Musica e Paolini

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Presenze musicali

nelle sceneggiature
di Pasolini

roberto calabretto

All’interno della poliedrica attività cinematografica di Pier Paolo Pasolini,


l’esperienza di sceneggiatore costituisce un filo rosso che attraversa gli
anni della sua vita. Ancor prima di essere regista, com’è noto, egli aveva
collaborato con Mauro Bolognini, Mario Soldati, Florestano Vancini e Fe-
derico Fellini alla stesura di alcune sceneggiature dei loro film.1
«Nel caos affollato ed entusiasta che era il cinema italiano degli anni
Cinquanta, con i progetti e i copioni che venivano presentati e respinti,
[che] passavano di mano in mano»,2 egli aveva così prestato a questi regi-
sti la sua mano poetica e offerto la sua conoscenza dei luoghi e della realtà
della capitale, utilissima nelle fasi di allestimento di un film.
A distanza d’anni, all’interno di alcuni scritti dedicati al cinema risa-
lenti al 1965 e poi confluiti in Empirismo eretico, Pasolini ha dedicato una
riflessione molto profonda e di grande interesse alla sceneggiatura so-

1 Per quanto riguarda l’esperienza di Pasolini come sceneggiatore, in questo arco di tempo,
si veda T. Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pier Paolo Pasolini e il cinema prima di «Accattone»,
Milano-Udine, Mimesis, 2017.
2 W. Siti e F. Zabagli, Note all’edizione in P. P. Pasolini, Per il cinema vol. II, Milano, Mondatori,
2001, p. CXVII.

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stenendo che essa sarebbe il luogo in cui letteratura e cinema giungono
a incontrarsi e intrecciarsi costituendo un unico tessuto narrativo. Egli,
pertanto, aveva definito la sceneggiatura come un vero e proprio genere
letterario che la rende «un’opera integra e compiuta in sé stessa» ma, allo
stesso tempo, finalizzata ad una realizzazione successiva, ossia la traspo-
sizione cinematografica. Era, pertanto, uno stadio preparatorio a qualcosa
che si sarebbe realizzato in un secondo momento.
«Nel dettaglio essa non è che un vuoto» scrive Pasolini «una dinamica
che non si concreta, è come un frammento di forza senza direzione, che
si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcriti-
co non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l’opera»3.
Detto altrimenti, la sceneggiatura non possiede una presunta autonomia
la quale, invece, si realizza, mediante la sua trasposizione nella pellicola.
La caratteristica precisa del segno della tecnica della sceneggiatura è quel-
la di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e
riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato se-
condo la strada normale di tutte le lingue scritte e specifiche dei gerghi
letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato,
rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi.4
Date queste premesse, le sceneggiature pasoliniane sono un testo che
presenta una duplicità: hanno un’autonomia letteraria ma sono funzio-
nali alla realizzazione di un film. Presentano una struttura diacronica per
cui sono animate da un puro e semplice “dinamismo”, da una “tensione”,
che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica,
quella della narrativa, a un’altra struttura stilistica, quella del cinema e,
più profondamente, da un sistema linguistico a un altro.5
Non a caso, all’interno di un’intervista, Pasolini ebbe a dire: «Ho un’i-
dea e subito sento una specie di felicità o di violenza che mi guidano. Ed è
così che scrivo dalla prima all’ultima parola senza l’ombra di una minima
esitazione e quindi di angoscia. Le mie sceneggiature nascono come na-
scono e non le ho mai riscritte. […] L’ispirazione interviene soltanto (e in
modo assolutamente imprevedibile) al momento di girare»6.

3 P. P. Pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», in Empirismo
eretico, Milano, Garzanti, 1991, pp. 188-189.
4 Ivi, p. 190.
5 p.p. pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», cit., p. 195.
6 Intervista a Pasolini contenuta in Cahiers du cinéma. Qui tratta da I. Cardazzo, “Accattone”
di Pasolini. Dal testo al film, Bologna, Pendragon, 2008, p. 11.

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Fabien Kunz-Vitali, a tal fine, per mettere in risalto le modalità con cui
Pasolini scriveva le proprie sceneggiature, analizza un passo da quella de
Il capo della televisione, episodio centrale della sceneggiatura che Pasolini
scrisse con Franco Citti e Fabio Paradisi per L’Histoire du soldat, un film che
poi non fu girato a causa della morte del poeta. Mettendo a confronto un
suo episodio di con quello del Soldato, un copione del film scritto da Citti
e Paradisi che precedette la stesura della sceneggiatura vera e propria in
cui intervenne la mano di Pasolini, lo studioso ben mette in rilievo alcuni
tratti che inequivocabilmente mettono in risalto il suo apporto.
Si tratta di un esempio flagrante di dilatazione significativa, la quale,
rapportandosi all’ambientazione dell’episodio centrale della trama, agi-
sce poi su buona parte del seguito narrativo. Siamo a inizio episodio, alla
prima sequenza descrittiva, volta a fissare le coordinate spazio-temporali
dell’inquadratura. Laconica ed efficace, l’esposizione della prima proposta
che segue l’usuale didascalia scenica («est. campagna giorno crocicchio»):

Ninetto solo lungo una stradina ci viene incontro, esce di campo. Per un momen-
to vediamo il campo vuoto: più strade di campagna che s’incrociano. Il soldato
rientra in campo perplesso, prende la strada di sinistra [...].

Si confronti ora questo brano con quello che lo sostituisce nella versione
definitiva:

È già alto il sole, e splende sulla campagna lombarda. È un luogo stranamente


deserto, forse sull’ansa di un fiume: con file di altissimi pioppi e marcite. La piccola
strada accuratamente asfaltata per cui Ninetto ora cammina – oltre il ponticello
su un profondo borro straordinariamente verde – si dirama in due piccole strade
altrettanto bene asfaltate. Ninetto si ferma grattandosi la testa.

È subito evidente che nelle due versioni la sostanza narrativa è ritagliata


e restituita in maniera differente. Diremo che, nella fattispecie, le modi-
fiche pasoliniane sottendono, anzitutto, 1) la volontà di articolare l’inqua-
dratura, ma anche 2) la volontà di scandire e focalizzare diversamente la
materia in modo da valorizzarla secondo una strategia, come vedremo,
ben precisa.7
Come aveva ben scritto Ugo Casiraghi, nella sua Introduzione a una
raccolta di sceneggiature del regista, il cinema di Pasolini «è meno
“letterario” e le sue sceneggiature sono più “cinematografiche” (anche se
di una piacevolissima lettura […]) di quanto fosse lecito attendersi dal suo

7 F. Kunz-Vitali, Macchine infernali (da far inceppare). Per una lettura de L’Histoire du soldat di
Pier Paolo Pasolini, in “Studi pasoliniani”, 9, 2015, p. 62.

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passato di scrittore». Pasolini, in definitiva, appartiene a quegli autori
che “vedono” interamente il film prima di farlo. Perciò dispone sulla carta
una successione di quadri che resterà pressoché inalterata: divenendo se-
quenze, le scene acquistano robustezza e non perdono immaginazione»8.

Luoghi musicali nelle sceneggiature di Pasolini

Le sceneggiature di Pasolini presentano una caratteristica pressoché uni-


ca nella storia del cinema italiano per cui sono affollate da un seguito di
descrizioni musicali che, oltre a sottolineare la centralità del linguaggio
sonoro all’interno della filmografia del regista, mettono in risalto come la
musica sia un elemento di fondamentale importanza del suo «cinema in
forma di poesia».
Alla definizione di quest’accezione, vero e proprio paradigma esteti-
co di tutta la sua esperienza cinematografica, Pasolini ha dedicato molte
pagine della sua produzione saggistica in cui ha anche cercato di mettere
in risalto quali siano gli stilemi che concorrono a formare la poeticità del
cinema. In un noto saggio, Il cinema di poesia, egli dichiara:

La prima caratteristica di questi segni costituenti una tradizione del cinema di


poesia, consiste in quel fenomeno che normalmente e banalmente vien definito
dagli addetti ai lavori con la frase: «Far sentire la macchina». Insomma, alla gran-
de massima dei cineasti saggi, in vigore fino ai primi anni sessanta: «Non far sen-
tire la macchina!», è successa la massima contraria. Tali due commi, gnoseologici
e gnomici, contrari, stanno lì, inequivocabilmente, a definire la presenza di due
modi diversi di fare il cinema: di due diverse lingue cinematografiche9.

