Musica e Paolini
Musica e Paolini
Musica e Paolini
nelle sceneggiature
di Pasolini
roberto calabretto
1 Per quanto riguarda l’esperienza di Pasolini come sceneggiatore, in questo arco di tempo,
si veda T. Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pier Paolo Pasolini e il cinema prima di «Accattone»,
Milano-Udine, Mimesis, 2017.
2 W. Siti e F. Zabagli, Note all’edizione in P. P. Pasolini, Per il cinema vol. II, Milano, Mondatori,
2001, p. CXVII.
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stenendo che essa sarebbe il luogo in cui letteratura e cinema giungono
a incontrarsi e intrecciarsi costituendo un unico tessuto narrativo. Egli,
pertanto, aveva definito la sceneggiatura come un vero e proprio genere
letterario che la rende «un’opera integra e compiuta in sé stessa» ma, allo
stesso tempo, finalizzata ad una realizzazione successiva, ossia la traspo-
sizione cinematografica. Era, pertanto, uno stadio preparatorio a qualcosa
che si sarebbe realizzato in un secondo momento.
«Nel dettaglio essa non è che un vuoto» scrive Pasolini «una dinamica
che non si concreta, è come un frammento di forza senza direzione, che
si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcriti-
co non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l’opera»3.
Detto altrimenti, la sceneggiatura non possiede una presunta autonomia
la quale, invece, si realizza, mediante la sua trasposizione nella pellicola.
La caratteristica precisa del segno della tecnica della sceneggiatura è quel-
la di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e
riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato se-
condo la strada normale di tutte le lingue scritte e specifiche dei gerghi
letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato,
rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi.4
Date queste premesse, le sceneggiature pasoliniane sono un testo che
presenta una duplicità: hanno un’autonomia letteraria ma sono funzio-
nali alla realizzazione di un film. Presentano una struttura diacronica per
cui sono animate da un puro e semplice “dinamismo”, da una “tensione”,
che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica,
quella della narrativa, a un’altra struttura stilistica, quella del cinema e,
più profondamente, da un sistema linguistico a un altro.5
Non a caso, all’interno di un’intervista, Pasolini ebbe a dire: «Ho un’i-
dea e subito sento una specie di felicità o di violenza che mi guidano. Ed è
così che scrivo dalla prima all’ultima parola senza l’ombra di una minima
esitazione e quindi di angoscia. Le mie sceneggiature nascono come na-
scono e non le ho mai riscritte. […] L’ispirazione interviene soltanto (e in
modo assolutamente imprevedibile) al momento di girare»6.
3 P. P. Pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», in Empirismo
eretico, Milano, Garzanti, 1991, pp. 188-189.
4 Ivi, p. 190.
5 p.p. pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», cit., p. 195.
6 Intervista a Pasolini contenuta in Cahiers du cinéma. Qui tratta da I. Cardazzo, “Accattone”
di Pasolini. Dal testo al film, Bologna, Pendragon, 2008, p. 11.
16
Fabien Kunz-Vitali, a tal fine, per mettere in risalto le modalità con cui
Pasolini scriveva le proprie sceneggiature, analizza un passo da quella de
Il capo della televisione, episodio centrale della sceneggiatura che Pasolini
scrisse con Franco Citti e Fabio Paradisi per L’Histoire du soldat, un film che
poi non fu girato a causa della morte del poeta. Mettendo a confronto un
suo episodio di con quello del Soldato, un copione del film scritto da Citti
e Paradisi che precedette la stesura della sceneggiatura vera e propria in
cui intervenne la mano di Pasolini, lo studioso ben mette in rilievo alcuni
tratti che inequivocabilmente mettono in risalto il suo apporto.
