Termo Mol Sis Biol

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Appunti di Termodinamica Molecolare dei sistemi

biologici
Indice

Elenco delle figure 7

Elenco delle tabelle 11

Parte 1. Modelli e Teorie 13

Capitolo 1. Termodinamica statistica 15


1.1. Introduzione 15
1.2. Elementi di teoria cinetica dei gas 15
1.3. I principi della meccanica statistica 18
1.4. Definizione di insiemi e postulati della termodinamica statistica 26
1.5. Trasformate di Legendre - Applicazioni alla termodinamica classica e statistica 37
1.6. Interpretazione microscopica dell’entropia 40

Capitolo 2. Le proteine 43
2.1. Introduzione 43
2.2. Gli amminoacidi 43
2.3. Struttura delle proteine 45
2.4. Relazione tra la struttura e l’attività delle proteine 48
2.5. Classificazione delle proteine in base alla loro funzione 50
2.6. La denaturazione delle proteine 51

Capitolo 3. Forze intermolecolari e potenziali intermolecolari 67


3.1. Introduzione 67
3.2. Potenziali intermolecolari 70
3.3. Struttura e proprietà dei liquidi 72

Chapter 4. Proprietà volumetriche dei fluidi 77


4.1. Introduzione 77
4.2. Equazioni di stato e proprietà volumetriche dei fluidi 78
4.3. Derivazione dell’equazione di stato di van der waals 81
4.4. Equilibrio osmotico 85
4.5. Pressione osmotica di soluzioni colloidali 86
4.6. Teoria di McMillan-Mayer 87
4.7. Interpretazione dei coefficienti viriali osmotici in termini di termodinamica
classica 92

3
Chapter 5. Termodinamica delle soluzioni polimeriche: teoria di Flory Huggins 99
5.1. Fugacità di soluzioni liquide 99
5.2. Teoria di Flory-Huggins per la fugacità di soluzioni liquide contenenti polimeri 102

Capitolo 6. Equilibri di ionizzazione di biopolimeri e salting-out 111


6.1. Equilibri di ionizzazione degli amminoacidi 111
6.2. Il salting-out di proteine 118
6.3. Interpretazione termodinamico-molecolare del salting-out 121

Chapter 7. Interazioni ligando-proteina e superficie proteina 131


7.1. Interazioni ligando-proteina 131
7.2. Interazioni superficie-proteina 143
7.3. Reazioni enzimatiche 147

Chapter 8. Termodinamica dei sistemi contenenti molecole anfifiliche 167


8.1. I composti anfifilici 167
8.2. Termodinamica dell’autoassociazione 169

Parte 2. Metodi sperimentali 175

Capitolo 9. Misure del peso molecolare di biopolimeri 177


9.1. Nozioni generali sui polimeri 177

Chapter 10. Metodi cromatografici 181


10.1. Introduzione 181
10.2. Teoria della ritenzione 183
10.3. Progetto tecnologico dei sistemi di cromatografia in fase liquida 191
10.4. Strumentazione per la cromatografia in fase liquida 194
10.5. Tipi di cromatografia 196
Glossario di cromatografia 199

Chapter 11. Metodi spettrofotometrici per l’analisi di biopolimeri 201


11.1. Introduzione: l’interazione radiazione elettromagnetica - materia 201
11.2. Analisi spettroscopica di biopolimeri 205

Chapter 12. Metodi per la determinazione degli equilibri proteina-ligando 215

Chapter 13. La misura sperimentale e l’analisi di strutture proteiche 217


13.1. Introduzione 217
13.2. Metodi per la determinazione della struttura proteica 217
13.3. PDB: un archivio per le strutture proteiche 220
13.4. La teoria dei grafi e le strutture proteiche: applicazioni di System Biology 221

Appendice A. Metodo dei moltiplicatori indeterminati 223

Appendice B. Grandezze parziali molari 225

4
Appendice. Indice analitico 227

5
Elenco delle figure

1.3.1Distribuzione di densità per vari gas, alla temperatura di 20°C. 19


1.3.2Distribuzione delle velocità molecolari: traiettoria delle molecole. 20
1.3.3Funzione di distribuzione delle velocità molecolari. 21
1.3.4Piano di Clapyeron: andamento delle isoterme al variare della pressione P e del
volume molare v. 23
1.3.5Contributi energetici nella reazione chimica A + B
AB∗ → C. 24
1.3.6Le reazioni chimiche sono il risultato di collisioni molecolari. 25
1.6.1Possibili configurazioni di un cristallo monodimensionale costituito da due molecole
di A e due molecole di B 41

2.2.1Struttura tipica degli amminoacidi. 43


2.2.2Amminoacidi, divisi per caratteristiche chimiche: in arancione sono mostrati gli
amminoacidi idrofobici, in verde quelli polari, in rosa quelli acidi e in celeste quelli
basici. 44
2.2.3Formazione del legame peptidico per condensazione di due amminoacidi. 45
2.3.1α-eliche. 46
2.3.2Foglietti β. 46
2.3.3Legame disolfuro. 47
2.3.4Struttura tridimensionale dell’emoglobina: quattro catene peptidiche identiche ma
distinte sono unite tra di loro da un gruppo eme. 48
2.3.5Interazioni molecolari che stabilizzano la struttura tridimensionale di una proteina. 49
2.4.1Modello chiave-serratura per l’interpretazione dei meccanismi molecolari della
catalisi enzimatica. 50
2.6.1Formazione di legami idrofobici di tipo cooperativo 60
2.6.2Andamento delle specie proteiche nel tempo per il processo di denaturazione
irreversibile di eq. 4.7.10. 61

3.1.1Potenziale di interazione molecolare. 68


3.2.1Potenziale di Mie (m = 6) 71
3.2.2Potenziale di Lennard-Jones. 72
3.2.3Potenziali intermolecolari 73

7
3.3.1Struttura di un liquido 74
3.3.2Confronto tra le funzioni di distribuzione radiale di un gas (- - - -) e di un liquido
(—–). 75
4
4.3.1Covolume: il volume escluso dal contatto tra due molecole è pari a 3 π σ3 , per ogni
molecola è pari alla metà: b = 32 π σ3 83

5.2.1Modello reticolare bidimensionale per la miscela A+B. 105

6.1.1Andamento delle frazioni di specie ioniche in soluzioni di amminoacidi, al variare


del pH. 114
6.1.2Titolazione potenziometrica di composti proteici: determinazione della carica al
variare del pH. 118
6.2.1Tipico andamento della solubilità di un composto proteico al variare della
concentrazione di sale: S è la solubilità del biopolimero, cSALE è la concentrazione
del sale aggiunto. 119

7.1.1Possibili configurazioni per la disposizione di due molecole di ligando su quattro


siti disponibili in una macromolecola. 134
7.1.2Differenza tra costante di dissociazione microscopica e macroscopica. 135
7.1.3Grafico di Scatchard, per ’unica classe di siti con eguale costante di dissociazione k,
non dipendente dal grado di saturazione dei siti. 136
7.1.4Diagramma di Hill. 137
[ PA]
7.1.5Legame competitivo di due ligandi A e B alla stessa proteina P; y A = [ A]
e
[ PB]
yB = [ B]
. 139
7.1.6Rappresentazione del grafico di Scatchard nel caso di due classi di siti distinti, n1
con costante di dissociazione k1 ed n2 con costante k2 . 141
7.2.1Interazione superficie - proteina. 144
7.2.2Isoterma di Langmuir, con K A = 1 · 10−4 M−1 . 145
7.2.3Isoterme di Langmuir per due composti proteici che si adsorbono su uno stesso
solido con differenti costanti di associazioni K A . 146
7.3.1Energetica delle reazioni catalitiche (enzimatiche): in rosso è raffigurato il percorso
reattivo per una reazione in presenza di catalizzatore, in blu quello per la stessa
reazione in assenza di catalizzatore; ∆Greaz0 = G0prodotti − Greagenti
0 è la variazione di
energia libera di Gibbs associata alla reazione, Ene att è l’energia di reazione in assenza

di catalizzatore, Eeatt è la stessa grandezza relativa alla reazione catalizzata. 148


7.3.2Andamento nel tempo delle concentrazioni di enzima libero, complesso enzima-
substrato, substrato e prodotto. 151

8
7.3.3Cinetica di Michaelis-Menten: le due curve presentano lo stesso valore asintotico,
pari a r MAX = 1 · 10−2 M min−1 e diversi valori di K M . 152
7.3.4Inibizione competitiva. 153
7.3.5Inibizione incompetitiva. 155
7.3.6Inibizione non competitiva. 157
7.3.7Diagramma di Lineweaver-Burk. 158

8.1.1Molecole anfifiliche: struttura della singola molecola e degli aggregati molecolari. 167
8.1.2In natura la tensione superficiale permette ad una moneta di galleggiare e ad un
insetto di camminare sull’acqua. 169
8.1.3Le molecole di tensioattivo abbassano la tensione superficiale dell’acqua. 170
8.2.1Variazione di alcune proprietà chimico-fisiche al variare della concentrazione di
tensioattivo. 171

9.1.1Distribuzione dimensionale discreta 178


9.1.2Distribuzione dimensionale continua. 179

10.1.1
Risoluzione dei componenti della clorofilla mediante cromatografia su strato sottile. 182
10.1.2
Rappresentazione dei diversi tipi di cromatografia. 182
10.2.1
Schema di separazione cromatografica 184
10.2.2
Parametri caratteristici di un picco cromatografico. 187
Andamento di H in funzione di u.
10.2.3 191

11.1.1
Forma d’onda di una radiazione elettromagnetica. 201
11.1.2
Rappresentazione schematica dell’assorbimento di un raggio luminoso incidente
da parte di una soluzione collodale ad una certa concentrazione c del composto
colloidale. 204
11.1.3
Tipico schema di un apparecchio di spettrofotometria. 205
11.2.1
A livello atomico, gli elettroni in particolari orbitali atomici sono in grado di
assorbire la luce ad una particolare lunghezza d’onda e di spostarsi in un orbitale
a maggiore contenuto energetico; tale posizione viene mantenuta per un breve
periodo di tempo, dopo di che l’elettrone ritorna nell’orbitale di provenienza (stato
fondamentale), riemettendo l’energia assorbita per la promozione energetica. 206
11.2.2
Analisi dei dati di diffusione della luce a bassi angoli di misura (SALS). 211
11.2.3
Diagramma di Zimm per l’analisi dei dati di diffusione di luce. 212

13.2.1
Dicroismo circolare. 218
13.2.2
Principio di difffrazione nella cristallografia a raggi X. 219

9
13.2.3
Schema a blocchi che illustra le operazioni che permettono di ottenere a partire dallo
spettro di diffrazione la struttura proteica. 220
13.3.1
Informazioni strutturali immagazzinate nel formato testuale PDB. 221

10
Elenco delle tabelle

1 Idrofobicità degli amminoacidi: scala di Tanford. 54

1 Costanti di van der Waals per gas comuni. 84


2 Costanti critiche per gas comuni: confronto tra il valore reale, misurato e quello
stimato usando l’equazione di stato di van der Waals. 86

1 Effetto del grado di polimerizzazione di poliamminoacidi sugli equilibri di


ionizzazione dei gruppi amminico e carbossilico. 115

1 Principali differenze tra i catalizzatori biologici e gli enzimi. 147

1 Spettro elettromagnetico. 202

11
Parte 1

Modelli e Teorie
CAPITOLO 1

Termodinamica statistica

1.1. Introduzione

La termodinamica classica è una branca della fisica basata sulla formulazione di relazioni
tra le differenti proprietà di sistemi macroscopici (cioè, contenenti più di 1020 molecole).
Queste relazioni tra grandezze macroscopiche non danno informazioni circa le interazioni
tra le molecole costituenti il sistema, cioè non forniscono un’interpretazione microscopica
del comportamento macroscopico del sistema. E’ qui che interviene la termodinamica stati-
stica, che fornisce gli strumenti di base (metodo degli insiemi) per un’interpretazione mole-
colare delle proprietà di equilibrio dei sistemi macroscopici.1 In particolare, uno dei risultati
più interessanti che tale disciplina esprime è che i principi della termodinamica classica so-
no una conseguenza dei postulati della teoria quantistica e di un postulato addizionale di
natura statistica. Inoltre, attraverso la termodinamica statistica è possibile ricavare nuovi
importanti teoremi non deducibili attraverso l’uso esclusivo della termodinamica classica
(ad esempio, il metodo per il calcolo delle capacità termiche da dati spettroscopici).
La termodinamica statistica si colloca nell’ambito più ampio della meccanica statistica, che
è una disciplina piuttosto generale, rivolta a trovare le relazioni tra le proprietà meccani-
che delle singole molecole (velocità e massa) e alcune proprietà dei sistemi macroscopici di
cui le molecole stesse fanno parte. Nello specifico, la termodinamica statistica utilizza gli
strumenti della meccanica statistica, applicandoli ai sistemi all’equilibrio termodinamico.
D’altro canto, la meccanica quantistica definisce i vincoli di esistenza di particolari confi-
gurazioni spaziali e meccaniche dell’insieme di molecole che costituiscono il sistema (stati),
discriminando tra stati accessibili e non accessibili. Gli strumenti matematici di cui si avvale
la meccanica quantistica spesso sono estremamente complicati, ma per gli scopi del presen-
te corso è possibile utilizzare solo concetti relativamente semplici, al fine di ottenere delle
relazioni sufficientemente descrittive tra le grandezze macroscopiche.

1.2. Elementi di teoria cinetica dei gas

Uno dei primi tentativi di mettere in relazione le proprietà chimico-fisiche delle fasi fluide
con le corrispondenti caratteristiche molecolari è rappresentato dalla teoria cinetica dei gas,
che si basa su un’interpretazione prettamente meccanicistica del problema del trasferimento
1Nella seguente trattazione, è omessa l’estensione ai sistemi di non equilibrio, pur interessanti per l’analisi dei
fenomeni biologici: infatti, essendo già notevole la complessità degli strumenti della termodinamica statistica
per lo studio di sistemi all’equilibrio termodinamico, è inadatta una trattazione più complessa per lo scopo di
questo corso.

15
di informazioni e proprietà dalla scala microscopica a quella macroscopica: infatti, il prin-
cipio di base di tale teoria è che tutte le proprietà della materia possono essere spiegate in
termini delle proprietà di moto delle singole parti costituenti della materia, siano essi atomi
o molecole o aggregati supramolecolari.
La teoria cinetica è stata sviluppata in origine per descrivere le proprietà dei gas a bassa
pressione e temperature piuttosto elevate, cioè che potessero essere descritti macroscopica-
mente attraverso la legge dei gas perfetti; inoltre, le stesse considerazioni, con gli opportuni
adattamenti, possono essere tradotte anche per l’analisi di soluzioni diluite, che seguono
un’analoga legge riferita alla pressione osmotica (legge di van’t Hoff).

1.2.1. Interpretazione molecolare della pressione di un gas e relazione con l’energia


interna. Se poniamo un certo numero di moli N di un gas all’interno di un recipiente a
volume e temperatura costante, all’interno di questo recipiente si stabilirà una pressione,
che sarà funzione del numero di moli N, del volume del recipiente V e della temperatura T:

(1.2.1) P = P ( N, V, T )

Questa relazione è nota come equazione di stato e varia forma a seconda delle caratteristiche
molecolari del gas, in particolari delle interazioni intermolecolari.
La pressione, tuttavia, rappresenta anche il rapporto tra la forza applicata su di una superfi-
cie e l’estensione della superficie stessa:
F
(1.2.2) P=
A
cioè la pressione che si esercita sulle superfici di un recipiente che contenga il gas è il risultato
di una qualche forza che agisce sulle pareti del recipiente: questa forza altro non è che la
risultante degli urti delle molecole contro le stesse pareti.
Infatti, a livello molecolare ed atomico, anche l’oggetto che macroscopicamente ci appare
come stabile e immutato nel tempo, è costituito da componenti che sono dotati di un mo-
to incessante e caotico, che ne determina le caratteristiche. Per cui, anche se il recipiente
di gas macroscopicamente mostra sempre le stesse caratteristiche di pressione, numero di
moli, volume e temperatura, la realtà microscopica che lo compone sarà costituita da una
molteplicità di molecole o atomi in continuo, ininterrotto movimento.
Le caratteristiche di moto delle molecole, mediate sull’intero numero di molecole stesse,
sono tradotte in proprietà macroscopiche, misurabili attraverso i comuni strumenti (termo-
metro, barometro).
Quello che si trova per la pressione2, ad esempio, è che essa è pari a:
v2 v2
   
2 2 N
(1.2.3) P = ·n· m· = · N · m·
3 2 3 V 2

2Per la trattazione completa del problema, si rimanda ad un manuale di Fisica Generale.

16
D E
v2
dove m · 2è l’energia cinetica del centro di massa del sistema particellare costituito
da tutte le molecole, n è il numero di molecole per unità di volume ed N è il numero di
Avogadro.
Questa relazione è ricavata nell’ipotesi di trasferimento di energia cinetica attraverso urti
completamente elastici, cioè si considerano le molecole come oggetti infinitamente rigidi,
che non si deformano nell’urto; nella realtà, le molecole si deformano in seguito agli urti e
parte dell’energia viene quindi dissipata in questa deformazione.
Per un gas monoatomico, l’energia interna è data dall’energia cinetica delle molecole:
v2
 
2
(1.2.4) U = n· m· → PV = ·U
2 3
Questa espressione, valida per gas monoatomici, può essere generalizzata per gas poliato-
mici3:

(1.2.5) PV = (γ − 1) · U
5
γ= 3 per un gas monoatomico.

1.2.2. Relazione tra temperatura ed energia cinetica delle molecole. Partendo dall’e-
spressione generale, che lega l’energia interna di un gas alla pressione, e facendo l’ipotesi
che anche gas poliatomici l’energia interna del gas sia data dall’energia cinetica media delle
molecole, si ricava4:
v2
 
(1.2.6) P V = ( γ − 1) · N N · V · m ·
2
Per un gas a bassa pressione ed alta temperatura si può fare usare la legge dei gas perfetti:
v2
 
(1.2.7) PV = N R T = (γ − 1) · N N · m ·
2
Da questa relazione si può ricavare la relazione tra temperatura ed energia cinetica delle
molecole:
v2
 
1
(1.2.8) m· = · kB · T
2 γ−1
la costante k B = NR
= 1.38 · 10−23 J/K viene chiamata costante di Boltzmann ed è una delle
costanti universali, largamente utilizzata in termodinamica statistica e molecolare; il nome
è in onore di Ludwig Boltzmann, che è stato uno dei più grandi fisici teorici della storia, ed
è il padre della teoria cinetica dei gas.

3Anche nel caso di gas poliatomici, si fa l’ipotesi che le singole molecole siano sferiche ed infinitamente rigide:
è evidente che in questo caso, molto più che nel caso di gas monoatomici, tali ipotesi siano poco rappresentative
della realtà microscopica.
4Nel caso di gas poliatomici, esiste, a rigore, un contributo ulteriore dovuto ai moti intramolecolari, che si
considerano trascurabili in questa trattazione.

17
1
Per un gas monoatomico, γ −1 = 32 , quindi:

v2
 
3
(1.2.9) m· = kB T
2 2
D E
v2
Ricordiamo che m · 2 rappresenta l’energia cinetica del centro di massa delle molecole,
nelle tre dimensioni spaziali, per cui 32 k B T rappresenta il contributo dell’energia cinetica
nelle tre direzioni, quindi, il contributo per singolo grado di libertà sarà pari a 12 k B T.

1.3. I principi della meccanica statistica

Come visto in precedenza, la teoria cinetica dei gas si basa su un’interpretazione meccani-
cistica delle proprietà macroscopiche della materia, che sono ricavabili dalle caratteristiche
di moto delle singole particelle costituenti (atomi o molecole). Si è visto come, per sistemi
all’equilibrio termico, sia possibile ricavare, a partire da considerazioni puramente mecca-
nicistiche, le proprietà macroscopiche del sistema (densità, pressione e temperatura), me-
diando le proprietà meccaniche dei componenti microscopici. Questo tipo di approccio è
caratteristico di una branca della fisica detta meccanica statistica, una cui parte consistente
è rappresentata appunto dalla teoria cinetica dei gas.
Sino a questo momento, sono state individuate delle relazioni tra grandezze macroscopiche
e valori medi delle proprietà meccaniche dei costituenti la materia; tali valori medi sono
ottenuti da analisi statistica di opportune distribuzioni di tali grandezze meccaniche.
E’ quindi necessario determinare tali distribuzioni (di posizione e velocità delle particelle)
degli atomi o delle molecole che costituiscono la materia, per poi valutare i valori medi
che ci permettono di ricavare le grandezze macroscopiche di interesse (densità, pressione e
temperatura).
Partiamo col considerare una colonna di gas monocomponente di altezza molto elevata, in
equilibrio termico5, la distribuzione spaziale delle molecole di gas unità di volume n varia
con l’altezza della colonna con la legge:
 
mgh
(1.3.1) n = n0 · exp −
kB T
dove n0 è la densità all’altezza h = 0, m è il peso molecolare delle molecole che costituiscono
il gas, g è l’accelerazione di gravità.
Se si confrontano i dati per diversi gas, si vede che maggiore è il peso molecolare, più rapi-
damente il gas si rarefa: questo indicherebbe, in una miscela gassosa, un arricchimento dei
gas più leggeri negli strati superiori. La distribuzione di densità viene generalizzata nella
forma nota come legge di Boltzmann:
 
w
(1.3.2) n = n0 · exp −
kB T
5L’atmosfera terrestre è intrinsecamente non all’equilibrio termico: la temperatura, infatti, diminuisce
all’aumentare dell’altezza.

18
−26
x 10
8

H2

7 CH4

aria
O2

6
n, numero di molecole per m3

0
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
h, m

F IGURA 1.3.1. Distribuzione di densità per vari gas, alla temperatura di 20°C.

dove w = m g h è l’energia potenziale che agisce su ogni singolo atomo o molecola di cui
è costituito il gas; questa legge, derivata nel caso di un campo gravitazionale, può essere
estesa a casi differenti, in cui intervengono altri campi di forze; il termine k B T rappresenta
l’energia dovuta all’agitazione termica, cioè rappresenta l’energia cinetica termica media
delle molecole, che varia proporzionalmente alla temperatura.
La legge di Boltzmann rappresenta, nella forma più generalizzata, un principio cardine della
meccanica statistica:
La probabilità di trovare molecole in una particolare distribuzione nello spazio varia
proporzionalmente con l’esponenziale negativo del rapporto tra l’energia potenziale e
l’energia di attivazione termica.
Se w  k B T, l’energia potenziale prevale sull’agitazione termica, si ha un forte effetto del-
l’ordine imposto dall’energia potenziale, per cui è da attendersi una rarefazione veloce; al
contrario, se w  k B T, al contrario, è prevalente l’effetto di disordine imposto dalla forte
agitazione termica, la densità è pressoché uniforme lungo l’ascissa verticale.

1.3.1. Distribuzione di velocità molecolari. Nello scrivere la legge esponenziale di de-


cadimento della densità, il gas è stato considerato ideale (equazione di stato dei gas perfet-
ti): questo corrispondeva a trascurare l’effetto delle interazioni tra molecole del gas. Sem-
pre in questo caso, aggiungendo l’ipotesi di assenza di urti, valutiamo la distribuzione

19
F IGURA 1.3.2. Distribuzione delle velocità molecolari: traiettoria delle molecole.

corrispondente di velocità molecolari.


Consideriamo tutte le molecole della colonna di gas ai “blocchi di partenza” ad h = 0; tali
molecole avranno velocità iniziali diverse, che consentiranno di raggiungere diverse quo-
te; in particolare, se consideriamo la componente verticale della velocità vz , solo se vz ≥ u
(valore minimo) la molecola potrà raggiungere la quota h corrispondente al valore di u (tra-
iettoria 2, figura 1.3.1); tale valore minimo si trova applicando il principio di conservazione
dell’energia meccanica, per cui:
1
m u2 = m g h → u = 2 g h
p
(1.3.3)
2
In condizioni isoterme, la distribuzione delle densità sarà la stessa, per tutte le particelle, e
quindi il rapporto tra il numero di molecole con vz ≥ u (traiettoria 2, figura 1.3.1) in h = 0 e
quello con vz ≥ 0 (traiettoria 1, figura 1.3.1) sarà pari a:
 
mgh
n2 n 0 · exp − kB T

mgh
 
m u2

(1.3.4) = = exp − = exp −
n1 n0 kB T 2 kB T

20
F IGURA 1.3.3. Funzione di distribuzione delle velocità molecolari.

Questo risultato può essere generalizzato per ogni tipo di distribuzione di velocità moleco-
lari:
energia cinetica

(1.3.5) n∝e kB T

La distribuzione di velocità può essere espressa attraverso una funzione continua f (u) mo-
strata in figura 1.3.3: l’area delimitata dal rettangolo mostrato in figura rappresenta la frazio-
ne di molecole che hanno una velocità compresa tra le velocità u e u + du. La distribuzione
R +∞
deve rispettare la condizione 0 f (u) du = 1.
Il numero di molecole che attraversano una certa sezione con una velocità superiore ad un
certo valore u è data da:
Z +∞ r 2
m − mu
(1.3.6) u f (u) du = · e 2 kB T
u 2 kB T
questa espressione è stata calcolata considerando che le molecole più veloci attraversano la
stessa sezione con una frequenza superiore, per cui la media viene effettuata utilizzando
come pesi le velocità u delle molecole.

21
1.3.2. Applicazioni della teoria cinetica dei gas. Riassumendo brevemente, i principali
risultati della teoria cinetica dei gas sono:

(1) il contributo dell’energia cinetica corrispondente ad ogni grado di libertà è pari a


1
2 k B T;
(2) la probabilità di trovare una particella in una determinata posizione spaziale è pro-
energia potenziale
kB T −
porzionale a e ;
(3) la probabilità che una particella si muova con una certa velocità è proporzionale a
energia cinetica
− kB T
e .

Queste leggi sono inadatte alla descrizione rigorosa di sistemi contenenti un grande numero
di particelle tra di esse interagenti; tuttavia, sotto forti ipotesi semplificative, è possibile
valutare alcune proprietà chimico-fisiche dei sistemi macroscopici.
1.3.2.1. Evaporazione. Consideriamo il caso dell’evaporazione di un liquido; prendiamo
in esame un recipiente di volume elevato, parzialmente riempito con un liquido in equilibrio
con il corrispondente vapore, ad una certa temperatura; supponiamo, inoltre, che le mole-
cole di vapore siano molto distanti le une dalle altre, mentre nel liquido le molecole sono a
distanze di molto inferiori, tenute insieme da una forza di interazione attrattiva.
Il problema consiste nel determinare quante molecole ci sono nella fase vapore nV , rispetto
a quelle presenti nella fase liquida n L : il numero di molecole per unità di volume in fase
vapore nV varia con la temperatura T: è evidente che fornendo calore, l’evaporazione è più
spinta, cioè nV aumenta.
Indichiamo con V1a il numero di atomi per unità di volume nel liquido, cioè Va è il volume
occupato dalla singola molecola nel liquido. Supponiamo che le molecole di liquido sia-
no tenute insieme da una forza di attrazione: questa energia di legame tra le molecole del
liquido viene persa quando esse passano nella fase vapore.
Indichiamo con W il lavoro necessario per portare una singola molecola di liquido in fase
vapore: W ha anche il significato della differenza di energia posseduta nella fase vapore
nella fase liquida:
nV
= e−( V L )/KB T = e− /KB T
E −E W
(1.3.7)
nL
EV ed EL rappresentano le energie potenziali caratteristiche delle molecole nella fase vapore
e liquida.
Analogamente al risultato trovato per l’atmosfera esponenziale, le molecole di liquido sono
più densamente impaccate, poiché hanno un’energia potenziale caratteristica più bassa di
quella vapore (EV − EL = W); inoltre, quanto più elevato è il valore del lavoro W, tanto più
elevata è la differenza di densità nelle due fasi.
Mano a mano che ci si avvicina al punto critico, più simili diventano le densità e minore è il
lavoro necessario per portare le molecole dal liquido al vapore; infatti, all’aumentare della
temperatura (nella regione supercritica di figura 1.3.4 a T ≤ TC ) diminuisce la differenza di

22
T
P

Tc

vL vV v

F IGURA 1.3.4. Piano di Clapyeron: andamento delle isoterme al variare della


pressione P e del volume molare v.

densità ∆v = vV − v L , cioè diminuisce il lavoro W. Nella regione supercritica (T > TC ), il


lavoro W  k B T, per cui è possibile trovare solo il gas, che non può essere liquefatto per
compressione.
Nella formula:

nVa = e−
W/k T
(1.3.8) B

a rigore, al variare della temperatura varia anche il volume occupato dalla singola molecola
di liquido Va , ma questa variazione può essere trascurata nella condizione di W  k B T;
inoltre, anche il lavoro W subisce una variazione con la temperatura.
1.3.2.2. Cinetica chimica. La cinetica chimica si occupa della valutazione dei tempi carat-
teristici affinché due molecole A e B si combinino in un nuovo composto C; secondo una
teoria, detta del complesso attivato, tale tipo di reazione segue uno schema reattivo così
rappresentabile:

(1.3.9) A + B
AB∗ → C

Questa reazione descrive la formazione di un complesso AB∗ (detto complesso attivato), che
non è stabile e dà luogo alla formazione dei prodotti.
La formazione del complesso AB∗ è condizionata dalla collisione di molecole A e B; in par-
ticolare, la collisione deve essere sufficientemente violenta, in modo che il complesso che si
formi AB∗ sia resistente alla disgregazione.