La contrapposizione che Pasolini pone fra cinema in forma di poesia e in


prosa trova una riuscita esemplificazione anche a livello musicale per cui,
da un lato troviamo le colonne sonore che “si fanno sentire” analogamen-
te alla macchina da presa, mentre dall’altro abbiamo gli accompagnamen-
ti prosaici e di routine che scorrono senza essere notati dal pubblico.
Le scelte musicali adottate da Pasolini nella sua attività di regista deri-
vano dalle esperienze, dagli incontri e dalle letture dei suoi anni giovanili.
Pasolini non aveva una competenza musicale supportata da conoscenze
scientifiche e possedeva un repertorio musicale limitato e circoscritto ai

8 U. Casiraghi, Introduzione a P. P. Pasolini, Accattone, Mamma Roma, Ostia, Milano, Garzanti,


1993, pp. 7-9.
9 P. P. Pasolini, Il «cinema di poesia», in Empirismo eretico, cit., p. 184.

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principali nomi del classicismo europeo, quali Johann Sebastian Bach,
Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven. La grandezza della
sua operazione nasce, pertanto, dalle modalità con cui egli sapeva usare
questi materiali a contatto con il mondo delle immagini, creando quel
connubio che renderà straordinarie alcune scene di molti film.
L’originalità delle sue scelte, spesso denigrate e violentemente censu-
rate dalla stampa e dal pubblico, traspare in maniera visibile anche dall’a-
tipico rapporto ch’egli ebbe con i musicisti chiamati a collaborare per la
realizzazione delle sue colonne sonore. Volutamente abbiamo detto “col-
laborare”. Infatti, se nel suo cinema la funzione della musica è importan-
tissima, d’altro canto il ruolo del musicista molte volte, soprattutto nei
primi film, è destinato a rimanere confinato dietro le quinte e a svolge-
re le semplici mansioni del tecnico che realizza le decisioni già adottate
dal regista. La musica, infatti, in lui era preesistente alla realizzazione del
film e poeticamente si univa alle immagini grazie ad un medesimo istin-
to espressivo. Sin dalle sue prime pellicole, egli era convinto, e a questo
suo convincimento egli rimarrà sostanzialmente fedele nell’arco di tut-
ta la sua produzione cinematografica, che la musica di repertorio fosse
la più indicata per il suo cinema.10 In lui agiva la consapevolezza che la
colonna sonora di un film non dovesse semplicemente limitarsi a fornire
un supporto di commento o di accompagnamento. La musica piuttosto
costituiva un dato autobiografico, parte rilevante del suo bagaglio cultu-
rale a cui le immagini del cinema conferivano una nuova funzione. È per
questo ch’essa era preesistente alla realizzazione del film stesso, tale è la
portata dei significati e delle istanze espressive che Pasolini attribuiva al
singolo frammento o tema musicale. Non a caso, quando si troverà a do-
ver giustificare le scelte musicali di Accattone, violentemente attaccate o
nel migliore dei casi accettate con perplessità dalla critica, lo stesso Paso-
lini affermerà a chiare lettere:

Prima ancora di pensare ad Accattone, quando pensavo genericamente di fare un


film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di
Bach; un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di
Bach è la musica a sé, la musica in assoluto... Quando pensavo ad un commento

10 Proprio per questo suo servirsi di repertori già esistenti, distanziandosi dalla consuetu-
dine allora in voga di avvalersi di musica scritta appositamente per il film, già nel 1963 il
musicista Vittorio Gelmetti riteneva le colonne sonore di Pasolini di eccezionale interesse
e lo definiva un regista unico: «il caso di un regista che, almeno per ora, fa costante ed
esclusivo uso di musiche preesistenti» V. Gelmetti, La musica nei film di Pasolini, “Filmcriti-
ca”, Roma, nn. 151– 152, novembre–dicembre 1963, p. 570.

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musicale, pensavo sempre a Bach, irrazionalmente, e così ho mantenuto, un po’
irrazionalmente, questa predilezione iniziale.11

La musica, pertanto, precedeva le fasi dell’allestimento di un film e Paso-


lini molte volte proprio nelle sceneggiature indicava i luoghi e talvolta le
caratteristiche e le funzioni della sua presenza. Motivo per cui lo studio
di questi materiali si rivela di grande importanza per capire la presenza
della musica all’interno del suo cinema.12

Il paesaggio sonoro

Il primo elemento che traspare dalle sceneggiature pasoliniane è la sua


grande, unica e poetica, capacità di leggere la realtà in termini di paesag-
gio sonoro. Il suo cinema è così affollato dalla presenza di rumori, poetica-
mente trasfigurati, canti di uccelli e frinire di cicale, assunti con ben preci-
se istanze espressive, analogamente a quanto accade nella sua produzione
poetica e letteraria. Basti pensare a come egli descrive l’amato canto degli
uccelli.13 Nei Quaderni rossi egli scrive: «Migliaia di uccelli cantavano, su
scale diverse, alternandosi o sovrapponendosi, e laceravano dolcemente
il silenzio ora con modulazioni umane ora con trilli e cavate animali»14.
In un racconto giovanile, invece, associa il loro canto a delle immagini
di morte:

Basta allora il canto di un uccelletto per suscitare nei sensi uno sgomento, un’ac-
coratezza mortale, come se quel lievissimo grido colorisse di una luce di tempesta
l’aria intorno alle montagne e le imprigionasse in un’ora eterna, e mai mutata da

11 P. P. Pasolini in Primo incontro, a cura di N. Ferrero, “Filmcritica”, n.116, gennaio 1962; in


Con Pier Paolo Pasolini, Quaderni di “Filmcritica” 1, Roma, Bulzoni, 1977, p. 36.
12 Quale necessaria premessa all’iter che abbiamo intrapreso in questo articolo, bisogna
subito dire che abbiamo scelto di focalizzare la nostra attenzione su un numero piuttosto
ristretto di sceneggiature che, a nostro avviso, sono pur sempre rappresentative delle mo-
dalità con cui Pasolini scriveva questi testi.
13 Anche la produzione poetica è ricchissima di immagini dedicate al canto degli uccelli.
Si vedano alcuni versi ne El testament coran, La Domenica uliva, La nascita, La religione del mio
tempo, L’annunciazione, L’Italia, Viers Pordenon e il mond, La Chiesa, La parussula, Matinis di
Ciasarsa e in altre poesie.
14 N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989, p. 69. «Il canto degli uccelli mi sugge-
risce il pensiero della morte mescolato all’infinito», scriverà altrove Pasolini (E. Siciliano,
Vita di Pasolini, Firenze, Giunti, 1995, p. 109).

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quando uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nasce-
re la storia di questa regione.15

In Petrolio, invece, spesso di parla del “concerto” offerto dai grilli:

E ad esso [il tremolio delle stelle] si aggiunse di colpo il linguaggio, fraterno, del
concerto dei grilli, vicino e infinitamente lontano. Tutti e due quei linguaggi pa-
revano voler ripetere senza sosta un concetto solo, ma inesauribile: sarebbe stato
troppo facile pensare ch’esso alludesse alla tristezza e alla morte; era qualcosa di
ben più: era un sapere puro, un pensiero estremamente significativo, ma senza
oggetto.[…] Imperterriti erano invece i grilli; i grilli di quella regione pedemonta-
na, alla fine di una estate |afosa|: essi si sfiatavano a ripetere il loro indecifrabile
messaggio, che aveva come una curva, estremamente significativa: qui, vicino,
aveva un senso quasi di amore assetato, umanamente insaziabile, vivo, mentre
laggiù, declinando nella lontananza |impensabile|, diveniva un lamento che non
poteva né dire né insegnare nulla tanta era la sua malinconia.16