Si tratta di un esempio flagrante di dilatazione significativa, la quale,
rapportandosi all’ambientazione dell’episodio centrale della trama, agi-
sce poi su buona parte del seguito narrativo. Siamo a inizio episodio, alla
prima sequenza descrittiva, volta a fissare le coordinate spazio-temporali
dell’inquadratura. Laconica ed efficace, l’esposizione della prima proposta
che segue l’usuale didascalia scenica («est. campagna giorno crocicchio»):
Ninetto solo lungo una stradina ci viene incontro, esce di campo. Per un momen-
to vediamo il campo vuoto: più strade di campagna che s’incrociano. Il soldato
rientra in campo perplesso, prende la strada di sinistra [...].
Si confronti ora questo brano con quello che lo sostituisce nella versione
definitiva:
7 F. Kunz-Vitali, Macchine infernali (da far inceppare). Per una lettura de L’Histoire du soldat di
Pier Paolo Pasolini, in “Studi pasoliniani”, 9, 2015, p. 62.
18
principali nomi del classicismo europeo, quali Johann Sebastian Bach,
Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven. La grandezza della
sua operazione nasce, pertanto, dalle modalità con cui egli sapeva usare
questi materiali a contatto con il mondo delle immagini, creando quel
connubio che renderà straordinarie alcune scene di molti film.
L’originalità delle sue scelte, spesso denigrate e violentemente censu-
rate dalla stampa e dal pubblico, traspare in maniera visibile anche dall’a-
tipico rapporto ch’egli ebbe con i musicisti chiamati a collaborare per la
realizzazione delle sue colonne sonore. Volutamente abbiamo detto “col-
laborare”. Infatti, se nel suo cinema la funzione della musica è importan-
tissima, d’altro canto il ruolo del musicista molte volte, soprattutto nei
primi film, è destinato a rimanere confinato dietro le quinte e a svolge-
re le semplici mansioni del tecnico che realizza le decisioni già adottate
dal regista. La musica, infatti, in lui era preesistente alla realizzazione del
film e poeticamente si univa alle immagini grazie ad un medesimo istin-
to espressivo. Sin dalle sue prime pellicole, egli era convinto, e a questo
suo convincimento egli rimarrà sostanzialmente fedele nell’arco di tut-
ta la sua produzione cinematografica, che la musica di repertorio fosse
la più indicata per il suo cinema.10 In lui agiva la consapevolezza che la
colonna sonora di un film non dovesse semplicemente limitarsi a fornire
un supporto di commento o di accompagnamento. La musica piuttosto
costituiva un dato autobiografico, parte rilevante del suo bagaglio cultu-
rale a cui le immagini del cinema conferivano una nuova funzione. È per
questo ch’essa era preesistente alla realizzazione del film stesso, tale è la
portata dei significati e delle istanze espressive che Pasolini attribuiva al
singolo frammento o tema musicale. Non a caso, quando si troverà a do-
ver giustificare le scelte musicali di Accattone, violentemente attaccate o
nel migliore dei casi accettate con perplessità dalla critica, lo stesso Paso-
lini affermerà a chiare lettere:
10 Proprio per questo suo servirsi di repertori già esistenti, distanziandosi dalla consuetu-
dine allora in voga di avvalersi di musica scritta appositamente per il film, già nel 1963 il
musicista Vittorio Gelmetti riteneva le colonne sonore di Pasolini di eccezionale interesse
e lo definiva un regista unico: «il caso di un regista che, almeno per ora, fa costante ed
esclusivo uso di musiche preesistenti» V. Gelmetti, La musica nei film di Pasolini, “Filmcriti-
ca”, Roma, nn. 151– 152, novembre–dicembre 1963, p. 570.