23
F IGURA 1.3.5. Contributi energetici nella reazione chimica A + B
AB∗ → C.

L’energia minima E AB con cui A e B devono collidere per formare AB∗ viene chiamata
energia di attivazione, proprio perché è l’energia necessaria ad attivare la reazione.
Se individuiamo una superficie σAB di contatto tra le molecole di A e di B 1.3.6, il problema
si riduce alla determinazione della frazione delle molecole che impattano in corrispondenza
della superficie con velocità v sufficiente a innescare la reazione chimica; questo problema
equivale a trovare le coppie di molecole A e B che possiedano energia sufficiente E AB , che è
ricavabile come:

R f = n A n B · σAB v e−
E AB/k T
(1.3.10) B

n A ed n B rappresentano, rispettivamente, il numero di molecole di A e di B per unità di


volume; la velocità con la quale tali molecole impattano R f , quindi, ha le unità di L−3 T −1 ,
 

ed indica, quindi, il numero di collisioni che si verificano per unità di volume e di tempo;
da notare come la velocità di collisione, che coincide anche con la velocità della reazione
diretta A + B → C, dipenda dalle concentrazioni n A ed n B e da un fattore esponenziale ne-
gativo e−EAB/k B T , che lega il fattore che non dipende dalle concentrazioni (chiamato costante

24
F IGURA 1.3.6. Le reazioni chimiche sono il risultato di collisioni molecolari.

cinetica) alla temperatura.


La velocità della reazione inversa AB∗
A + B sarà quindi pari a:
0
Rr = c0 · n AB · e−( )/k B T
E AB +∆Greaz
(1.3.11)

la costante c0 ingloba tutti i contributi relativi al volume degli atomi e la velocità delle colli-
sioni; notare come, in questo caso, la formazione dei reagenti a partire dal complesso attivato
richieda la stessa energia che ci vorrebbe a partire dai prodotti per ottenere il complesso atti-
vato, che è superiore rispetto a quella necessaria per ottenere il complesso attivato a partire
dai reagenti.
All’equilibrio, queste due velocità sono uguali e quindi si trova:
0
= c0 · n AB · e−( )/k B T
E AB +∆Greaz
n A n B · σAB v e−
E AB/k T
(1.3.12) R f = Rr → B

da cui si ottiene
n AB ∆G0
(1.3.13) = C · e− reaz/k B T
n A nB

25
C è una costante che comprende l’ampiezza della sezione σAB , le velocità molecolari e tut-
ti gli altri fattori che non dipendono da E AB e dalle concentrazioni n; l’espressione 1.3.13,
d’altronde, altro non è che una forma analoga della relazione di van’t Hoff, che lega la co-
stante d’equilibrio alla variazione dell’energia libera di Gibbs standard ∆Greaz
0 associata alla
reazione stessa.

1.4. Definizione di insiemi e postulati della termodinamica statistica

Per poter studiare attraverso un metodo meccanicistico e deterministico un insieme macro-


scopico, occorrerebbe determinare le condizioni iniziali di ogni molecola, cioè, in un de-
terminato istante a partire dal quale si inizia l’osservazione, e valutare a partire da queste,
mediante l’utilizzo delle leggi della meccanica classica, le posizioni e le velocità (o i momen-
ti) di tutte le particelle, nonchè le vicendevoli interazioni, che determinano il campo di forza
in cui la particelle si muovono.
Questo approccio, applicato rigorosamente, non è attuabile per sistemi macroscopici, vista
la mole immensa di calcoli necessari e l’impossibilità di definire le interazioni di più di due
corpi mediante un metodo esatto.
Agli inizi del ’900, il “padre fondatore” della termodinamica chimica, J.W. Gibbs, propose
una procedura alternativa, che permettesse di correlare grandezze macroscopiche a proprie-
tà microscopiche dei sistemi, la quale si avvalesse di strumenti statistici; tale metodo, noto
come degli insiemi di Gibbs, si basa sulla definizione di insieme di sistemi e su alcuni postulati
che riguardano le proprietà (mediate) di tali insiemi.
Un insieme è una collezione (mentale) di un numero NS molto ampio di sistemi, ognuni dei
quali presenti gli stessi valori delle proprietà macroscopiche di un sistema osservato. Ad
esempio, supponiamo che il sisteme di interesse abbia un volume V, contenga N molecole
di un unico componente e che sia immerso in un bagno termico di temperatura T; dal punto
di vista termodinamico, lo stato è completamente definito. L’insieme d’interesse, atto allo
studio del sistema macroscopico dato, è costituito da un numero elevatissimo NS di sistemi
distinguibili di molecole, ognuno dei quali è costruito MICROSCOPICAMENTE in modo da
replicare MACROSCOPICAMENTE lo stato termodinamico (N, V e T) del sistema originale.
In altre parole, tutti i sistemi costituenti l’insieme sono distinti a livello microscopico, ma in-
distinguibili da punto di vista macroscopico; ancora, sono equivalenti dal punto di vista ma-
croscopico, ma non a livello molecolare. Il numero possibile di sistemi atti a realizzare equi-
valenti caratteristiche termodinamiche macroscopiche è molto elevato, anche perchè i vinco-
li da rispettare (grandezze macroscopiche, N, T e V) sono in numero molto inferiore rispetto
al numero di particelle e, quindi, ai gradi di libertà del sistema a livello microscopico.
Prima di definire i pilastri della termodinamica statistica, cioè i postulati e tipi di insiemi
rappresentativi di sistemi termodinamici caratteristici, verranno chiariti alcuni dei concetti
chiave utilizzati di seguito.

26
Spesso parleremo, nelle prossime pagine, di stato quantico di un sistema. Tale espressione si
riferisce, genericamente, allo stato energetico complessivo del sistema di particelle oggetto
dello studio, essendo l’energia complessiva data dall’energia delle singole molecole, la quale
non può variare in maniera continua, ma assume dei valori discreti, quantizzati, appunto,
come prescrive la meccanica quantistica; questa visione è tuttavia semplificata ed alcune
considerazioni aggiuntive sono necessarie.
Lo stato quantico di una singola molecola è determinato dalle soluzioni approssimate del-
l’equazione di Schrödinger, ricavabili solo nel caso di molecole indipendenti (ad esempio, in
un gas perfetto, in cui il potenziale intermolecolare è nullo), quindi non nel caso di molecole
all’interno di un sistema in fase condensata. Di conseguenza, è possibile definire lo stato
quantico di una singola molecola a partire dalle soluzioni approssimate dell’equazione di
Schrödinger, esclusivamente nel caso in cui le molecole siano indipendenti (cioè che il po-
tenziale intermolecolare sia identicamente nullo in tutto lo spazio), situazione che si verifica
solamente nel caso dei gas perfetti; usando una frase dello stesso Schrödinger, il gas perfetto
è l’unico sistema per il quale è possibile attribuire ad ogni molecola la sua energia “privata”.
Tuttavia, considerazioni analoghe che portano alla formulazione delle funzioni d’onda per
molecole poliatomiche permettono di trovare una soluzione alla definizione dello stato quan-
tico per sistemi macroscopici costituiti da particelle interagenti. Infatti, in questo caso, non
si può sicuramente attuare un approccio riduzionistico al problema e utilizzare le informa-
zioni circa lo stato quantico delle particelle per ricavare quello dell’intero sistema attraverso
una “semplice” somma estesa all’intero insieme di particelle, ma è di grande aiuto seguire
una strada “sistemica”, cioè l’intero sistema è irriducibile alle sue parti costituenti, a causa
del quanto il forte potenziale intermolecolare.
Un sistema macroscopico è all’equilibrio se le sue proprietà macroscopiche rimangono co-
stanti nel tempo; a livello microscopico, lo stato di equilibrio deve essere necessariamente
interpretato in senso dinamico, ovvero i corrispondenti valori macroscopici devono esse-
re interpretati come medie di valori sull’intero insieme, ulteriormente mediati sull’intero
intervallo di tempo necessario a raccogliere la misura (che spesso è di diversi ordini di gran-
dezza superiore rispetto a quello tipico delle fluttuazioni del sistema da uno stato quantico
all’altro).
In questi termini, gli stati quantici di un sistema macroscopico possono essere classificati
come:

(1) accessibili, cioè sono stati che possono essere raggiunti tanto facilmente dal sistema
che vengono raggiunti un numero elevato di volte durante l’intervallo di misura sul
sistema macroscopico;
(2) inaccessibili, cioè che non possono essere mai raggiunti nel tempo e nelle condizioni
della misura.

La media viene sempre effettuata su tutti gli stati quantici accessibili, tenendo conto che essi
sono in numero elevatissimo e che cambiano molto velocemente nel corso di una singola

27
misura.
Il metodo degli insiemi si avvale di due postulati, cioè di leggi non dimostrabili, che assu-
mono la validità di principi primi, su cui si basano i risultati ricavati di seguito.

P RIMO P OSTULATO
La media su un (lungo) intervallo di tempo di una variabile meccanica M del sistema
termodinamico in esame è uguale alla media estesa all’insieme della stessa variabile
M, nel limite, ammesso che i sistemi dell’insieme replichino lo stato termodinamico e
l’ambiente del sistema macroscopico in esame.

In altre parole, il primo postulato afferma che si può sostituire ad una media nel tempo di
una grandezza M del sistema in esame una media istantanea di un grosso numero di sistemi,
equivalenti in termini di grandezze macroscopiche, al sistema in esame.
I sistemi che sono di maggior interesse nell’ambito della termodinamica statistica di equili-
brio sono:
(1) sistema isolato (N, V, E = energia fissati), cui corrisponde l’insieme microcanonico;
(2) sistema chiuso, isotermo (N, T, V dati), cui corrisponde l’insieme canonico;
(3) sistema aperto, isotermo (µ, V, T dati, dove µ è il potenziale chimico), cui corrispon-
de l’insieme gran canonico.
Per enunciare il secondo postulato, che fornisce delle indicazioni per valutare la probabili-
tà di occorrenza degli stati energetici per un insieme microcanonico, è necessario precisare
che con il termine “stato quantico” si indica il livello energetico delle molecole costituenti i
sistemi.

S ECONDO P OSTULATO
In un insieme (NS → ∞) rappresentativo di un sistema termodinamico isolato, i siste-
mi dell’insieme sono distribuiti uniformemente, vale a dire, con uguale probabilità o
frequenza, su tutti i possibili stati quantici consistenti con i valori specifici di N, V ed
E.

In altre parole, ogni stato quantico è equiprobabile, cioè è rappresentato dallo stesso numero
di sistemi dell’insieme.
Quando combiniamo il primo e il secondo postulato otteniamo che, nell’insieme microcano-
nico, un singolo sistema spende lo stesso tempo (considerando un’osservazione su un lungo
intervallo di tempo) in ogni stato quantico; quest’ultima considerazione viene denominata
“ipotesi ergodica”.6
6In meccanica quantistica, l’energia associata ad atomi e particelle subatomiche (elettroni, principalmente,
in orbitali ibridizzati e non) non può assumere valori continui, ma discreti, di solito multipli di un valore
elementare, che è detto quanto di energia. Un sistema costituito da un numero limitato di oggetti che seguono
la meccanica quantistica genera un insieme discreto di valori possibili per l’energia del sistema, data dalla
somma dell’energia degli elementi che costituiscono il sistema, in tutte le possibili configurazioni energetiche.
Se il numero di elementi è molto elevato, i valori possibili per l’energia del sistema sono comunque discreti,

28
Si indica con il termine degenerazione la condizioni in cui due o più stati stazionari dello
stesso sistema hanno la stessa energia, anche se le loro funzioni d’onda sono differenti.7
Nel caso di un sistema con un numero elevato di particelle, il valore di E può variare in
maniera pressoché continua; inoltre, ognuno dei livelli energetici (corrispondente ad un de-
terminato valore di E) ha un’elevata degenerazione (cioè, un livello energetico complessivo
del sistema può essere realizzato da moltissime differenti configurazioni energetiche delle
particelle costituenti il sistema stesso). Indichiamo con ω ( N, V, E) il numero di stati quan-
tici associabili ad un livello energetico E per un sistema quanto-meccanico composto da N
molecole in un volume V.
I due postulati fondamentali della termodinamica statistica stabiliscono le proprietà caratte-
ristiche dell’insieme microcanonico; inoltre, è possibile ricavare le proprietà degli altri due
sistemi, canonico e gran canonico.

1.4.1. Insieme canonico. L’insieme canonico serve a rappresentare un sistema reale con
volume V fissato, numero di molecole N fissato, immerso in un bagno termico a temperatura
T costante.
In questo, caso, a differenza del sistema microcanonico, il sistema non è isolato, per cui
l’energia totale del sistema non rimane costante, ma fluttua. Quindi, l’obiettivo dello studio
è individuare gli stati quantici dei sistemi costituenti l’insieme, consistenti con differenti
livelli energetici E.
Visto che le variabili meccaniche hanno valori ben definiti in un dato stato quantico, rima-
ne da determinare la frazione dei sistemi costituenti l’insieme che sono in un dato stato
quantico (o, in alternativa, la probabilità che un sistema estratto a caso tra quelli costituenti
l’insieme sia in un determinato stato quantico).
Per costruire l’insieme rappresentativo del sistema reale teniamo conto che quest’ultimo ha
la caratteristica di essere tenuto ad una temperatura costante T; allora, immaginiamo gli NS
sistemi costituenti il nostro insieme (NS → ∞) ognuno con pari N e V, messi insieme in un
reticolo; le pareti divisorie tra i diversi sistemi sono impermeabili al passaggio di molecole,
ma non di calore o energia (sistemi chiusi).
Per raggiungere e fissare la temperatura T, l’intero blocco così costituito viene posto in un
grande bagno termico a temperatura costante T; quando viene raggiunto l’equilibrio, tutto il
blocco viene isolato termicamente e l’insieme è rimosso dal bagno termico; l’intero insieme è
ora un nuovo sistema (che chiameremo “supersistema” per evitare confusione) aventi NS N
molecole, volume NS V ed energia totale Et . Ogni singolo sistema è effettivamente posto
in un bagno termico molto grande (NS → ∞8 ) a temperatura T, e, quindi, rappresenta
adeguatamente il sistema macroscopico originario.

ma al limite NS → ∞, possono dar luogo ad una distribuzione continua.


7
Tale proprietà deriva da un’analoga condizione matematica, per cui due funzioni caratteristiche di un
operatore hanno lo stesso valore caratteristico.
8I rimanenti N − 1 sistemi dell’insieme servono come grande bagno termico per il singolo sistema in esame.
S

29
Per come è stato costituito, l’insieme canonico intero (“supersistema”) è equivalente ad un
sistema isolato, le cui proprietà termodinamiche possono essere assimilate a quelle di un
insieme microcanonico, cui possiamo applicare il secondo postulato.

Il secondo postulato afferma che ogni possibile stato quantico di questo supersistema (insie-
me canonico) è egualmente probabile, quindi, ad ogni stato quantico viene dato lo stesso pe-
so; questo risultato può essere utilizzato per ricavare la probabilità di un dato stato quantico
per i sistemi che costituiscono l’insieme canonico.

Ogni singolo sistema dell’insieme canonico ha eguali N e V e, quindi, gli stessi valori di stati
quantici accessibili E1 , E2 , . . . , Ej , . . .

Supponiamo di osservare in un dato istante l’intero insieme e registrare quanti sistemi co-
stituenti l’insieme sono in un dato stato quantico Ej ; siano n1 i sistemi trovati nello stato E1 ,
n2 nello stato E2 , e così via. L’insieme dei valori n1 , n2 . . . , è detto distribuzione.

Le condizioni che devono essere rispettate sono:

(1.4.1) ∑ n j = NS
j

(1.4.2) ∑ n j Ej = Et
j

In generale, il numero di stati del “supersistema” data la distribuzione n1 , n2 , . . . è dato da:

( n1 + n2 + . . . ) ! NS !
(1.4.3) Ωt (n) = =
n1 !n2 ! · . . . ∏j nj !

Il problema che ci eravamo posto all’inizio dello studio del sistema canonico era determinare
la probabilità di osservare uno stato quantico Ej in un sistema scelto tra quelli che costitui-
scono l’insieme canonico stesso (oppure, in altri termini, la frazione dei sistemi aventi stato
Ej ).
n
Fissata una certa distribuzione n1 , n2 , . . ., tale probabilità è NSj , ma bisogna anche tener conto
del fatto che ci sono molte possibili distribuzioni date da N, V, NS ed Et . Quello che noi cer-
chiamo è una probabilità complessiva, cioè una media di NniS su tutte le possibili distribuzio-
ni, tenendo conto del fatto che ogni stato del supersistema è equiprobabile. Questo comporta
che il peso assegnato ad ogni distribuzione è proporzionale a Ωt (n) per ogni distribuzione.

In generale, la probabilità per un dato stato Ej di essere osservato in uno qualunque dei
sistemi dell’insieme canonico è:
nj 1 ∑n Ωt (n) · n j (n)
(1.4.4) Pj = = ·
NS NS ∑n Ωt (n)

30
dove n j (n) è il valore di n j nella distribuzione n. Le medie sull’intero sistema dell’energia e
della pressione sono:

(1.4.5) E= ∑ Pj Ej
j

(1.4.6) p= ∑ Pj p j
j

 
dove p j è la pressione nello stato Ej , definita come: p j = − ∂E
∂V , essendo − p j dV = dEj il
N
lavoro compiuto sul sistema che è nello stato Ej per produrre una variazione di volume V.

Un calcolo esatto di Pj è possibile mediante un metodo, detto di Darwin-Fowler, che però


prevede l’utilizzo di strumenti matematici molto complessi.

Un metodo alternativo, anche se non altrettanto rigoroso, è applicabile nel caso di insiemi
molto ampii (NS → ∞), e viene detto metodo dell’approssimazione del termine massimo. In
questo caso, si fa un’approssimazione che si basa sulla considerazione che la distribuzione
più probabile è quella che domina le medie delle proprietà del sistema; indicando con n∗ la
distribuzione più probabile, cioè quella cui corrisponde la degenerazione Ωt (n∗ ) maggiore,
il suo andamento: se NS è grande, ma finito, la distribuzione è di tipo gaussiano centrata su
n = n∗ .

L’approssimazione del termine massimo consiste nell’approssimare l’intera sommatoria ri-


ferita alla media sull’intero insieme con il termine massimo della sommatoria stessa; in
particolare, la probabilità della j-esima distribuzione è:

1 Ωt (n )n j
∗ ∗
nj
(1.4.7) Pj = ' ·
NS NS Ωt (n∗ )

dove n∗j è il valore di n j nella distribuzione più probabile n∗ .

Quindi, secondo questo approccio, si può sostituire il valore medio di n j con il valore cor-
rispondente alla distribuzione più probabile (cui corrisponde il valore massimo di Ωt ); il
problema diventa ora come trovare tra tutti i possibili insiemi di n j quello che fornisce il
valore massimo di Ωt .

Per fare questo, si utilizza il metodo dei moltiplicatori indeterminati.

La distribuzione più probabile fornisce il valore massimo di Ωt , e ovviamente di ln Ωt 9;


utilizziamo, per fare questa valutazione, un’ulteriore approssimazione, detta di Sterling,
valida per numeri y molto grandi:

(1.4.8) ln y! = y ln y − y

9Questo è valido poiché ln x aumenta in maniera monotona con x.

31
NS !
Essendo Ωt (n) = ∏j nj !
, utilizzando la 1.4.11, si trova:
! !
(1.4.9) ln Ωt (n) = ∑ ni ln ∑ ni − ∑ ni ln ni
i i i

Secondo il metodo dei moltiplicatori indeterminati, l’insieme delle n j che portano al massi-
mo di ln Ωt (n), si trova dalle relazioni:
" #

(1.4.10) ln Ωt (n) − α ∑ ni − β ∑ ni Ei = 0
∂n j i

dove α e β sono i moltiplicatori indeterminati.


Si trova, per il termine generico n∗j della distribuzione più probabile

(1.4.11) n∗j = NS · e−α e− βEj

che è un’espressione in termini dei due moltiplicatori indeterminati α e β.


Ricordando la 1.4.1 e la 1.4.2, si ricava

(1.4.12) NS = ∑ n∗j = NS ∑ e−α e−βEj


j j

e quindi:

(1.4.13) eα = ∑ e−βEj
j

Inoltre, essendo Et = NS E, si ottiene:


− βEj
∑j e Ej
(1.4.14) E= − βEj
∑e
La 1.4.13 e la 1.4.14 forniscono α e β come funzioni implicite di N e V (essendo Ej = Ej ( N, V ).
Infine, per la probabilità dello stato j-esimo nella distribuzione più probabile, si trova:
n∗j e− βEj ( N,V )
(1.4.15) Pj = = − βEj ( N,V )
NS ∑j e

inoltre, si dimostra che β è un numero positivo: di conseguenza, dalla 1.4.15 si deduce che la
probabilità di osservare un dato stato quantico diminuisce esponenzialmente all’aumentare
dell’energia associata ad esso.
1.4.1.1. Grandezze termodinamiche caratteristiche dell’insieme canonico. Le grandezze termo-
dinamiche atte a definire un sistema possono essere di tipo non meccanico (temperatura,
entropia) o meccanico (pressione, energia E).
Per un sistema canonico, utilizzando il primo postulato, è possibile sostituire alla pressio-
ne P e all’energia E caratteristici dell’insieme macroscopico i valori corrispondenti P ed E
mediati sull’insieme.

32
Siccome il sistema è chiuso, consideriamo il differenziale di E ad N costante:

(1.4.16) dE = ∑ Ej dPj + ∑ Pj dEj


j j
 ∂E  − βE j
j e
dove dEj = ∂V dV e Pj = − βE j ; poniamo
N ∑j e

(1.4.17) Q= ∑ e−βEj
j

questo termine viene chiamato funzione di partizione dell’insieme


  canonico o, più semplicemen-
te, funzione di partizione canonica. Si ricava ln Pj = ln e− βEj − ln Q. La 1.4.16 diventa:
 
1 ∂Ej
dE = ∑ ln Pj + ln Q dPj + ∑ Pj

(1.4.18) dV
β j j
∂V N
   
Essendo ∑ j Pj = 1, si ha ∑ j dPj = d ∑ j P = 0; inoltre d ∑ j Pj ln Pj = ∑ j Pj d ln Pj +
∑ j ln Pj dPj = ∑ j ln Pj dPj . Sostituendo queste espressioni nella 1.4.18, si trova:
 
1 ∂Ej
(1.4.19) dE = − d ∑ Pj ln Pj + ∑ Pj dV
β j j
∂V N

Utilizzando il primo principio della termodinamica, possiamo scrivere TdS = dE + PdV


che, confrontata con la 1.4.19, permette di scrivere:
!
1
(1.4.20) TdS = − d ∑ Pj ln Pj
β j

 
∂Ej
(1.4.21) P = − ∑ Pj
j
∂V N

Utilizzando queste relazioni si trova l’espressione per l’entropia:

(1.4.22) S ( N, V, T ) = −k B ∑ Pj ln Pj
j

in base alla quale si trova β = k 1T 10; dalla 1.4.22 si trova immediatamente l’espressione
B
dell’energia libera di Helmotz, che rappresenta il potenziale termodinamico più appropriato
alla descrizione di un sistema chiuso (variabili caratteristiche N, V, T) :

(1.4.23) A ( N, V, T ) = −k B T ln Q ( N, V, T )

Infatti, per la definizione di dA:

(1.4.24) dA = −SdT − PdV + ∑ µα dNα


α

10Attraverso questa definizione, le grandezze termodinamiche riacquistano la dipendenza da T, invece che da


E, più appropriata per sistemi chiusi ed isotermi.

33
si ricava:
   
∂A ∂(ln Q)
(1.4.25) S=− = kB T + k B ln Q
∂T V,N ∂T V,N
   
∂A ∂ ln Q
(1.4.26) P=− = kB T
∂V T,N ∂V T,N

Dalla 1.4.22, 1.4.15 e 1.4.14, si trova, per l’entropia:


E
(1.4.27) S( N, V, T ) = k B ln Q +
T
Infine, per il potenziale chimico del componente i-esimo, si trova:
   
∂A ∂ ln Q
(1.4.28) µi = = −k B T
∂Ni T,V,Nα=i ∂Ni T,V,Nα=i

e per l’energia del sistema:


 
2 ∂ ln Q
(1.4.29) E = ST + A = k B T
∂T V,N

A questo punto, abbiamo a disposizione un insieme completo di funzioni termodinami-


che: N, V, T, A, E, S, P, µ, in grado di fornire una descrizione completa del sistema
termodinamico macroscopico in termini di proprietà microscopiche.
Tuttavia, piuttosto che lavorare su tutti i microstati possibili, è opportuno i termini cor-
rispondenti agli stessi stati energetici; sia Ωi ( N, V ) la degenerazione dell’i-esimo livello
energetico11, per la funzione di partizione si trova:

(1.4.30) Q( N, V, T ) = ∑ e−Ej ( N,V,T )/k B T = ∑ Ωi ( N, V )e−Ej ( N,V )/k B T


(stati ) (livelli )

la probabilità che il sistema esista nel livello energetico E è:


Ωe−E/k B T
(1.4.31) P(livello) = ΩPstato =
Q

Analizziamo la 1.4.31 in due casi limite:

(1) per T → 0, il livello più basso di energia E1 non è degenerato, quindi:


 
(1.4.32) Q → e−E1 /k B T 1 + Ω2 e−(E2 −E1 )/k B T + . . . → e−E1 /k B T

quindi, per T → 0, l’unico stato possibile è quello a minima energia, per cui S → 0
e per la probabilità dell’unico stato non degenerato si trova:
(
1 se j = 1
(1.4.33) Pj =
0 se j 6= 1

11In altre parole, nella lista di tutti gli stati energetici possibili E , E , . . ., lo stesso valore E si riscontra Ω volte.
1 2 i i

34
(2) per T → ∞ l’effetto relativo dei differenti Ej sui fattori di Boltzmann è cancellato,
quindi Pj (stato ) → costante (non dipende da j), cioè la distribuzione di probabilità
su tutti gli stati è uniforme; si ricava S → ∞, assumendo un numero infinito di stati
energetici possibili.

1.4.2. Insieme gran canonico. Ricordiamo che l’insieme gran canonico è chiamato a de-
scrivere statisticamente e microscopicamente un sistema aperto ed isotermo, a fissate V, T, µ;
in altre parole, il sistema termodinamico d’interesse è un sistema di volume V, posto in un
ampio bagno termico, aperto agli scambi di materia nel sistema; in questo caso, le pareti
del sistema consentono il trasporto di materia e calore. Il bagno è un serbatoio che fornisce
una data temperatura costante T e assicura alle diverse specie chimiche i potenziali chimi-
ci µ1 , µ2 , . . .; le n specie chimiche hanno rispettivamente N1 , N2 , . . . valori che fluttuano nel
tempo, intorno ai valori medii N 1 , N 2 , . . ..

Analogamente all’insieme canonico, costruiamo un supersistema, costituito dalla somma


dei sistemi costituenti l’insieme gran canonico; dal primo postulato, siamo in grado di so-
stituire alle medie nel tempo delle proprietà meccaniche del sistema termodinamico, le me-
die delle stesse proprietà sull’intero insieme; inoltre, possiamo ricavare i fattori di proba-
bilità (mediati sull’insieme) con il metodo dei moltiplicatori indeterminati; infine, i valori
di tali moltiplicatori possono essere valutati confrontando le espressioni termodinamiche e
meccanico-statistiche per le variabili meccaniche.

In questo caso, a differenza dell’insieme canonico, il numero N delle molecole costituenti


gli NS sistemi dell’insieme non è fissato, ma varia. Per ogni differente valore di N c’è un
insieme differente di stati energetici Ej ( N, V ). Lo stato quanto-meccanico del supersiste-
ma è completamente determinato quando sono definiti il valore di N e lo stato energetico
Ej ( N, V ) per ogni sistema costituente il supersistema.

In un dato stato del supersistema siano n j ( N ) il numero di sistemi contenenti N molecole,


in un particolare stato energetico Ej ( N, V ); il numero di possibili stati quantici è (vedi §1.3) :
h i
∑ j,N n j ( N ) !
(1.4.34) Ωt (n) =
∏ j,N n j ( N )!

Inoltre, devono essere rispettate le leggi di conservazione, del tutto analoghe alla 1.4.1 e alla
1.4.2.

Indicando con:

(1.4.35) Ξ= ∑ e−βEj ( N,V ) e−γN


j,N

la funzione di partizione gran canonica, si trova, analogamente a quanto già trovato per il
sistema canonico, β = k 1T e γ = k T .
µ
B B

35
Per l’entropia S del supersistema, cioè per l’insieme gran canonico, si trova ancora12:

(1.4.36) S = k B ∑ Pj ( N ) ln PJ ( N )
j,N

Per la probabilità del j-esimo stato si trova13:

e−Ej ( N,V )/k B T e Nµ/k B T


(1.4.37) Pj ( N, T, V, µ) =
Ξ(V, T, µ)
dove:

(1.4.38) Ξ= ∑ e−βEj ( N,V ) e−µN/kT


j,N

è la definizione completa della funzione di partizione gran canonica. A partire da questa


definizione, si trova
∂ ln Ξ
 
(1.4.39) S = kB T + k B ln Ξ
∂T V, µ

∂ ln Ξ
 
(1.4.40) N = kB T
∂µ V,T

∂ ln Ξ ln Ξ
 
(1.4.41) p = kB T = kB T
∂V T,µ V

Queste definizioni rappresentano un insieme completo di relazioni tra grandezze macrosco-


piche (S,p,N,V,T) e la grandezza rappresentativa dei microstati costituenti il sistema, cioè
Ξ.

1.4.3. L’insieme microcanonico. L’insieme microcanonico è rappresentativo di un siste-


ma termodinamico, con fissati E, V ed N; per ricavare le proprietà termodinamiche dell’in-
sieme si usano proprietà caratteristiche sia dell’insieme canonico che di quello gran canoni-
co. Ad esempio, l’insieme microcanonico può essere visto come un insieme canonico dege-
nerato in cui tutti i sistemi hanno la stessa energia E; in altre parole, gli unici stati quantici
accessibili al sistema sono quelli con energia E.
In questo sistema, la frazione Pj di sistema in un dato stato quantico (con energia E) è pro-
porzionale e−E/k B T ; tuttavia, E è lo stesso per tutti gli stati quantici, che sono in numero
Ω( N, V, E); quindi, Pj è lo stesso per tutti gli Ω stati quantici, quindi Pj = Ω1 per cui

(1.4.42) S( N, V, E) = −k B ∑ Pj ln Pj = k B ln Ω( N, V, E)
j

Questa nota relazione, dovuta a Boltzmann, tra la grandezza termodinamica S e quella


statistico-meccanica Ω permette di calcolare le altre grandezze termodinamiche di interesse;
12L’espressione trovata per l’entropia è del tutto generale ed è valida per ogni tipo di sistema.
13Tale espressione è trovata nell’ipotesi di approssimazione del termine massimo.