Anche nel suo cinema, queste presenze sonore non hanno una semplice
funzione mimetica ma piuttosto assumono un’importantissima valenza
simbolica. Sin dalle primissime inquadrature del Vangelo secondo Matteo
(1964) la sceneggiatura si sofferma a descrivere «canti di uccelli, voci lon-
tane di gente che si chiama…» mentre nelle strade di Betlemme, all’in-
gresso dei Magi, «il canto di un uccelletto si alza più forte a vibrare nella
pace del mondo ridestato». La celebre sequenza del discorso sulla mon-
tagna di Cristo vede «l’allodola [cedere] il posto alla rondine, che stride
beata per i cieli…»17 mentre sulle falde del Tabor ascoltiamo «il canto della
rana, con la sua afosa veemenza, e quello del grillo, che penetra il cuore
e quello che racconta antichi impeti d’amore mai capiti, dell’usignolo».18
Proprio il canto degli usignoli accompagna i momenti che precedono la
via crucis di Cristo:

Il canto di un usignolo che tempesta di melodia il silenzio dal folto di un cespu-


glio. Cristo, con un lieve sorriso, si incanta ad ascoltarlo, ma l’usignolo improvvi-

15 P. P. Pasolini, Di questo lontano Friuli, in Id., Un paese di temporali e di primule, Parma, Guan-
da, 1993, p. 218.
16 Id., Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, pp. 70, 75. Anche questo canto spesso è associato alla
morte, come accade in Aleluja: «Gris, ciantàit la me muàrt, / ciantàis als par i ciamps / la me
muàrt». Anche le cicale compaiono ne Li litanis dal biel fì: il loro canto evoca immagini in-
vernali: «La siala a clama l’unvièr / – quant ch’a cianta la siala / dut tal mont a’ clar e fer» (P. P.
Pasolini, “Poesie a Casarsa”, in Bestemmia, vl.1, Milano, Garzanti, 1995, pp. 31; 18).
17 Id., Il Vangelo secondo Matteo in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano,
Garzanti, 1991, pp. 43; 51; 83.
18 Ivi, p. 160.

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samente tace, in una inesplicabile assenza. Cristo, con un lieve sorriso, si incanta
ad ascoltarlo, ma l’usignolo improvvisamente tace, in una inesplicabile assenza,
in una crudele stasi19.

Ma in questa sceneggiatura troviamo enfatizzate anche situazioni ru-


moristiche, come il vento che accompagna le beatitudini conferendo alla
recitazione di Cristo un tono molto drammatico. In una delle sequenze
iniziali del film che prevede una panoramica su Matera (Gerusalemme)
ascoltiamo, invece, in primo piano il rumore di un maniscalco — che non
trova nessuna giustificazione con quanto contenuto all’interno dell’in-
quadratura ma sembra piuttosto preannunciare quanto ascolteremo nel
momento della crocefissione — e un vociare che lascia supporre la presen-
za di una folla che invece non esiste. Ci troviamo di fronte ad una situazio-
ne audiovisiva per cui la visione non corrisponde all’ascolto ma solo dalla
loro unione si restituisce allo spettatore un messaggio20.

I riferimenti musicali. Situazioni diegetiche

Le sceneggiature pasoliniane contengono, ovviamente, molti riferimenti


alle presenze musicali diegetiche che nel corso dei diversi film si susseguo-
no con grande frequenza. Basti pensare alla celebre Fenesta ca’ lucive a cui
Pasolini riserva una posizione di primo piano nelle sue raccolte poetiche,
mettendola in apertura delle sezioni dedicate alla poesia popolare campa-
na. Egli indaga l’origine della canzone e la ritrova nella riduzione lirica del
poemetto siciliano La Baronessa di Carini. Ad essa dedica queste parole:

Raramente, nella lettura di testi popolari, ci siamo imbattuti in versi così alti: la
cui dolcezza fosse così dolente, il cui calore fosse così puro. […] È vero, i procedi-
menti stilistici sono popolari, e dello stile popolare più autentico: […] eppure noi
sentiamo in questi frammenti, i cui endecasillabi hanno uno speciale e indeter-
minato effluvio ritmico, troppa felicità poetica, troppa passione per non impli-
carvi la presenza di un poeta storicamente determinabile: rifacciamo il nome del

19 Ivi, p. 232.
20 Non va altresì dimenticato che, nel Vangelo, anche il silenzio assume un ruolo di primo
piano operando un contrasto deciso con la presenza straripante della musica e divenen-
do un elemento di fondamentale importanza dell’azione filmica. Su tutti valgano i silen-
zi che, nel corso del racconto, accompagnano la presenza di Maria assumendo un peso
espressivo di grande rilevanza.

22
Tasso, il Tasso della suprema allure operistica dell’episodio di Sofronia, per stabi-
lire una categoria stilistica e insieme un’epoca storica21.

La canzone appare per la prima volta in Accattone (1961), nella sequenza


del pestaggio notturno di Maddalena da parte dei napoletani. La sceneg-
giatura descrive con grande dovizia di particolari la situazione:

Solo il secondo napoletano canticchia fra sé, stando disteso, appoggiato a un go-
mito, con le gambe incrociate. Canticchia, con lo sguardo perso lontano fra le
fratte azzurrognole dell’Acqua Santa, verso l’immenso cerchio dei lumi, tremo-
lanti, angosciosi della città. La sua voce è rauca, mormorante, come gli uscisse dal
profondo delle viscere: tuttavia canta una canzone napoletana molto appassiona-
ta, accennandola, ma nel tempo stesso interpretandola con tutto il sentimento.
Quando le note si fanno troppo alte per essere cantate con voce bassa, canta in
falsetto, tirando la gola, e aggricciando la fronte. È un canto che è lungo, viscerale
lamento, pieno di antica disperazione22.

Di lì a pochi momenti il pestaggio inizia e «Maddalena si mette a urlare


cercando di scappar via, striscia come una bestia sulla polvere e sull’erba
secca».23 La polvere, la sofferenza umana sono commentate musicalmente
dal Corale della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach che con-
trappunta la disperazione e le grida d’aiuto di Maddalena, invano aggrap-
pata alla macchina dei napoletani ormai in fuga. Questa canzone era già
comparsa nella scena in cui Accattone incontra Salvatore e, in particolare
modo, incorniciava le prime cinque e l’ultima delle diciotto inquadrature.
L’incontro era altresì sottolineato dalla violenta contaminazione che
si creava fra il brusco passaggio musicale dalla Passione bachiana, con cui
Salvatore era stato presentato, alla melodia fischiettata. La frontalità esa-
sperata dei primi piani minacciosi di Accattone e Salvatore, che già pre-
sagisce la gravità del loro colloquio, era evidenziata dalla melodia che,
nell’ultima inquadratura a distanza dal campo medio, contribuisce invece
al momentaneo scioglimento della tensione fra i due che si scambiano dei
falsi complimenti.
Questa funzione narratologica è però complementare ad un’altra ben
più importante di vero e proprio commento alla vicenda. Non a caso que-
sta prima scena si collega alla seconda in cui Maddalena, dopo essersi pro-

21 Introduzione al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare italiana, a cura di P. P.


Pasolini, Milano, Garzanti, 1992, pp. 109-110.
22 P. P. Pasolini, Accattone, in Id., Accattone, Mamma Roma, Ostia, Milano, Garzanti, 1993, pp.
96-97.
23 Ivi, p. 97.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 23