Il paesaggio sonoro
Basta allora il canto di un uccelletto per suscitare nei sensi uno sgomento, un’ac-
coratezza mortale, come se quel lievissimo grido colorisse di una luce di tempesta
l’aria intorno alle montagne e le imprigionasse in un’ora eterna, e mai mutata da
20
quando uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nasce-
re la storia di questa regione.15
E ad esso [il tremolio delle stelle] si aggiunse di colpo il linguaggio, fraterno, del
concerto dei grilli, vicino e infinitamente lontano. Tutti e due quei linguaggi pa-
revano voler ripetere senza sosta un concetto solo, ma inesauribile: sarebbe stato
troppo facile pensare ch’esso alludesse alla tristezza e alla morte; era qualcosa di
ben più: era un sapere puro, un pensiero estremamente significativo, ma senza
oggetto.[…] Imperterriti erano invece i grilli; i grilli di quella regione pedemonta-
na, alla fine di una estate |afosa|: essi si sfiatavano a ripetere il loro indecifrabile
messaggio, che aveva come una curva, estremamente significativa: qui, vicino,
aveva un senso quasi di amore assetato, umanamente insaziabile, vivo, mentre
laggiù, declinando nella lontananza |impensabile|, diveniva un lamento che non
poteva né dire né insegnare nulla tanta era la sua malinconia.16
Anche nel suo cinema, queste presenze sonore non hanno una semplice
funzione mimetica ma piuttosto assumono un’importantissima valenza
simbolica. Sin dalle primissime inquadrature del Vangelo secondo Matteo
(1964) la sceneggiatura si sofferma a descrivere «canti di uccelli, voci lon-
tane di gente che si chiama…» mentre nelle strade di Betlemme, all’in-
gresso dei Magi, «il canto di un uccelletto si alza più forte a vibrare nella
pace del mondo ridestato». La celebre sequenza del discorso sulla mon-
tagna di Cristo vede «l’allodola [cedere] il posto alla rondine, che stride
beata per i cieli…»17 mentre sulle falde del Tabor ascoltiamo «il canto della
rana, con la sua afosa veemenza, e quello del grillo, che penetra il cuore
e quello che racconta antichi impeti d’amore mai capiti, dell’usignolo».18
Proprio il canto degli usignoli accompagna i momenti che precedono la
via crucis di Cristo:
15 P. P. Pasolini, Di questo lontano Friuli, in Id., Un paese di temporali e di primule, Parma, Guan-
da, 1993, p. 218.
16 Id., Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, pp. 70, 75. Anche questo canto spesso è associato alla
morte, come accade in Aleluja: «Gris, ciantàit la me muàrt, / ciantàis als par i ciamps / la me
muàrt». Anche le cicale compaiono ne Li litanis dal biel fì: il loro canto evoca immagini in-
vernali: «La siala a clama l’unvièr / – quant ch’a cianta la siala / dut tal mont a’ clar e fer» (P. P.
Pasolini, “Poesie a Casarsa”, in Bestemmia, vl.1, Milano, Garzanti, 1995, pp. 31; 18).
17 Id., Il Vangelo secondo Matteo in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano,
Garzanti, 1991, pp. 43; 51; 83.
18 Ivi, p. 160.
Raramente, nella lettura di testi popolari, ci siamo imbattuti in versi così alti: la
cui dolcezza fosse così dolente, il cui calore fosse così puro. […] È vero, i procedi-
menti stilistici sono popolari, e dello stile popolare più autentico: […] eppure noi
sentiamo in questi frammenti, i cui endecasillabi hanno uno speciale e indeter-
minato effluvio ritmico, troppa felicità poetica, troppa passione per non impli-
carvi la presenza di un poeta storicamente determinabile: rifacciamo il nome del
19 Ivi, p. 232.
20 Non va altresì dimenticato che, nel Vangelo, anche il silenzio assume un ruolo di primo
piano operando un contrasto deciso con la presenza straripante della musica e divenen-
do un elemento di fondamentale importanza dell’azione filmica. Su tutti valgano i silen-
zi che, nel corso del racconto, accompagnano la presenza di Maria assumendo un peso
espressivo di grande rilevanza.
22
Tasso, il Tasso della suprema allure operistica dell’episodio di Sofronia, per stabi-
lire una categoria stilistica e insieme un’epoca storica21.
Solo il secondo napoletano canticchia fra sé, stando disteso, appoggiato a un go-
mito, con le gambe incrociate. Canticchia, con lo sguardo perso lontano fra le
fratte azzurrognole dell’Acqua Santa, verso l’immenso cerchio dei lumi, tremo-
lanti, angosciosi della città. La sua voce è rauca, mormorante, come gli uscisse dal
profondo delle viscere: tuttavia canta una canzone napoletana molto appassiona-
ta, accennandola, ma nel tempo stesso interpretandola con tutto il sentimento.
