La Scoperta Dell'america
La Scoperta Dell'america
La Scoperta Dell'america
LA SCOPERTA DELL’AMERICA
di Luca Moreno
I fatti sono noti. Così come lo sono le ambiguità. Il 12 ottobre del 1492 l’America è
“scoperta”. Anche se Cristoforo Colombo quel giorno festeggiò l’arrivo su terre da
lui chiamate Indie, in realtà aveva raggiunto le Bahamas; fu in un successivo viaggio
che prese coscienza di avere scoperto un nuovo continente, chiamato America da
Amerigo Vespucci, il primo che seppe descriverlo in modo sufficientemente
dettagliato (per i tempi). Da qui un diluvio di notizie canoniche: le tre caravelle, i due
sovrani cattolici che avevano finanziato l’impresa – Ferdinando d’Aragona e Isabella
di Castiglia – che, un po’ come figurine, ci hanno accompagnato fin dai primi anni
delle scuole elementari, quando il viaggio ci veniva presentato come una specie di
crociera, sì interessata, anche un po’ impegnativa, ma animata da ottime intenzioni
(di cui, come è noto, è riccamente lastricata la via dell’Inferno).
In un certo senso si può dire che il 12 ottobre 1492 esiste, più che per se stesso, per
tutto ciò che nei decenni successivi produsse; e ciò che produsse non deve essere
attribuito soltanto a Colombo, ma a tutti coloro che, anno dopo anno, per i motivi più
disparati si recarono in quelle terre sconosciute. Prima di tutto le conseguenze
spicciole: mais, patata, peperoni, pomodori, fagioli, arachidi, ananas e cacao
sono solo alcuni dei prodotti importati da laggiù; ma anche lo stesso tacchino fu
scoperto dagli Spagnoli in una delle loro incursioni in Messico nel 1520; sì, perché la
scoperta dell’America assai rapidamente diventò la scoperta delle Americhe,
anche se si continuò per lungo tempo a chiamare quei territori Indie Occidentali.
Questi cambiamenti nella condizione alimentare degli Europei, se è vero che “siamo
ciò che mangiamo”, furono importantissimi; ma è anche vero che “non di solo pane
vive l’uomo” e, sotto questo aspetto, il viaggio di Colombo costrinse i vecchi europei
a ripensare il concetto di “distanza”, a ripensare la forma stessa del Pianeta, a
ricontarsi, li costrinse a ricollocarsi geograficamente in una posizione che diventerà
inesorabilmente periferica; non certo politicamente – per questo dovremmo attendere
il dissanguamento che l’Europa fece di se stessa dopo le due guerre mondiali.
Impossibile poi tacere della grande questione umana legata a un evento che per alcuni
è assai discutibile festeggiare. I fatti parlano chiaro: gli Europei non soltanto non
seppero rispettare le culture con le quali in progresso di tempo entrarono in contatto –
una richiesta francamente eccessiva, perché il “rispetto della cultura altrui” come la
“cultura della diversità” è una conquista tutta novecentesca e post bellica – ma
nemmeno seppero rispettare la persona umana in quanto tale; e ciò è meno
giustificabile vista la religiosità diffusa della società del tempo (intendo dire, rispetto
alla nostra).
Ma ci sono delle ragioni che non devono essere dimenticate: la società europea del
XV secolo è una società nobiliare, ancora rigidamente feudale, basata sul lignaggio,
sulla distinzione di sangue, su una legislazione positiva diversa a seconda della
categoria sociale in cui si era inseriti; come pretendere che si riconoscesse un diritto
all’esistenza a persone che apparivano ai conquistatori simili a strani animali? Vi è
poi discordanza sui caratteri della colonizzazione: alcuni hanno attribuito lo sterminio
degli indigeni alle scarse resistenze immunitarie ai germi portati dagli Europei; altri
non esitano a parlare di genocidio, compiuto in nome di uno sfruttamento
scientifico delle risorse; molto probabilmente si trattò di concause. Tuttavia, alla base
delle ragioni di molti c’era senz’altro il gusto per il viaggio e anche il sincero
desiderio di diffondere il messaggio cristiano. Voglio dire che uno spirito positivo
c’era; qualcosa di simile a ciò che era accaduto ai tempi delle Crociate, dove una,
per quanto maniacale – ma sincerissima e collettiva – ubriacatura religiosa si mescolò
a precisi interessi economici e politici; ma gli ingenui (o se preferite i puri) in
entrambi i casi, furono una minoranza.
Tutta diversa fu infatti la politica dei governi: l’oro, lo sfruttamento delle miniere, la
disponibilità di essere umani da utilizzare nel modo ritenuto più conveniente e, più in
generale, la brama di Potere furono i motori principali, in virtù di una cultura
percepita come indiscutibilmente superiore. Gli indigeni cioè erano res nullius (“cose
di nessuno”), così come lo erano gli schiavi in epoca romana: senza personalità
giuridica. Successivamente però, almeno a partire dagli anni quaranta del XVI secolo,
le proteste cominciarono a sortire qualche effetto e così il Papato riconobbe agli
Indiani il diritto di riconoscersi come uomini liberi; ma molto di ciò restò teoria.
E allora? Che senso possiamo e dobbiamo dare al 12 ottobre del 1492? Fu un male o
fu un bene? Credo che, come spesso capita nella Storia, non ci si debba imprigionare
in un principio di contraddizione insolubile: la “scoperta” dell’America del nostro
Cristoforo Colombo ha dato il via ad uno dei maggiori disastri umani che la Storia
conosca; e questo è ormai un fatto innegabile, e fu un male. Tuttavia, è anche grazie
a quel Viaggio che le fondamenta della società della diseguaglianza eletta a
valore positivo hanno incominciato a indebolirsi; e questo perché l’entrata in gioco
di smisurati territori e ricchezze hanno prodotto un’accelerazione nel costituirsi
dell’”homo oeconomicus”; quell’uomo cioè che agisce esclusivamente sulla base di
considerazioni tese a massimizzare il proprio benessere materiale. Se oggi quindi
l’elemento di distinzione non è più il sangue, non è più il lignaggio, non è più un
titolo nobiliare, se oggi l’uguaglianza di un uomo con un altro la si valuta non più se
è nobile o contadino, ma rispetto alla sua possibilità di comprare, in qualche modo è
anche grazie (o per colpa) di quel Viaggio…