
- non mancipi 51 - passivo 3
- perpetuirà della causa 50 - - dell'adempimento 62
- possibilità del rapporto 50 - - vincolato a titolo meraforico 58
- prediali 49. 50 soggezione 3
- come paradigma 50 salario 55
- - in periodo posrclassico 50 sorveglianza sulla condotta del pupilla 39
- - principi caratteri srici 50 sostituzione a1 pupilla 39
- - regime 52 - dellerede 91
- tipicità delle esplicorioni 50 - giuridica 20
- pretorio 51 - materiale 20
- provinciali 51 - ndlartività ncgoziale 20
- regolari 51 - ordinaria 91
- rustiche 28, 5' - pupillare 91
- storia dell'isrì ruto 50 sorroposi,ione a mano nlarirale 9. 33
- urbani 51 sottoposte a tutela 40
sesso femminile lO. 15 savranitl I
- maschile 15 spazio dì confine 43
sAda al giuramento sacralc 22 ,p,tifi,iù della condanna 27
silenzio 18 i picontrate dal conven LItO 45
singrafa 69 sponsorinazi one 67. 68
sistemi normativi 6 sralliere 79
- p rocedurali 21 stato i
situazioni giuridiche attive 8 star aro del la cittadinanza 8
- - passive 8 - della libertà 8
società Il, 76 - familiare
- a terni ne 76 - personale 8
- leonina 76 stipulanie aggiuntiva 68
- lticrariva generale 76 sripip razione 67
- per il commercio degli schiavi 76 - aggiuntiva 68
—per l'appalto del reddito di imposte 76 - Aquiliana 68
- per I esercizio dei poe,oi, ad in reresse 76 - di penale 68
- - dellarrivirà bancaria 76 - origini e primi sviluppi 67
- politica I - relativa a reni 67
412 INDICE DEGLI ARGOMENTI
-. dì gradimento 40 Vadiatura 66
- fiduciario 40 vaLlimonio giudiziale 25
- legittimo 39 - stragìudiziale 25
- - della donna 40 vai utabil i rà economica dell ,i prestaziolle 61
- testamenrario 39 vecrìgal 56
- - della donna 40 vendita a realì7.zazione difTerici 73
tutori speciali 39 -_ all'asta 74
- di speranza 73
forzata del patrimonio 26
Udienza episcopale 27 - - parcellare 26
ufficiali giudiziari statali 27 - per distrazione 73
ufficialità del procedimcnro 27 venditore 73
ultrasetrenni IS veri ficazione della circostanza 19
unione degli schiavi: convivenza 46 versamelito o getto iricauti 87
-. matrimoniale futura: inammissibilità 36 Venali 40
- paramatrimoniale 35 vice sacra 27
unità del procedimento 27 vicende del dominio quirirario 44
universalità dì cose 13 - delle obbligazioni 63
uso 29 violazione dell'affetto verso i parenti 93
- autorizzalo 29 - di sepolcro 87
- della cosa comodata 71 violenza morale IS
- maritale 33 vis compulsiva IS
- pacifico e ostentato 29 - maior 88
- prolungata 29 vittima del furto 85
- senza frutto 54 - detPaiione ingiuriosa 85
3sucapione 48 vocazione alli successio ne 90
- a titolo di erede 94 -. contro il testamento 90, 93
- della libertà del fondo 52 vocazione intestata 90, 92
- di servitù 52 vocazione testamentaria 90
- di usufrutto 53 volontà coniugale 35
usufrutto 49 53 - dell'autore del negozio 18
- Cara( rcristiche esenzìili 53 - della frode 89
- sviluppo storico 53 - delle parti 67
- tutela 53 - dì possedere 30
usufruttuarìo 53 - negoziale 18
utilità dclloggerto giuridico 12 volontarietà del danneggiamento 86
- oggettiva del rapporto 50 - dell'eFfetto furtivo 85
utilizzazione dei negozi inutili 16 voto SI
Sramp.iro nei luglio 2002
nelle officine grafiche
della Crafiralia sri.
Cercola (Napoli)