36
infatti, partendo dalla forma generale dell’energia interna E (S, V, N )in forma differenziale
è:

(1.4.43) dE = TdS − pdV + ∑ µi · dNi


i

introducendo la forma 1.4.42 :

(1.4.44) dE = k B T d ln Ω − pdV + ∑ µi dNi


i

e quindi:
dE p µ
(1.4.45) d ln Ω = + dV − ∑ i dNi
kB T kB T i
kB T
da cui si ricavano immediatamente:
∂ ln Ω
 
1
(1.4.46) =
kB T ∂E V,N

∂ ln Ω
 
p
(1.4.47) =
kB T ∂V E,N

∂ ln Ω
 
µ
(1.4.48) − i =
kB T ∂Ni E,V,Nα6=i

In termodinamica classica, le relazioni funzionali tra le variabili termodinamiche sono in-


dipendenti dall’ambiente (sistema aperto, chiuso, isobaro, isotermo,...); in altri termini, la
scelta delle variabili termodinamiche indipendenti è arbitraria e non dipende dall’ambiente.
In termodinamica statistica si giunge alla stessa conclusione, come visto per l’entropia: qua-
lunque sia l’ambiente, possiamo scegliere qualsivoglia insieme o funzione di partizione ( e,
quindi, variabili termodinamiche indipendenti) per calcolare le proprietà termodinamiche;
il risultato finale è indipendente dalla scelta operata.
L’equazione 1.4.42 permette un’interpretazione dell’equilibrio termodinamico e dell’entro-
pia in termini di disordine o ordine interno del sistema. Ricordando che l’equilibrio termo-
dinamico per un sistema isolato corrisponde ad una condizione di massima entropia, risulta
immediatamente evidente che la massima entropia (e, quindi, l’equilibrio termodinamico)
corrisponde alla condizione con il massimo numero di configurazioni, cioè alla condizione
di massimo disordine. Questo aspetto verrà discusso in maniera più estesa.

1.5. Trasformate di Legendre - Applicazioni alla termodinamica classica e statistica

Le trasformate di Legendre sono uno strumento matematico semplice ed efficace per cam-
biare la dipendenza delle funzioni dalle variabili indipendenti; questa caratteristica è molto
utilizzata in termodinamica, per tradurre l’espressione delle funzioni di stato nel passaggio
da un determinato sistema ad un altro.

37
Il problema matematico generale consiste nel trasformare una funzione f ( x, y, z) in una nuo-
va funzione ad essa correlata che esprima la seguente dipendenza funzionale g(u, y, z), dove
∂f ∂f ∂f
u = ∂x ; definendo inoltre v = ∂y e w = ∂z , il differenziale della funzione f ( x, y, z) è pari
d f = udx + vdy + wdz; la nuova funzione g(u, y, z) sarà definita come g = f − ux; infatti,
il differenziale totale di g sarà dg = d f − udx − xdu = vdy + wdz − xdu: si è realizzata,
∂f ∂f
in questa maniera, la trasformazione cercata f ( x, y, z) → g(u, y, z), con x = − ∂u e v = ∂y ,
∂f
w= ∂z . Le variabili x ed u vengono dette variabili coniugate.
In linguaggio matematico, le trasformazioni di Legendre sono variazioni lineari delle va-
riabili, in cui uno o più prodotti di variabili coniugate vengono sottratti dalla funzione di
partenza f ( x, y, z) per definire una nuova funzione matematica g(u, y, z).
In termodinamica classica, le trasformazioni di Legendre permettono di ricavare tutta una
serie di funzioni di stato, che dipendano dalle grandezze termodinamiche d’interesse, a
partire dalla funzione di stato energia interna U ( N, V, S), passando attraverso le relazioni
di Maxwell.
In dettaglio, per un sistema costituito da un’unica fase e da un unico componente (N moli),
per una trasformazione infinitesima reversibile è possibile scrivere il differenziale dell’ener-
gia interna (specifica) come:

(1.5.1) dU = TdS − pdV + µdN


     
∂U ∂U ∂U
Da questa relazione si ricava T = ∂S , p = ∂V e µ = ∂N .
V,N S,N S,V
E’ evidente che non è possibile misurare le variazioni di entropia legate ad una trasforma-
zione, sebbene reversibile; si avverte, quindi, l’esigenza di trovare nuove funzioni di stato,
a partire dall’energia interna, che abbiano delle caratteristiche più appropriate, cioè il cui
insieme di variabili indipendenti sia più accessibile alle misure.
A partire da questa necessità, sono state definite tutte le grandezze termodinamiche comu-
nemente note ed anche altre, di uso più ristretto.
Innanzitutto, si può lasciare come variabile indipendente l’entropia S e invertire la V con la
rispettiva variabile coniugata p; la nuova funzione si chiama entalpia ed è definita come
 
∂U
(1.5.2) H =U− · V + µ N = U + pV + µ N
∂V S,N

 −pdV + µdN+ pdV


sviluppando il differenziale di questa funzione si ha dH = TdS  + Vdp,
∂H ∂H
da cui si ricava, effettivamente, H = H (S, N, p), con T = ∂S , V = ∂p eµ =
  p,N S,N
∂H
∂N .
S,p
Sempre a partire dalla definizione di energia interna, è possibile ricavare una funzione, detta
energia libera di Helmotz A, che risulta funzione di T, V ed N, che si ottiene scambiando
tra di loro le due variabili coniugate T ed S, cioè A = U − TS e, sviluppando il differenziale
totale dA = −SdT − pdV + µdN e, quindi, A = A( T, V, N ).

38
Per ottenere una funzione di stato che sia funzione, oltre che del numero di moli N, anche
di P e T, cioè, per avere una funzione di stato che possa essere individuata in base ai due
parametri più facilmente controllabili, quali la pressione e la temperatura, bisogna operare
una doppia trasformazione di Legendre, cioè invertire le coppie di variabili coniugate S → T
e V → p; la
 funzione
   si dice energia libera di Gibbs e si indica con G, definita come
ricavata
G = U− ∂U
∂V ·p− ∂U
∂S S = U + pV − TS = H − TS = A + pV e si ricava, per il
S,N V,N
differenziale di G: dG = −SdT + Vdp + µdN 14.

In termodinamica statistica, le trasformazioni di Legendre sono utilizzate per ricavare delle


relazioni tra le diverse grandezze statistiche, come ad esempio le funzioni di partizione rela-
tive a diversi insiemi. Illustriamo il caso della relazione tra funzione di partizione canonica
Q = Q( T, V, N ) e gran canonica Ξ = Ξ( T, V, µ). Come visto precedentemente, un’insieme
canonico rappresenta un sistema chiuso, con assegnati N, V e T e la funzione statistica carat-
teristica è la funzione di partizione canonica Q( N, V, T ), da cui possono essere ricavare tutte
le funzioni termodinamiche d’interesse. Un insieme gran canonico rappresenta, invece, un
sistema aperto, in cui sono definiti µ, V e T ed è ad esso associata una funzione di partizione
gran canonica Ξ( T, V, µ); la relazione tra queste due funzioni può essere facilmente ricavata
attraverso una trasformazione di Legendre delle variabili coniugate N → µ.

La trasformazione di Q in Ξ è dunque, in scala logaritmica:


  !
∂ ln Q
(1.5.3) ln Ξ = ∑ ln Q − ·N
{ N ≥0}
∂N T,V

Ora, tenendo conto delle relazioni indicate precedentemente, si ricava:


A0
 
AN µN
(1.5.4) ln Ξ = ∑ − + ⇒ ln Ξ = −
{ N ≥0}
kB T kB T kB T

dove A N è l’energia libera di Helmotz caratteristica dell’insieme canonico e A0 = ∑{ N ≥0} (− A N +


µN ) è l’espressione relativa all’insieme gran canonico.

Per
 ricavare
 la relazione cercata tra Ξ e Q, a questo punto sostituiamo nella 1.5.3 la relazione
∂ ln Q µN
∂N = k B T , per cui si ricava:
   µN

µN
(1.5.5) ln Ξ = ∑ ln Q + ⇒Ξ= ∑ QN · e kB T

{ N ≥0}
kB T { N ≥0}

Questa relazione può essere ricavata seguendo un’altra strada, mediante considerazioni
sulle distribuzioni di probabilità, analogamente a quanto fatto per ricavare la Q( N, V, T ).

14Per una doppia trasformazione di Legendre, da f = f ( x, y) a g = g(u, v), si ha dg = − xdu − ydv + wdz.

39
1.6. Interpretazione microscopica dell’entropia

Il secondo principio della termodinamica, nella forma espressa da Clausius15, trova una bril-
lante interpretazione se si utilizza la teoria atomica della materia, secondo la quale i corpi
sono costituiti da particelle dotate di moto (traslazionale, rotazionale e vibrazionale). In que-
st’ottica, il secondo principio può essere tradotto come: ”i processi naturali sono processi di
mescolamento delle caratteristiche microscopiche”, cioè un corpo tende ad evolvere nella di-
rezione in cui tutte le proprietà delle sue componenti microscopiche elementari tendono ad
uniformarsi. E’ immediata la comprensione, in quest’ottica, del fenomeno di mescolamento
di due fluidi A e B a contatto, ma è anche facilmente interpretabile in questo senso il feno-
meno di livellamento delle temperature di due corpi a diverse temperature messi a contatto;
in questo caso, ad uniformarsi non è la concentrazione microscopica, cioè la disposizione
uniforme di molecole di specie diverse nella struttura del corpo, ma l’energia cinetica delle
particelle costituenti i due corpi, che diventerà, all’equilibrio, pressoché uniforme.
In realtà, l’interpretazione dei fenomeni naturali in termini di mescolamenteo conferisce
un nuovo peso al significato di irreversibilità, che rappresenta l’impossibilità di realizzare
spontaneamente la segregazione di molecole di specie o di stati energetici differenti.
Si hanno, dunque, due tipi di processi di mescolamento: il primo è la dispersione delle
particelle rispetto alle posizioni nello spazio, il secondo è la ripartizione o dispersione del-
l’energia disponibili di un sistema tra le particelle stesse. In assoluto, tale processo di mesco-
lamento è spontaneo (o naturale) se l’energia disponibile è distribuita su vari stati quantici
nel modo più disordinato possibile.
Andiamo, adesso, ad analizzare il problema del mescolamento di due liquidi A e B; l’energia
di interazione tra le molecole A-A , A-B, B-B determina le condizioni all’equilibrio, ovvero se
la miscibilità dei due liquidi all’equilibrio è completa o meno; infatti, se l’entità relativa delle
forze intermolecolari tra molecole simili (A-A e B-B) e dissimili (A-B) è tale che un mescola-
mento completo comporterebbe un aumento dell’energia potenziale del sistema, tale energia
andrebbe sottratta all’energia cinetica delle molecole (moti traslazionali, vibrazionali e rota-
zionali) e quindi sarebbe inferiore alla quota energetica da destinare alla distribuzione sui
livelli quantici legati allo stato di moto delle molecole. Un mescolamento completo, in que-
sto caso, comporterebbe un aumento del disordine spaziale o configurazionale del sistema,
ma una diminuizione del suo disordine termico. Il grado di miscibilità all’equilibrio di-
pende dalle concentrazioni delle due fasi cui corrisponde il massimo disordine complessivo
(configurazionale + termico).
Consideriamo il caso pratico di un cristallo monodimensionale e tutte le possibili configu-
razioni in cui possiamo collocare NA = 2 molecole di A ed NB = 2 molecole di B; esse sono
mostrate in figura.

15“L’entropia di un sistema isolato tende ad evolvere ad un valore massimo.”, che porta alla conclusione che
nei processi naturali (irreversibili), l’entropia tende a crescere.

40
F IGURE 1.6.1. Possibili configurazioni di un cristallo monodimensionale co-
stituito da due molecole di A e due molecole di B

Tutte le possibili permutazioni di 4 oggetti sono 4!, tuttavia alcune configurazioni delle 4!
possibili non sono distinguibili tra di loro; in particolare, non sono distinguibili le 2! per-
mutazioni di gruppi di molecole uguali; il numero di configurazioni possibili sarà allora:
Ω = 2!2!
4!
= 6. In generale, dati n̄ = {n1 , n2 , . . .} oggetti (molecole) tra di loro indistinguibili.
il numero di configurazioni di tali oggetti (distinguibili) è:
( n1 + n2 + . . . ) !
(1.6.1) Ω(n̄) =
n1 !n2 ! · · ·

Si verifica come lo stato MACROSCOPICO di massimo mescolamento corrisponda al mag-


gior numero di configurazioni (MICROSTATI) possibile, per cui è anche quello maggiormente
probabile, facendo l’ipotesi di equiprobabilità delle configurazioni (secondo postulato).
Di conseguenza, si può anche ricavare che i processi naturali (irreversibili e spontanei)
procedono sempre nella direzione in cui si realizzi il massimo numero di configurazioni
possibili.
Un ulteriore approfondimento va fatto a riguardo dell’espressione di Boltzmann per l’entro-
pia 1.4.42; in essa, l’entropia è riferita semplicemente al numero di configurazioni disponi-
bili al sistema, per cui ha solo una valenza configurazionale; tuttavia, va tenuto conto anche
della dispersione termica, cioè della distribuzione omogenea dell’energia cinetica, che cor-
risponde al contributo termico dell’entropia. Il bilanciamento tra questi due contributi deve

41
sempre dare un valore variazionale positivo per i processi che avvengono in maniera spon-
tanea. Inoltre, l’espressione 1.4.42 stabilisce una forte connessione tra entropia di uno stato e
sua probabilità di realizzazione; in quest’ottica, possiamo affermare che gli stati ad entropia
elevata solo anche quelli a probabilità elevata. Per questi motivi, il termine Ω viene anche
chiamato probabilità termodinamica.
L’entropia viene spesso associata al concetto di ordine/disordine, per cui l’aumento di en-
tropia viene associato ad un aumento di disordine. Tuttavia, ci sono diversi casi pratici
che sembrano contraddire tale parallelo, per esempio la cristallizzazione spontanea di un
liquido sottoraffreddato in un sistema adiabatico.
Tale processo, infatti, comporta il passaggio da uno stato meno ordinato (liquido sottoraf-
freddato) ad uno più ordinato (cristallo solido). Tuttavia, l’entropia complessiva del si-
stema aumenta, in quanto l’energia cinetica (o termica) aumenta, vista la diminuizione di
energia potenziale, dovuta alla formazione del reticolo cristallino. Quindi, la diminuizione
dell’entropia configurazionale è compensata dal contributo termico, per cui la variazione
complessiva di entropia è positiva, come richiesto da un processo spontaneo.
In questo senso, è molto appropriata la seguente definizione data da Guggenheim: un au-
mento dell’entropia corrisponde ad una “dispersione” del sistema su di un numero più
elevato di stati quantici accessibili.
Infine, occorre indicare la relazione tra entropia ed informazione; infatti, i processi spontanei
procedono sempre nella direzione di aumentare gli stati quantici accessibili ad un dato si-
stema. Questo comporta che il sistema si trova, all’equilibrio, in una condizione per cui può
assumere un numero molto elevato di configurazioni microscopiche egualmente probabili;
di conseguenza, diventa sempre più difficile conoscere in quale configurazione si trovi il
sistema, tanto più quanto più ci si avvicini alla condizione di equilibrio.
In questo senso, si può dire che i processi naturali evolvono verso il massimo di entropia e
il minimo di informazione disponibile all’osservatore.

Riferimenti bibliografici.
D. Chandler. Introduction to modern statistical mechanics. Oxford University Press, 1987.
K. Denbigh. The Principles of Chemical Equilibrium: With Applications in Chemistry and Chemical
Engineering. Cambridge University Press, 1981.
E. A. Guggenheim. Thermodynamics. Elsevier Science Publishers, 1967.
T.L. Hill. Statistical Mechanics: Principles and Selected Applications. Dover Publications, New
York, 1956.
T.L. Hill. An Introduction to Statistical Thermodynamics. Dover Publications, New York, 1960.
J. O. Hirschfelder, C. F. Curtiss, and R. B. Bird. Molecular theory of gases and liquids. Wiley,
New York, 1954.

42
CAPITOLO 2

Le proteine

2.1. Introduzione

Spesso, nei capitoli successivi, tratteremo di soluzioni colloidali, contenenti un soluto ad


elevato peso e dimensione molecolari, immerso in un solvente polare (tipicamente, acqua)
e ci riferiremo, con applicazione ai sistemi biologici, ad esso come “biopolimero”. Le clas-
si di sostanze in natura che hanno tali caratteristiche sono differenti (polisaccaridi e acidi
nucleici, tanto per citarne alcune); tuttavia, per varietà, presenza e peculiarità di comporta-
mento, le sostanze modello di cui ci interesseremo in questo ambito sono le proteine, che
rivestono, come vedremo in questo capitolo, una grande molteplicità di funzioni e mostra-
no altresì comportamenti particolari e interessanti, che possono essere estesi anche ad altre
classi di sostanze; per questo motivo, sono anche i biopolimeri più abbondanti all’interno
dell’organismo (più del 70% dell’estratto cellulare secco è costituito da proteine). Il termine
“proteina” deriva dal greco πρoτειoσ, che significa primario, e non poteva esserci termine
più appropriato per questi composti. Nei prossimi paragrafi ci interesseremo della compo-
sizione chimica di queste sostanze, della loro struttura tridimensionale e di come questa sia
correlata alle specifiche funzioni che essi sono chiamati a svolgere.

2.2. Gli amminoacidi

Le proteine sono composti molto complessi, con un peso molecolare che varia tra qualche
migliaio di Da (per proteine come l’insulina), fino ad arrivare a un milione di Da (miosina);
in generale, si indicano con il nome di polipeptidi i composti che hanno peso molecolare
inferiore a 4000 Da.
Da un punto di vista strettamente chimico, le proteine sono copolimeri di monomeri detti
amminoacidi; tali elementi costitutivi hanno una struttura tipica mostrata in figura 2.2.1;

F IGURE 2.2.1. Struttura tipica degli amminoacidi.

43
F IGURE 2.2.2. Amminoacidi, divisi per caratteristiche chimiche: in arancione
sono mostrati gli amminoacidi idrofobici, in verde quelli polari, in rosa quelli
acidi e in celeste quelli basici.

come si può vedere, essi sono caratterizzati da un carbonio α 1 cui sono legati, ed hanno una
doppia natura di acidi (gruppo carbossilico −COOH) e di base (gruppo amminico − NH2 );
si distinguono tra di loro per il gruppo − R, da cui prendono il nome. In figura 2.2.2 sono
mostrati i 20 amminoacidi presenti comunemente in natura, divisi in polari, acidi, basici e
idrofobici.
L’elevato numero di possibili monomeri che costituiscono i polimeri peptidici è alla base
della loro varietà straordinaria, che ne fa la classe di biopolimeri più versatili e diffusi negli
organismi viventi.
Gli amminoacidi si combinano tra di loro attraverso una reazione di condensazione; il lega-
me risultante si chiama legame peptidico, ed è mostrato in figura 2.2.3; tale legame è molto
stabile, sia per le caratteristiche del legame stesso (energia di legame elevata), sia per il fatto
1La struttura asimmetrica del carbonio α fa degli amminoacidi delle molecole otticamente attive (è interessante
notare che gli amminoacidi riscontrati in natura sono quasi esclusivamente levogiri).

44
F IGURE 2.2.3. Formazione del legame peptidico per condensazione di due
amminoacidi.

che i gruppi − R, detti residui, contribuiscono a proteggerlo, fornendo una barriera ener-
getica di natura sterica alla rottura del legame stesso; i legami peptidici che tengono uniti
gli amminoacidi nei composti polipeptidici e proteici rappresentano la struttura principale
del composto, e sono rotti essenzialmente da enzimi specifici, di solito legati a processi di
digestione o di attacco batterico.

2.3. Struttura delle proteine

Lo studio della struttura delle proteine è fondamentale per la comprensione del compor-
tamento e delle attività che svolgono tali composti, ed ha rappresentato una pietra miliare
della proteinologia.
Le proteine, per come sono espresse in vivo, hanno una ben definita struttura tridimensiona-
le, chiamata struttura nativa; la conformazione di una molecola proteica è determinata dalla
mutua attrazione o repulsione dei residui. Si possono riconoscere quattro livelli strutturali,
organizzati in maniera gerarchica: struttura primaria, secondaria, terziaria e quaternaria.

2.3.1. Struttura primaria. La struttura primaria di una proteina è semplicemente la se-


quenza di amminoacidi nella catena peptidica; per convenzione, la sequenza è contata a
partire dall’estremità amminica; la struttura primaria di una proteina è determinata me-
diante degradazione chimica o enzimatica della catena peptidica ed una successiva analisi

45
F IGURE 2.3.1. α-eliche.

F IGURE 2.3.2. Foglietti β.

degli amminoacidi derivanti dalla lisi. Questo livello strutturale è determinato dai legami
peptidici, di natura covalente, e contiene già tutte le informazioni necessarie alla formazione
della struttura tridimensionale finale.

2.3.2. Struttura secondaria. La struttura secondaria di una proteina descrive delle unità
strutturali locali, regionali, che costituiscono i nuclei intorno ai quali si costruisce la struttura
tridimensionale. Esistono due classi principali di struttura secondaria, che sono riscontrabili
quasi in tutte le proteine: α-eliche e foglietti-β. La struttura α-elica (figura 2.3.1) tenuta
insieme principalmente da legami idrogeni tra i gruppi N − H e C = 0 adiacenti o lontani
nella catena peptidica; analogamente, i legami idrogeno sono alla base della formazione di
foglietti β (figura 2.3.2), anche se è stata dimostrato che si formano solo in regioni in cui è
largamente presente l’amminoacido glicina.
Le caratteristiche principali delle strutture secondarie sono:

46
F IGURE 2.3.3. Legame disolfuro.

 sono determinate dalla struttura primaria;


 descrivono solo regioni locali della catena peptidica;
 sono stabilizzate da un grande numero di legami idrogeno, che sono singolarmente
interazioni di tipo debole, ma che possono stabilizzare fortemente una struttura che
ne contiene in abbondanza (legame cooperativo);
 siccome le α-eliche e i foglietti β sono stabilizzati da legami idrogeno, qualunque
condizione che possa interferire con la formazione di questi legami può rompere le
strutture; tali fattori sono il calore (che aumentando la vibrazione degli atomi, rom-
pe i legami idrogeno), cambiamenti di pH e alte forze ioniche (un’alta concentrazio-
ne di ioni H + e di altri ioni generalmente interferisce con la formazione di legami
idrogeno).

2.3.3. Struttura terziaria. La struttura terziaria di una proteina è la struttura che essa
assume nello spazio, quando è immersa in un determinato ambiente. Questo livello struttu-
rale avanzato è stabilizzato da una combinazione di interazioni molecolari, che coinvolgono
principalmente i residui amminoacidici − R, tra cui:

 legami idrogeno tra i residui polari;


 legami ionici tra i residui con carica;
 interazioni idrofobiche tra gruppi non polari;
 legami covalenti: i residui di cisteina contengono un gruppo solfidrilico −SH, che
sono in grado di formare un legame di tipo covalente, in presenza di agenti ossidan-
ti, con analoghi residui presenti in altre regioni della catena polipeptidica; questo
legame è noto come legame disolfuro e stabilizza la struttura tridimensionale della
proteina (figura 2.3.3).

47
F IGURE 2.3.4. Struttura tridimensionale dell’emoglobina: quattro catene pep-
tidiche identiche ma distinte sono unite tra di loro da un gruppo eme.

La struttura terziaria può essere alterata da un certo numero di fattori che interferiscono con
le interazioni intramolecolari che tengono insieme la struttura proteica; tali fattori includono
cambiamenti di temperatura, pH e forza ionica. Laddove ciò succeda, il processo risultante
si chiama denaturazione della proteina, termine che indica il fatto che la proteina perde la
sua struttura nativa tridimensionale; la denaturazione può essere reversibile o irreversibile,
a seconda che in seguito al ripristino delle condizioni originarie, la struttura ritorni o meno
alla sua forma iniziale.
A seconda della struttura tridimensionale, le proteine possono essere classificate come se-
gue:
 proteine fibrose: hanno una forma allungata, sono poco solubili in acqua e in solu-
zioni acquose (collagene, cheratina, fibroina della seta);
 proteine globulari: hanno praticamente una forma sferica, sono molto più solubili in
acqua di quelle fibrose e, generalmente, contengono una quantità elevata di α-eliche
(lisozima, sieroalbumina bovina);
 proteine con una struttura intermedia (fibrinogeno), con forma e proprietà chimico-
fisiche intermedie tra quelle delle proteine fibrose e globulari.

2.3.4. Struttura quaternaria. La struttura quaternaria di una proteina descrive le inte-


razioni tra differenti catene peptidiche, che costituiscono la proteina; infatti, alcuni compo-
sti proteici, come l’emoglobina (figura 2.3.4) sono costituiti da più catene di amminoacidi,
ognuna avente la propria struttura tridimensionale, unite insieme attraverso le stesse inte-
razioni intermolecolari che stabilizzano la struttura terziaria di una singola catena peptidica
(uno schema riassuntivo di tali interazioni è mostrato in figura 2.3.5).

2.4. Relazione tra la struttura e l’attività delle proteine

La funzione e l’attività di una proteina dipendono dall’integrità della struttura proteica che,
come accennato precedentemente, dipende dalla composizione amminoacidica, cioè dalla

48
F IGURE 2.3.5. Interazioni molecolari che stabilizzano la struttura tridimensio-
nale di una proteina.

struttura primaria; infatti, una variazione nella sequenza anche di soli pochi amminoacidi
produce variazioni drammatiche nella struttura tridimensionale finale.
Le proteine svolgono funzioni all’interno degli organismi viventi; tra di esse, una di rilevan-
za fondamentale è la catalisi e i composti proteici che fungono da biocatalizzatori si dicono
enzimi; essi differiscono dai catalizzatori inorganici in quanto:

 gli enzimi sono altamente specifici, cioè ogni enzima catalizza una ed una sola
reazione;
 gli enzimi possono essere regolati in quantità a seconda della necessità;
 gli enzimi possono essere inibiti da diversi fattori (tra cui, tutti quelli che produco-
no denaturazione della struttura proteica): una che l’inibizione abbia avuto luogo,
l’enzima agisce ancora come catalizzatore specifico per la reazione originaria, ma
con una velocità di reazione molto inferiore;
 diversi fattori sono impegnati nel controllo dell’attività enzimatica, legati a grup-
pi specifici ( zuccheri e gruppi lipidici sono un esempio notevole) che modificano
drammaticamente la struttura proteica e, quindi, l’attività enzimatica.

L’alta specificità ed efficienza degli enzimi possono essere spiegati attraverso la modalità
con i quali essi interagiscono con le molecole di reagente, chiamato substrato. Uno dei pri-
mi modelli approntati per spiegare la grande efficacia della catalisi enzimatica è il modello
chiave-serratura: secondo questo modello, ogni molecola di enzima possiede pochi siti attivi
sulla superficie della molecola; tali siti attivi non sono nient’altro che regioni concave del-
la superficie proteica che hanno una grande affinità strutturale e chimica con le molecole
di substrato; tale interazione attrattiva dà luogo alla formazione di un complesso substrato-
enzima. Tale complesso consente alla molecola di substrato di trasformarsi nel prodotto,
il quale presenta una bassa attività con il sito attivo dell’enzima, da cui viene rilasciato.

49
F IGURE 2.4.1. Modello chiave-serratura per l’interpretazione dei meccanismi
molecolari della catalisi enzimatica.

Affinchè questo processo possa verificarsi in maniera corretta ci deve essere un perfetto ri-
conoscimento di tipo strutturale tra la molecola di substrato e il sito attivo sulla superficie
della molecola di enzima; se intervengono dei fattori che modificano la struttura, anche in
regioni differenti dal sito attivo, questo quasi sempre risulta in un’inibizione dell’attività en-
zimatica. Tuttavia, questo modello non è sufficiente a spiegare tutta una serie di fenomeni,
come la parziale attività di enzimi che abbiano subito modifiche strutturali modeste, o l’at-
tività dell’enzima nei confronti di reazioni che coinvolgono molecole diverse da quelle di
substrato.
Un motivo più realistico è quello detto mano-guanto, ad indicare una maggiore elasticità del-
la regione superficiale che funge da sito attivo, che possa spiegare gli effetti appena indicati
; il sito attivo, proprio come un guanto, è in grado di adattarsi all’interno di un certo in-
tervallo di forma e dimensione; questo spiegherebbe anche come piccole variazioni di pH,
che producono piccole deformazioni della struttura del sito attivo, possano non alterare
significativamente l’attività enzimatica.

2.5. Classificazione delle proteine in base alla loro funzione

Come precedentemente accennato, l’ampia diversità di composizione e struttura dei compo-


sti proteici è alla base del loro ampio spettro di funzioni; la seguente classificazione, quindi, è
piuttosto riduttiva rispetto alla gamma completa delle funzioni espresse da tali biopolimeri:

 Enzimi - catalizzatori biologici (vedi sezione precedente): la maggior parte delle rea-
zioni che si verificano nei sistemi biologici hanno la necessità di avvenire in ambienti
non aggressivi (pH prossimi alla neutralità e temperature basse); queste condizioni
sono assicurate dalla presenza di catalizzatori dotati di elevata specificità, che sono
appunto gli enzimi, costituiti da molecole proteiche con siti attivi presenti sulla su-
perficie molecolare. Di solito, l’incremento di velocità di reazione è di almeno un
milione di volte.