stituita con Gennarino, viene pestata nella radura, come abbiamo visto.
Il canto partecipa alla drammaticità del momento rivelando gli oscuri
presagi di morte e le minacce che già avevamo incontrato nella prima se-
quenza. Quando in dissolvenza incrociata ci troviamo difronte il primo
piano del napoletano che fischietta i tre versi finali della canzone, le sue
parole si caricano subito d’ambiguità. Potrebbe essere interpretato, infat-
ti, come un canto d’amore appassionato, che stride fortemente con quello
mercenario che si sta consumando lì vicino, ma potrebbe anche sottoline-
are la minaccia che incombe su questi personaggi.
Accanto alla congruenza semantica, assistiamo infine ad un sottile in-
contro a livello narratologico fra quanto si sta verificando nella vita dei
protagonisti e quanto viene descritto nel testo della canzone. Da un lato,
abbiamo Accattone che vigliaccamente ha tradito Maddalena; parimenti
le parole della ballata parlano di un padre che uccide la figlia per l’insinua-
zione di una maldicenza. La congruenza fra il film e la canzone è quindi
fortissima e Pasolini, non a caso, l’utilizza come uno dei temi musicali
portanti di Accattone. Fenesta ca’ lucive non rimanda, quindi, al film in una
superficiale comunanza descrittiva ma coglie piuttosto l’essenza del film
stesso che, nell’immagine della morte, trova il suo momento simbolico
maggiormente significativo.
Ad un livello ancor più generale, il canto andrebbe contestualizzato
all’interno di una riflessione sulla poetica di Pasolini che interpreta la
morte come il momento maggiormente epico dell’esistenza umana. Nel
cinema nazionalpopolare, in particolar modo, esso si rivela essere con-
trappunto musicale alla riflessione sul genocidio del sottoproletariato ro-
mano, stritolato e vittima della dialettica storica.
A distanza di dieci anni, la canzone ricompare in Decameron (1971),
nell’episodio di Ciappelletto. La “napoletanizzazione” dell’opera di Boc-
caccio, traslazione del cui significato più volte Pasolini ha offerto spiega-
zioni, fa sì che la canzone si trovi pienamente a proprio agio nel corso
del film e, ancor più, appare giustificata dalla battuta di Ciappelletto che
precede l’intonazione del canto con gli amici usurai: «Napoli, Napoli mia!
Soltanto chi ti perde te vo’ bene!». Ancora una volta, com’era successo in
Accattone, il riferimento a Fenesta ca’ lucive ha un significato che si collo-
ca nella dinamica degli eventi narrati. Di fronte ai due usurai sbalorditi
e perplessi in seguito alle offese di Ciappelletto, la canzone si rivela un
momento di passione e sentimento, in grado di raffreddare gli animi sur-
riscaldati dei compagni grazie alla sua carica nostalgica che traspare dalle
sue parole. Si noti il ritmo incalzante dei dialoghi che la precedono:

24
CIAPPELLETTO (insistendo): «Sanguisughe. Vermi di camposanto».
PRIMO USURAIO (in allarme): «Ehi, ma che dici?»
CIAPPELLETTO (continuando): «Pidocchiosi. Uomini di merda».
USURAI (buttandola in ridere): «Ah! Ah! Ma questo ci sta facendo uno schifo!».
CIAPPELLETTO: «Usurai!» (sputa)
SECONDO USURAIO (lo interrompe adirato): «Cumpa’ tu stai uscendo dal semi-
nato... eh!»
CIAPPELLETTO (ridendo): «Sto scherzando!»
PRIMO USURAIO: «Ah, stai scherzando...» (ride)
CIAPPELLETTO: «Io sono di Napoli, voi siete di Napoli! Vogliamoci bene, siamo
tutti fratelli nel bene e nel male...»
SECONDO USURAIO: «Hai raggione...»
CIAPPELLETTO: «Napoli, Napoli mia! Soltanto chi ti perde ti vuol bene…»24.

A questo punto tutti e tre intonano la «vecchia canzone napoletana» e,


nel vagheggiamento del luogo natio, si riappacificano reciprocamente. La
canzone può essere interpretata come espressione del vagheggiamento
dello stesso Pasolini verso queste civiltà lontane – tema centrale di tut-
ta la Trilogia ma anche delle sfide lanciate con gli Scritti corsari e le Lettere
luterane di quegli anni – che il neocapitalismo e l’omologazione da esso
promossa e perpetrata avevano distrutto.
In Accattone, accanto a Fenesta ca’ lucive, troviamo molti altri canti po-
polari che inevitabilmente rimandano ad oscuri presagi di morte. Nel
momento in cui Accattone e i napoletani entrano nell’osteria, Cartagine
canticchia Madonna dell’Angeli, una canzone popolare romana il cui testo
è segnato dalla drammaticità della morte di un neonato che ha distrutto
la vita di una famiglia. Altre volte risuona invece la malinconica melodia
del Barcarolo romano, le cui parole descrivono ancora un dramma vissuto
nelle acque del Tevere.
Le sceneggiature pasoliniane sono anche una preziosa testimonianza
per cogliere le tante “stornellate” che accompagnavano la vita dei giovani
sottoproletari della capitale. In Accattone, troviamo così «Voja de lavorà
vieneme addooosso / lavora padre mio ch’io nun pooosso...», parodie dei
canti del regime fascista («Collonello non voglio pane / voglio un chilo de
pastasciutta / so’ sicuro la magno tutta / nemmeno un filo ne lascerò...»,
canta Cipolla deformando il testo della nota Sagra di Giarabub)25 ed altre

24 Id., Decameron, in Id., Trilogia della vita, Milano, Mondadori, 1990, pp. 38-39.
25 La sagra di Giarabub è una canzone fascista, scritta nel 1941 da Ruccione, De Torres e
Simeoni. Il suo testo parla di un tragico evento avvenuto nell’oasi di Giarabub in Libia nel
1940, dove i soldati combatterono disperatamente per bloccare l’offensiva inglese. «Co-
lonnello non voglio pane: / dammi piombo del mio moschetto: / c’è la terra del mio sac-
chetto / che per oggi mi basterà», recita il testo originale. Gianni Borgna ricorda l’enorme

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 25


canzoni tipiche delle borgate romane («Lassù tra mezzo gli angioli / can-
tavano per te solo Maria / per carità ridateme quell’angelo»).26 È così che
Accattone, deridendo le ire del suocero gli canta: «Fior de limone / ma
chi sarà ‘sto giovane per bene / un popolano oppure un gran signore!».27
Altrove intona «Er barcarolo va controcorrente»,28 dopo che si è buttato
dal ponte sul Tevere, mentre Cartagine, Iaio, Tommaso e Dino quando si
recano nei luoghi dove le prostitute vanno a battere cantano: «In prig-
gione nun ce vengo / perché nu ho fatto niente / che ‘te pija n’accidente».
Simili situazioni affollano anche le pagine della sceneggiatura di Mam-
ma Roma (1962). Il matrimonio di Carmine, con cui si apre il film, presen-
ta una vera e propria «sarabanda di battute» (Carlo di Carlo), in questo
caso di scherno sulla sorte della novella sposa. Mamma Roma, Carmine
e la sposa stessa le presentano come una tenzone poetica. Seguiamo la
sceneggiatura del film:

e immediata popolarità della canzone e le versioni che da essa nacquero. La musica della
canzone era copiata da un brano precedente, La canzone dei volontari, che era comparsa nel
1935 nel film Amo te sola di Mattoli.
26 Si tratta di Madonna dell’Angeli, cantata da Cartagine nel momento in cui Accattone e i
napoletani entrano nell’osteria. È questa una canzone popolare romana scritta da Giusep-
pe Micheli e musicata da Rossi. Ancora una volta, come abbiamo visto, il testo è segnato
dalla drammaticità della morte che ha distrutto la vita di una famiglia. La felicità dei primi
momenti della sua vita, consumati nell’attesa della nascita di un figlio («Era d’ottobre / e
dentro ar core mio c’era ‘na febbre / de baci ardenti e de felicità, felicità»), viene ben presto
distrutta. Il neonato, infatti, morirà e, poco dopo, anche la moglie Nina. «È stato come un
furmine / er pupo nun c’è più, vôta è la cunnola; / strappate er nastro bianco da la porta /
che pure Nina è morta. / Triste dicembre / sur core mio ce so’ calate l’ombre / ciò tutto gelo
intorno e fo’ pietà, e fo pità. / Ma su tramezzo all’angeli / ne vedo volà due co’ Voi Maria /
pe’ carità ridateme quell’angeli / Madonna mia».
27 Questi versi sono tratti da La Madonna dell’urione, di Micheli e Rossi. La Madonne dell’u-
rione fa parte della religiosità del rione di Trastevere, nelle cui vie viene portata in proces-
sione.
28 «Non vi fu spettacolo [negli anni venti] d’arte varia, o festa famigliare o scampagnata
“for de porta” in cui non s’udisse cantare, sull’arpeggio di una chitarra, la malinconica me-
lodia del Barcarolo romano che sembrava rievocare il classico stornello romanesco d’altri
tempi. […] L’eco der core, e il Barcarolo romano erano ormai consacrate alla più schietta no-
torietà» (G. Micheli, Storia della canzone romana, a cura di G. Borgna, Roma, Newton Com-
pton, 1989 (1), pp. 491–92). Borgna ricorda come il popolo romano «poteva udire [questa
canzone] nelle varie edizioni del San Giovanni, nei piccoli teatri, alla sagra dell’uva di Ma-
rino, alla festa dell’Immacolata nel quartiere Tiburtino e, da ultimo, alla trasteverina “Fe-
sta de Noantri”» (G. Borgna, Storia della canzone italiana, Milano, Mondadori, 1992, p. 97)
La canzone, di Pio Pizzicaria-Romolo Balzani, come abbiamo visto nel corso del capitolo,
descrive un dramma emotivo vissuto nelle acque del Tevere. La sua melodia è segnata dal-
la malinconia e dalla tristezza. Nella sua ultima strofa troviamo: «Er barcarolo va contro
corrente / e quanno canta l’eco s’arisente, / dice: si è vero che tu dai la pace / fiume affatato,
nun me la negà...»