Quando le note si fanno troppo alte per essere cantate con voce bassa, canta in
falsetto, tirando la gola, e aggricciando la fronte. È un canto che è lungo, viscerale
lamento, pieno di antica disperazione22.
24
CIAPPELLETTO (insistendo): «Sanguisughe. Vermi di camposanto».
PRIMO USURAIO (in allarme): «Ehi, ma che dici?»
CIAPPELLETTO (continuando): «Pidocchiosi. Uomini di merda».
USURAI (buttandola in ridere): «Ah! Ah! Ma questo ci sta facendo uno schifo!».
CIAPPELLETTO: «Usurai!» (sputa)
SECONDO USURAIO (lo interrompe adirato): «Cumpa’ tu stai uscendo dal semi-
nato... eh!»
CIAPPELLETTO (ridendo): «Sto scherzando!»
PRIMO USURAIO: «Ah, stai scherzando...» (ride)
CIAPPELLETTO: «Io sono di Napoli, voi siete di Napoli! Vogliamoci bene, siamo
tutti fratelli nel bene e nel male...»
SECONDO USURAIO: «Hai raggione...»
CIAPPELLETTO: «Napoli, Napoli mia! Soltanto chi ti perde ti vuol bene…»24.
24 Id., Decameron, in Id., Trilogia della vita, Milano, Mondadori, 1990, pp. 38-39.
25 La sagra di Giarabub è una canzone fascista, scritta nel 1941 da Ruccione, De Torres e
Simeoni. Il suo testo parla di un tragico evento avvenuto nell’oasi di Giarabub in Libia nel
1940, dove i soldati combatterono disperatamente per bloccare l’offensiva inglese. «Co-
lonnello non voglio pane: / dammi piombo del mio moschetto: / c’è la terra del mio sac-
chetto / che per oggi mi basterà», recita il testo originale. Gianni Borgna ricorda l’enorme
e immediata popolarità della canzone e le versioni che da essa nacquero. La musica della
canzone era copiata da un brano precedente, La canzone dei volontari, che era comparsa nel
1935 nel film Amo te sola di Mattoli.
26 Si tratta di Madonna dell’Angeli, cantata da Cartagine nel momento in cui Accattone e i
napoletani entrano nell’osteria. È questa una canzone popolare romana scritta da Giusep-
pe Micheli e musicata da Rossi. Ancora una volta, come abbiamo visto, il testo è segnato
dalla drammaticità della morte che ha distrutto la vita di una famiglia. La felicità dei primi
momenti della sua vita, consumati nell’attesa della nascita di un figlio («Era d’ottobre / e
dentro ar core mio c’era ‘na febbre / de baci ardenti e de felicità, felicità»), viene ben presto
distrutta. Il neonato, infatti, morirà e, poco dopo, anche la moglie Nina. «È stato come un
furmine / er pupo nun c’è più, vôta è la cunnola; / strappate er nastro bianco da la porta /
che pure Nina è morta. / Triste dicembre / sur core mio ce so’ calate l’ombre / ciò tutto gelo
intorno e fo’ pietà, e fo pità. / Ma su tramezzo all’angeli / ne vedo volà due co’ Voi Maria /
pe’ carità ridateme quell’angeli / Madonna mia».
27 Questi versi sono tratti da La Madonna dell’urione, di Micheli e Rossi. La Madonne dell’u-
rione fa parte della religiosità del rione di Trastevere, nelle cui vie viene portata in proces-
sione.