50
 Immagazzinamento: diversi ioni, piccole molecole ed altri metaboliti vengono im-
magazzinati mediante complessazione con le proteine; per esempio, l’emoglobina
trasporta ossigeno e il ferro è immagazzinato mediante la ferritina nel fegato;
 Trasporto: le proteine sono coinvolte nel trasporto delle particelle con dimensioni
comprese tra quelle degli elettroni e quelle delle macromolecole. La transferrina
trasporta ferro, l’emoglobina ossigeno dai polmoni a tutti gli altri tessuti e anidri-
de carbonica dai tessuti ai polmoni; in più, sono proprio le proteine di membrana
cellulare che sono deputate al trasporto controllato di varie sostanze verso e dalla
cellula.
 Molecole messaggere: le proteine sono coinvolte nel processo di trasmissione degli
impulsi nervosi, agendo come recettori di diverse sostanze a basso peso molecolare,
che creano dei ponti con le molecole nervose. Gli ormoni, in generale, sono molecole
di segnalazione, la cui funzione principale è la coordinazione dell’attività di diversi
organi, spesso appartenenti ad apparati differenti. La maggior parte degli ormoni
sono molecole proteiche (insulina). Inoltre, i recettori di ormoni spesso sono, a loro
volta, recettori di ormoni.
 Anticorpi: il sistema immunitario dipende dalla produzione di anticorpi, che so-
no proteine che si legano in maniera estremamente specifica a particelle estranee
all’organismo, come batteri e virus.
 Regolazione: l’informazione richiesta per sintetizzare proteine è immagazzinata nei
geni, che sono sequenze di DNA che contengono le indicazioni per sintetizzare una
particolare sequenza di amminoacidi. La precisa regolazione di espressione e dei
prodotti dell’attività dei geni è regolata da altre sostanze di natura proteica, che
assicurano il mantenimento del giusto livello dei composti proteici.
 Proteine strutturali: alcune proteine hanno un ruolo strutturale: i muscoli, lo sche-
letro sono costituiti in larga misura da proteine, come pure altri tessuti biologici,
come i capelli o le unghie. Il collagene è uno dei principali componenti del tessuto
connettivo, ed è anche la proteina più abbondante nei Vertebrati (circa un quarto del
contenuto proteico degli organismi di Mammiferi è rappresentato dal collagene).

2.6. La denaturazione delle proteine

La denaturazione delle proteine è un processo attraverso il quale la configurazione tridi-


mensionale nativa della proteine subisce un cambiamento sostanziale, senza che ci sia rot-
tura dei legami covalenti primari (peptidici) all’interno della catena polipeptidica; in altre
parole, la denaturazione comporta dei cambiamenti della struttura secondaria e terziaria,
ma non primaria
Da un punto di vista termodinamico, la denaturazione può essere reversibile o irreversibile,
e ciò è legato essenzialmente alla tendenza delle molecole denaturate a formare degli aggre-
gati stabili o meno. Solitamente, la denaturazione ad opera di agenti chimici è reversibile,

51
mentre è esperienza comune di come la denaturazione termica abbia un profondo carattere
di irreversibilità2.
La denaturazione dei composti proteici è un fenomeno che entra massivamente sia nella no-
stra vita quotidiana (è alla base della cottura dei cibi ad elevato contenuto proteico), sia come
questione tecnologica di notevole importanza. Infatti, le proteine sono presenti nella pratica
di produzione industriale con due ruoli distinti: da una parte, sono utilizzate come enzimi,
quando presentino tale abilità, nei processi biotecnologici in cui siano implicate, appunto,
reazioni enzimatiche; d’altronde, rappresentano l’obiettivo produttivo di molti processi bio-
tecnologici e farmaceutici; di conseguenza, la questione della stabilità dei composti utilizzati
come strumenti di produzione o come prodotto finale è tutt’altro che puramente accademi-
ca. La struttura nativa dei composti proteici è il risultato di svariati fattori energetici, che ne
determinano le caratteristiche di forma e di potenziale di interazione con l’ambiente fisiolo-
gico; la stabilità di una struttura può essere determinata termodinamicamente considerando
la seguente transizione a due stadi:
DK
(2.6.1) N−
)*
−D
N rappresenta lo stato nativo, attivo della molecola proteica, mentre D è un generico stato
denaturato, in cui la perdita dell’integrità strutturale corrisponde ad una mancanza funzio-
nalità biologica della molecola; lo stato denaturato D che viene preso come riferimento è il
cosiddetto random coil, che non rappresenta una struttura vera e propria, ma una classe di
configurazioni (insieme statistico di configurazioni) la cui caratteristica principale è che gli
elementi costitutivi (residui) sono disposti casualmente nello spazio, sebbene legati tra di
loro.
E’ molto conveniente definire la stabilità della molecola in termini di ∆G0N = G0N − GD 0,

ovvero di variazione di energia libera di Gibbs associata alla trasformazione inversa rispetto
alla 6.3.2; quanto più basso è il valore (< 0 e valore assoluto elevato), tanto maggiore sarà la
stabilità, ovvero valori positivi ed elevati corrisponderanno a condizioni ambientali severe,
che non permettono l’esistenza della molecola proteica nella sua struttura nativa.
La forma nativa di un composto proteico è solo di poco più stabile rispetto alle forme dena-
turate, cioè si ha, a pressione atmosferica e temperatura ambiente, ∆G0N = G0N − GD 0 = − RT ·
kcal
ln K N = −5 ÷ −10 mole per piccoli composti proteici, che corrisponde a K N = 104 ÷ 107 ; in-
fatti, le proteine naturali non si sono evolute rispetto a quelle sintetiche sulla base della mag-
giore stabilità, dato che, spesso, proteine sintetiche riescono ad essere molto più stabili di
quelle naturali. L’unico requisito fondamentale per la funzionalità delle molecole proteiche
è che i siti attivi presenti sulla superficie della molecola proteica presentino una certa flessi-
bilità strutturale, capace di consentire l’attività del composto proteico in corrispondenza di
variazioni delle condizioni ambientali.

2La cottura della carne si basa sulla denaturazione termica delle molecole che costituiscono il tessuto carneo,
ed è evidente che quando una bistecca cotta si raffredda, non ridiventa cruda!

52
La determinazione a priori della struttura più stabile di una catena polipeptidica è una pro-
cedura computazionale molto onerosa: infatti, il numero di elementi costitutivi (residui am-
minoacidici) di cui tener conto è molto elevato, e interagiscono fortemente tra di loro e con
l’ambiente circostante.
E’ tuttavia possibile definire come riferimento una struttura avente la caratteristica di con-
figurazione disordinata casuale, in cui cioè sia assente qualsiasi tipo di struttura ordinata,
sia a livello locale che globale, che corrisponde al random coil precedentemente descritto:
i potenziali termodinamici di questa struttura di riferimento possono essere descritti in ge-
nerale considerando che il contributo entropico relativo è quello corrispondente al massimo
disordine, ovvero al massimo di configurazioni diverse possibili. Per questo motivo, è sem-
pre possibile definire la stabilità di una struttura proteica in termini di variazione di energia
libera di Gibbs rispetto al valore corrispondente al random coil, valutabile a priori nota la
sequenza primaria (lunghezza e natura chimica dei residui)
La struttura tridimensionale nativa di una proteina è il risultato della tendenza dei residui
idrofobici, poco affini con l’ambiente polare fisiologico, ad evitare il contatto con le molecole
di solvente; di conseguenza, la struttura nativa può essere rappresentata come una sfera a
due strati: un cuore sferico interno di natura fortemente non polare, circondato da un guscio
sferico, di natura idrofilica. Tale fenomeno di autosegregazione dei residue idrofobici, al fine
di evitare il contatto con il solvente polare acquoso prende il nome di effetto solvofobico
(idrofobico, nello specifico del solvente acquoso).
A tale rappresentazione, va aggiunta la presenza di regioni idrofobiche sulla superficie idro-
filica, che “sopportano” il contatto con l’acqua grazie allo strato di molecole di solvente che
ricopre la molecola, in virtù dell’interazione favorevole (∆H  0) con i residui idrofilici
superficiali.3
In generale, l’idrofobicità di un composto può essere valutata come la differenza di energia
libera ∆Gid legata alla transizione del composto da un ambiente polare (tipicamente, acqua)
ad un ambiente poco polare; nella tabella sono mostrati tali valori per i venti amminoacidi.
La stabilità dei composti proteici rispetto ad una serie di fattori (temperatura, solventi, pH,
pressione, sforzi meccanici) rappresenta un punto cruciale per la progettazione di processi di
produzione di composti a natura proteica. In particolare, è importante quantificare l’entità
della denaturazione, per ridurla o evitarla.
Uno dei punti fondamentali è la determinazione degli stati che rappresentano la struttura
proteica nelle sue diverse fasi, al fine di stabilire un riferimento per la determinazione dei
parametri termodinamici. Il compito è concettualmente semplice, ma fattivamente molto
difficile, a causa della complessità elevata dei sistemi in gioco. Infatti, le molecole protei-
che, in qualsivoglia stato, sono suscettibili di variazioni strutturali, soprattutto delle regioni
3Tali patch idrofobici localizzati sulla superficie delle molecole proteiche rappresentano spesso il “valore ag-
giunto” dei composti proteici stessi, nel senso che spesso sono proprio essi a costituire i siti attivi per il lega-
me con altre molecole; d’altra parte, spesso i residui idrofilici servono in maniera più indifferenziata solo ad
aumentare la solubilità della proteina nella sua forma nativa, in soluzione acquosa.

53
Amminoacido Idrofobicità (Kcal/mol)
Arg 3.0
Asp 2.5
Glu 2.5
Asn 0.2
Lys 3.0
Gln 0.2
His −0.5
Ser 0.3
Thr −0.4
Tyr −2.3
Gly 0
Pro −1.4
Cys −1.0
Ala −0.5
Trp −3.4
Met −1.3
Phe −2.5
Val −1.5
Ile −1.8
Leu −1.8
TABELLA 1. Idrofobicità degli amminoacidi: scala di Tanford.

superficiali; di conseguenza, il macrostato ad esempio, "struttura nativa" è rappresentato


da un insieme di configurazioni, che condividono la stessa sequenza di avvolgimento, ma
sono leggermente diversi in termini di contenuto entalpico, o entropico, a causa di piccole
differenze nei legami intramolecolari, in termini di isomeri rotazionali.
Esiste una teoria che sostiene che tutte le informazioni necessarie all’avvolgimento di una
molecola proteica sono contenute all’interno della sequenza di amminoacidi, cioè nella strut-
tura primaria; in realtà, tale teoria si applica bene alle molecole proteiche di piccole dimen-
sioni, per le molecole proteiche con dimensioni maggiori è necessario l’intervento di altre
molecole proteiche, chiamate ciaperonine, che contribuiscono alla formazione della struttu-
ra tridimensionale globulare stabile. In generale, la formazione della struttura nativa si basa
sull’instaurarsi di legami intermolecolari e intramolecolari.

2.6.1. Gli agenti denaturanti. La struttura nativa delle proteine è quella che risulta più
stabile nell’ambiente acquoso polare fisiologico (acqua + sali); è stabilizzata da legami di tipo
non covalente, che possono essere rappresentati da potenziali molecolari di campo medio,
che dipendono dalle caratteristiche dei residui interagenti e dall’ambiente. Di conseguenza,
ogni fattore che modifichi tale ambiente virtualmente è un agente denaturante.
D’altra parte, i legami che si instaurano si trovano a dover “contrastare” l’energia di agita-
zione termica, che conferisce ai gruppi amminoacidici un moto casuale (traslazionale, rota-
zionale e vibrazionale), che si oppone al legame stesso. Di conseguenza, uno dei maggiori
agenti denaturanti è proprio la temperatura, soprattutto nel senso di incremento positivo,

54
che produce un drammatico cambiamento della struttura tridimensionale della molecola
proteica. Tra l’altro, l’incrementata velocità media delle molecole denaturate comporta an-
che una maggiore frequenza di urti tra molecole denaturate, che producono aggregati in
maniera irreversibili. Tra l’altro, la denaturazione termica è alla base della cottura dei cibi,
perchè rende più digeribili le molecole proteiche del prodotto alimentare e disattiva la carica
batterica, denaturando le molecole proteiche batteriche.

La denaturazione ad opera degli alcooli si basa sull’alterazione della polarità dell’ambiente


in cui è immersa la molecola proteica; in particolare, i legami che sono particolarmente in-
teressati sono quelli idrogeno, che sono della stessa natura dei legami che intercorrono tra
molecole di acqua ed alcool. Tra l’altro, la denaturazione alcolica viene utilizzata in tutti i
disinfettanti a base di alcool, tipicamente etanolo (altri alcool, come il metanolo, possono
altresì risultare tossici per le cellule del tessuto disinfettato).

Le variazioni di pH e di forza ionica, parimenti, generano perturbazioni più o meno consisten-


ti della struttura proteica, alterando essenzialmente i ponti salini, realizzati dal legame elet-
trostatico che si stabilisce tra residui carichi elettrostaticamente; lo stesso tipo di effetto si ha
in presenza di ioni di metalli pesanti, che sono utilizzati spesso in disinfettanti topici, ma che
sono anche responsabili, mediante lo stesso meccanismo, di intossicazioni dell’organismo
per ingestione o contatto.

Inoltre, gli ioni pesanti e agenti riducenti agiscono nella rottura dei legami disolfuro, che rap-
presentano l’unica classe di legami covalenti che stabilizzino la struttura tridimensionale
delle proteine.

Un’altra classe di composti che comportano una variazione drammatica della struttura dei
composti proteici è rappresentata dai composti organici non alcoolici (composti benzenici,
idrocarburi lineari, aldeidi, chetoni, ...) i quali presentino una forte idrofobicità. L’ambiente
realizzato da tali molecole è fortemente non polare, quindi cambia radicalmente la natura
delle interazioni inter- ed intramolecolare delle molecole proteiche. Infatti, come visto prece-
dentemente, la struttura tridimensionale nativa di una proteina è il risultato della tendenza
dei residui idrofobici, poco affini con l’ambiente polare fisiologico, ad evitare il contatto con
le molecole di solvente; di conseguenza, la struttura nativa può essere rappresentata come
una sfera a due strati: un cuore sferico interno di natura fortemente non polare, circondato
da un guscio sferico, di natura idrofilica. Tale schematizzazione, in realtà, trascura un da-
to importante: in natura, solitamente, le strutture primarie delle proteine presentano una
larga maggioranza di residui idrofobici. Di conseguenza, l’immagine più adeguata a rap-
presentare la struttura tridimensionale finale di un composto proteico è di una sfera da un
cuore fortemente idrofobico, all’interno del quale è impedito l’accesso alle molecole di sol-
vente, circondato da un guscio prevalentemente idrofilico (residui polari e ionici), ma con

55
delle regioni (patch) idrofobiche4. Quindi, quando la polarità del solvente diminuisce bru-
scamente, i legami di natura idrofobica diventano estremamente più deboli, contribuendo
allo svolgimento della catena, dando luogo alla formazione di una struttura denaturata (ran-
dom coil); a partire da questa forma, tuttavia, non si forma un corrispettivo della struttura
nativa in ambiente non polare, cioè non assisteremmo alla formazione di una nuova strut-
tura sferica, con, questa volta, un cuore idrofilico, a causa della bassa percentuale di residui
idrofilici per assicurare questa riorganizzazione. In altre parole, le molecole proteiche non
sono double-face, ma presentano una struttura tridimensionale globulare in forma nativa e
completamente svolta in ambiente non polare.

Differente è il meccanismo di denaturazione ad opera dell’urea e del cloruro di guanidina: in-


fatti, queste molecole interagiscono direttamente con il legame peptidico, cambiando il va-
lore dell’energia complessiva della struttura proteica; questo provoca una riorganizzazione
della struttura e quindi, una perdita di integrità della struttura originaria, nativa.

2.6.2. Denaturazione reversibile ed irreversibile. Le modifiche conformazionali che so-


no alla base dei processi di denaturazione possono, in generale, dar luogo a strutture che
hanno la possibilità di assumere di nuovo l’integrità di forma e funzione precedente al-
la denaturazione, oppure che sono irrimediabilmente compromesse, sia dal punto di vista
strutturale che di attività biologica.

In questi termini, quindi, il processo di denaturazione può procedere in maniera reversi-


bile o irreversibile, a seconda delle caratteristiche dell’ambiente in cui è immersa la catena
proteica.

In generale, per ogni agente denaturante, è possibile individuare un intervallo di “intensi-


tà” di tale agente5, all’interno del quale il processo di rottura della struttura proteica può
essere invertito per rimozione dell’agente stesso. Al di fuori di questo intervallo, le struttu-
re proteiche sono irrimediabilmente compromesse: infatti, in seguito allo svolgimento delle
catene, i residui idrofobici appartenenti a catene differenti interagiscono, promuovendo la
formazione di aggregati stabili6.

4Tali patch idrofobici localizzati sulla superficie delle molecole proteiche rappresentano spesso il “valore ag-
giunto” dei composti proteici stessi, nel senso che spesso sono proprio essi a costituire i siti attivi per il lega-
me con altre molecole; d’altra parte, spesso i residui idrofilici servono in maniera più indifferenziata solo ad
aumentare la solubilità della proteina nella sua forma nativa, in soluzione acquosa.
5L’intensità di agenti denaturanti coincide con la concentrazione per quelli di natura chimica, la temperatura
o l’intensità di campo elettromagnetico nel caso di denaturazione termica o radiativa.
6Per molto tempo ci si è chiesti come mai i residui idrofobici non dessero luogo, nella fase di folding fisio-
logica, alla formazione di simili aggregaati: in realtà, durante l’espressione dei composti proteici, una delle
funzioni delle molecole di supporto, come le chaperonine, è proprio quella di “proteggere” i residui idrofobici
da interazioni attrattive non desiderate, come quelle intermolecolari, favorendo di conseguenza la formazione
di legami intramolecolari.

56
Andiamo ad analizzare di seguito la descrizione di questi due tipi di processi di denatura-
zione, attraverso l’analisi di schemi cinetici semplificati7; partiamo con la seguente denatu-
razione reversibile a due stati:
UK
(2.6.2) N−
)*
−D

N rappresenta lo stato nativo della molecola proteica, mentre D rappresenta lo stato de-
naturato, svolto; di solito, lo stato denaturato è più facilmente definibile, mentre maggiori
difficoltà presenta lo stato nativo, che presenta diverse configurazioni microscopiche stabili.
Quindi, solitamente si prende come stato di riferimento lo stato denaturato (random coil)
e si considera il passaggio inverso della denaturazione, cioè l’avvolgimento della catena
amminoacidica.
Riferendoci alla 6.3.2, si può definire la costante di equilibrio di folding come:
[N]
(2.6.3) KN =
[D]
Analogamente, la costante di equilibrio di denaturazione sarà pari a:
[D] 1
(2.6.4) KU = =
[N] KN

Se indichiamo con [ P] la concentrazione totale di proteina, si ha:

(2.6.5) [ P] = [ N ] + [ D ]
[N]
Di conseguenza, le frazioni di molecole denaturate e in forma nativa sono: f N = [ P]
e
[D]
fD = [ P]
; per cui la costante di equilibrio in termini di frazioni è pari a:

fN 1
(2.6.6) KN = =
fD KU
Da questa espressione, tenendo conto che f N = 1 − f D , si ricava facilmente l’espressio-
ne esplicita della frazione di proteina in forma denaturata, in funzione della constante di
equilibrio di denaturazione:
fD KU
(2.6.7) KU = → fD =
1 − fD 1 + KU

Le caratteristiche principali dello stato denaturato sono che è estremamente flessibile e,


quindi, i suoi residui sono ampiamente esposti al solvente, così come lo scheletro peptidico.
Analogamente allo stato nativo, il macrostato denaturato è costituito da una distribuzione di
microstati e questa distribuzione è molto più ampia di quella nello stato nativo. Infatti, una
caratteristica della struttura denaturata è che gli angoli di rotazione intorno ad ogni legame
sono indipendente da quelli dei legami distanti nella sequenza amminoacidica; inoltre, tutte

7Gli schemi che utilizzeremo nel seguito non tengono mai conto di intermedi di reazione, che si è invece
scoperto essere protagonisti cruciali della dinamica del folding proteico.

57
le possibili configurazioni spaziali (microstati) hanno circa la stessa energia, e quindi sono
egualmente probabili.

La costante di denaturazione KU può essere messa in relazione con la variazione di energia


libera di Gibbs associata al processo di denaturazione, attraverso la nota forma integrale
dell’equazione di van’t Hoff:

(2.6.8) ∆GU
0 0
= GD − G0N = − R T log KU
le condizioni standard, in questo caso, si considerano prese alla T di interesse, alla pres-
sione atmosferica e alle concentrazioni relative al sistema di riferimento (nel caso in esame,
riferimento di Henry, xi0 → 0).

L’energia libera di Gibbs, a sua volta, può essere scritta come:

(2.6.9) ∆GU
0
( T ) = ∆HU
0
( T ) − T · ∆SU
0
(T )
Alla trasformazione è anche associata una variazione di calore specifico, che in generale
dipende dalla temperatura:

(2.6.10) ∆c PU ( T ) = c PD ( T ) − c PN ( T )

Utilizzando queste definizioni, è possibile anche valutare l’entalpia e l’entropia ad una tem-
peratura T generica, se sono noti i valori di tali grandezze ad una temperatura T0 :
Z T
(2.6.11) ∆HU
0
(T ) = ∆HU
0
( T0 ) + ∆c PU dT
T0

∆c PU
Z T
(2.6.12) ∆SU
0
(T ) = ∆SU
0
( T0 ) + dT
T0 T
Se si può trascurare la variazione dei calori specifici con la temperatura (ad esempio, se si
considera un intervallo piuttosto ristretto per la temperatura) la 2.6.11 e la 2.6.12 diventano
rispettivamente:

(2.6.13) ∆HU
0
( T ) = ∆HU
0
( T0 ) + ∆c PU · ( T − T0 )

 
T
(2.6.14) ∆SU
0
(T ) = ∆SU
0
( T0 ) + ∆c PU · ln
T0
quindi, nel caso di ∆c PU costante con la temperatura, si trova:
T
(2.6.15) ∆GU
0
( T ) = ∆HU
0
( T0 ) − T · ∆SU
0
( T0 ) + ∆c PU · [( T − T0 ) − T · ln( )]
T0
Nel caso di variazioni di calore specifico trascurabili

(2.6.16) ∆GU
0
( T ) ' ∆HU
0
( T0 ) − T · ∆SU
0
( T0 )

58
e la relativa espressione per la variazione della costante di denaturazione con la temperatura:
∆GU0 ∆HU0 (T )
0 1 ∆SU 0 (T )
0
(2.6.17) ln KU = − =− · +
RT R T R
Quindi, nel caso in cui la variazione di calori specifici associata al processo di denaturazione
sia trascurabile, il logaritmo della costante di denaturazione varia linearmente con l’inverso
della temperatura.

In generale, tutti i potenziali termodinamici possono essere scissi in due termini: uno relati-
vo ai cambiamenti strutturali veri e propri, l’altro che si riferisce alla riorganizzazione delle
molecole d’acqua. In merito a questo processo, si è riscontrato che l’energia libera di Gibbs
ad esso associato è ∆Gw ' 0, cioè esiste una perfetta compensazione tra il termine entro-
pico e il termine entalpico; infatti, il termine entropico ∆Sw relativo alla coordinazione di
molecole d’acqua intorno alla superficie della molecola proteica è < 0, quindi determina un
contributo positivo all’energia libera di Gibbs; al contrario, il termine entalpico ∆Hw risulta
essere < 0, indice del fatto che si instaurano delle interazioni più favorevoli tra le regioni
superficiali della molecola proteica e il solvente acquoso; il contributo risultante all’energia
libera di Gibbs è quindi < 0.

Dal punto di vista della stabilità delle varie regioni della struttura nativa, è stato dimostrato
che il cuore idrofobico rappresenta il nocciolo di stabilizzazione; infatti, azioni specifiche di
destabilizzazione di esso comportano rottura dell’intera struttura proteica.

Un fenomeno peculiare che subentra nella formazione di strutture tridimensionali proteiche


stabili è l’intervento di legami di tipo cooperativo, che possono essere descritti come segue:
se ad un certo tipo di legame corrisponde un contributo energetico del tipo ∆G, n legami
dello stesso tipo determinano un contributo in generale differente da n · ∆G; se tale valore
è inferiore a n · ∆G (maggiore in valore assoluto, per ∆G < 0, quindi corrispondente a
maggiore stabilità) allora la cooperatività è positiva, altrimenti è negativa.

La natura del legame cooperativo può essere spiegato come segue, prendendo ad esempio
il caso illustrato in figura 2.6.1:

Le due molecole presentano dei siti sulla superficie che possono interagire tra di loro, for-
mando dei legami; affinchè ciò succeda, le molecole devono avvicinarsi ad una distanza
critica: l’energia per la formazione del primo legame include l’energia spesa per l’avvicina-
mento delle due molecole e i legami che si stabiliscono successivamente si avvalgono del
fatto che le molecole sono già nella posizione adeguata, quindi la stabilità che ne risulta sarà
maggiore di quella risultante dal primo legame.

La cooperatività dei legami che stabilizzando la struttura nativa è dimostrata anche dalla
transizione a due stati (eq. 6.3.2); infatti, appena si forma il primo legame, tutti gli altri si
formano a cascata. Analogamente, per quanto riguarda il processo inverso della denatura-
zione, appena viene rotto il primo legame (tipicamente di natura idrofobica) che stabilizza
la struttura globulare nativa, tutti gli altri legami della stessa natura vengono meno.

59
F IGURE 2.6.1. Formazione di legami idrofobici di tipo cooperativo

Infine, per alcuni denaturanti chimici, esiste una relazione lineare tra il ∆GD e la concentra-
zione dell’agente denaturante [d]:

(2.6.18) ∆GD ([d]) = α − β · [d]

dove α = ∆GD ([d = 0]) e β sono due costanti determinate sperimentalmente.


E’ evidente che il raggiungimento di un equilibrio termodinamico tra la forma nativa N e la
corrispondente forma denaturata D è possibile se e solo se non è presente un ulteriore pas-
saggio che rende la denaturazione irreversibile: come già accennato, infatti, lo svolgimento
delle catene predispone la formazione di legami idrofobici tra residui appartenenti a catene
differenti, dando luogo alla formazione di aggregati stabili, che impediscono un riavvolgi-
mento delle catene. Tale processo di denaturazione irreversibile può essere rappresentato
con il seguente schema cinetico:
dkka
(2.6.19) N−
*
)−D−
→ A
ki

dove A è la forma aggregata delle strutture denaturate. Per questo tipo di reazione, andiamo

60
1

0.9

0.8

CN
0.7
CD

0.6 CA
Ci

0.5

0.4

0.3

0.2

0.1

0
0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50
t

F IGURA 2.6.2. Andamento delle specie proteiche nel tempo per il processo di
denaturazione irreversibile di eq. 4.7.10.

a valutare la dinamica in un sistema chiuso, in cui vengano caricate n0 moli di molecole in


forma nativa N; i bilanci di materia per le tre specie sono:

dc N
 dt = −k d · c N + k i · c D


(2.6.20) dc D
 dt = k d · c N − ( k i + k a ) · c D
 dc A

dt = k a · c D

queste tre equazioni differenziali lineari omogenee ammettono una soluzione in forma chiu-
sa, con le condizioni iniziali c N (0) = c N0 = n0/V , c D (0) = 0, c A (0) = 0; in particolare, la
soluzione generale del sistema costituito dalle prime due equazioni è, in forma vettoriale:

(2.6.21) ċ = A · c → c = c (0) · exp ( A · t)

l’espressione di c A (t) si trova tenendo conto del seguente bilancio di materia c0 = c N + c D +


c A ; nella figura 2.6.2 sono mostrati gli andamenti trovati attraverso l’espressione ??.

Riferimenti bibliografici.

C. R. Cantor and P. R. Schimmel. Biophysical Chemistry: Part I: The Conformation of Biological


Macromolecules. W. H. Freeman, 1980a.
C. R. Cantor and P. R. Schimmel. Biophysical Chemistry: Part II: Techniques for the Study of
Biological Structure and Function. W. H. Freeman, 1980b.
C. R. Cantor and P. R. Schimmel. Biophysical Chemistry: Part III: The Behavior of Biological
Macromolecules. W. H. Freeman, 1980c.
T. E. Creighton. Proteins: Structures and Molecular Properties. W. H. Freeman, 1992.
A. Fersht. Structure and Mechanism in Protein Science: A Guide to Enzyme Catalysis and Protein
Folding. W. H. Freeman, 1998.

61
Esercizi.
(1) Spiegare il meccanismo di denaturazione di molecole proteiche da parte del toluene (6 giu-
gno2005) - Il toluene (metil-benzene) un composto altamente idrofobico, quindi, se
una molecola proteica si dovesse trovare in un ambiente costituito da molecole di
toluene, si troverebbe in un ambiente molto differente da quello acquoso, in cui as-
sume la tipica forma globulare; in particolare, i residui polari o elettricamente carichi
che, in soluzione acquosa, sarebbero favoriti a rimanere sulla superficie della mole-
cola proteica, in un ambiente idrofobo tenderebbero a limitare il contatto con l’ester-
no; al contrario, i residui idrofobici, che nella forma nativa, stabilizzata in acqua, re-
sterebbero preferenzialmente nella parte interna della molecola proteica, hanno per
il toluene una grande affinità e tenderebbero a localizzarsi sulla superficie. Quindi,
un’inversione della natura del solvente in cui sono immerse le molecole proteiche,
provocherebbero un’inversione di posizione superficie-interno dei residui idrofobi-
ci, risultando in una completa distruzione della struttura tridimensionale originale
della proteina (denaturazione).
(2) Descrivere i meccanismi che sono alla base della denaturazione termica della struttura tri-
dimensionale di molecole proteiche (12 luglio 2005) - La struttura tridimensionale delle
proteine è stabilizzata da legami covalenti (legami disolfuro) e non, che contrastano
la formazione di strutture disordinate (random-coil) ad opera dell’agitazione ter-
mica. Se aumenta la temperatura, questi legami non sono sufficienti a contrastare
l’agitazione termica e la struttura viene così distrutta.
(3) La cottura della carne utilizza la denaturazione termica di proteine. Perché il risultato è
analogo se la carne è trattata con aceto o limone, come nei carpacci? (4 ottobre 2005) -
L’aceto e il limone comportano un forte abbassamento del pH del solvente polare
in cui si trovano immersi i composti proteici; questa variazione comporta una vasta
alterazione delle interazioni ioniche e polari (legame idrogeno), che produce una
rottura delle struture secondarie e terziarie, e quindi denaturazione dei composti
proteici strutturali che sono alla base del tessuto carneo.
(4) Vengono misurate le seguenti frazioni di proteina denaturata al variare della concentrazione
di urea, a 25°C: determinare la frazione di molecole proteiche denaturate a [urea] = 1.2 M.