26
Mamma Roma scatta in piedi, col bicchiere in mano, e, detto fatto, si mette a can-
tare con tutti i sentimenti...
MAMMA ROMA: «Fior de gaggia, / quando canto io con allegria, / mo’ se io dico
tutto rovino ‘sta compagniaaa!».
Scatta in piedi allora lo sposo, coi suoi baffetti neri, e il ciuffo nero di guappo, e gli
occhi ardenti.
CARMINE: «Fiore de sabbia, / tu ridi, scherzi, fai la santa donna, / e invece in petto
schiatti da la rabbia».
MAMMA ROMA: «Fiore de menta, / fermete lingua, ché ce sta n’innocente: / è
mejo che nun veda e che nun senta».
Invece l’innocente, la sposa – tutto d’un botto, chi se l’aspettava? – si alza, di tra i
velami, e con vecchio impeto burino, attacca pure lei
SPOSA: «Fior de cucuzza, / ‘na donna per ‘sti baffi andava pazza, / e adesso che li
perde ce va in puzza!»
MAMMA ROMA commenta la propria gioia con questo ultimo rilancio: «Fiore
de merda, / io me so liberata de ‘na corda, / adesso tocca a ‘n’altra a fa la serva!»29.

Un «timido, allegro, malandrino Cha–Cha–Cha» alla radio e il celebre O


violino tzigano segnano invece i primi momenti di Ettore con la madre,
intenta a insegnare i passi e i movimenti del ballo al figlio. «Ma sai ballà,
almeno?» chiede Mamma Roma al figlio «Non te l’hanno insegnato a bal-
là la tarantella, quei quattro zampognari?». «Va al giradischi» commenta
la sceneggiatura «e mette su un vecchio tango». Alla musica che inonda
la povera stanza, madre e figlio si guardano30. Violino tzigano ricompare
quando Ettore vende i dischi della madre al mercato e quando Mamma
Roma va a chiedere consigli al prete. Un ultimo accenno alla melodia si
trova nei momenti finali del film in cui Ettore si trova in prigione. Uno
dei detenuti, dopo aver ascoltato alcuni versi della Divina Commedia reci-
tati dal compagno, inizia a canticchiare e a fischiettare «Suona suona per
me, / o violino tzigano / tara, tara, tarà / tara, tara, tarà...».31
Echi di musica popolare si trovano anche nella scena in cui Ettore lavo-
ra alla locanda: «Una folla da folclore» scrive Pasolini nella sceneggiatura.

Mamma Roma cerca con gli occhi ma la baraonda è infernale. Ecco da fondo ai ta-
voli, da un altro vicolo scuro, sbucare il suonatore di piffero, in costume, e dietro,
il codazzo degli altri suonatori. La loro marcia trionfale intorno alla distesa dei
tavoli; berretti frigi, gualdrappe, livree, ori. Un organetto suona, con un minuetto

29 P. P. Pasolini, Mamma Roma, cit., pp. 243-44. Un altro stornello si presenta, nella sceneg-
giatura, alla fine della corsa in motocicletta di Mamma Roma con Ettore. Mamma Roma
canta: «Fior d’ogni fiore / dice che chi c’ià l’oro sia un gran signore, / ma per me nun conta l’oro
come conta er core...» (Ivi, p. 322).
30 Ivi, pp. 261; 255.
31 Ivi, p. 352.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 27


accanto. […] La banda dei suonatori si infiltra, caracollando nel centro, tra i tavoli.
Lì si ferma, e un ciccione si mette a cantare: tutto il pubblico gli canta dietro32.

Nella sceneggiatura (in seguito l’intervento è stato omesso), Mamma


Roma ha anche una vera e propria “canzone di morte”. La troviamo verso
la fine del film, quando Ettore si trova in cella, cantata da un detenuto. Si
tratta di un canto di Regina Coeli, un lamento, le cui parole nonostante
abbiano un’evidente veste linguistica romanesca fanno pensare ad analo-
ghi canti dell’area settentrionale.

Compatite la povera madre /che ha perso un figlio di fior di età / non aveva più di
vent’anni / e in galera innocente morì... / La mattina il cancello si apre / e io sono
la prima a emtrà / sono una povera madre / che ha perso il figlio nel fior di età... /
Figlio bello, perché n’arispondi / so tu’ madre che ti chiama quaggiù / so’ ‘na madre
che grida vendetta / per un figlio che nun vedrà più... / Io vorrei scavare una fossa
/ ad un passo distante da te / e lì sotterrar le mie ossa / per restare vicino da te...33

Mentre la guardia riempie le gavette, il coatto del canto, sia pure su un al-
tro tono, continua a cantare: «Alla sera il cancello si chiude / e il becchino
mi obbliga a uscì»34.

La musica di commento

Se le situazioni musicali diegetiche ricorrono frequentemente in molte


sceneggiature cinematografiche, le indicazioni sulla musica da commen-
to sono invece una vera e propria particolarità di quelle pasoliniane. La
sceneggiatura del Vangelo secondo Matteo è affollata da indicazioni come:
«musica profetica di Bach (o il motivo profetico di Bach)», «musica altis-
sima di Bach, canto di angeli (musica altissima di Bach)», «musica gio-
iosa di Mozart», «motivo della morte di Bach», «adagio di Telemann»,35
«suono di tromba (motivo di Bach)», «boato che si dilegua e si perde in

32 Ivi, p. 324.
33 Ivi, p. 348.
34 P. P. Pasolini, “Mamma Roma”, in Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1992, p. 447.
35 «Note di musica, accordi di strumenti, brani musicali accennati come per prova, con
tempo di danze («Adagio di Teleman [sic]») […] Accordi, brevi accenni a musiche con rit-
mo di danza («Adagio di Telemann»)» (P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo cit., p. 117;
138). Telemann ricorre spesso nel corso della sceneggiatura: « Salomè che danza una squi-
sita danza che solo vagamente accenna, stilisticamente, ai movimenti della danza orienta-
le. Il supremo “adagio” di Telemann finisce, e finisce la danza» (Ivi, p. 141).

28
una musica colma di sacra allegrezza (Mozart) o musica religiosamente
allegra di Mozart». Non possiamo sapere a quali opere Pasolini facesse
riferimento, data la natura generica di simili indicazioni. Egli, comunque,
in un secondo momento arricchì notevolmente il paesaggio sonoro del
film attingendo a molti repertori e sacrificandone altri previsti in un pri-
mo tempo.
Ma oltre a queste indicazioni poetiche che ben esprimono le funzioni
che la musica è chiamata a esercitare all’interno del film – Bach, ad esem-
pio, è associato a situazioni profetiche – le sceneggiature descrivono in
una maniera molto particolare le situazioni in cui la musica accompagna
e commenta le immagini.
Ritorniamo, ancora una volta, ad Accattone. In questo film, tra le tante
scene che hanno contribuito a creare la sua grandezza e fama, vi è quella
notissima della rissa fra Vittorio e il cognato nella polvere delle borgate
della periferia romana. Dal punto di vista delle scelte musicali, questa
scena è emblematica. Seguendo la sceneggiatura, i toni drammatici della
situazione emergono visibilmente. Il cognato, infuriato dalla presenza di
Vittorio a casa sua, inizia ad insultarlo violentemente:

Ah, te la piji scherzando eh! Avanzo de galera che nun sei altro! Giusto la faccia
tua ce vò a presentatte qua! Vattene! Che la faccia tua nun vojo che la veda, tu’ fijo!
Nun vojo che se vergogni d’avecce avuto un padre così!