28 «Non vi fu spettacolo [negli anni venti] d’arte varia, o festa famigliare o scampagnata
“for de porta” in cui non s’udisse cantare, sull’arpeggio di una chitarra, la malinconica me-
lodia del Barcarolo romano che sembrava rievocare il classico stornello romanesco d’altri
tempi. […] L’eco der core, e il Barcarolo romano erano ormai consacrate alla più schietta no-
torietà» (G. Micheli, Storia della canzone romana, a cura di G. Borgna, Roma, Newton Com-
pton, 1989 (1), pp. 491–92). Borgna ricorda come il popolo romano «poteva udire [questa
canzone] nelle varie edizioni del San Giovanni, nei piccoli teatri, alla sagra dell’uva di Ma-
rino, alla festa dell’Immacolata nel quartiere Tiburtino e, da ultimo, alla trasteverina “Fe-
sta de Noantri”» (G. Borgna, Storia della canzone italiana, Milano, Mondadori, 1992, p. 97)
La canzone, di Pio Pizzicaria-Romolo Balzani, come abbiamo visto nel corso del capitolo,
descrive un dramma emotivo vissuto nelle acque del Tevere. La sua melodia è segnata dal-
la malinconia e dalla tristezza. Nella sua ultima strofa troviamo: «Er barcarolo va contro
corrente / e quanno canta l’eco s’arisente, / dice: si è vero che tu dai la pace / fiume affatato,
nun me la negà...»
26
Mamma Roma scatta in piedi, col bicchiere in mano, e, detto fatto, si mette a can-
tare con tutti i sentimenti...
MAMMA ROMA: «Fior de gaggia, / quando canto io con allegria, / mo’ se io dico
tutto rovino ‘sta compagniaaa!».
Scatta in piedi allora lo sposo, coi suoi baffetti neri, e il ciuffo nero di guappo, e gli
occhi ardenti.
CARMINE: «Fiore de sabbia, / tu ridi, scherzi, fai la santa donna, / e invece in petto
schiatti da la rabbia».
MAMMA ROMA: «Fiore de menta, / fermete lingua, ché ce sta n’innocente: / è
mejo che nun veda e che nun senta».
Invece l’innocente, la sposa – tutto d’un botto, chi se l’aspettava? – si alza, di tra i
velami, e con vecchio impeto burino, attacca pure lei
SPOSA: «Fior de cucuzza, / ‘na donna per ‘sti baffi andava pazza, / e adesso che li
perde ce va in puzza!»
MAMMA ROMA commenta la propria gioia con questo ultimo rilancio: «Fiore
de merda, / io me so liberata de ‘na corda, / adesso tocca a ‘n’altra a fa la serva!»29.
Mamma Roma cerca con gli occhi ma la baraonda è infernale. Ecco da fondo ai ta-
voli, da un altro vicolo scuro, sbucare il suonatore di piffero, in costume, e dietro,
il codazzo degli altri suonatori. La loro marcia trionfale intorno alla distesa dei
tavoli; berretti frigi, gualdrappe, livree, ori. Un organetto suona, con un minuetto
29 P. P. Pasolini, Mamma Roma, cit., pp. 243-44. Un altro stornello si presenta, nella sceneg-
giatura, alla fine della corsa in motocicletta di Mamma Roma con Ettore. Mamma Roma
canta: «Fior d’ogni fiore / dice che chi c’ià l’oro sia un gran signore, / ma per me nun conta l’oro
come conta er core...» (Ivi, p. 322).
30 Ivi, pp. 261; 255.
31 Ivi, p. 352.
Compatite la povera madre /che ha perso un figlio di fior di età / non aveva più di
vent’anni / e in galera innocente morì... / La mattina il cancello si apre / e io sono
la prima a emtrà / sono una povera madre / che ha perso il figlio nel fior di età... /
Figlio bello, perché n’arispondi / so tu’ madre che ti chiama quaggiù / so’ ‘na madre
che grida vendetta / per un figlio che nun vedrà più... / Io vorrei scavare una fossa
/ ad un passo distante da te / e lì sotterrar le mie ossa / per restare vicino da te...33
Mentre la guardia riempie le gavette, il coatto del canto, sia pure su un al-
tro tono, continua a cantare: «Alla sera il cancello si chiude / e il becchino
mi obbliga a uscì»34.