[urea] M fD
0.1 0.51008
0.5 0.58978
0.8 0.64682
1 0.68276
1.5 0.76312

(esercitazione in classe). Come visto nei paragrafi precedenti, la variazione di energia


libera di Gibbs con la concentrazione di urea è ∆GD ([d]) = α − β · [d]; inoltre, ∆GD =
− RT · ln K D . La costante di equilibrio della denaturazione K D = 1−f Df , per cui si
D
KD
trova f D = 1+ K D . Per cui, si trova α = 0.1 · 103 J/moli, β = 2 · 103 J/L e, quindi,

62
− ∆G
 
∆GD ([urea] = 1.2 M = −2.3 · 103 J/moli, da cui si ricava K D = exp RT
D
=
2.5290, quindi f D = 0.71633.
(5) Una soluzione contenente un composto proteico alla concentrazione c = 2 mM viene riscal-
data; viene valutata, quindi, a varie temperature, la costante di dissociazione K D ; i dati sono
mostrati in tabella:

K D T, K
0.288 290
0.294 295
0.300 300
0.312 310
0.335 330
0.356 350

Determinare la concentrazione di proteina denaturata a 320 K. ( 20 luglio 2006) - La


relazione che fornisce la dipendenza della costante di equilibrio di denaturazione
K D dalla temperatura è la nota relazione di van’t Hoff:
1
ln K D = −∆GD ·
RT
per cui, graficando Y = ln K D in funzione di X = T1 , si ottiene una retta passante
per l’origine, dalla cui pendenza si può ricavare il valore dell’energia libera di Gibbs
standard legata al processo di denaturazione ∆GD ; i dati di Y ed X sono mostrati in
tabella::

Y = ln K D 1/T, K −1
-1.245 3.45 · 10−3
-1.224 3.39 · 10−3
-1.203 3.33 · 10−3
-1.165 3.23 · 10−3
-1.094 3.03 · 10−3
-1.032 2.86 · 10−3

Si trova, per la pendenza α = − ∆G R


D
= 361 K e si trova ∆GD = −3 kJ/mol.
Utilizzando la stessa espressione di van’t Hoff, si trova K D ( T0 = 320 K ) = 0.324, da
cui si ricava che la frazione di proteina nella forma denaturata è pari a f D = 0.2445
e quindi si trova che la concentrazione di proteina nella forma denaturata è pari a
c D (320 K ) = 0.489 mM.
(6) La costante di equilibrio di denaturazione
U K
−*
N)−D
è stata misurata a diverse temperature . Determinare l’andamento della frazione di denat-
urato f D e la variazione di energia libera di Gibbs con la temperatura, nel caso di ∆c PU
trascurabile e non trascurabile e pari a ∆c PU = 9 molJ K (esercitazione in classe)

63
T, K KU
310 1.17
350 2.00
400 3.33
450 4.97
500 6.85

Utilizzando l’ espressione 2.6.17, si trova che l’andamento di log KU in funzione


1
di è lineare e si trova:
T
kJ J
∆HU
0
= 12 ∆SU0
= 40
mol mol K
L’andamento con la temperatura dell’energia libera di Gibbs nel caso di ∆c PU trascur-
abile è data dalla 2.6.16, e si ricava, di conseguenza, la relativa frazione di proteina
denaturata f D dall’espressione generale 2.6.7; analogamente, utilizzando i valori
trovati nel caso di ∆c PU trascurabile di ∆HU 0 e ∆S0 , utilizzando la relazione 2.6.15 è
U
possibile valutare in maniera più precisa la variazione di energia libera.
Gli andamenti richiesti sono mostrati in figura.

64
0.9

fD approx
0.85
fD

0.8

0.75
fD

0.7

0.65

0.6

0.55

0.5
300 320 340 360 380 400 420 440 460 480 500
T, K

0
∆ Gapprox

∆G
−1000

−2000

−3000
−1

−4000
∆ G, kJ mol

−5000

−6000

−7000

−8000

−9000
300 320 340 360 380 400 420 440 460 480 500
T, K

65
CAPITOLO 3

Forze intermolecolari e potenziali intermolecolari

3.1. Introduzione

Il comportamento di un sistema costituito da un insieme di molecole, è determinato dalle


interazioni attrattive e repulsive tra le molecole stesse. Ad esempio, in assenza di forze di
attrazione tra le molecole di un fase, esso non può condensare, mentre in assenza di forze
di repulsione tra le molecole di un solido, esso non sarebbe capace di resistere a sforzi di
compressione.
Si definiscono proprietà configurazionali di un sistema quelle proprietà che dipendono dalle
forze di interazione tra le molecole, piuttosto che dalle caratteristiche delle molecole isolate;
ad esempio, il calore latente di vaporizzazione di un liquido è una proprietà configurazio-
nale (→ energia da fornire al sistema per rompere i legami non covalenti che tengono le
molecole legate tra di loro in fase liquida), mentre non lo è il calore specifico di un gas
a bassa pressione (→ il gas può essere considerato perfetto, quindi costituito da molecole
non interagenti tra esse, per cui il calore specifico dipende solo dall’agitazione termica delle
singole molecole).
Quando si parla di interazioni, la prima definizione che va fatta riguarda il mezzo attraverso
il quale esse si esercitano; infatti, la natura di questo può modificare fortemente la natura e
l’intensità delle interazioni stesse.
Ad esempio, le molecole di un gas interagiscono nel vuoto, mentre le macromolecole con-
tenute in una soluzione liquida sviluppano le forze di interazione in un mezzo solvente1.
Così, mentre nel primo caso si fa una definizione delle forze assoluta, nel secondo caso si
parla di forze mediate dalla presenza del solvente.
Se la risultante delle interazioni tra due molecole è a simmetria sferica, cioè dipende solo
dalla distanza tra i centri delle due molecole r (come nel caso della legge di Coulomb), il
potenziale intermolecolare W (r )2 si ricava dalla relazione:

→ −→
(3.1.1) F (r ) = − 5 W (r )

Ricordando la definizione di lavoro, W (r ) può essere visto come il lavoro necessario per
allontanare due molecole dalla distanza centro - centro r ad una distanza infinita; infatti,
1In questo caso, si possono trascurare le interazioni tra le molecole di solvente, e tra le molecole di solvente e
le macromolecole, in virtù della grande differenza di dimensioni tra i due tipi di molecole; in questo caso, si
dice che si trascura la molecolarità del solvente, e lo si considera invece un mezzo isotropo ed omogeneo, alla
stregua di un “vuoto pesante”; quest’ipotesi si dice di campo medio.
2Si fa l’ipotesi che tutte le forze di interazione siano conservative, per cui il potenziale di interazione è
determinato solo in base ad esse.

67
W

Tratto repulsivo

dW
F =− 0
dr

Tratto attrattivo

dW
F =− 0
dr

F IGURA 3.1.1. Potenziale di interazione molecolare.

fissando un’ascissa r solidale con la congiungente i due centri, le forze di attrazione so-
no dirette in direzione opposta a tale ascissa, e risultano quindi negative, mentre quelle di
repulsione positive; riscrivendo la 3.1.1in termini monodimensionali:
dW
(3.1.2) F=−
dr
si ha che il lavoro per allontanare due molecole che interagiscono attraverso una forza F (r ),
dalla distanza r ad una distanza infinita sarà pari a:
Z ∞ Z ∞
(3.1.3) F dr = − dW = −W (∞) + W (r ) = W (r )
r r
avendo posto, per convenzione, il potenziale nullo all’infinito. Da questa espressione, si
ricava che il lavoro esercitato dalle forze attrattive (con direzione opposta all’ascissa fissata)
è negativo, mentre quello esercitato dalle forze repulsive risulta essere positivo. .
Un potenziale sfericamente simmetrico si può applicare solo a molecole sferiche, con pro-
prietà superficiali omogenee (ad esempio cariche o idrofobicità); nel caso di geometrie più
complicate, o superfici non uniformi, bisogna considerare ulteriori variabili, come gli angoli
di orientamento rispettivo delle due molecole; in questo caso, la forma generalizzata per la
forza è


→ ~ W (~r, θ, φ, . . .)
(3.1.4) F (~r, θ, φ, . . .) = −∇

68
dove θ, φ, . . . sono le altre variabili eventualmente necessarie a definire la posizione relativa
delle due molecole interagenti.
Cosa cambia quando due molecole interagiscono in un solvente piuttosto che nel vuoto?
Un esempio noto e immediato è fornito dalle forze elettrostatiche: nel vuoto, due cariche
elettriche puntiformi Q1 e Q2 , distanti r, interagiscono tra di loro nel vuoto attraverso la
forza di Coulomb, diretta lungo la congiungente le due cariche, che ha la seguente forma:
Q1 Q2 1
(3.1.5) f0 = ·
4πe0 r2

dove e0 è la permittività nel vuoto, pari a 8.85 · 10−12 F/m; se le stesse cariche sono in un
mezzo dielettrico, la 3.1.5 si trasforma in:
Q1 Q2 1
(3.1.6) f = ·
4πe r2
la permittività e nel mezzo dielettrico è pari a e = e0 · er , dove è stato aggiunto il con-
tributo del mezzo dielettrico attraverso un valore medio di permittività relativa er , che è
rappresentativo delle proprietà medie dielettriche del mezzo, cioè trascurando la molecola-
rità del solvente, ma considerandolo semplicemente come un “vuoto denso” dal punto di
vista elettrico.
In termini rigorosi, il potenziale di campo medio −W (r ) di interazione tra due molecole di
soluto in un solvente tiene conto di diversi contributi: l’interazione soluto-soluto, modificata
dalla presenza del solvente, le interazioni tra molecole di soluto e di solvente, nonché la
variazione delle interazioni tra le molecole di solvente conseguente all’aggiunta del soluto.
La presenza del solvente, quindi, può modificare profondamente le interazioni tra due molecole,
se confrontate con le stesse nel vuoto. Si può addirittura avere il caso di due molecole che si
attraggono nel vuoto (ovvero, il processo di avvicinamento tra le due molecole e’ energetica-
mente favorevole, quindi spontaneo) e in un mezzo solvente, invece, si respingono. Questo
è legato al fatto che, mentre nel vuoto, le due molecole si avvicinano in virtù delle forze di
attrazione che dipendono solo dalla natura delle due molecole stesse, nel solvente, al lavoro
fornito da tali forze si deve sottrarre il lavoro necessario per spingere via, nel percorso di
avvicinamento, le molecole di solvente (con un meccanismo simile a quello di avanzamento
delle lacune per la diffusione nei solidi con difettosità e lacune); se quest’ultimo termine è
superiore al precedente, le interazioni nette risultano essere di tipo repulsivo.
Un altro fenomeno che va tenuto in conto quando si introduce un soluto in un solvente è
la riorganizzazione delle molecole di solvente intorno alle molecole di soluto, che modifi-
cano quindi la struttura propria del solvente. Inoltre, nel passaggio dal vuoto al solvente,
le molecole di soluto in generale hanno caratteristiche fisiche diverse, come la carica e il
momento di dipolo.
La solubilizzazione di una molecola si può anche schematizzare come un processo costituito
da due stadi:

69
(1) prima di tutto, deve essere creata una cavità nel solvente di dimensioni e forma
adeguati ad accogliere la molecola di solvente;
(2) quando la molecola di soluto viene introdotta nella cavità del solvente, essa intera-
girà con le molecole di solvente circostanti.

A questi due passi corrispondono due contributi energetici additivi, che a grandi linee, sono
di natura entropica per il passo 1 e di natura entalpica per il passo 2.

3.2. Potenziali intermolecolari

Nel caso di sistemi estremamente diluiti, (miscele binarie di con soluto molto diluito, gas
a pressione bassa) la distanza tra le molecole è talmente elevata rispetto alle dimensioni
delle molecole che esse possono essere considerate puntiformi e non interagenti tra di loro.
Queste ipotesi danno luogo alla legge dei gas perfetti, per la pressione dei gas, e la legge di
van’t Hoff per la pressione osmotica di soluzioni liquide.
Per sistemi meno diluiti esiste, invece, un potenziale intermolecolare, che corrisponde a
condizioni di nonidealità del sistema (ovvero, non rispondenza alle due leggi indicate).
La prima ipotesi che viene a cadere se si assume la nonidealità del sistema è che le molecole
non possano essere più considerate puntiformi, ma con un diametro finito (simmetria sfer-
ica); vengono ancora trascurate le forze di attrazione. Le molecole sono assimilate a palle di
biliardo, cioè non interagiscono per distanze centro-centro r maggiore del diametro σ delle
sfere (diametro di sfera rigida), mentre per r ≤ σ la forza di repulsione è infinita; quindi, il
potenziale di sfera rigida è dato dalla seguente espressione:

(
∞ r≤σ
(3.2.1) W (r ) =
0 r > σ.

Se si tiene conto anche delle forze di attrazione (di dispersione), che sono presenti oltre a
quelle repulsive di sfera rigida, si ha il potenziale di interazione di Sutherland:


 ∞ r≤σ
(3.2.2) W (r ) =  σ 6
 −ε r > σ.
r
dove ε rappresenta la profondità del pozzo (minimo del potenziale). In questo caso ci sono
due parametri aggiustabili, il diametro di sfera rigida σ (detto anche diametro di collisione)
e il parametro di interazione K.
In generale, le forze di interazione possono essere classificate in attrattive (di dispersione,
specifiche, legami idrogeno, di attrazione osmotica) e repulsive (di sfera rigida, elettro-
statiche). Ci sono due possibilità: o si definiscono le espressioni per tutt i termini in gioco
e poi, tramite l’equazione 3.1.2, si ricava l’espressione relativa per W (r ), oppure si assume

70
7000
n = 15
n = 12
6000 n=9

5000

4000

3000
W

2000

1000

−1000

−2000
0.8 1 1.2 1.4 1.6 1.8 2 2.2 2.4 2.6 2.8
r

F IGURE 3.2.1. Potenziale di Mie (m = 6)

per esso un’espressione complessiva, che comprende due termini, uno relativo alle forze
attrattive, ed uno a quelle repulsive:

A B
(3.2.3) W (r ) = Wrepulsivo (r ) + Wattrattivo (r ) = n
− m
r r
dove A, B, n e m sono costanti positive. E’ evidente che, ad un dato rmin , il potenziale
presenta un minimo, di profondità e, in base a questi valori, la 3.2.3 si può riscrivere come:

W (r ) (n/m)1/(n−m) h σ n  σ m i
(3.2.4) = · −
e n−m r r
dove e = −W (rmin ) e σ è la distanza intermolecolare tale che W (σ) = 0.
Per n = 12 ed m = 6, la (6) diventa:

  
W (r ) σ 12  σ 6
(3.2.5) =4 −
e r r
detto potenziale di Lennard - Jones.
I due parametri necessari per definire questo potenziale sono uno di natura energetica (e) ed
uno di natura geometrica (σ). Il ramo repulsivo, molto ripido, si ha per r ≤ σ, mentre quello
attrattivo si smorza a zero per r → ∞.

71
8

Watt
6 Wrep

2
W

−2

−4

−6
0.8 1 1.2 1.4 1.6 1.8 2 2.2 2.4 2.6
r

F IGURE 3.2.2. Potenziale di Lennard-Jones.

Sebbene molto ripido, il ramo repulsivo ha comunque una pendenza finita, che dal punto
di vista microscopico, significa che se due molecole hanno energie sufficientemente elevate,
possono parzialmente interpenetrarsi l’un l’altra, cioè i due centri si possono avvicinare a
distanze inferiori a σ. Tutti i potenziali che hanno questa caratteristica si dicono a sfera non
rigida.
Una forma brutalmente semplificata del potenziale di Lennard-Jones, molto meno accurato
ma di più semplice utilizzo, è il potenziale di pozzo quadrato:


 ∞
 r≤σ
(3.2.6) W (r ) = −e σ < r ≤ kσ

0 r > kσ

Questo potenziale ha tre parametri aggiustabili: σ, k e R, che permettono di descrivere


adeguatamente molti sistemi.
In figura sono rappresentati insieme i potenziali di cui si è parlato:

3.3. Struttura e proprietà dei liquidi

Lo stato liquido è uno degli stati della materia ed in particolare ha delle proprietà inter-
medie tra quelle dei gas e dei solidi. La struttura dei liquido è diventata oggetto solo di

72
W r  W r 

 
r
r

Potenziale di sfera rigida Potenziale di Sutherland

W r 
W r 

 r min  
r r
−
−

Potenziale di Lennard-Jones Potenziale di pozzo quadrato

F IGURE 3.2.3. Potenziali intermolecolari

recente di studi approfonditi, sia perché solo da poco sono state approntate tecniche speri-
mentali adeguate, sia perchè i modelli teorici per l’interpretazione dei dati sperimentali e la
previsione delle proprietà fisiche sono di recente concezione e notevole complessità.

3.3.1. Definizione di un liquido. Per ogni sostanza si possono definire delle proprietà
critiche, in particolare una densità critica
 ρc ; un liquido si definisce tale se ρ ≥ ρc . Inoltre,
∂ρ 1
definita la compressibilità come χ = ∂βP , dove β = kB T , un liquido è tale che χ ≤ 1/50.
β

3.3.2. Struttura di un liquido. La struttura interna di un liquido si può misurare sper-


imentalmente mediante diffrazione a raggi X e diffusione di radiazioni elettromagnetiche
(luce o raggi X) o di fasci di neutroni.
La grandezza che definisce la struttura di un liquido è detta funzione di distribuzione radi-
ale, ed è definita mediante il seguente procedimento.
Si prende una delle molecole del liquido come riferimento (vedi figura 3.3.1); a partire dal
centro di questa molecola si considera un’ascissa radiale r; si considera un volume infinites-
imo dτ, a distanza r dal centro della molecola, il numero di molecole contenute in tale vol-
ume non sarà semplicemente ρdτ (dove ρ a densità di numero media), ma un numero di-
verso, che dipende dalla presenza della molecola stessa.
A questo punto, si definisce la funzione di distribuzione radiale g (r ), tale che il numero di
particelle cercato sia proprio g (r ) ρdτ; in altri termini,essa rappresenta il fattore per cui è
moltiplicata la densità media ρ, per fornire la densità locale ad r.

73
F IGURE 3.3.1. Struttura di un liquido

Questa funzione gode di alcune interessanti proprietà:


 g → 0 per r → 0, infatti, per piccole distanze tutte le molecole sono impenetrabili;
 g → 1 per r → ∞, a distanze elevate la densità locale osservata è quella media (non
risente più della molecola presa come origine);
In figura è mostrato il confronto tra la funzione di distribuzione radiale tipici di un gas e di
un liquido.

Riferimenti bibliografici.
D. Chandler. Introduction to modern statistical mechanics. Oxford University Press, 1987.
J. N. Israelachvili. Intermolecular and Surface Forces. Academic Press, 1991.
J. M. Prausnitz, R. N. Lichtenthaler, and E. G. de Azevedo. Molecular Thermodynamics of
Fluid-Phase Equilibria. Prentice Hall International Series in the Physical and Chemical
Engineering Sciences. Prentice Hall, 1998.
J.P. Hansen and I.R. McDonald. Theory of Simple Liquids. Academic Press, 2006.

74
F IGURE 3.3.2. Confronto tra le funzioni di distribuzione radiale di un gas (- -
- -) e di un liquido (—–).

75
CHAPTER 4

Proprietà volumetriche dei fluidi

4.1. Introduzione

Le relazioni funzionali tra le variabili macroscopiche atte a descrivere un sistema termodi-


namico possono essere utilizzate essenzialmente finalizzate a descrivere:

 le proprietà termiche del sistema, al variare della temperatura;


 le proprietà volumetriche del sistema, che si ricavano nel caso di sistemi isotermi, e
si esplicano in termini di relazioni tra pressione e densità.

In relazione a queste ultime, è necessario, quindi, esplicitare la relazione esistente tra pres-
sione, volume e temperatura, attraverso espressioni aventi forma generale:

(4.1.1) F (ni , P, T, V ) = 0

dove è in generale indicata anche una dipendenza esplicita dalla composizione del sistema
(ni ).
Tali relazioni sono note come equazioni di stato e indicano, attraverso la loro forma matemati-
ca, il comportamento del sistema; sono state ricavate indipendentemente per la descrizione
di sistemi gassosi, di liquidi puri o di soluzioni liquide.
E’ interessante notare, come verrà esposto di seguito, che la struttura concettuale, che per-
mette di ricavare le espressioni specifiche per ogni sistema particolare, siano simili: spesso,
la particolarità del sistema oggetto di studio si esplica soltanto nella definizione delle equa-
zioni di stato, per le fasi gassose o per le soluzioni liquide. Per i liquidi puri, invece, si
applicano spesso le stesse equazioni valide per i corrispondenti sistemi gassosi puri, ove tali
equazioni siano adeguate anche alla descrizione dei sistemi condensati.
Inoltre, è possibile tracciare un fil rouge che unisce la pressione idrostatica ed osmotica, che
sebbene relazionate a sistemi completamente diversi, possono essere interpretate, attraverso
gli strumenti anche immaginativi della termodinamica molecolare, in maniera molto simile;
in quest’ottica, i risultati trovati, in termini di equazione di stato per la pressione osmotica di
sistemi colloidali, possono essere trasferiti, con le opportune trasposizioni, anche a sistemi
gassosi, descritti attraverso la pressione idrostatica
Infatti, nei gas la pressione P è la risultante degli sulle pareti di un recipiente tenuto alla
temperatura T, di volume V in cui siano contenute N molecole; nel caso di una soluzione,
ad esempio acquosa, in cui siano presenti N molecole di un soluto, alla temperatura T, la
pressione π esercitata su una membrana semipermeabile agisce a livello molecolare secondo
meccanismi analoghi.

77
In altre parole, i sistemi gassosi e le soluzioni liquide (diluite) possono essere descritti me-
diante strumenti simili, in quanto le leggi molecolari che generano le grandezze macrosco-
piche descrittive dello stato del sistema sono analoghe; alle molecole del gas separate dal
vuoto, che possono o meno interagire tra di loro, generando una pressione sulle superfici
del recipiente in cui sono contenute è possibile, quindi, assimilare le molecole di un solu-
to che interagiscono in un ambiente, costituito dalle molecole di solvente, rappresentato da
grandezze continue (descrizione di campo medio).
Nel prossimo paragrafo verranno descritte le leggi termodinamiche, che consentono di uti-
lizzare le equazioni di stato per determinare le proprietà volumetriche, in particolare per
prevedere equilibri di fase.
Quindi, verranno ricavate le relazioni tra i parametri di due equazioni di stato ( per descri-
vere sistemi reali, equazioni di van der Waals ed espansione viriale del fattore di compressi-
bilità) e i parametri molecolari.
Il metodo che emergerà, quindi, mostrerà praticamente il senso dell’approccio molecola-
re della termodinamica, nella derivazione delle proprietà volumetriche macroscopiche in
funzione delle caratteristiche molecolari del fluido in esame.

4.2. Equazioni di stato e proprietà volumetriche dei fluidi

Preso un fluido puro, alla pressione P e alla temperatura T, in generale è possibile definire
la relativa energia libera di Gibbs specifica molare1:

(4.2.1) d Ĝ ( T, P) = v̂dP − ŝ dT
1Presa una generica grandezza termodinamica estensiva ϕ, relativa ad un sistema contenente n moli totali, la
relativa grandezza specifica molare è data da:
ϕ
ϕ̂ =
n
la grandezza specifica non è relativa alla concentrazione di uno dei c componenti presenti nel sistema, ma è
un valor medio rispetto alla concentrazione totale; per quanto riguarda, invece, la corrispondente grandezza
parziale molare ϕ̄i , essa è relativa alla composizione dei singoli componenti:
 
∂ϕ
ϕ̄i =
∂ci j6=i
La relazione tra queste due grandezze è la seguente:
c  
∂ ϕ̂
ϕ̄i = ϕ̂ − ∑ ∂xK
· xK
T,P,,x
k =1
k 6 =i

Per un sistema binario si trova:


∂ ϕ̂
ϕ̄1 = ϕ̂ + (1 − x1 ) ·
∂x1
∂ ϕ̂
ϕ̄2 = ϕ̂ − x1 ·
∂x1

78
in base a questa definizione, è possibile scrivere:
! !
∂ Ĝ ∂ Ĝ
(4.2.2) v̂ = ŝ =
∂P ∂T
T P
la definizione di v̂ prevede l’introduzione dei parametri molecolari, attraverso l’equazione
di stato.

Se si considera, per il fluido in esame, una trasformazione isoterma da una pressione P1 a


P2 , è possibile scrivere la corrispondente variazione dell’energia libera di Gibbs, a partire
dall’integrazione dell’eq. 4.2.1:
Z P2
(4.2.3) Ĝ ( T, P2 ) = Ĝ ( T, P1 ) + v̂ ( T, P) dP
P1

l’espressione di v̂ ( T, P) rappresenta proprio l’equazione di stato, che descrive il sistema;


RT
per un gas perfetto (v̂ = ):
P
Z P2
RT
(4.2.4) Ĝ IG ( T, P2 ) = Ĝ IG ( T, P1 ) + dP = Ĝ IG ( T, P1 ) + R T ln ( P2/P1 )
P1 P
Se consideriamo P1 → 0, il gas nelle condizioni di partenza può essere considerato ideale,
per cui Ĝ ( T, P1 ) = Ĝ IG ( T, P1 ), per cui, ponendo anche P2 = P:
Z P 
IG RT
(4.2.5) Ĝ ( T, P) = Ĝ ( T, P) + v̂ − dP
0 P
RP
il valore ∆ Ĝres ( T, P) = Ĝ ( T, P) − Ĝ IG ( T, P) = 0 v̂ − RPT dP rappresenta l’energia


libera residua2 di Gibbs del gas, alla temperatura e alla pressione assegnati.

A partire da questi valori, è possibile definire un nuovo parametro f detto fugacità:



dµ = RT log f
(4.2.6)
limP→0 f/P = 1

da cui deriva, tenendo conto del fatto che, in condizioni isoterme e isobare, dµ = d Ĝ ( T, P):
( )
Ĝ ( T, P) − Ĝ IG ( T, P)
 Z P  
1 RT
(4.2.7) f = P · exp = P · exp · v̂ − dP
RT RT 0 P
si definisce, di conseguenza, un coefficiente di fugacità ϕ:
 Z P  
f 1 RT
(4.2.8) ϕ = = exp · v̂ − dP
P RT 0 P

2Data una grandezza ϕ, la corrispondente grandezza residua ϕ rappresenta lo scarto del valore riferito al
res
sistema reale rispetto al valore relativo al gas ideale ϕ IG , alle stesse condizioni di pressione e temperatura:
ϕres = ϕ − ϕ IG

79
Utilizzando l’espressione 4.2.7 si può riscrivere la 4.2.5,
fˆ ( T, P)
(4.2.9) Ĝ ( T, P) = Ĝ IG ( T, P) + R T · ln
P
Utilizzando l’espressione

4.2.1. Applicazione della fugacità per il calcolo degli equilibri di fase. La definizione
di fugacità, come grandezza residua rispetto al riferimento del gas perfetto, permette di
utilizzare la definizione delle equazioni di stato per la determinazione degli equilibri di fase.
La trattazione che segue si riferisce al caso più semplice e comune del calcolo degli equilibri
liquido-vapore, con l’introduzione della fugacità per la descrizione della fase vapore e della
fase liquida.
L’equilibrio liquido-vapore per una sostanza pura può essere definito in base all’eguaglianza
delle energie libere di Gibbs per il componente nelle due fasi, a temperatura T e pressione P
fissate:3

(4.2.10) Ĝ L ( T, P) = ĜV ( T, P)

definendo le energie libere usando la 4.2.9:


fˆV ( T, P) fˆL ( T, P)
(4.2.11) Ĝ IG ( T, P) + R T · ln = Ĝ IG ( T, P) + R T · ln
P P
dalla 4.2.11 si ricava immediatamente:

(4.2.12) fˆV ( T, P) = fˆL ( T, P)

cioè l’equilibrio liquido-vapore può essere espresso attraverso l’esplicitazione dell’egua-


glianza delle corrispondenti fugacità. La dipendenza della fugacità dall’equazione di stato
si esplica attraverso la dipendenza v ( T, P) nella 4.2.7; tuttavia, quasi tutte le equazioni di
stato esplicitano una dipendenza del tipo p = p ( T, n, v̂), per cui è necessario modificare la
variabile di integrazione, da dP a dv.
Introducendo il fattore di compressibilità, definito come:
p v̂
(4.2.13) z=
RT
è possibile riscrivere la 4.2.7 come segue:
  Z v  
f 1 RT
(4.2.14) ln = · v− dv̂ + (z − 1) − ln z
P R T v→∞ P
attraverso questa espressione è possibile utilizzare la forma esplicita dell’equazione di stato
nella definizione dell’integrale.