Pasolini commenta la reazione di Accattone in questi termini:

Accattone perde di colpo la testa: ha inghiottito troppo. Urlando e sbavando, come


preso dalle convulsioni, si butta sul cognato, prima che questi se ne renda conto,
prima che la gente se l’immagini. Gli si butta sopra e gli si avvinghia gemendo e
rantolando di rabbia. Cerca di morderlo, come un cane, sul collo, sulle orecchie. Il
cognato, più forte, si divincola, ma non riesce a liberarsi dalla stretta disperata36.

È a questo punto che, come contrappunto alla scena, esplode il celebre


Corale della Passione secondo Matteo bachiana, le cui parole, «Wir setzen
uns mit Tränen nieder / und rufen dir im Grabe zu: / Ruhe sanfte, sanfte
ruh’!», si rivelano straordinariamente efficaci a sottolineare le intenzioni
pasoliniane di sacralizzare le vite dei sottoproletari. In altri momenti di
sofferenza ritroveremo ancora la musica sublime della Passione di Bach a
commentare la rissa di Accattone con gli amici, pronti a deriderlo quando
indosserà le vesti inconsuete del lavoratore e stanco e stremato passerà

36 Id., Accattone, cit., p. 121.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 29


davanti al baretto dove siedono Giorgio, Mommoletto e Cipolla. Le deri-
sioni sono molto provocanti.

MOMMOLETTO: «Accattone, indò vai senza ombrello?».


CIPOLLA: «Attento, che gira l’acchiappacani!».
GIORGIO: «Ahò, Ma che j’è successo? Ma perché se comporta così?».
MOMMOLETTO: «E che ne so! Pure stamattina è passato così! Me pareva la statua
della libertà! Manco cià guardato in faccia...» […]
Accattone, tutt’a un tratto cieco di rabbia e di esasperazione si sfila una scarpa dal
piede e la tira con violenza addosso al gruppo. Poi si lancia dietro la scarpa e co-
mincia a colpire Giorgio e gli altri.37

Anche quando Accattone morirà, la sacralità della sua esistenza emerge


con Bach che accompagna le celebri parole «Mò sto bene!» proferite sul
punto di morte. In queste ultime sequenze anche la sceneggiatura segue
e commenta le scelte musicali. «Il suono disperato e solenne della musica
di Bach. Ancora qualche passo: poi gli agenti li parano», scrive Pasolini in
riferimento ai momenti che precedono l’arresto di Cartagine e Accattone.38
Anche in Mamma Roma, nel momento in cui Carmine ritorna a casa
per costringerla a prostituirsi, ricordandole il destino che incombe e ine-
vitabilmente la condanna, la sceneggiatura commenta la sua reazione in
questi termini:

Ma Mamma Roma è come sprofondata nel suo pianto di bestia: il suo furore, più
che contro Carmine è contro la vita, il destino. Non può far altro che disperarsi. È
completamente impotente, e rantola di dolore. […] E, quando Mamma Roma ren-
de noto a Carmine la sua decisione di non andare più a battere, questi esplode:
«Ahò, senti ‘pezza da piedi! Te ricordi quando t’ho trovata io, eri piena de pidoc-
chi! Io t’ho ripulito! Nemmeno le mutande sapevi che erano! Io, te l’ho insegnato
a mettere le mutande! T’ho civilizzato! (urlando ancora di più) Io ventitrè anni e
te quaranta! Te lo sei saputo pappà, Carmine, eh (si batte er petto). ‘Sto pischello!
Te, m’hai fatto conoscere i soldi! (urlando ancora di più) Chi t’ha chiesti, li soldi!
Pe’ forza, me te sei voluta pijà, pe’ forza. Io me ne venivo dal paesello, che nemme-
no lo sapevo che esistevano le donne come te! E te m’hai rovinato! Te, m’hai fatto
diventà un pappone! Te! Perché? Non è vero?»39.

La feroce brutalità di questo dialogo (ad un certo punto Mamma Roma cer-
cherà anche di uccidere Carmine con un coltello), è contrappuntata dalla
musica di Antonio Vivaldi, con le sonorità dolci e intense dell’ottavino e

37 Ivi, p. 212.
38 Ivi, p. 231.
39 Id., Mamma Roma cit., pp. 329–331.

30
del pizzicato dell’accompagnamento orchestrale. Ancora una volta, come
già era accaduto in Accattone, la degradazione di un «pappone» è commen-
tata da una musica sublime e dotata di grande tensione spirituale.
Vivaldi è presente anche in una scena analoga a quella celebre della ris-
sa nella polvere in Accattone. Si tratta del momento in cui Ettore viene pe-
stato dagli amici, infuriati con lui perché si stava allontanando con Bruna,
nel prato Cecafumo. La lite inizia quando Augusto esclama: «A chi li hai
detti i morti! Ahò! Mo se nun la fai finita te meno io solo! Te lo faccio vede
se siamo in tanti!». Ettore risponde: «A chi meni, a chi meni te! E viemme
a menà se sei bono! Li mortacci tua!».
A quel punto allora:

Augusto si lancia addosso a lui inferocito. I due cominciano a lottare, con violenza
silenziosa. Si colpiscono a pugni, si gettano per terra, aggrappati ai capelli, al collo.
Dopo un po’, tutti gli altri, vedendo che Augusto solo non riesce a vincere Ettore, si
buttano addosso a Ettore. Lo strappano da Augusto, e quando è carponi, comincia-
no a colpirlo a pugni in faccia, sui fianchi. Uno lo prende a calci. Lo massacrano40.

Il Concerto per fagotto di Vivaldi “esplode” proprio nel momento in cui Et-
tore si trova a terra sfigurato e distrutto e, in tal modo, santifica la sua
sofferenza.

Passando invece ad un momento della stagione seguente della filmografia


pasoliniana, Medea (1969), la sceneggiatura di questo film è letteralmente
costellata da indicazioni sulle funzioni che la musica è chiamata a svolge-
re. Varrà la pena ricordare che, all’interno della colonna sonora del film,
la musica “barbarica” associata all’universo colchico contrasta con quella
giapponese, “civilizzata”, che invece figura con brevi citazioni e frammen-
ti nella seconda parte del racconto. Il mondo degli Argonauti è accom-
pagnato da musica giapponese per strumento a corda, con la presenza
saltuaria di una voce. Questa musica compare durante lo scorrimento
dei titoli di testa; nella scena in cui Giasone, divenuto adulto, ascolta il
Centauro che ha perso le sembianze mitiche; quando gli Argonauti com-
piono le loro imprese; quando Medea ruba il vello d’oro e va da Giasone;
nell’accampamento degli Argonauti che ascoltano increduli e perplessi
il monito di Medea: «Questo luogo sprofonderà…»; nel momento della
loro separazione; quando Medea vede Giasone ballare con i figli; durante
la “seconda morte” di Glauce e nel sacrificio finale dei figli. Le sequenze
che vedono il mondo di Medea e della Colchide protagoniste hanno un

40 Ivi, p. 297.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 31


universo sonoro molto differente. Qui troviamo brani di musica tibetana,
all’inizio e durante la lunga sequenza del sacrificio umano, nel momento
in cui le donne si accorgono del furto del vello d’oro; iraniana, quando
Medea si reca dalla vittima nel tempio e durante il rito preparatorio della
stessa, e quando i Colchi si fermano a raccogliere le membra dilaniate di
Apsirto durante l’inseguimento agli Argonauti; il canto polifonico bulga-
ro e la musica tibetana leitmotiv di Medea.
Un passo della sceneggiatura ben descrive questa complessa situazio-
ne quando Pasolini descrive la musica a cui è associata la figura di Medea
sacerdotessa:

Così si ricorderà la musica “funzionale” per es. canti gregoriani, o canti esplicita-
mente ecclesiastici - era cessata di colpo con l’apparizione del “corpo di Giasone” a
Medea che pregava. Ora, questa musica, mentre Medea vaga fuori di sé nei luoghi
deserti intorno all’accampamento, sembra riaffiorare, ma subito svanisce, o cade
di colpo. Segno che ciò che Medea disperatamente tenta ricostruire il suo rappor-
to sacro con la realtà non riesce; non può più riuscire41.