La musica di commento
32 Ivi, p. 324.
33 Ivi, p. 348.
34 P. P. Pasolini, “Mamma Roma”, in Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1992, p. 447.
35 «Note di musica, accordi di strumenti, brani musicali accennati come per prova, con
tempo di danze («Adagio di Teleman [sic]») […] Accordi, brevi accenni a musiche con rit-
mo di danza («Adagio di Telemann»)» (P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo cit., p. 117;
138). Telemann ricorre spesso nel corso della sceneggiatura: « Salomè che danza una squi-
sita danza che solo vagamente accenna, stilisticamente, ai movimenti della danza orienta-
le. Il supremo “adagio” di Telemann finisce, e finisce la danza» (Ivi, p. 141).
28
una musica colma di sacra allegrezza (Mozart) o musica religiosamente
allegra di Mozart». Non possiamo sapere a quali opere Pasolini facesse
riferimento, data la natura generica di simili indicazioni. Egli, comunque,
in un secondo momento arricchì notevolmente il paesaggio sonoro del
film attingendo a molti repertori e sacrificandone altri previsti in un pri-
mo tempo.
Ma oltre a queste indicazioni poetiche che ben esprimono le funzioni
che la musica è chiamata a esercitare all’interno del film – Bach, ad esem-
pio, è associato a situazioni profetiche – le sceneggiature descrivono in
una maniera molto particolare le situazioni in cui la musica accompagna
e commenta le immagini.
Ritorniamo, ancora una volta, ad Accattone. In questo film, tra le tante
scene che hanno contribuito a creare la sua grandezza e fama, vi è quella
notissima della rissa fra Vittorio e il cognato nella polvere delle borgate
della periferia romana. Dal punto di vista delle scelte musicali, questa
scena è emblematica. Seguendo la sceneggiatura, i toni drammatici della
situazione emergono visibilmente. Il cognato, infuriato dalla presenza di
Vittorio a casa sua, inizia ad insultarlo violentemente:
Ah, te la piji scherzando eh! Avanzo de galera che nun sei altro! Giusto la faccia
tua ce vò a presentatte qua! Vattene! Che la faccia tua nun vojo che la veda, tu’ fijo!
Nun vojo che se vergogni d’avecce avuto un padre così!
Ma Mamma Roma è come sprofondata nel suo pianto di bestia: il suo furore, più
che contro Carmine è contro la vita, il destino. Non può far altro che disperarsi. È
completamente impotente, e rantola di dolore. […] E, quando Mamma Roma ren-
de noto a Carmine la sua decisione di non andare più a battere, questi esplode:
«Ahò, senti ‘pezza da piedi! Te ricordi quando t’ho trovata io, eri piena de pidoc-
chi! Io t’ho ripulito! Nemmeno le mutande sapevi che erano! Io, te l’ho insegnato
a mettere le mutande! T’ho civilizzato! (urlando ancora di più) Io ventitrè anni e
te quaranta! Te lo sei saputo pappà, Carmine, eh (si batte er petto). ‘Sto pischello!
Te, m’hai fatto conoscere i soldi! (urlando ancora di più) Chi t’ha chiesti, li soldi!
Pe’ forza, me te sei voluta pijà, pe’ forza. Io me ne venivo dal paesello, che nemme-
no lo sapevo che esistevano le donne come te! E te m’hai rovinato! Te, m’hai fatto
diventà un pappone! Te! Perché? Non è vero?»39.
La feroce brutalità di questo dialogo (ad un certo punto Mamma Roma cer-
cherà anche di uccidere Carmine con un coltello), è contrappuntata dalla
musica di Antonio Vivaldi, con le sonorità dolci e intense dell’ottavino e
37 Ivi, p. 212.
38 Ivi, p. 231.
39 Id., Mamma Roma cit., pp. 329–331.
30
del pizzicato dell’accompagnamento orchestrale. Ancora una volta, come
già era accaduto in Accattone, la degradazione di un «pappone» è commen-
tata da una musica sublime e dotata di grande tensione spirituale.