3Questa espressione coincide, a pressione e temperatura costanti, con l’eguaglianza dei potenziali chimici nelle
due fasi per il componente in esame:
µ L ( T, P) = µV ( T, P)

80
4.3. Derivazione dell’equazione di stato di van der waals

I gas ideali e le soluzioni ideali rappresentano sistemi in cui le molecole sono poste a distanze
molto ampie rispetto alle dimensioni delle molecole stesse, tanto che è possibile escludere
qualsiasi interazione intermolecolare; in questo caso, è possibile scrivere rispettivamente,
l’equazione di stato dei gas perfetti e l’equazione di van’t Hoff per la pressione osmotica dei
sistemi diluiti, che descrive la dipendenza della variabile pressoria dal numero di moli n , la
temperatura T e il volume V:
nRT nRT
(4.3.1) p= π=
V V
Le due espressioni sono identiche in notazione, ma descrivono situazioni differenti: nel
caso del gas, n rappresenta il numero di moli disperse nel volume V che non contiene altre
molecole, mentre n rappresenta, nel caso di soluzioni liquide diluite, il numero di moli di
soluto disperse nel volume V di soluzione che, nel caso di diluizione elevata, è praticamente
occupata in maniera preponderante da molecole di solvente.

Nel caso di sistemi gassosi, quindi, le molecole in esame sono disperse in un ambiente costi-
tuito dal vuoto, mentre nel caso di soluzioni liquide diluite, l’ambiente è rappresentato dalle
molecole di solvente, le cui proprietà sono assimilabili a quelle di un “vuoto pesante”, con
proprietà continue.

I gas reali e le soluzioni (diluite) reali sono in generale descrivibili mediante un’equazione
di stato, che è una funzione del tipo:

(4.3.2) F (n, T, V ) = 0

i parametri presenti all’interno di tale tipo di equazione: possono essere di natura empirica,
e risultare semplicemente dall’interpolazione di osservazioni sperimentali, oppure possono
avere un significato legato alle caratteristiche molecolari del sistema; in quest’ultima catego-
ria rientra l’equazione di van der Waals. In questo paragrafo, questa equazione verrà ricava-
ta, per la pressione idrostatica di un gas reale, utilizzando gli strumenti della termodinamica
statistica, già indicati nel primo capitolo.

Dall’espressione 4.3.1 si deduce che l’insieme più adatto per derivare l’equazione è quel-
lo canonico, le cui variabili caratteristiche sono proprio il numero di molecole N = n · N
, la temperatura T e il volume V; la funzione statistica in base alla quale è possibile rica-
vare le proprietà termodinamiche del sistema in esame è la funzione di partizione canoni-
ca Q ( N, T, V ). La pressione p del gas reale, se la temperatura, il volume e il numero di
molecole sono fissati, è pari a:
 
∂ ln Q
(4.3.3) p = kB T
∂V T, N

81
Nel caso di assenza di interazioni tra le molecole (→ gas ideale), si trova la sequente espres-
sione per Q:
N
qid
(4.3.4) Q=
N!
V h
dove qid = eΛ= è la lunghezza d’onda termica di de Broglie (h = 6.63 ·
Λ 3
(2πmk B T ) /2
1

10−34 J · s è la costante di Planck, m è la massa molecolare).


In generale, per gas reali ed ideali, è possibile, quindi, sviluppare:
q e
(4.3.5) ln Q = ln q N − ln N! ' N · ln q − N · ln N + N → ln Q = N · ln
N
   
∂ ln Q ∂ ln q
(4.3.6) = N·
∂V T, N ∂V T, N

nel caso di gas ideali:


 
∂ ln qid 1
(4.3.7) ln qid = ln V − ln Λ 3
=
∂V T, N V
che sostituita nella 4.3.3:
1 1 nRT
(4.3.8) pid = N k B T ·
= n · N kB T =
V V V
che è la nota equazione di stato dei gas perfetti.
Se si fa cadere l’ipotesi di interazioni trascurabili, è possibile, mediante lo stesso procedi-
mento, ottenere un’equazione di stato descrittiva per i gas reali, in base alle caratteristiche
molecolari del potenziale di interazione; in particolare, è possibile tener conto del contri-
buto del potenziale attrattivo e repulsivo, e dell’energia cinetica rotazionale e vibrazionali
dell’intera molecola, mediante la seguente forma della funzione di partizione canonica:
1
(4.3.9) Q ( T, N, V ) = · qN · qN · qN · qN
N! id rep att r,v
 
ϕ
 q att = exp − è il contributo del potenziale attrattivo, dove ϕ è il potenziale
2 kB T
attrattivo esteso al tutte le molecole del sistema;
Vf
 qrep = è il contributo del potenziale repulsivo, dove Vf è il volume accessibile al
V
moto delle molecole, pari al volume totale meno l’ingombro delle molecole;
 qr,v è il contributo dei moti rotazionali e vibrazionali della molecola in esame, che in
prima approssimazione consideriamo unitario (quindi trascurabile).
sostituendo questi termini nella 4.3.9, si ha:
 N   N
Vf

1 ϕ 1
(4.3.10) Q ( T, N, V ) = · · exp − = · qN
N! Λ 3 2 · kB T N!

Vf
 
ϕ
(4.3.11) q = 3 · exp −
Λ 2 · kB T

82
b

F IGURA 4.3.1. Covolume: il volume escluso dal contatto tra due molecole è
pari a 34 π σ3 , per ogni molecola è pari alla metà: b = 23 π σ3

L’equazione di van der Waals si basa sulla definizione del potenziale di Sutherland per l’in-
terazione tra le molecole; ϕ è un termine che tiene conto di tutte le interazioni, per tutte le
molecole, per unità di volume, nel campo di azione (tra σ e ∞) del contributo attrattivo:
Z ∞ Z ∞  6
N 2 σ N 2 av N
(4.3.12) ϕ= W (r ) · 4πr dr = − ε· · 4πr2 dr = −
σ V σ r V V
2 π ε σ3
dove av = .
3
Il contributo repulsivo del potenziale intermolecolare è del tipo di sfera rigida, il che significa
che di tutto il volume V a disposizione delle molecole per il moto, esse possono accedere solo
a quello non occupato da altre molecole; lo spazio escluso per ogni singola molecola, detto
covolume b è pari a4.3.1:
2
(4.3.13) b= π σ3 → Vf = V − N · b
3
Sostituendo queste espressioni nella 4.3.11, si trova, quindi:
av N 2
(4.3.14) ln q = ln (V − N · b) + − ln Λ3
V kB T
da cui si ricava:
 
∂ ln q 1 av N
(4.3.15) = − 2
∂V T, N V − N · b V kB T

83
a (L atm mol−2 ) b (L mol−1 )
ammoniaca 4.18 0.0371
biossido di carbonio 3.59 0.0427
ossigeno 1.36 0.0318
acqua 5.45 0.0305
TABLE 1. Costanti di van der Waals per gas comuni.

da cui si ricava:
   
∂ ln q 1 av N
(4.3.16) p = N · kB T · = N · kB T · − 2
∂V T, N V − N · b V kB T
essendo n = N · N e R = k B · N :
nRT n2 N
(4.3.17) p= − av · 2
V − Nb V
V
introducendo il volume molare v = n:
RT a
(4.3.18) p= 0
− 2
v−b v
con a = av · N e b0 = b · N .
In tabella sono mostrate le costanti di van der Waals per alcuni gas.
Le condizioni critiche si trovano matematicamente dalle condizioni di flesso a tangente oriz-
zontale direttamente dalla definizione dell’equazione di stato 4.3.18:
   2 
∂p ∂ p
=0 =0
∂v TC ∂v2 TC
da cui si ricavano:
9 vc
(4.3.19) a=R Tc vc b=
8 3
da queste espressioni, è possibile ricavare il fattore di compressibilità in corrispondenza del
punto critico, che è pari a:
p vc 3
(4.3.20) zc = =
R Tc 8
è evidente che il fattore di compressibilità critico è un parametro universale, che non dipende
dal tipo di fluido (è, cioè, indipendente dalle specifiche variabili di sistema critiche); inoltre,
è possibile valutare dalle eq. 4.3.19 i parametri critici:
8 a a
(4.3.21) vC = 3 · b0 TC = · pC =
27 R 27 b02
Le ipotesi fatte sul potenziale d’interazione alla base della derivazione dell’equazione di van
der Waals rendono tale equazione piuttosto fallace nella descrizione di fluidi nella regione
critica; infatti, se si utilizzano le eq. 4.3.21 per il calcolo dei parametri critici, si vede che i
valori ottenuti si discostano da quelli reali, misurati sperimentalmente.

84
4.4. Equilibrio osmotico

L’equilibrio osmotico di riferisce ad un sistema costituito da due celle separate tra di loro da
una membrana4 semipermeabile, che consenta solo il passaggio del componente 1, che è il
solvente, ma non del componente 2 (soluto), che è confinato in una sola della celle (cella II),
mentre la cella I contiene il solo componente 15.
L’equilibrio per il componente 1 attraverso la membrana si esprime al solito mediante l’eguaglianza
delle fugacità del soluto nelle due celle:
(I) (I I)
(4.4.1) f1 = f1

esplicitando i termini:

   
I
(4.4.2) f 10 T, P = x1I I γ1I I f 10 T, P II

dove f 10 è la fugacità del componente 1 puro, che dipende solo dalla temperatura e dalla
pressione.
E’ ovvio che per il componente 2 non è possibile scrivere un’espressione analoga, visto che
è presente solo della cella II. Siccome P I 6= P I I , le due fugacità del componente 2 nelle due
celle sono legate dalla relazione di Poynting 6:

" #
    vbL P I I − P I
(4.4.3) f 10 T, P I I = f 10 T, P I · exp 1
RT

che, inserita nella 4.4.2, dà:

" #
vbL P I I − P I
(4.4.4) 1 = x1I I γ1I I exp 1
RT

e quindi

RT  
(4.4.5) P I I − P I = 4P = Π = − · ln x II II
γ
1 1
vb1L

dove Π è la pressione osmotica, cioè la differenza di pressione tra le due celle, necessaria per
mantenere l’equilibrio termodinamico.

4Si fa l’ipotesi che la membrana sia rigida, in modo che tra le due celle si possa stabilire una differenza di
pressione 4 P tra le due celle.
5
Un caso pratico che può essere analizzato con questo modello è quello della dialisi di una soluzione contenente
macromolecole, con una membrana con cut off inferiore della dimensione delle macromolecole.
6In particolare, la differenza di pressione ∆P = P I I − P I che esiste tra la cella II e la cella I serve a compensare,
nella cella II, la diminuizione di fugacità del solvente legata alla presenza di soluto.

85
vC (L mol−1 ) TC (K) pC (atm)
ammoniaca 0.0725(0.113)vdw 405.5(406.6)vdw 111.3(112.48)vdw
biossido di carbonio 0.093(0.128)vdw 133.0(303.42)vdw 34.5(72.93)vdw
ossigeno 0.074(0.0954)vdw 154.4(154.38)vdw 65(49.81)vdw
acqua 0.056(0.0915)vdw 647.4(644.88)vdw 218.3(216.9)vdw
TABLE 2. Costanti critiche per gas comuni: confronto tra il valore reale, mis-
urato e quello stimato usando l’equazione di stato di van der Waals.

4.5. Pressione osmotica di soluzioni colloidali

Come nella fase gassosa, anche la fase liquida può essere caratterizzata da una pressione:
la pressione osmotica. In un sistema binario, in cui 1 e’ il solvente e 2 il soluto, nel caso di
sistema ideale, la pressione osmotica legata alla presenza del soluto 2 è data dalla legge di
van’t Hoff:

(4.5.1) π = c2 RT

dove c2 è la concentrazione molare del soluto. Nel caso in cui la diluizione sia meno spinta,
come per la pressione idrostatica dei gas, anche per la pressione osmotica si può operare
un’espansione in serie viriale nella concentrazione c ([M])

π 
2

(4.5.2) = 1 + B2 c2 + B3 c2 + . . .
c RT
Bn è l’n-esimo coefficiente viriale osmotico e si riferisce rispettivamente alle interazioni ad n
corpi. Nei casi di grande interesse, si può troncare la relazione al secondo ordine, ovvero si
possono trascurare le interazioni tra più di tre corpi.
B2 può essere misurato mediante osmometria a membrana, sedimentazione di equilibrio o
laser-light scattering; in particolare, misurando la pressione osmotica π a diverse concen-
g
trazioni c(m) in unità di L , si possono trovare il peso molecolare PM e il secondo
! coefficiente
π 1 c(m)
viriale osmotico B2 , attraverso l’espressione = RT · + B2 +... .
cm PM PM2
Il secondo coefficiente viriale osmotico (proprietà macroscopica) è direttamente collegato
alle forze intermolecolari (proprietà microscopica). Infatti, applicando la teoria di MacMillan-
Mayer (vedi paragrafo successivo) nel caso di interazioni a simmetria sferica (potenziale di
interazione W (r )) tra due molecole, si trova per B2 :

Z ∞h i
−W (r )/k B T
(4.5.3) B2 ( T ) = 2π · N · 1−e r2 dr
0

Vediamo, nello specifico, l’espressione per il secondo coefficiente viriale osmotico nel caso
di potenziali già analizzati nel capitolo precedente.

86
Il secondo coefficiente viriale osmotico per un potenziale di sfera rigida(3.2.1), si calcola
utilizzando l’eq. 4.5.3 :
Z σ   Z ∞  
−∞/k B T 2 −0/k B T 2
(4.5.4) B2 ( T ) = 2π · N · 1−e r dr + 1−e r dr
0 σ
2π · N σ3
=
3
Analogamente, per un potenziale di pozzo quadrato (3.2.6) si ha:
Z kσ  ∞
Z σ    Z   
−∞/k B T 2 ε/k B T 2 −0/k B T 2
= 2π · N ·
B2 ( T ) (4.5.5) 1−e r dr + 1−e r dr + 1−e r dr =
0 σ kσ
2π · N σ3 h   
3 e/k B T
i
(4.5.6)= · 1− k −1 · e −1
3
Quindi, conoscendo e, σ e k si può determinare anche B2 e, quindi, anche la pressione os-
motica della soluzione contenente il soluto 2 a concentrazione c2.
E’ possibile scrivere altre equazioni di stato, che servono a descrivere l’andamento del fattore
di compressibilità in funzione del volume specifico v nel caso di sistemi gassosi, o equivalen-
temente, in termini di concentrazione c nel caso di sistemi colloidali diluiti (tenendo conto
l’analogia, nel sistema gassoso puro: c = 1v ):
(1) equazione di Carnahan-Starling, descrivente un fluido le cui molecole interagiscono
attraverso un potenziale di sfera rigida:
Pv 1 + η + η2 − η3 b
(4.5.7) z= = η=
RT (1 − η )3 4v

(2) equazione di Redlich-Kwong, in cui il potenziale attrattivo è modificato rispetto


all’espressione di van der Waals:
P v̂ 1 + η + η2 − η3 a0 + a” ( T )
(4.5.8) z= = −
RT (1 − η )3 v̂ · (v̂ + b) T 1/2
questa equazione aggiunge al termine di sfera rigida presente nell’espressione di
Carnahan-Starling un ulteriore termine legato alle interazioni attrattive, con a0 parametro
che non dipende dalla temperatura (forze di dispersione), e a” ( T ) un termine dipen-
dente dalla temperatura (associazione chimica ed interazioni elettrostatiche).

4.6. Teoria di McMillan-Mayer

La teoria di McMillan-Mayer è stata sviluppata per utilizzare le relazioni già esistenti tra
nonidealità di un gas e potenziali intermolecolari, sviluppate ed utilizzate nell’espansione
viriale del fattore di compressibilità z (su base della pressione idrostatica del gas).
Quindi, innanzitutto verrà introdotta la teoria molecolare per l’interpretazione dei coeffici-
enti viriali in termini di potenziali molecolari; in seguito, si analizzerà il modello che viene
utilizzato per descrivere i sistemi colloidali diluiti, al fine di utilizzare i risultati ottenuti

87
per l’espansione in serie della pressione idrostatica dei gas e della pressione osmotica delle
soluzioni colloidali.

4.6.1. Espansione in serie viriale per un gas diluito. Per un gas estremamente diluito,
p
vale la nota legge dei gas perfetti: ρk T = 1, dove ρ = V/Nmolecole è la densità di numero del
B
gas. A densità (→pressioni) superiori, l’equazione di stato può essere corretta nella seguenta
maniera:

p
(4.6.1) = 1 + B ( T ) ρ + C ( T ) ρ2 + . . .
ρk B T

questa relazione è nota come espansione viriale.7


B ( T ), C ( T ), ..., sono noti come secondo, terzo, ... coefficiente viriale e si riferiscono rispet-
tivamente alle interazioni a due, tre, ... corpi; questi coefficienti sono diversi da gas a gas e
dipendono dalle interazioni intermolecolari.
In parole povere, se il gas è sufficientemente denso, le molecole di gas tendono a passare
molto tempo in prossimità le une delle altre, prima a coppie (→si introduce B ( T )), poi a
triplette (→si introduce C ( T )), e così via via, al crescere della densità. La serie converge per
T < TC e per ρ ≤ ρG ( ρG è la densità del vapore saturo, alla temperatura data).
p
Si ha, confrontando l’espansione in serie di ρk B T in funzione di ρ la seguente relazione per
l’n-esimo coefficiente viriale:

p
∂n−1 ρk
!
1 BT
(4.6.2) Bn ( T ) =
( n − 1) ! ∂ρn−1
T,ρ=0

che rappresenta la correzione all’idealità legata alle interazioni ad n corpi, per un gas co-
munque diluito (ρ → 0).
Per descrivere il comportamento di un gas reale attraverso le interazioni intermolecolari
dobbiamo trovare un adeguato modello statistico, ovvero un insieme di termodinamica sta-
tistica appropriato per la descrizione del gas.
La caratteristica principale dell’espansione viriale dei gas è che l’n-esimo termine dell’espansione
si riferisce alle interazioni tra n corpi; l’insieme statistico che permette di separare i termini
delle funzioni termodinamiche relativi ad interazioni tra 2, 3, 4, ... corpi è l’insieme gran
canonico (vedi paragrafo 2.1). Infatti, la funzione di partizione gran canonica può essere
µ
scritta come espansione in serie in termini dell’attività assoluta λ = e k B T (vedi paragrafo 2.1):

7Non tutti i gas reali diluiti possono essere studiati mediante un’espansione viriale; un caso notevole è quello
dei plasma ionici.

88
Ξ (V, T, µ) = Q (0, T, V ) + Q (1, T, V ) λ + Q (2, T, V ) λ2 + . . .
   
pV µN µN
(4.6.3) = = ∑ QN · e kB T
= 1 + ∑ QN · e kB T
kB T N ≥0 N ≥1

dove i coefficienti dell’espansione si riferiscono alle funzioni di partizione canonica, con


numero di particelle (N-1) per l’N-esimo termine. Si noti che Q0 ( T, V ) = Q (0, T, V ) = 1,
per N = 0 il sistema ha un unico stato possibile, con energia E = 0.
N
 
Definendo z = QV1 λ , la 2.13 diventa Ξ (V, T, µ) = 1 + ∑ N ≥1 QQN1VN · z N , e definendo
ZN (V,T ) Q N (V,T )V N
N! = Q1 (V,T )n
, si ha:

ZN (V, T ) N
(4.6.4) Ξ (V, T, µ) = 1 + ∑ N!
·z
N ≥1

ZN (V, T ) si dice integrale configurazionale classico; si trova che

Z
(4.6.5) ZN = e−W (qi ) dq1 . . . dq N
V

dove W (qi ) è il potenziale delle forze intermolecolari (qi rappresentano le coordinate delle
particelle nel volume V).
Calcolando il logaritmo ad entrambi i membri della 2.14 ed espandendo il termine a destra,
poi dividendo per ρ, si ha:

P
(4.6.6)
kB T
= ∑ bj (T ) z j
j ≥1

con ρ = ∑ jb j ( T ) z j ; i termini b j possono essere messi in relazione con gli integrali configu-
j ≥1
razionali:

(4.6.7) 1!Vb1 = Z1 = V
(4.6.8) 2!Vb2 = Z2 − Z12

e quindi, per i coefficienti viriali espressi nell’espansione viriale

(4.6.9) B2 = −b2
(4.6.10) B3 = 4b22 − 2b3

Riassumendo, sono stati trovati i Bn in funzione dei b j , quindi i b j in termini di ZN e ZN in


termini di Q N .

89
In particolare, per determinare B2 ci si serve solo di Q1 e Q2 , per B3 di Q1 , Q2 e Q3 . Sof-
fermandosi solo al secondo coefficiente viriale B2 , legato alle interazioni a due corpi, se si
indica con W (r ) il potenziale d’interazione tra due molecole tra loro distanti r (supponendo
di avere a che fare con un potenziale sfericamente simmetrico), si trova per B20 8:

Z ∞  W (r ) 
1 −k T
(4.6.11) B20 ( T ) =− e B − 1 4πr2 dr
2 0

A partire da questa espressione è possibile ricavare i parametri del potenziale d’interazione


misurando i valori del secondo coefficiente viriale.

4.6.2. Estensione dell’espansione viriale alla pressione osmotica. L’estensione dell’espansione


viriale alla pressione osmotica ha lo scopo di estendere pressoché invariati tutti i risultati rel-
ativi al legame tra secondo coefficiente viriale e potenziale d’interazione, come trovato per i
gas reali.
Al fine di ottenere questa corrispondenza, occorre scegliere un insieme statistico adeguato,
che fornisca direttamente un’espansione della pressione osmotica. Il sistema osmotico è già
stato descritto nel paragrafo 2.2: ci sono due celle, separate da una membrana semiperme-
abile, che lascia passare solo il componente 1 (solvente), ma non il componente 2 (soluto),
che rimane confinato in una delle due celle (cella II).
L’insieme statistico più adeguato per descrivere questo sistema è l’insieme semi gran canon-
ico, cioè un sistema aperto rispetto ad uno dei due componenti (1), ma chiuso rispetto
all’altro (2).
Estendendo la funzione di partizione gran canonica (eq. 2.5) ad un sistema a due compo-
nenti (→ cella II) si ha:

µ1 N1 µ2 N2
Ξ (µ1 , µ2 , T, V ) = ∑ Q N1 N2 · e kB T
e kB T
=
N1 ,N2 ≥0
µ2 N2
(4.6.12) = ∑ Ψ N2 (µ1 , T, V ) · e kB T

N2 ≥0

µ1 N1
dove con Ψ N2 (µ1 , T, V ) = ∑ N1 ≥0 Q N1 N2 · e kB T
è definita la funzione di partizione semi
grancanonica, che rappresenta una sorta di funzione di partizione canonica del componente
2, in un ambiente costituito dal componente 1 a potenziale chimico costante µ1 , oppure, in
maniera più rigorosa, è la funzione di partizione di un sistema a T e V fissati, aperto per il
componente 1 (→ µ1 fissato) e chiuso rispetto al componente 2 (→ N2 fissato).
Nel caso particolare di N2 = 0, si ha:
8L’espressione di B ( T ) in funzione del potenziale d’interazione ricavabile solo nell’ipotesi che il sistema sia
2
diluito e che intervengano solo interazioni a corto raggio (che assicura di ridurre tutte le interazioni ad in-
terazioni a due corpi); il termine B20 ( T ) è definito per una densità di numero, cioè definita come numero di
molecole per unità di volume.

90
µ1 N1 pV
(4.6.13) Ψ0 (µ1 , T, V ) = ∑ Q N1 · e kB T
= e kB T
N1 ≥0

che rappresenta la funzione di partizione gran canonica della cella I.


Per l’espansione viriale della pressione osmotica, innanzitutto va definito il punto di partenza
dell’espansione della pressione osmotica, ovvero la condizione di idealità della soluzione
liquida, possibilmente definita in maniera tale da poter essere messa a diretto confronto con
la condizione di gas perfetto, da cui si partiva per l’espansione in serie viriale della pressione
idrostatica.
Nel caso del gas, l’idealità si aveva a pressioni molto basse, a cui corrispondevano densità
del gas molto piccole, tali che le interazioni tra le particelle potessero essere trascurate. In
termini di fugacitaà del gas (su base densità di numero) si aveva f gas → p gas per p gas → 0.
Per quanto riguarda la soluzione di colloidi, la condizione di idealità ”parallela” è di diluizione
infinita del soluto, all’interno del solvente; cioè, per ρ2 → 0 (ρ2 densità di numero del soluto),
si può scrivere la già citata legge di van’t Hoff (eq. 1.9)

π
(4.6.14) Z2 = =1
ρ2 k B T
dove si è definito il fattore di compressibilità osmotico Z2 .
Per miscele colloidali non ideali (a concentrazioni ρ2 di soluto maggiori, tali che le inter-
azioni vadano ad influenzare il comportamento della soluzione) si può scrivere l’espansione
in serie della pressione osmotica:

π
(4.6.15) Z2 = = 1 + ∑ Bn∗ (µ1 , T ) ρ2n
ρ2 k B T n ≥2

In questo caso, i coefficienti viriali osmotici Bn∗ (µ1 , T ) dipendono anche dal potenziale chim-
ico del solvente µ1 , oltre che dalla temperatura, in quanto le interazioni tra molecole di so-
luto avvengono in un mezzo solvente. Analogamente a quanto trovato per i coefficienti
viriali per l’espansione viriale della pressione idrostatica, per il secondo coefficiente viriale
osmotico si trova:

Z ∞
" #
W (r,µ ,T )
− k T1
(4.6.16) B2∗ (µ1 , T ) = 2π · 1−e B r2 dr
0

dove B2∗ (µ1 , T ) rappresenta il contributo alla non idealità legato alle interazioni a due corpi
della molecola di soluto 2, attraverso un solvente a potenziale chimico µ1 , alla temper-
atura T. Analogamente, il potenziale d’interazione W (r, µ1 , T )9 rappresenta il potenziale
9W (r, µ , T ) può anche essere visto come il lavoro reversibile necessario per portare due molecole di solvente
1
da distanza r = ∞ alla distanza r finita, in un solvente a potenziale chimico µ1 e temperatura T.

91
d’interazione di campo medio (→le interazioni tra molecole di soluto 2 avvengono attraverso
il solvente a potenziale chimico µ1 ).

4.7. Interpretazione dei coefficienti viriali osmotici in termini di termodinamica classica

In questo paragrafo ricaviamo la relazione tra secondo coefficiente viriale osmotico e grandezze
largamente utilizzate in termodinamica classica.
Quando un soluto viene aggiunto ad una concentrazione molare c ad un solvente acquoso,
la soluzione, in generale, diventa non ideale se la concentrazione c di soluto è sufficiente-
mente elevata10, la soluzione acquosa è non ideale; in questo caso, il coefficiente di attività
dell’acqua e del soluto sono diversi dall’unità.
Per sistemi di questo genere è usuale descrivere la non idealità della soluzione mediante il
coefficiente osmotico dell’acqua. La definizione del coefficiente osmotico dell’i-esimo compo-
nente è:
ln ( ai ) ln (γi )
(4.7.1) φi = = 1+
ln ( xi ) ln ( xi )
Il coefficiente osmotico dell’acqua si trova solitamente usando il riferimento di Raoult (al
limite di xw → 1 ⇒ γw R → 1, φ R → 1):
w

ln ( aw ) ln (γw )
(4.7.2) φw = = 1+
ln ( xw ) ln ( xw )
la frazione molare dell’acqua xw è pari a:
nw cw
(4.7.3) xw = =
nw + n cw + c
per concentrazioni di soluto molto basse, c T = c + cw ' cw = ρw , dove ρw è la concen-
trazione molare dell’acqua, che dipende solo dalla temperatura (per esempio, a 25°C, in un
dm3 di acqua ci sono 1000 g di acqua, cui corrispondono 1000
18 = 55.56 moli;quindi, a 25°C, la
moli
densità molare dell’acqua è ρw (25°C ) = 55.56 L ).
Di conseguenza, la frazione molare di acqua 6.3.4 si riduce a:
c
(4.7.4) xw = 1 −
ρw

10Il limite di concentrazione di soluto, al disopra della quale una soluzione acquosa si può considerare non
ideale dipende dalle caratteristiche molecolari del soluto in esame.
Per esempio, un composto idrofobico a basso peso molecolare genera, in soluzione acquosa, un potenziale
attrattivo a corto raggio; di conseguenza, se molecole di questo tipo vengono aggiunte in soluzione, la concen-
trazione di soluto può essere relativamente elevata e la soluzione acquosa risultare ragionevolmente ideale.
Al contrario, se in soluzione viene aggiunto un composto elettrolitico, gli ioni derivanti dalla dissociazione di
tale composto generano un campo di forze elettrostatico, che può essere avvertito a distanze molto maggiori
del raggio molecolare. E’ questo il motivo per cui le soluzioni elettrolitiche sono fortemente non ideali anche a
concentrazioni molari molto basse (10−4 ÷ 10−3 M) del soluto elettrolitico.
Inoltre, maggiore è la dimensione molecolare, maggiore è il potenziale intermolecolare che la molecola genera,
quindi, produrrà soluzioni acquose non ideali, a concentrazioni molari inferiori.

92
che sostituita nell’espressione generale per il coefficiente osmotico dell’acqua:
ln ( aw )
(4.7.5) φw = −  
ln 1 − ρcw
   
c c c 11
per ρw→ 0, ln 1 − ρw ' − ρw ; di conseguenza, l’espressione per il coefficiente os-
motico φw è:
ρw · ln ( aw )
(4.7.6) φw = −
c
Il coefficiente osmotico φw è l’analogo per la pressione osmotica del fattore di compressibilità
z per la pressione idrostatica:
P
(4.7.7) z=
ρ · RT
dove ρ è la densità del gas; analogamente, la relazione che lega la pressione osmotica π al
coefficiente osmotico φw :
π
(4.7.8) φw =
c · RT
Il fattore di compressibilità, come è noto, può essere espanso in serie rispetto alla densità del
gas ρ:

(4.7.9) z = 1+ ∑ Bn (T ) · ρn−1
n =2

I coefficienti Bn ( T ) sono detti coefficienti viriali e possono essere espressi come:


 n −1 
1 ∂ z
(4.7.10) Bn ( T ) = · n −
( n − 1) ! ∂ρ 1 ρ=0
Analogamente, per estensione, il coefficiente osmotico φw può essere espanso in serie rispetto
alla concentrazione di soluto c:

π
(4.7.11) φw = = 1 + ∑ Bn ( T ) · cn−1
c · RT n =2

I coefficienti Bn ( T ) sono detti coefficienti viriali osmotici, e possono essere definiti, analoga-
mente al caso dei coefficienti osmotici:
 n −1 
1 ∂ φw
(4.7.12) Bn ( T ) = · n −
( n − 1) ! ∂c 1 c=0
In particolare, per il secondo coefficiente viriale osmotico si può scrivere:
 
∂φw
(4.7.13) B2 ( T ) =
∂c c=0

11Questa espressione deriva dall’espansione in serie di McLaurin della funzione logaritmica:


      
c c ∂ c c
ln 1 − ' ln 1 − + ln 1 − ·c+... = −
ρw ρw c=0 ∂c ρw c =0 ρ w

93
Utilizzando l’espressione per il coefficiente osmotico dell’acqua 6.3.3, si trova, per Bn ( T )12:
∂ ρw · ln ( aw )
    
1 ∂ ln (γw ) ln (γw )
(4.7.14) B2 ( T ) = − = −ρw · · −
∂c c c =0 c ∂c c2 c =0
Quindi, conoscendo la relazione tra il coefficiente di attività dell’acqua γw e la concen-
trazione di soluto c, si può ricavare il valore del coefficiente viriale osmotico.