Pasolini, pertanto, in questo modo chiarisce le funzioni che la musica


esercita all’interno del film in cui diviene lo specchio della condizione di
Medea.

Metafore musicali

Quale ultimo livello delle presenze musicali nelle sceneggiature di Pa-


solini, vanno evidenziati alcuni momenti in cui il linguaggio sonoro è
descritto con profonde e suggestive valenze simboliche. Nella sceneggia-
tura del Vangelo, l’inserimento di una pagina mozartiana è commentata
in questo modo: «A stacco netto, mentre scoppia una stupendamente
gioiosa musica di Mozart (dove il sacro e il profano miracolosamente si
mescolano)».42 Mozart, agli occhi di Pasolini, diviene altrove immagine
della «leggerezza mortuaria»,43 a suffragare le modalità con cui la sua mu-

41 P. P. Pasolini, Medea, cit., p. 504.


42 Ivi, cit., p. 103.
43 «Ho cambiato carattere, ho aggiunto nuovi elementi alla mia psicologia. Il merito è
stato soprattutto di Elsa Morante. Lei mi ha insegnato ad amare la leggerezza mortuaria
di Mozart. Ho imparato ad amare Mozart, e lo amo nonostante non sia nelle mie corde […]
perché questo male profondo che si espia in leggerezza, che vince il dolore con la leggerez-
za, sarà forse più santo della santità canonica, ma io sono per quest’ultima» (P. P. Pasolini,
Pasolini, una vita, cit., p. 361).

32
sica entra a far parte della colonna sonora del film in cui accompagna la
via crucis di Cristo.
Anche in Edipo re (1967), in cui Pasolini assume il compito del coordi-
namento musicale, gli adagi musicali costellano ripetutamente le pagine
della sceneggiatura.

La musica strana che risuona in tutto quel silenzio, dà all’ora l’aria del miracolo:
è la solita musica popolare antica, simile a quella dei negri, che obbedisce ad al-
tre regole che le nostre. L’immensità dell’orizzonte ne è misteriosamente invasa.
Mette addosso insieme piacere e terrore: rende insieme più piccolo e immensa-
mente più grande, più familiare e disumano, quel lungo tratto di strada nel deser-
to. A lungo Edipo cammina, come attratto da quel canto44.

In riferimento ad un “concertino” fra il pastore di Corinto e il suo garzone


(episodio presente nella sceneggiatura ma poi omesso), Pasolini scrive:
«I suoi occhi allegri di suonatore, sprizzano allegria, sfida e graziosa in-
disciplina. L’anziano suona serio il suo strumento, uno strumento rozzo
e strano, che suona vera musica popolare, di allora e di sempre: la musica
del mito della terra»45. Il regista rende esplicite le intenzioni che anima-
no le sue scelte musicali, aprendo squarci poetici molto suggestivi, che
costellano ripetutamente queste pagine.

Il frastuono delle musiche popolari che risuonano ora qua ora là, sembrano il se-
gno della vera realtà del mondo, che a Edipo ora è sfuggita. [...] Portate dal vento
giungono dal santuario più forti le allegre musiche popolari, cariche di infiniti e
antichi presagi46.

Suoni carichi di «antichi presagi», indefinibili, provenienti da un altro-


ve lontano e irreale: solo queste melodie potevano contrappuntare le se-
quenze del film. In Edipo re e Medea, infatti, assistiamo al ribaltamento
nel rapporto fra le componenti verbali e le espressioni non mediate con-
cettualmente, ossia quelle visive e, in particolar modo, sonore. In questi
due film l’assenza dei dialoghi, soprattutto in Medea, si pone quale fatto
manifesto e caratterizzante un’evidenza narrativa non concettualizzabile
dalle parole.
La natura astratta della musica e, in particolare, della musica etnica,
dove l’asemanticità viene elevata alla massima potenza grazie alla sua di-
stanza dalla grammatica normativa tipica invece del linguaggio occiden-

44 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., pp. 388-389.


45 Ivi, p. 363.
46 Ivi, p. 382.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 33


tale, subentra allora alla dialettica, sempre limitata e povera nell’esprime-
re i sentimenti dei personaggi.47
In Edipo re e anche Medea troviamo anche interminabili silenzi, rumo-
ri primordiali, urla, gesti e poche parole, che inoltre risuonano oscure e
indecifrabili. In Edipo re la musica viene elevata a una dimensione simbo-
lica, assumendo funzioni rilevanti nel contesto narrativo. Nel corso del
film, infatti, la presenza del flauto, strumento dai forti connotati mitici,
appare subito associato all’immagine del profeta Tiresia, incontrato da
Edipo poco dopo il suo arrivo nella città di Tebe. Questo incontro è intro-
dotto dalla melodia del flauto suonato dallo stesso Tiresia, poeta che canta
«ciò che è al di là del destino».48

Ed ecco che, in quei luoghi, assurdo, comincia a errare per l’aria il suono di un flau-
to. Edipo guarda negli occhi il ragazzo che lo guarda, e sa, ma tace. Camminano
ancora, ora come guidati da quel suono [...]. Non c’è che il sole. Ma, accucciato tra
due cespugli selvaggi, ecco un uomo. Un vecchio uomo, grasso, pesante, segnato
dalla vecchiezza su un viso restato infante. Ma le pupille non seguono il suono
doloroso, funebre e severo del flauto. [...] I due sono uno di fronte all’altro: Edipo
coi suoi occhi di ragazzo, Tiresia coi suoi occhi di cieco. Tutto quello che hanno da
dirsi, non è che un lungo silenzio. Poi Tiresia ricomincia a suonare. Le note del
flauto risuonano alte e pure: il loro dolore è il dolore del mondo. Alle prime note
del flauto che ricomincia a suonare, gli occhi di Edipo si riempiono di lacrime.
Non si sa vincere, e uno scoppio di pianto, terribile e insieme immensamente
consolatore lo scuote. Cade in ginocchio, e sta per ascoltare quel misterioso mes-
saggio, come se fosse il suono di una funzione sacra49.

L’Adagio dal Quartetto in Do maggiore K 465 qui si presenta in maniera di-


versa da quella originale con cui era comparso nel Prologo del film: al
primo violino, infatti, si sostituisce il flauto, il cui suono si sovrappone
quindi al “tema della madre”.

47 A ragione Serafino Murri, parlando di Edipo re, scrive: «Se in precedenza alla parola
spettava il compito di condurre la riflessione, di esprimere le emozioni dei personaggi, di
chiarificare la vicenda, mentre alle suggestioni pittoriche, al gusto del bianco e nero e dei
ritmi fratti del cinema muto, spettava il compito di evocare un clima generale, in qualche
modo estetizzante, ora è l’immediatezza delle componenti sonore e visive dell’immagine
nella quasi totale assenza di dialogo a creare una “evidenza narrativa” non concettualizza-
bile, laddove la parola, lo strumento dialettico borghese, non è più che uno dei componen-
ti dell’immagine, componente il più delle volte ellittico, oscuro, involuto, a cui spetta il
compito di creare semmai un clima emotivo ed estetizzante» (S. Murri, Pier Paolo Pasolini,
Milano, Il Castoro, 1994, p. 90).
48 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., p. 397.
49 Ivi, pp. 396-397.

34
Una musica lontana si leva nella notte, perdendosi presto: è il motivo arcano del
flauto di Tiresia, che sembra disegnare nel disegno del destino, eppure misterio-
samente oltre... la madre50.

Ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la colonna sonora passa dal


livello esterno a quello interno del racconto, caricandosi di istanze espres-
sive molto forti. Tiresia, attraverso il suono del flauto, rivela infatti ad Edi-
po il suo destino incestuoso, preannunciandogli l’incontro con la madre.