Vivaldi è presente anche in una scena analoga a quella celebre della ris-
sa nella polvere in Accattone. Si tratta del momento in cui Ettore viene pe-
stato dagli amici, infuriati con lui perché si stava allontanando con Bruna,
nel prato Cecafumo. La lite inizia quando Augusto esclama: «A chi li hai
detti i morti! Ahò! Mo se nun la fai finita te meno io solo! Te lo faccio vede
se siamo in tanti!». Ettore risponde: «A chi meni, a chi meni te! E viemme
a menà se sei bono! Li mortacci tua!».
A quel punto allora:
Augusto si lancia addosso a lui inferocito. I due cominciano a lottare, con violenza
silenziosa. Si colpiscono a pugni, si gettano per terra, aggrappati ai capelli, al collo.
Dopo un po’, tutti gli altri, vedendo che Augusto solo non riesce a vincere Ettore, si
buttano addosso a Ettore. Lo strappano da Augusto, e quando è carponi, comincia-
no a colpirlo a pugni in faccia, sui fianchi. Uno lo prende a calci. Lo massacrano40.
Il Concerto per fagotto di Vivaldi “esplode” proprio nel momento in cui Et-
tore si trova a terra sfigurato e distrutto e, in tal modo, santifica la sua
sofferenza.
40 Ivi, p. 297.
Così si ricorderà la musica “funzionale” per es. canti gregoriani, o canti esplicita-
mente ecclesiastici - era cessata di colpo con l’apparizione del “corpo di Giasone” a
Medea che pregava. Ora, questa musica, mentre Medea vaga fuori di sé nei luoghi
deserti intorno all’accampamento, sembra riaffiorare, ma subito svanisce, o cade
di colpo. Segno che ciò che Medea disperatamente tenta ricostruire il suo rappor-
to sacro con la realtà non riesce; non può più riuscire41.
Metafore musicali
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sica entra a far parte della colonna sonora del film in cui accompagna la
via crucis di Cristo.
Anche in Edipo re (1967), in cui Pasolini assume il compito del coordi-
namento musicale, gli adagi musicali costellano ripetutamente le pagine
della sceneggiatura.
La musica strana che risuona in tutto quel silenzio, dà all’ora l’aria del miracolo:
è la solita musica popolare antica, simile a quella dei negri, che obbedisce ad al-
tre regole che le nostre. L’immensità dell’orizzonte ne è misteriosamente invasa.
Mette addosso insieme piacere e terrore: rende insieme più piccolo e immensa-
mente più grande, più familiare e disumano, quel lungo tratto di strada nel deser-
to. A lungo Edipo cammina, come attratto da quel canto44.
Il frastuono delle musiche popolari che risuonano ora qua ora là, sembrano il se-
gno della vera realtà del mondo, che a Edipo ora è sfuggita. [...] Portate dal vento
giungono dal santuario più forti le allegre musiche popolari, cariche di infiniti e
antichi presagi46.
Ed ecco che, in quei luoghi, assurdo, comincia a errare per l’aria il suono di un flau-
to. Edipo guarda negli occhi il ragazzo che lo guarda, e sa, ma tace. Camminano
ancora, ora come guidati da quel suono [...]. Non c’è che il sole. Ma, accucciato tra
due cespugli selvaggi, ecco un uomo. Un vecchio uomo, grasso, pesante, segnato
dalla vecchiezza su un viso restato infante. Ma le pupille non seguono il suono
doloroso, funebre e severo del flauto. [...] I due sono uno di fronte all’altro: Edipo
coi suoi occhi di ragazzo, Tiresia coi suoi occhi di cieco. Tutto quello che hanno da
dirsi, non è che un lungo silenzio. Poi Tiresia ricomincia a suonare. Le note del
flauto risuonano alte e pure: il loro dolore è il dolore del mondo. Alle prime note
del flauto che ricomincia a suonare, gli occhi di Edipo si riempiono di lacrime.