Riferimenti bibliografici.
D. Chandler. Introduction to modern statistical mechanics. Oxford University Press, 1987.
J. N. Israelachvili. Intermolecular and Surface Forces. Academic Press, 1991.
J. M. Prausnitz, R. N. Lichtenthaler, and E. G. de Azevedo. Molecular Thermodynamics of
Fluid-Phase Equilibria. Prentice Hall International Series in the Physical and Chemical
Engineering Sciences. Prentice Hall, 1998.
J.P. Hansen and I.R. McDonald. Theory of Simple Liquids. Academic Press, 2006.

Esercizi.
(1) Calcolare il secondo coefficiente viriale osmotico per un fluido in cui il potenziale inter-
molecolare tra coppie di molecole di soluto può essere assimilato ad un potenziale di sfera
rigida, con diametro delle molecole (sferiche) pari a σ (6 giugno 2005) - Vedi esempio 4.5.
(2) Qual è il potenziale intermolecolare più adatto per descrivere le interazioni tra molecole
uguali di polielettroliti in soluzione acquosa in assenza di sali? Data una soluzione conte-
nente un polielettrolita con peso molecolare PM, dimensione caratteristica d e concentrazione
molare c, la pressione osmotica di tale soluzione sarà maggiore o minore di quella di una
soluzione acquosa contenente un polimero idrofobico che non presenta cariche, con uguale
PM, d e c. (12 luglio 2005) - Il potenziale più adatto per descrivere una soluzione
acquosa di un polielettrolita a I ' 0 è di tipo elettrostatico repulsivo (secondo co-
efficiente viriale osmotico B maggiore di zero); un polimero idrofobo, a parità di
condizioni, sarà tale che le sue molecole interagiranno attraverso un potenziale di
tipo idrofobico, attrattivo (secondo coefficiente viriale osmotico B minore di zero).
12Espandiamo l’espressione del secondo coefficiente viriale osmotico:

ρw · ln ( aw )
     
∂ ∂ ln ( aw )
B2 ( T ) = − = −ρw · =
∂c c c =0 ∂c c c =0
     ∂ ln(γ x ) 
 
∂ ln aw w w
∂c · c − ln a w ∂c · c − ln (γw xw )
= −ρw ·   = −ρw ·  
c2 c2
c =0 c =0
Inoltre, come visto precedentemente:
c ∂ ln xw 1
ln xw ' − → '−
ρw ∂c ρw
che sostituito nell’espressione precedente:
     
1 ∂ ln γw ∂ ln xw ln γw ln xw 1 ∂ ln γw 1 ln γw 1
B2 ( T ) = −ρw · · + − − = −ρw · · − − + =
c ∂c ∂c c x c =0 c ∂c ρw c ρw c =0
 
1 ∂ ln (γw ) ln (γw )
= −ρw · · −
c ∂c c2 c =0

94
Quindi, la pressione osmotica π risultante sarà maggiore per potenziali repulsivi,
nella fattispecie nel caso di polielettrolita in assenza di sali, cioè quando le cariche
distribuite lungo la catena polielettrolitica non sono schermate dai (micro)ioni pre-
senti in soluzione. Al contrario, le molecole di polimero idrofobo in soluzione ac-
quosa sviluppano tra di loro un potenziale intermolecolare di tipo attrattivo, quindi
B < 0 e π < πid .
(3) Indicare l’errore percentuale che si commette calcolando con la legge di van’t Hoff la pres-
sione osmotica alla temperatura T di un liquido che contiene una macromolecola proteica
alla concentrazione c, le cui molecole interagiscono tra di loro mediante un potenziale di
pozzetto quadrato, con σ, λ e e assegnati. (22 luglio 2005) - Il secondo coefficient viriale
osmotico per un fluido il cui potenziale intermolecolare può essere rappresentato
da un potenziale di pozzetto quadrato, è pari a:
2πNAv σ3 h e i
B( T ) = · 1 − ( λ3 − 1) · ( e k B T − 1)
3
Quindi, la differenza di pressione osmotica tra una soluzione considerata ideale ed
una valutata attraverso l’espansione viriale è la seguente:

∆π = cRT · ( Bc) = RTBc2

per cui la variazione percentuale rispetto al modello ideale sarà pari a:


∆π 2πcNAv σ3 h 3
e i
= · 1 − ( λ − 1) · ( e − 1)
kB T
π 3
(4) Una macromolecola M è aggiunta in una soluzione acquosa e viene misurata la pressione
osmotica a 300 K; dai seguenti dati, ricavare il peso molecolare e il secondo coefficiente viri-
ale osmotico. Il potenziale intermolecolare è attrattivo o repulsivo? (4 ottobre 2005) - La
pressione osmotica generata da macromolecole che può essere interpretata medi-
ante un’espressione di tipo viriale, ad esempio troncata al secondo ordine:

π, atm 0.0047 0.0063 0.0074 0.0102


c, g/L 29.72 38.12 43.90 58.46

π = a · c + b · c2
R· T atm· L atm· L2
dove i coefficienti sono pari rispettivamente a a = PM g e b = B · RT g2 . Dalla
2
regressione dei dati forniti si trova: a = 5.094 · 10−7 atmg · L e b = 1.451 · 10−4 atmg2· L , da
·L
cui si ricavano PM = 1.6975 · 105 g/moli e B = 2.0682 · 10−8 moli g2
.
(5) Calcolare la pressione osmotica π a 20°C di una soluzione contenente un composto macro-
molecolare (molecole sferiche, diametro molecolare σ = 40 nm, le interazioni intermoleco-
lari sono descrivibili mediante un potenziale a sfera rigida), ad una concentrazione c =
1 · 10−5 M. (23 giugno 2006) - Se il potenziale intermolecolare è descrivibile in termini
di potenziale di sfera rigida, si trova che il secondo coefficiente viriale osmotico, in

95
M−1 si può scrivere come:
Z ∞
2πNAv σ3
B = −2π · NAv · [e−W/k B T − 1] · r2 dr =
0 3
Sostituendo i valori numerici, si trova B = 8.07 · 104 M−1 ; la pressione osmotica
ideale, cioè considerando le molecole di soluto non interagenti tra di loro e con
volume nullo, è data dalla nota equazione di van’t Hoff:

πid = c · R · T = 2.41 · 10−4 atm

Al contrario, se si considera il contributo del potenziale intermolecolare, che in


questo caso è positivo, essendo il potenziale di sfera rigida puramente repulsivo,
si trova:
π = c · R · T · (1 + B · c) = 4.35 · 10−4 atm
Come ci si aspettava, la pressione osmotica reale è maggiore di quella ideale, cioè
considerare la soluzione ideale, in questo caso, comporterebbe una grave sottostima
del valore reale, prossima al 100%.
(6) Un composto colloidale viene aggiunto ad acqua a 300 K e viene misurata la pressione os-
motica a varie concentrazioni; i dati sono mostrati in tabella:

π, atm c, M
0.126 0.05
0.259 0.1
0.542 0.2
1.182 0.4
1.921 0.6

Supponendo di poter rappresentare le interazioni intermolecolari con un potenziale di


sfera rigida (verificarne l’utilizzabilità), determinare dai dati forniti il diametro di collisione
σ. ( 20 luglio 2006) - l modo per ottenere informazioni sul potenziale intermolecolare
dalla pressione osmotica è correlare i dati attraverso un’espansione viriale e individ-
uare il secondo coefficiente viriale osmotico. Nel caso di interazioni riducibili ai soli
termini binari, si può procedere mediante un’espansione del secondo ordine, nella
forma:  
π = RT · C + B · C2
correlando i dati mediante una parabola, si ottiene il valore di B, che in questo caso
è pari a B = 0.05 L/moli; questo valore è positivo, indice di un’interazione repulsiva
tra le particelle di colloide (molecole o aggregati supramolecolari), è quindi appro-
priato l’uso del potenziale di sfera rigida, che è puramente repulsivo. Si trova (vedi
dispense):
2πNAv σ3
B=
3

96
da cui si ricava:
1
3·B

3
σ= = 3.41 · 10−8 dm = 3.41 nm
2 · π · NAv
(7) Le molecole di un composto macromolecolare, avente diametro molecolare σ = 20 nm, in-
teragiscono tra di loro attraverso un potenziale di sfera rigida; questo composto è presente
all’interno di una capsula sferica immersa in una soluzione con osmomolarità 0.15 M; calco-
lare la concentrazione di composto macromolecolare necessario per tenere in equilibrio mec-
canico la capsula nella soluzione dalla caratteristiche indicate. (21 giugno 2007) - Una
soluzione con osmomolarità di 0.15 M presenta una pressione osmotica (soluzione
ideale):
π = R · T · cS
In assenza di informazioni circa la temperatura della soluzione, non siamo in grado
di determinare il valore esatto della pressione osmotica, ma solo la sua espressione
simbolica.
La soluzione macromolecolare, invece, presenta una diversa dipendenza del-
la pressione osmotica dalla concentrazione, poiché bisogna includere l’effetto del
potenziale di interazione molecolare, che determina il valore dei coefficienti viria-
li osmotici; nel caso di espansione viriale troncata al secondo ordine, la pressione
osmotica dipende dalla concentrazione nella seguente maniera:
 
π = R · T · C + B · C2

in questa espressione, il secondo coefficiente viriale osmotico è espresso nelle unità


di misura L/moli; nel caso di potenziale di interazione assimilabile ad un potenziale
di sfera rigida, si trova la seguente forma del secondo coefficiente viriale osmotico:
2πσ3 NAv
B= = 1.0092 · 104 M−1
3
la pressione osmotica dell’espressione generale deve essere pari a quella della solu-
zione 0.15 osmomolare, quindi si trova:
 
cS = C + B · C2

questa equazione nell’unica incognita C (concentrazione del composto macromole-


colare), permette di calcolare il valore richiesto di tale variabile, che è pari a:

−1 + 1 + 4 · B · c S
C= = 3.8 mM
2·B
(8) Determinare la pressione osmotica π a T = 300 K di una soluzione contenente una con-
g
centrazione C = 2 L di un composto colloidale avente diametro molecolare σ = 45 nm e
g
peso molecolare PM = 2 · 104 mole se il potenziale intermolecolare può essere rappresentato
mediante:
(a) un modello di sfera rigida;

97
(b) un modello a pozzetto quadrato, con ε = −4.186 · 102 erg e λ = 1.3.
COSTANTI FISICHE: costante di Boltzmann k B = 1.38 · 10−16 erg K −1 , numero di Avo-
gadro N = 6.023 · 1023 mole−1 , costante dei gas perfetti R = 0.0821 atm L mole−1 K −1 .
(19 dicembre 2007) - La pressione osmotica ideale della soluzione è data dalla legge
di van’t Hoff:
C
πid = c R T = · R T = 0.0025 atm
PM
C
dove c = PM = 0.1 mM è la concentrazione molare, e C è la concentrazione in g/L.
La pressione osmotica di una soluzione reale è data dalla seguente espressione
(espansione viriale):
π = πid · (1 + B · c)
dove B è il secondo coefficiente viriale osmotico, determinato in base al potenziale
intermolecolare a simmetria sferica w (r ) mediante la:
Z ∞h i
B = 2π · N · 1 − e−w(r)/k B T r2 dr
0
Tale termine, come indicato nelle dispense, assume le seguenti espressioni, per inte-
grazione in forma chiusa (analitica), nel caso dei due potenziali d’interesse:
(a) potenziale di sfera rigida:
2π N σ3 L
Bsr = = 1.15 · 105 → πsr = 0.031 atm
3 mole
(i) potenziale di pozzetto quadrato:
2π · N · σ3 h    i L
B pq = · 1 − λ3 − 1 · eε/k B T − 1 = 3.68 · 105 → π pq = 0.093 atm
3 mole

98
CHAPTER 5

Termodinamica delle soluzioni polimeriche: teoria di Flory Huggins

5.1. Fugacità di soluzioni liquide

La descrizione delle soluzioni liquide reali rappresenta uno degli obiettivi primari della ter-
modinamica classica: a partire da essa, infatti, si possono calcolare gli equilibri di fase che
interessino una fase liquida, o prevedere le proprietà di una miscela liquida.
L’espressione 4.2.9 dà la possibilità di scrivere i potenziali termodinamici in termini di pro-
prietà caratteristiche del gas ideale, introducendo una equazione di stato capace di descri-
vere il comportamento volumetrico del fluido in un ampissimo intervallo di densità. Mai
o quasi mai è possibile trovare un’equazione di stato unica capace di dare una descrizione
soddisfacente a tutte le densità, per cui si pone il problema di trovare un nuovo riferimento
per la definizione dei potenziali termodinamici delle soluzioni liquide.
Analogamente a quanto fatto precedentemente, si adotta un approccio perturbativo per
valutare i potenziali termodinamici, nel senso che si costruisce un modello a partire dalla
definizione di una soluzione liquida ideale, che rappresenta il nuovo riferimento (analogo
al gas ideale per lo studio del comportamento dei gas reali, come visto nel capitolo prece-
dente): tutte le deviazioni dei parametri per la miscela liquida reale, quindi, verrano valutate
come somma del corrispettivo valore per il sistema ideale e del termine aggiuntivo, detto di
perturbazione (si intende, rispetto al valore ideale).
A questo scopo, si introduce una nuova forma per la fugacità del componente i-esimo in una
miscela:

(5.1.1) f i = γi xi f i0

lo stato di riferimento (T, P e composizione) determina il valore di f i0 e di γi ; la scelta dello


stato di riferimento deve essere fatta in maniera oculata, in maniera da non generare dei
valori di γi molto differenti dall’unità, cioè, come sempre, bisogna scegliere il riferimento il
più possibile simile al fluido reale.
In generale, una soluzione ideale presenta la seguente relazione tra fugacità e frazione mo-
lare:

(5.1.2) f iID = Ri · xi

la costante di proporzionalità Ri dipende solo da T e P, ma non dalla composizione xi ; se si


pone Ri = f i0 , l’equazione 5.1.2 corrisponde all’espressione 5.1.1 con γi = 1: la caratteristica
che devono rispettare le soluzioni liquide ideali è che γi = 1.

99
Differentemente dal caso del gas ideale, in questo caso non è univoca la definizione di una
soluzione liquida ideale perché, come vedremo, essa varierà a seconda del sistema reale
da descrivere: infatti, il criterio di scelta del riferimento ideale è che quest’ultimo si deve
avvicinare il più possibile al sistema reale, in modo da ridurre il più possibile il termine di
non idealità1.
I sistemi di riferimento (modelli di soluzione ideale) più usati sono quelli di Henry e Raoult,
che descriveremo di seguito.

Sistema di riferimento di Raoult. Una soluzione ideale secondo Raoult, rispetto al com-
ponente i-esimo è costituita dal componente puro, alla T e alla P di interesse (del sistema
reale): in questo caso, quindi, la f i0 corrisponde alla fugacità del componente puro.
Quindi, il riferimento di Raoult realizza la condizione γi → 1 quando xi → 1; il coefficiente
di attività secondo Raoult, di conseguenza, sarà pari a:
fi
(5.1.3) γi =
xi · f i0

Questo sistema di riferimento è applicabile quando il componente può essere presente a


tutte le possibili concentrazioni nella miscela liquida, dalla diluizione infinita, alla con-
dizione di componente puro2.

Sistema di riferimento di Henry. Quando esiste un limite di concentrazione (di satu-


razione) per il componente in esame, non è possibile utilizzare per il componente in esame
il riferimento di Raoult, e quindi bisogna utilizzare un modello di soluzione ideale (sistema
di riferimento) differente3.
La miscela ideale secondo Henry rispetto al componente i-esimo, quando xi → 0, cioè
quando il componente in esame è infinitamente diluito.
In questo caso, quindi:
fi
(5.1.4) f i∞ = lim = Hi,mix
x i →0 x i

Il termine di riferimento a diluizione infinita Hi,mix dipende solo dalla T e viene chiamato
costante di Henry.
1La definizione delle proprietà termodinamiche di sistemi reali, a partire dal valore di riferimento per un
sistema ideale, vengono chiamate, in maniera del tutto generale, teorie perturbative. In questo ambito, le
deviazioni lineari dall’idealità sono descrittive in maniera soddisfacente delle proprietà del sistema reale solo
se il sistema è piuttosto prossimo a quello ideale: nel caso contrario, vengono introdotti termini successivi
(analoghi a quelli dell’espansione viriale del coefficiente di compressibilità), che permettono di approssimare
meglio il comportamento reale.
Per questo motivo, per quanto possibile, è necessario stabilire un punto di partenza che non sia troppo distante
dalla destinazione del sistema reale, al fine di consentire una descrizione adeguata mediante una forma lineare.
2Questo tipo di riferimento è applicabile a quelle miscele costituite da componenti mutuamente miscibili a
tutte le possibili composizioni, alle condizioni di T e P assegnate.
3
E’ questo il caso più comune nei sistemi biologici, nei quali i soluti presenti in soluzione acquosa mostrano un
limite di saturazione (equilibri gas-liquido e solido-liquido).

100
5.1.1. Grandezze di mescolamento e di eccesso. Sia ϕ una grandezza termodinamica
specifica, si definisce il valore della grandezza di mescolamento, per una miscela contenente
c componenti:
c
(5.1.5) ∆ϕmix = ϕm − ∑ xi · ϕ0i
i =1

dove ϕm è il valore relativo alla miscela, e ϕ0i il valore (sempre specifico) del componente
i-esimo puro.
Come conseguenza del teorema di Eulero, si trova:
c
(5.1.6) ϕm = ∑ xi · ϕ̄i
i =1

dove ϕ̄i è la grandezza parziale molare, riferita al componente i-esimo, definita come:
   
∂ (nϕm ) ∂ϕm
ϕ̄i = = ϕm + n ·
∂ni T,P,n j6=i ∂ni T,P,n j6=i

La grandezza di mescolamento è definita come:


c  
(5.1.7) ∆ϕmix = ∑ ϕ̄i − ϕi · xi
0
i =1

Nello specifico, per l’energia libera di Gibbs di mescolamento:


c   c  
(5.1.8) ∆gmix = ∑ ḡi − gi0 · xi = ∑ µi − µ0i · xi
i =1 i =1

dalla definizione, rispettivamente, di potenziale chimico µi e di attività ai :


!
f i
(5.1.9) µi = µ0i + RT · ln 0
= µ0i + RT · ln ai
fi
che sostituito nella 5.1.8 dà:
c
(5.1.10) ∆gmix = RT · ∑ xi · ln ai
i =1
∆gmix
Quindi, il ln ai è la grandezza parziale molare di RT .

In generale, le deviazioni dall’idealità delle soluzioni liquide reali dipendono da una dif-
ferenza in natura chimica, dimensione e forma molecolari delle molecole costituenti la mis-
cela: se queste differenze sono elevate, si può giungere fino ad avere la formazione di una
nuova fase.
Una volta stabilita una soluzione liquida ideale di riferimento, è possibile definire le funzioni
di eccesso, che rappresentano lo scostamento della funzione termodinamica d’interesse per
il sistema reale, dal valore corrispondente per la soluzione ideale; ad esempio, per l’energia
libera di Gibbs:

(5.1.11) G E = Gm ( T, P, xi ) − Gm
ID
( T, P)

101
ID ( T, P, x )
dove Gm ( T, P, xi ) è il valore dell’energia libera di Gibbs per la miscela reale e Gm i
è quello corrispondente alla miscela ideale.
La funzione d’eccesso è una funzione omogenea del primo ordine rispetto alle corrispon-
denti grandezze parziali d’eccesso:
c
(5.1.12) G = E
∑ ni · ḡiE
i =1

inoltre:
! !
fi γi · xi · f i0
(5.1.13) ḡiE = ḡ − ḡiID = RT · ln = RT · ln = RT · ln γi
f iID f i0 · xi
GE
quindi, il ln γi è la grandezza parziale molare di RT .

L’energia libera di Gibbs specifica è:


c
(5.1.14) gE = ∑ xi · ḡiE
i =1

Si trova anche, sfruttando le noti relazioni termodinamiche:


h̄ E
 
∂ ln γi
(5.1.15) =− i2
∂T P,x RT

5.2. Teoria di Flory-Huggins per la fugacità di soluzioni liquide contenenti polimeri

5.2.1. Teorie reticolari per la termodinamica delle soluzioni. Lo stato liquido è lo stato
più difficile da studiare, perché non è possibile identificare in maniera univoca la struttura
microscopica, come nel caso dei gas e dei solidi: infatti, per i primi è possibile assegnare
una posizione per ogni molecola, facendo l’ipotesi di mescolamento casuale (ogni molecola,
quindi, assume una posizione assolutamente casuale, che non dipende, quindi, dalla po-
sizione delle altre molecole nella stessa fase).
Nel caso dei solidi (cristallini), invece, la posizione delle singole molecole è determinata
dalla struttura cristallina: l’interazione tra molecole determina le caratteristiche geometriche
del reticolo e la stabilità della struttura stessa.
I liquidi si posizionano, sia come caratteristiche macroscopiche che per struttura microscop-
ica, a cavallo di questi due comportamenti estremi, che sono entrambi ben descritti utiliz-
zando gli strumenti della termodinamica statistica: la struttura non è casuale, ma è deter-
minata dall’interazione di tipo attrattivo tra le molecole che compongono il liquido stesso;
tuttavia, la struttura microscopica che ne risulta non è uniforme, descrivibile attraverso pre-
cisi parametri geometrici, come nel caso dei cristalli perfetti, e questo conferisce ai liquidi
caratteristiche meccaniche che per alcuni versi (resistenza allo scorrimento) sonoq analoghe
a quelle dei gas, altre (incomprimibilità) più vicine a quelle dei solidi.
La descrizione delle soluzioni liquide, quindi, parte da due approcci contrapposti:

102
 equazioni di stato (gas-like): ad esempio, l’equazione di van der Waals a rigore, può
essere applicata anche nel caso di liquidi: la forte non idealità del gas permette anche
di descrivere comportamenti peculiari dello stato liquido, come l’incompressibilità;
 teorie reticolari (solid-like): la struttura microscopica del liquido è assimilata a quella
di un solido quasi-cristallino, le molecole che costituiscono il liquido risultano col-
locate all’interno di un reticolo (lattice), le cui proprietà geometriche determinano le
caratteristiche strutturali microscopiche del liquido.
Le soluzioni contenenti polimeri hanno la caratteristica di essere costituite da componenti
che presentano grosse differenze di dimensione molecolare, oltre che, nel caso più generale
possibile, di differenze nella composizione chimica: questo elemento peculiare introduce dei
termini, essenzialmente di carattere entropico, che determinano lo specifico comportamento
di tali sistemi.

5.2.2. Teoria di Flory-Huggins per le soluzioni liquide. La descrizione delle proprietà


delle fasi della materia parte da considerazioni sulla struttura molecolare: molto spesso, a
partire da una visione chiara della configurazione spaziale degli atomi o delle molecole che
costituiscono la fase in esame, e interpretando correttamente le interazioni che si sviluppano
in essa, si possono costruire modelli descrittivi del comportamento della fase stessa che
abbiano elevata efficacia ed affidabilità.
In questa ottica, è stato piuttosto semplice costruire i modelli per la descrizione delle propri-
età volumetriche dei gas, ed individuare nella densità il parametro chiave per individuare
le deviazioni dal modello ideale, cioè quello del gas perfetto, che scaturisce dal considerare
il gas come composto da molecole disposte in maniera casuale nello spazio, non interagenti
tra di loro.
Analogamente, introducendo dei modelli per la rappresentazione della configurazione mi-
croscopica di atomi, molecole e ioni in solidi cristallini, è stato possibile derivare tutta una
serie di relazioni tra le proprietà dei solidi, sia di natura termodinamica (punto di fusione,
entalpia di fusione) che meccanica (carico di rottura).
I liquidi rappresentano un indecifrabile punto intermedio in questa rappresentazione di-
cotomica tra fasi in cui le componenti microscopiche rispettano un ordine spaziale fissato
(solidi) e altre per le quali le componenti sono casualmente disposte nello spazio. Lo studio
delle proprietà volumetriche dei liquidi, rappresenta, infatti un campo ancora largamente
inesplorato e i primi modelli strutturali che si è tentato di costruire e di validare, si avval-
gono di strumenti avanzati di meccanica statistica e quantistica, e vengono validati mediante
dati sperimentali ottenuti con metodologie molto recenti, per l’individuazione della strut-
tura molecolare dei liquidi in esame.
Di conseguenza, l’approccio è duplice e nasce dall’estensione di modelli utilizzati per i gas
ed i solidi allo studio delle proprietà dei liquidi; in particolare, sono state sviluppate delle
equazioni di stato, a volte a partire da semplici estensioni di equazioni già esistenti (van der
Waals, van Laar) per lo studio delle proprietà dei liquidi (al fine di ricavare la fugacità di

103
componenti in miscela, ad esempio), utilizzando un approccio usato per i gas e semplice-
mente estendendo la trattazione al liquido, considerato alla stregua di un gas molto denso.
Analogamente, introducendo una rappresentazione della struttura dei liquidi in una forma
quasi-cristallina, cioè immaginando le molecole di cui è costituito il liquido come vincolate
ai nodi di un reticolo, è possibile individuare una struttura regolare nello spazio, di cui è
possibile fornire una descrizione delle proprietà (teorie reticolari).
In particolare, in quest’ultima categoria è possibile ascrivere la teoria di Flory-Huggins, che
è in grado di fornire indicazioni interessanti per la rappresentazione di soluzioni liquide.
La teoria di Flory-Huggins per la determinazione delle proprietà termodinamiche delle mi-
scele liquide rientra nella categoria delle teorie reticolari, cioè alla base di tali approcci al-
lo studio della fase liquida c’è il riconoscimento di un ordine locale in tali sistemi, che ne
determina le proprietà chimico-fisiche.
Le ipotesi che verranno di seguito proposte permetteranno di ricavare, utilizzando strumen-
ti della termodinamica statistica, le funzioni termodinamiche di mescolamento: implicita-
mente, quindi, si assumeranno le caratteristiche della miscela ideale come semplici medie
delle proprietà dei componenti puri, le deviazioni da questo riferimento saranno riferite al-
le caratteristiche chimiche e dimensionali delle molecole di diversa specie che formano la
soluzione liquida.
Prendiamo in esame il mescolamento di due liquidi A e B: facendo riferimento all’energia
libera di Gibbs di mescolamento (specifica):
 
(5.2.1) ∆gmix = ∆hmix − T · ∆smix = g A+ B − x A · g0A + x B · g0B

g0A e g0B rappresentano i contributi relativi ai componenti puri, e sono determinati dalle carat-
teristiche dimensionali delle molecole dei due componenti (ri ), e dall’energia di interazione
tra molecole simili Γii (g0A = g0A (r A , Γ AA ) e g0B = g0B (r B , Γ BB ) ); le deviazioni dall’idealità
possono essere attribuite a due termini distinti:
 se la differenza tra le dimensioni non è elevata (r A ' r B → ∆smix ' 0), si può pre-
vedere l’esistenza di un termine legato alla differenza di natura chimica, derivante
dal fatto che l’energia di attrazione varia nella miscela, rispetto ai termini relativi
alle specie pure (Γ AB ' Γ AA , Γ BB ): questo comporta prevalentemente un termine di
entalpia di mescolamento diverso da zero ∆hmix 6= 0 (soluzioni regolari);
 nel caso in cui le molecole siano molto simili come natura chimica (Γ AB ' Γ A , Γ B →
∆hmix ' 0), ma non come dimensione molecolare, al contrario, è necessario preve-
dere un termine entropico ∆smix 6= 0 (soluzioni atermiche).
Le teorie reticolari (come la teoria di Flory-Huggins) partono dall’ipotesi che le molecole in
esame abbiano dimensioni molto simili (r AB ' r A ' r B ); in questo caso, il passo del reticolo
non cambia passando dal liquido A puro, B puro, alla miscela A+B.
E’ possibile descrivere tali sistemi supponendo che esista un ordine locale, che possa essere
interpretato in termini di interazioni binarie (a corto raggio) tra molecole adiacenti: l’energia

104
A A A B B B

A A A B B B

A A A B B B

A puro B puro

B B B A A A

B A B A B A

B B B A A A

A+B

F IGURA 5.2.1. Modello reticolare bidimensionale per la miscela A+B.

interna complessiva dell’intero sistema è data dalla somma dell’energia di interazione di


ogni singola molecola con le molecole adiacenti.