Canta, ma non canta di sé. [...] [pronuncia la voce interiore di Edipo] È per gli altri
che canta, è degli altri che canta, è per me che canta, è di me che canta. Sa di me, e
si rivolge a me! Poeta! Tu, poeta, col tuo incarico di cogliere il dolore degli altri e di
esprimerlo come se fosse lo stesso dolore, a esprimersi... Il destino continua oltre
ciò che il destino riserva. Io ascolto ciò che è al di là del mio destino.51

Queste parole subito anticipano la valenza profetica dell’auletica, poi svi-


scerata nell’Epilogo dove, attraverso il flauto, avviene il passaggio di con-
segne tra Tiresia ed Edipo52. Proprio il suono di tale strumento permette
al regista di rivisitare il proprio vissuto, altrimenti negato alla parola53.
Edipo, dopo essersi accecato, si allontana dalla città con il ragazzo-nunzio.

Ed ecco venire verso di lui il ragazzo-nunzio, con la sua umile faccia pietosa: tiene
in mano qualcosa, però. È un flauto. Un flauto come quello di Tiresia. Il flauto di
chi è cieco. Il flauto che fa tornare le cose nelle regole, che codifica lo scandalo54.

50 Ivi, pp. 403-404.


51 Ivi, p. 397.
52 «Una volta che si è accecato, Edipo rientra nella società sublimando tutte le sue colpe.
Una delle forme di sublimazione è la poesia. Lui suona il flauto, il che significa, per
metafora, che è un poeta. Prima suona per la borghesia, ed esegue l’antico pezzo giapponese
collegato all’Oracolo: musica ancestrale, privata, confessionale, musica che in una parola
si può definire decadente. È una sorta di rievocazione del primitivo, delle proprie origini.
Poi, disgustato della borghesia, se ne va via, a suonare il suo flauto dolce (cioè se ne va via
ad agire da poeta) ai lavoratori, e per loro suona una canzone che appartiene al patrimonio
della Resistenza: un vecchio canto popolare che i soldati italiani impararono in Russia e
che fu adottato durante la Resistenza come canto rivoluzionario» (P. P. Pasolini, Pasolini su
Pasolini… Conversazioni con John Halliday, Parma 1992 (London1969), p. 116).
53 Consapevole della difficoltà di lettura del film, più volte Pasolini ne ha chiarito le sot-
tili metafore: «Edipo, nel suo viaggio fatale verso Tebe, incontra Tiresia e lo vede suonare
mentre tutti gli altri ricercano una salvezza comune. Tiresia canta qualcosa che è dentro di
loro e allo stesso tempo li supera. Così facendo, egli compie un atto di purificazione sociale
(«Come vorrei essere te. Tu canti ciò che è al di là del mio destino»). Edipo vorrebbe essere
Tiresia», intervista rilasciata a Pietro Pintus per la RAI in occasione della XXVII Mostra di
Venezia e contenuta nel programma di Leandro Lucchetti, Per conoscere Pasolini.
54 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., p. 54.

presenze musicali nelle sceneggiature di pasolini 35


Il ragazzo suona al flauto alcune note si tratta di un frammento variato
dell’Adagio di Mozart e poi consegna lo strumento ad Edipo insieme al
quale si allontana. Vediamo poi Edipo e il messaggero che, con degli abiti
moderni, si aggirano in una strada di Bologna.55
Finalmente, dopo tanto tempo, i due sono figure lontane, di spalle, sul-
la strada che porta fuori dalla città. Finché s’intravede... laggiù... Edipo che
porta alle labbra il flauto... ed emette una prima nota... e poi una seconda...
e il ragazzo, di spalle, che lo incita... Ed ecco che ora Edipo suona men-
dicante cieco, profeta ancora faticosamente e puerilmente, una melodia,
la melodia della sua infanzia, la melodia del misterioso canto d’amore di
Tiresia, la melodia che è prima e dopo il destino.56
Dopo la breve citazione mozartiana a cui, ancora una volta, è affidato
il compito di rivelare la verità, adesso ritorna la melodia giapponese che
aveva accompagnato leitmotivicamente il suo destino. «Ora Edipo è un po-
eta decadente che canta per la borghesia», commenta Pasolini.

La melodia è quella di un canto di risorgimenti (o rivolgimenti?) borghesi, delle


lotte per la libertà. Al filo di quella melodia, tutto ciò che è lì intorno, acquista un
suo senso preciso e commovente: diventa subito quasi un ricordo, ritrova con la
sua quotidianità la sua epicità. [...] Ed Edipo suona, intanto, soffiando nel suo flau-
to quella melodia che dà senso a tutto ciò che gli è intorno, a quel rumoreggiare
dolce della storia.57

Di tutto questo, però, egli si stanca, ne rimane disgustato. La sublimazio-


ne freudiana diviene scelta ideologica e politica. Ora interviene Marx ed
Edipo suona un canto rivoluzionario per gli operai. «Stavolta la melodia
è quella di un canto della rivolta popolare, della lotta partigiana: ed è esso
che, misteriosamente commovente, sembra dare un senso a tutto quel-
lo che c’è intorno...».58 Si tratta del canto rivoluzionario russo Vi Zhertvoiu

55 «Ho girato […] il finale, o meglio il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho iniziato
a scrivere poesie; è la città in cui mi sono trovato naturalmente integrato nella società
borghese; allora credevo di essere un poeta di questo mondo, come se questo mondo
fosse stato assoluto, unico, come se non fossero mai esistite le divisioni di classe. Credevo
nell’assoluto del mondo borghese. Con il disincanto, poi, Edipo lascia dietro di sé il mondo
della borghesia e s’inoltra sempre di più nel mondo popolare, dei lavoratori. Se ne va a
cantare, non più per la borghesia, ma per la classe degli sfruttati. Di qui questa lunga
marcia verso le fabbriche. Dove, probabilmente, l’aspetta un altro disincanto...» (P. P. Pa-
solini, ll sogno del centauro, a cura di J. Duflot, Roma 1983, p. 101 (P.P. Pasolini, Les dernières
paroles d’un impie [1969-75], Paris 1981)
56 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., pp. 433-444.
57 Ivi, pp. 445-446.
58 Ivi, p. 447.

36
Pali, già utilizzato nel Vangelo secondo Matteo, che compare mentre vedia-
mo alcune fabbriche della periferia milanese. Questa seconda sequenza
rievoca il periodo che va dal Dopoguerra a tutti gli anni cinquanta, emble-
maticamente rappresentato da Le ceneri di Gramsci (1954). Neppure que-
sto, però, lo soddisfa ed Edipo ritorna così all’infanzia, ai luoghi che ave-
vamo visto nel Prologo del film che ancora una volta sono accompagnati
dall’Introduzione dell’Adagio di Mozart, il “tema della madre”. La colonna
sonora, pertanto, si chiude circolarmente, conferendo al tempo della nar-
razione un profondo senso di immobilità.

Su quest’immagine, animata da un lieve, antico e inenarrabile vento,


scoppia la musica del motivo da cui essa trae, subito, un senso sconvol-
gente – una ripetizione, un ritorno – un’immobilità originale nel muo-
versi vano del tempo – la misteriosa musica del tempo infantile – il canto
d’amore profetico – che è prima e dopo il destino – la fonte di ogni cosa.59
L’Adagio mozartiano sfuma poi nella marcetta Fulgida, che parimenti
avevamo ascoltato nello scorrimento dei titoli di testa e nel Prologo, che
accompagna le ultime parole di Edipo: «Sono giunto. La vita finisce dove
comincia».
All’interno della vastità degli scritti di Pasolini dedicati alla musica,
le sceneggiature cinematografiche occupano senza dubbio una posizio-
ne rilevante per la ricchezza di situazioni che presentano, come abbia-
mo cercato di dimostrare nel corso di queste pagine. Sono, pertanto, uno
strumento indispensabile per capire le funzioni che la musica esercita
all’interno del cinema di poesia pasoliniano e, ancor più, per cogliere il
particolar modo con cui Pasolini concepiva e viveva il linguaggio sonoro.

59 Ivi, p. 449.

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