Non si sa vincere, e uno scoppio di pianto, terribile e insieme immensamente
consolatore lo scuote. Cade in ginocchio, e sta per ascoltare quel misterioso mes-
saggio, come se fosse il suono di una funzione sacra49.
47 A ragione Serafino Murri, parlando di Edipo re, scrive: «Se in precedenza alla parola
spettava il compito di condurre la riflessione, di esprimere le emozioni dei personaggi, di
chiarificare la vicenda, mentre alle suggestioni pittoriche, al gusto del bianco e nero e dei
ritmi fratti del cinema muto, spettava il compito di evocare un clima generale, in qualche
modo estetizzante, ora è l’immediatezza delle componenti sonore e visive dell’immagine
nella quasi totale assenza di dialogo a creare una “evidenza narrativa” non concettualizza-
bile, laddove la parola, lo strumento dialettico borghese, non è più che uno dei componen-
ti dell’immagine, componente il più delle volte ellittico, oscuro, involuto, a cui spetta il
compito di creare semmai un clima emotivo ed estetizzante» (S. Murri, Pier Paolo Pasolini,
Milano, Il Castoro, 1994, p. 90).
48 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., p. 397.
49 Ivi, pp. 396-397.
34
Una musica lontana si leva nella notte, perdendosi presto: è il motivo arcano del
flauto di Tiresia, che sembra disegnare nel disegno del destino, eppure misterio-
samente oltre... la madre50.
Canta, ma non canta di sé. [...] [pronuncia la voce interiore di Edipo] È per gli altri
che canta, è degli altri che canta, è per me che canta, è di me che canta. Sa di me, e
si rivolge a me! Poeta! Tu, poeta, col tuo incarico di cogliere il dolore degli altri e di
esprimerlo come se fosse lo stesso dolore, a esprimersi... Il destino continua oltre
ciò che il destino riserva. Io ascolto ciò che è al di là del mio destino.51
Ed ecco venire verso di lui il ragazzo-nunzio, con la sua umile faccia pietosa: tiene
in mano qualcosa, però. È un flauto. Un flauto come quello di Tiresia. Il flauto di
chi è cieco. Il flauto che fa tornare le cose nelle regole, che codifica lo scandalo54.
55 «Ho girato […] il finale, o meglio il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho iniziato
a scrivere poesie; è la città in cui mi sono trovato naturalmente integrato nella società
borghese; allora credevo di essere un poeta di questo mondo, come se questo mondo
fosse stato assoluto, unico, come se non fossero mai esistite le divisioni di classe. Credevo
nell’assoluto del mondo borghese. Con il disincanto, poi, Edipo lascia dietro di sé il mondo
della borghesia e s’inoltra sempre di più nel mondo popolare, dei lavoratori. Se ne va a
cantare, non più per la borghesia, ma per la classe degli sfruttati. Di qui questa lunga
marcia verso le fabbriche. Dove, probabilmente, l’aspetta un altro disincanto...» (P. P. Pa-
solini, ll sogno del centauro, a cura di J. Duflot, Roma 1983, p. 101 (P.P. Pasolini, Les dernières
paroles d’un impie [1969-75], Paris 1981)
56 P. P. Pasolini, Edipo re, cit., pp. 433-444.
57 Ivi, pp. 445-446.
58 Ivi, p. 447.
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Pali, già utilizzato nel Vangelo secondo Matteo, che compare mentre vedia-
mo alcune fabbriche della periferia milanese. Questa seconda sequenza
rievoca il periodo che va dal Dopoguerra a tutti gli anni cinquanta, emble-
maticamente rappresentato da Le ceneri di Gramsci (1954). Neppure que-
sto, però, lo soddisfa ed Edipo ritorna così all’infanzia, ai luoghi che ave-
vamo visto nel Prologo del film che ancora una volta sono accompagnati
dall’Introduzione dell’Adagio di Mozart, il “tema della madre”. La colonna
sonora, pertanto, si chiude circolarmente, conferendo al tempo della nar-
razione un profondo senso di immobilità.
59 Ivi, p. 449.