Supponiamo che nel sistema ci siano NA molecole di A, NB molecole di B, e che ogni mole-
cola abbia z molecole adiacenti; z è detto numero di coordinazione, ed è compreso tra 6 e 12,
a secondo del tipo di impaccamento delle molecole nel liquido; il numero totale di coppie di
molecole adiacenti è pari a
z
(5.2.2) · ( NA + NB ) = NAA + NBB + NAB
2
dove Nij è il numero di coppie di molecole i e j a contatto; NAA , NBB e NAB non sono
indipendenti, ma sono legate attraverso le due relazioni:

(5.2.3) zNA = 2 · NAA + NAB

(5.2.4) zNB = 2 · NBB + NAB

L’energia potenziale totale è:

(5.2.5) UTOT = NAA · Γ AA + NBB · Γ BB + NAB · Γ AB


z NAB z NAB
dove NAA = 2 · NA − 2 , NBB = 2 · NB − 2 , che sostituite nella 5.2.5danno:
z z
(5.2.6) UTOT = NA Γ AA + NB Γ BB + NAB · w
2 2

105
dove
1
(5.2.7) w = Γ AB − · (Γ AA + Γ BB )
2
è detta energia di scambio e rappresenta il contributo della non idealità; infatti, per un
sistema ideale, l’unico contributo è quello relativo ai componenti puri:
1
(5.2.8) w=0 → Γ AB =· (Γ AA + Γ BB )
2
cioè anche l’energia di interazione tra molecole diverse Γ AB è semplicemente una media
aritmetica delle energie di interazione tra molecole uguali.

Una volta definita l’energia interna UTOT , è possibile definire, per un sistema termodi-
namico isotermo ed isobaro, la relativa funzione di partizione canonica, che descrive il
corrispondente insieme statistico (canonico):
 
UTOT
(5.2.9) Q RET = ∑ g ( NA , NB , NAB ) · exp −
N
kB T
AB

dove g rappresenta la degenerazione dei vari stati energetici4; facendo l’approssimazione


del termine massimo (cui corrisponde :
 ∗
UTOT


(5.2.10) Q RET ' g · exp −
kB T
La distribuzione più probabile (termine massimo) è quella che corrisponde al mescolamento
perfettamente casuale, per cui:

∗ z NA NB ( NA + NB )!
(5.2.11) NAB = → g∗ ( NA , NB , NAB

)=
NA + NB NA ! NB !
L’energia libera di Helmotz di mescolamento specifica ∆amix = am − x A · a0A + x B · a0B si


ricava in termini di Q RET :


  
∗ ∗ NAB w
(5.2.12) ∆amix = −k B T ln g ( NA , NB , NAB ) · exp −
kB T
Sviluppando il termine g∗ ( NA , NB , NAB
∗ ), si ricava l’espressione:

∆amix w
(5.2.13) = x A · ln x A + x B · ln x B + x A · xB
RT RT
il valore corrispondente ad una soluzione ideale (w = 0):
∆amix
ID
(5.2.14) = x A · ln x A + x B · ln x B
RT
per cui il valore di eccesso corrispondente:
aE w
(5.2.15) = x A · xB
RT RT

4Tale valore rappresenta il numero di possibili modi di disporre N molecole di A, N molecole di B in


A B
( NA + NB ) siti.

106
Inoltre, dalla definizione differenziale di energia libera di Helmotz da = −sdT − pdv, si ha:
!
∆smix
ID
1 ID
∂∆amix
(5.2.16) =− · = − x A · ln x A − x B · ln x B
R R ∂T
v

se l’energia di interscambio w si può considerare indipendente dalla temperatura5, dalla


5.2.13, si ottiene:
∆smix ∆s ID
 
1 ∂∆amix
(5.2.17) =− · = − x A · ln x A − x B · ln x B = mix → s E = 0
R R ∂T v R
Analogamente, si trova:

(5.2.18) vE = 0

Le condizioni 5.2.17 e 5.2.18 rappresentano le caratteristiche delle soluzioni regolari, come


descritte dalla teoria di van Laar, Scatchard e Hildebrand; per tali soluzioni:

(5.2.19) gE = aE = hE = uE = N · w x A xB

da cui si ricava:
w w
(5.2.20) ln γ A = · x2 ln γB = · x2
kB T B kB T A
Queste espressioni sono note come equazioni di Margules, che descrivono un andamento
simmetrico dell’energia libera di eccesso.
5.2.2.1. Applicazione della teoria di Flory-Huggins alle soluzioni polimeriche. Consideriamo il
caso di un solvente A in cui viene disciolto un polimero B; alla formazione di questa miscela
si può associare, al solito, un’energia libera di mescolamento:
 
(5.2.21) ∆gmix = gm ( A + B) − x A · g A + x B · gB
0 0

dove gm ( A + B) è l’energia libera specifica della miscela (A+B), mentre gi0 è l’energia libera
specifica dei due componenti puri, e xi è la corrispondente frazione molare.
E’ possibile introdurre delle ipotesi semplificative in alcuni case specifici:

 nel caso di molecole molto simili come dimensioni, è possibile fare l’ipotesi di en-
tropia di mescolamento nulla ∆smix ' 0 (soluzioni regolari);
 spesso, nel caso di soluzioni polimeriche, il contributo preponderante è di natura
entropica, per cui si può utilizzare l’espressione per l’energia libera di mescolamento
valida per soluzioni atermiche: ∆hmix ' 0, per cui la corrispondente energia libera
di Gibbs si ha:

L’entropia di mescolamento può essere scritta come somma di due termini:

(5.2.22) ∆smix = ∆sC + ∆s R


5Il fatto che l’energia di interscambio sia indipendente dalla temperatura indica che lo anche l’energia Γ ;
AB
la classe di potenziali che risultano maggiormente indipendenti dalla temperatura, sono quelli legati alle
interazioni di tipo idrofobico.

107
dove ∆sC rappresenta il contributo entropico combinatoriale, mentre ∆s R è il corrispondente
termine residuo. Nel caso di soluzioni atermiche, il solo contributo non trascurabile è quello
combinatoriale. L’ipotesi di base è che il solvente A possa essere considerato costituito da
molecole sferiche, che occupano un singolo nodo nel reticolo, mentre il soluto polimerico B
le molecole sono catene flessibili, costituite da r segmenti, costituiti da sfere aventi la stessa
dimensione delle molecole di solvente.

Quindi, in questa rappresentazione, ogni nodo del reticolo può essere occupato da una
molecola di solvente o da un segmento (a forma sferica) del polimero; in altre parole, la
configurazione dei polimeri è amorfa, quindi presentano un comportamento simile a quello
di superliquidi.

Analizziamo un sistema costituito da NA molecole di solvente e NB molecole di solvente,


ognuna costituita da r segmenti.

Il numero totale di nodi del reticolo che raffiguri la soluzione polimerica è NA + r · NB ; è pos-
sibile, a questo punto, definire le frazioni di siti occupati dall’uno e dall’altro componente:
NA r · NB
(5.2.23) Φ∗A = Φ∗B =
NA + r · NB NA + r · NB

Il corrispondente valore dell’energia libera di mescolamento, nel caso di preponderante


natura combinatoriale_
∆gmix ∆g ∆s
(5.2.24) − ' − C = C = − ( NA · log Φ∗A + NB · log Φ∗B )
RT RT R
Questa espressione è analoga a quella trovata per le soluzioni regolari, dove le frazioni
volumetriche hanno sostituito le frazioni molari; si trova, per l’entropia di eccesso:
sE
  
∗ 1
(5.2.25) = − x A · log 1 − Φ B · 1 − − x B · log [r − Φ∗B · (1 − r )]
R r
Quindi, sempre nel caso di soluzioni polimeriche atermiche, si trova per l’attività e il coeffi-
ciente d’attività del solvente:
 
∗ 1
(5.2.26) log a A = log (1 − Φ B ) + 1 − · Φ∗B
r
     
1 1
(5.2.27) log γ A = log 1 − 1 − · Φ∗B + 1− · Φ∗B
r r
Nel caso di soluzioni polimeriche reali, non atermiche, per le quali le interazioni tra i vari
segmenti delle catene polimeriche e le molecole di solvente non sono trascurabili, è diverso
da zero anche il termine residuo per l’energia libera di Gibbs di mescolamento, pari a:
∆gR
(5.2.28) = χ · Φ∗A Φ∗B · ( NA + r NB )
RT
Il termine χ è detto parametro di interazione di Flory-Huggins, e dipende dalle interazioni
intermolecolari tra molecole di solvente e segmenti della catena polimerica e può essere

108
messa in relazione con l’energia di scambio w:
w
(5.2.29) χ=
kB T
Questo termine è tanto più elevato quanto maggiore è la differenza della natura chimica tra
le molecole di solvente e soluto; se l’energia di scambio w non dipende dalla temperatura, si
ricava immediatamente che χ ∝ 1/T.
La corrispondente energia libera di Gibbs di mescolamento è pari a:
∆gmix ∆gC ∆gR
(5.2.30) = + = NA log Φ∗A + NB log Φ∗B + χΦ∗A Φ∗B · ( NA + r NB )
RT RT RT
I corrispondenti attività e coefficienti di attività del solvente sono:
 
∗ 1
(5.2.31) log a A = log (1 − Φ B ) + 1 − · Φ∗B + χΦ∗B2
r
     
1 1
(5.2.32) log γ A = log 1 − 1 − · Φ∗B + 1− · Φ∗B + χΦ∗B2
r r
5.2.2.2. Previsione degli equilibri liquido-liquido attraverso la teoria di Flory-Huggins. Una
delle applicazioni classiche della teoria di Flory-Huggins è rivolta alla previsione della com-
posizione di fasi liquide in equilibrio, attraverso la determinazione delle condizioni per cui
la curva di ∆gmix/RT presenti concavità verso il basso, come è indicato nella teoria classica
della stabilità termodinamica:
!
∂2 ∆gmix
(5.2.33) <0
∂Φ2A
In presenza di solo termine combinatoriale, non si ha mai smescolamento (soluzioni ater-
miche), per cui è possibile avere la presenza di due fasi liquide in equilibrio solo nel caso
di soluzioni polimeriche non atermiche, e si trova la seguente condizione sul parametro di
interazione di Flory-Huggins:
1 2
 
(5.2.34) χ ≤ 1+ √
r
La condizione di incipiente instabilità è quindi:
1 2
 
1 1
(5.2.35) χC = · 1 + √ Φ∗B,C = √
2 r 1+ r
per polimeri con dimensione molecolare elevata (r → ∞), si trova χC ' 1/2 e Φ∗B,C ' 0, cioè
lo smescolamento avviene a diluizione infinita del soluto polimerico. In ogni caso, il valore
del parametro critico serve a determinare il valore della temperatura critica (5.2.29):
w
(5.2.36) TC =
k B · χC

109
CAPITOLO 6

Equilibri di ionizzazione di biopolimeri e salting-out

6.1. Equilibri di ionizzazione degli amminoacidi

La struttura generale degli amminoacidi è quella mostrata in figura 2.2.1; il gruppo ammi-
nico e carbossilico tendono a dissociarsi, rispettivamente come un acido e una base, i quali
tendono a ionizzarsi; in particolare, a pH 7, entrambi i gruppi tendono ad essere ionizzati,
per cui sono presenti come −COO− e − NH3+ .
Consideriamo la generica reazione di ionizzazione, ad esempio di un acido H A:
A K
(6.1.1) HA )− H + + A−
−*

La reazione è di equilibrio, con una costante di equilibrio K A , definita come:


[ A− ] · [ H + ]
(6.1.2) KA =
[ H A]
Analogamente alla definizione del pH, possiamo definire il pK A :
[ A− ]
(6.1.3) pK A = − log10 [K A ] = pH − log10
[ H A]
oppure, nella forma più nota dell’equazione di Henderson-Hasselbach:
[ A− ] [base coniugata]
(6.1.4) pH = pK A + log10 = pK A + log10
[ H A] [ acido coniugato ]

Quando [ A− ] = [ H A], cioè quando l’acido H A è dissociato per metà, si ha pH = pK A ; in


poche parole, il pK A rappresenta il pH in corrispondenza del quale l’acido è dissociato per
metà.
Alcuni amminoacidi possiedono un residuo che può a loro volta ionizzarsi (residui acidi -
aspartato e glutammato - e basici - lisina ed arginina): tale equilibrio di ionizzazione avviene,
nel caso di amminoacidi liberi, concomitantemente all’equilibrio di ionizzazione dei gruppi
amminico e carbossilico, e ne modifica gli equilibri.
Per la legge di van’t Hoff, la costante di equilibrio di dissociazione dell’acido K A è legata
all’energia libera di Gibbs di ionizzazione in condizioni standard:

(6.1.5) ∆G0 = − RT · ln K A

∆G0 rappresenta la differenza di energia libera tra i prodotti (H + ed A− ) e il reagente (H A),


quando tutti i componenti sono presenti alle condizioni standard (ad una concentrazione di
1 M in soluzione acquosa); l’energia libera di ionizzazione ∆Gion in condizioni diverse da

111
quelle standard è pari a:

(6.1.6) ∆Gion = ∆G0 + RT · ln([ H + ] · [ A− ]/[ H A])


[ H + ]e ·[ A− ]e
Quando le concentrazioni dei componenti sono quelle di equilibrio, allora = KA,
[ H A]e
ed essendo ∆G0 = − RT · ln K A , si ha, all’equilibrio, ∆Gion = 0. Quando interviene un altro
processo accoppiato a quello di ionizzazione cui è associata un’energia libera ∆Ge , l’energia
totale è:

(6.1.7) ∆GT = ∆Ge + ∆Gion = ∆G0 + ∆Ge + RT · ln([ H + ] · [ A− ]/[ H A])

all’equilibrio ∆GT = 0; la concentrazione di H + in corrispondenza della quale l’acido è


dissociato a metà ([ H A] = [ A− ]) è:
(6.1.8)
∆GT = ∆G0 + ∆Ge + RT · ln[ H + ] + RT · ln([ A− ]/[ H A]) = ∆G0 + ∆Ge + RT · ln[ H + ]1/2 = 0

e si ricava:

[ H + ]1/2 = e−(∆G
0 + ∆G ) /RT
e
(6.1.9)

Il pK 0A apparente, cioè la il pH in corrispondenza del quale l’acido risulta dissociato a metà,


in presenza di un fenomeno concomitante, cui è associata l’energia libera ∆Ge , sarà pari a:
(∆G0 + ∆Ge )
(6.1.10) pK 0A = − log10 [ H + ]1/2 =
2.303 · RT
mentre il pK A intrinseco, cioè quello misurato in assenza di altri fenomeni:
∆G0
(6.1.11) pK A =
2.303 · RT
L’energia libera del processo che si verifica insieme alla ionizzazione ∆Ge è pari a:

(6.1.12) ∆Ge = 2.303 · RT · ( pK 0A − pK A )

Quindi, la misura della differenza ∆pK A con e senza l’intervento di un altro fenomeno con-
comitante alla ionizzazione, consente di misurare l’energia associata al fenomeno congiunto,
nelle condizioni indicate.
In realtà, ogni amminoacido presenta anche un gruppo amminico − NH2 , che tende a pro-
tonarsi, per cui ogni amminoacido è presente in realtà sotto forma di uno ione dipolare
(chiamato anche zwitterione), in equilibrio con i rispettivi ioni singoli:
1 2
(6.1.13) − NH3+ − CHR − COO− )
NH3+ − CHR − COOH )

* − NH2 − CHR − COO−

*

cui corrispondono i due pK:

(6.1.14) ! !
[ NH3+ − CHR − COO− ] · [ H + ] [ NH3+ − CHR − COOH ]
pK1 = p = pH + log
[ NH3+ − CHR − COOH ] [ NH3+ − CHR − COO− ]

112
(6.1.15) ! !
[ NH2 − CHR − COO− ] · [ H + ] [ NH2 − CHR − COO− ]
pK2 = p = pH + log
[ NH3+ − CHR − COO− ] [ NH3+ − CHR − COO− ]
questi valori sono noti per ogni amminoacido.
Per semplicità, indicando con A± , A+ e A− rispettivamente la forma zwitterionica, cationica
ed anionica dell’amminoacido, la 7.1.13 e la 7.1.14 possono essere riscritte come:
 ±  ± 
[ A ] · [H+]

[A ]
(6.1.16) pK1 = p +
= pH − log
[A ] [ A+ ]

[ A− ] · [ H + ] [ A− ]
   
(6.1.17) pK2 = p = pH − log
[ A± ] [ A± ]
Indicando con f ± , f + e f − rispettivamente le frazioni di amminoacido dipolare, cationico
[H+ ]
ed anionico, si ha, dalle 7.1.15 e 7.1.37, f + = K1 · f ± e f − = [ HK+2 ] · f ± , ed essendo f + +
f − + f ± = 1, si trova:
1
(6.1.18) f± = [H+ ] K2
1+ K1 + [H+ ]

K1 · [ H + ]
(6.1.19) f+ = [H+ ] K2
1+ K1 + [H+ ]

K2 / [ H + ]
(6.1.20) f− = [H+ ] K2
1+ K1 + [H+ ]

Il valore di pH per cui la f ± è massima corrisponde al cosiddetto punto isoelettrico dell’am-


df±
minoacido, che dipende dai valori di K1 e K2 ; si trova, ponendo d[ H + ]
= 0 (massimo della
curva di f ± nella figura ):

[ H + ] p.i. = + K2 · K1
p
(6.1.21)
1
cioè il punto isoelettrico è pari a pI = p([ H + ] p.i. = 2 · ( pK1 + pK2 ).

6.1.1. Ionizzazione dei residui amminoacidici in poliamminoacidi1, polipeptidici e


proteine. Nei polipeptidi e nelle proteine, gli amminoacidi perdono la caratteristica di ioni
dipolari, poichè i gruppi amminico e carbossilico sono coinvolti nella formazione dei legami
peptidici; tuttavia, nel caso di residui ionizzabili, tali amminoacidi possono ancora dar luo-
go ad equilibri di ionizzazione, ma i pK A relativi sono differenti dai corrispondenti valori
per gli amminoacidi liberi, a causa di due effetti:
(1) le interazioni elettrostatiche con i residui spazialmente prossimi, ionici o dipolari;
1Si definiscono poliamminoacidi polimeri di diverso grado di polimerizzazione, risultanti dalla condensazione
di un solo tipo di amminoacido.

113
F IGURA 6.1.1. Andamento delle frazioni di specie ioniche in soluzioni di
amminoacidi, al variare del pH.

(2) l’interferenza dei fenomeni di ionizzazione con gli equilibri conformazionali del
polipeptide.

In generale, se consideriamo anche solo semplicemente gli equilibri di ionizzazione dei


gruppi carbossilico ed amminico, si osserva come essi siano via via più facilitati per gli
amminoacidi liberi, piuttosto che per i poliamminoacidi; infatti, si vede come i valori di pK1
e pK2 diventino sempre più vicini all’aumentare della dimensione del polielettrolita; si no-
ta, inoltre, che le interazioni tra le estremità carbossilica ed amminica sono associabili alla
differenza tra i pK, in particolare il ∆Gie0 associabile a tale interazione elettrostatica si ricava:
∆Gie0
(6.1.22) ∆pK = ( pK1 − pK2 ) =
2.303 · RT
Quando gli amminoacidi polimerizzano per dar luogo alla formazione di catene di varia
composizione chimica (uniforme - poliamminoacidi - o non uniforme - polipeptidi e pro-
teine), i gruppi amminico e carbossilico non possono più ionizzarsi, poiché coinvolti nella
formazione del legame peptidico; soltanto i due gruppi estremali, non coinvolti nella forma-
zione del legame, possono ancora ionizzarsi, ma l’effetto di tale ionizzazione diminuisce, in
generale, all’aumentare della lunghezza della catena di amminoacidi.

114
pK1 pK2
Ala (1) 2.34 9.69
Ala (2) 3.12 8.30
Ala (3) 3.39 8.03
Ala (4) 3.42 7.94
TABELLA 1. Effetto del grado di polimerizzazione di poliamminoacidi sugli
equilibri di ionizzazione dei gruppi amminico e carbossilico.

Un esempio è dato dagli equilibri di ionizzazione dell’oligoalanina, a diverso grado di


polimerizzazione.
Si vede come mano a mano che aumenta la lunghezza dell’oligopeptide, la ionizzazione
diventa sempre più agevole: infatti, nel singolo amminoacido esiste una forte attrazione
tra i gruppi NH3+ e COO− nella forma zwitterionica a pH 7: questa interazione di tipo
attrattivo rende difficile la rimozione di un protone dal gruppo NH3+ o l’aggiunta ad un
gruppo COO− .
Mano a mano che cresce la lunghezza del poliamminoacido, tali equilibri di ionizzazione
diventano sempre più “facilitati”, per cui avvengono in condizioni meno estreme: è questo
il motivo per cui l’intervallo di pH tra il pK1 e il pK2 si riduce all’aumentare del grado di
polimerizzazione: secondo l’espressione 7.2.1, ciò corrisponde ad una diminuizione dell’e-
nergia di interazione elettrostatica tra i due gruppi, amminico e carbossilico, estremali, cui
corrisponde una maggiore facilità, per entrambi i gruppi, alla ionizzazione.
Ancora più complicato diventa il discorso quando a ionizzarsi è un residuo amminoacidico
presente all’interno di una catena proteica, con una ben assegnata struttura tridimensiona-
le: in questo caso, l’equilibrio di ionizzazione del residuo avviene in un ambiente ionico
determinato dalla composizione locale della struttura proteica in cui è presente il residuo,
e dipende dagli equilibri conformazionali della catena avvolta, che a loro volta dipendono
dallo stato di ionizzazione dei residui lungo la catena.
E’, quindi, molto complesso valutare a priori lo stato di ionizzazione dei residui amminoa-
cidi, e la conseguente carica netta superficiale2, cioè la carica derivante dalla somma algebrica
delle cariche disposte sulla superficie di una molecola proteica, ad un determinato pH3.
2E’ da ricordare che i residui idrofili (polari e ionizzabili) tendono a localizzarli, nel folding, nella regione
superficiale della struttura tridimensionale finale: difatto, i residui superficiali, cioè quelli che sono a diretto
contatto con il solvente acquoso, sono quelli poi capaci di ionizzarsi.
3Il fatto che la carica netta superficiale di una proteina sia positiva e negativa indica la natura prevalente dei
gruppi ionici presenti sulla superficie della molecola proteica stessa, ma non esclude la presenza di cariche di
segno opposto.
I modelli atti alla descrizione del potenziale elettrostatico del composto proteico generalmente descrivono la
molecola proteica come una sfera di raggio pari al raggio molecolare della struttura tridimensionale (sferoidale
o assimilatata tale), con una carica elettrica distribuita uniformemente sull’intera superficie proteica.
In realtà, sulla superficie proteica sono distribuiti residui ionizzati, anche con carica opposta, e anche delle
regioni non ionizzabili (polari o, addirittura, idrofobiche), per cui la distribuzione di cariche superficiale è,
nella realtà, sempre estremamente eterogenea.
I modelli che descrivono il campo elettrostatico generato in maniera uniforme danno delle descrizioni suffi-
cientemente accurate nel caso di proprietà di soluzioni a moderata concentrazione o di caratteristiche medie
delle soluzioni proteiche (salting-out, conducibilità elettrica, mobilità elettroforetica).

115
L’effetto principale della carica netta superficiale di una proteina, o più genericamente,
di un biopolimero contenente gruppi ionizzabili, è quello di coordinare ioni di basso pe-
so molecolare (dovuti principalmente alla dissociazione elettrolitica di sali) nelle regioni
circostanti.
Si viene a creare un doppio strato ionico (a distanze maggiori, l’effetto di coordinazione
è trascurabile), che di fatto produce una riduzione elevata della densità di carica iniziale.
Quindi, in presenza di sali, l’effetto di ordinamento dei (micro)ioni in corrispondenza del-
le superfici cariche di macroioni produce una riduzione notevole dell’intensità del campo
elettrostatico generato da tali macromolecole a natura superficiale elettrolitica.
Come vedremo, questo fenomeno spiega il comportamento delle soluzioni contenenti pro-
teine e sali, soprattutto per quanto riguarda la variazione delle proprietà chimico-fisiche di
tali sistemi, in seguito all’aggiunta di elettroliti a basso peso molecolare (sali).

6.1.2. Determinazione sperimentale dello stato di ionizzazione di composti protei-


ci. Le principali tecniche per la determinazione della carica di proteine appartengono alle
seguenti categorie:

 metodi basati sulla mobilità in presenza di campi elettrici (elettroforesi): in questo


caso, si sfrutta la diversa mobilità in un campo elettrostatico imposto e noto per la
determinazione della carica; la mobilità elettroforetica, infatti, è definita come:
qE
(6.1.23) v=
f
dove v è la velocità con la quale si muove una macromolecola avente carica netta q,
che si muova in un campo elettrostatico di modulo E, sottoposta alle forze di attrito
f ; nel caso di una macromolecola sferica di raggio a, avente carica q = z e, che si
muova in un fluido di viscosità η, la 6.1.23 diventa:
zeE
(6.1.24) v=
6πη a
il problema principale nella previsione della mobilità elettroforetica è proprio nella
determinazione della dimensione della sfera (macromolecola + doppio strato ionico)
e della carica corrispondente z e; quindi, una misura della velocità di spostamen-
to di una molecola proteica all’interno di un ambiente controllato (η, E assegnati)
permette, almeno teoricamente, di valutare la carica efficace z e;
 metodi basati sull’analisi di variazioni spettroscopiche: spesso, la ionizzazione di un
gruppo produce delle variazioni conformazionali, che possono essere determinati
mediante metodi spettroscopici (fluorescenza, dicroismo circolare); di conseguenza,
l’entità della variazione conformazionale è correlabile con il grado di ionizzazione;

Per quanto riguarda, invece, tutte quelle proprietà che possono essere interpretate mediante interazioni a corto
raggio tra regioni cariche (cromatografio a scambio ionico, formazione di complessi proteina-ioni), è necessario
fornire una descrizione più completa del campo elettrostatico generato dalla molecola proteica, in termini di
distribuzioni spaziali dettagliate delle cariche sulla superficie proteica stessa.

116
 metodi basati sulla titolazione potenziometrica o conduttimetrica: questo metodo, si
realizza nella seguente maniera: sia titola una soluzione contenente il solo solvente,
con l’acido (pH decrescenti) e/o la base (pH crescenti) prescelti; quindi, si opera
nella stessa identica maniera per la titolazione di una soluzione contenente anche
il polielettrolita (nel nostro caso, la proteina). La differenza nella misura del pH
rappresenta la quantità di ioni H + che vengono, nelle due regioni, acida e basica,
rispettivamente catturati o rilasciati dalla molecola proteica.

Queste tecniche permettono di individuare sperimentalmente il punto isoelettrico della pro-


teina, ad esempio trovando il pH in corrispondenza del quale la soluzione contenente biopo-
limero si comporta, limitatamente per le caratteristiche di natura ionica, in maniera identica
alla soluzione contenente solo solvente e cosolventi (sali).
Come per gli amminoacidi, il punto isoelettrico di una proteina pI corrisponde anche al pH
rispetto al quale il composto proteico ha solubilità4 e mobilità elettroforetica minime.
6.1.2.1. Misura della carica netta superficiale di un biopolimero mediante titolazione potenziome-
trica. Le proteine, come detto precedentemente, sono capaci di liberare o di legare protoni ai
residui amminoacidici presenti lungo la catena (oltre alle estremità amminica e carbossilica).
Le curve potenziometriche si ottengono misurando le variazioni di pH ottenute aggiungen-
do acido (pH decrescenti) e, quindi, rialzando il pH aggiungendo la base corrispondente;
attraverso queste curve, è possibile misurare la carica netta superficiale Z p , definita come
in numero di protoni scambiati dalla proteina quando il valore di pH varia da un valore di
riferimento (pH ∗ ) al valore attuale; tale valore di carica netta si trova come:
[∆VP ( pH ) − ∆VB ( pH )]
(6.1.25) Z p ( pH ) = ·M
nP
dove M è la molarità della soluzione titolante (acida o basica, a seconda che si stia proceden-
do nella direzione dei pH decrescenti o crescenti), n P è il numero di moli di proteina presenti
nella soluzione che si sta titolando, ∆VP ( pH ) è il volume di soluzione titolante da aggiun-
gere alla soluzione proteica per portare il pH dal valore di riferimento a quello assegnato,
mentre ∆VB ( pH ) il volume corrispondente, per realizzare la stessa variazione di pH in una
soluzione in cui la proteina sia assente.
Una curva di titolazione rappresenta la variazione di ZP in funzione del pH (figura ).
La pendenza della curva è variabile: le zone in cui la pendenza è maggiore include le regioni
in cui si ionizzano i singoli gruppi: infatti, in quelle regioni, la variazione di pH corrispon-
de ad una variazione effettiva della carica della proteina. Al contrario, le regioni a pen-
denza ridotta, addirittura a tangente orizzontale, corrispondono agli intervalli in cui non si
ionizzano residui presenti sulla catena.

4Le molecole proteiche rimangono in soluzione, piuttosto che aggregarsi, proprio in virtù della presenza di
cariche sulla superficie; infatti, molecole appartenenti ad un’unica specie possiedono uguale carica, in intensità
e carica, per cui tendono a respingersi tra di loro, in virtù di interazioni elettrostatiche repulsive.

117
F IGURA 6.1.2. Titolazione potenziometrica di composti proteici: determina-
zione della carica al variare del pH.

6.2. Il salting-out di proteine

In generale, si indica con il termine di salting-out l’effetto di diminuizione della solubilità


dei composti poco polari in soluzione acquosa in seguito all’aggiunta di un sale o, più in
generale, di un elettrolita. In riferimento ai composti proteici, il fenomeno del salting-out
viene utilizzato nei primi passaggi di separazione dei composti proteici, meno spesso per
operazioni di purificazione. Inoltre, l’aggiunta di sali e conseguente precipitazione delle
proteine vengono utilizzati frequentemente in laboratorio per produrre cristalli di ottima
qualità, da poter utilizzare nei procedimenti di cristallografia mediante diffrazione dei raggi
X (struttura tridimensionale delle proteine).
Un tipico andamento della solubilità del composto biopolimerico, tipicamente una proteina,
in funzione della concentrazione di sali è mostrato in figura. Si osserva come, per bassissi-
me concentrazioni di sale, la solubilità della proteina aumenti, per poi iniziare a diminuire
gradatamente, fino a tendere ad un andamento di tipo lineare.
Spesso, alla concentrazione di sale si sostituisce una nuova variabile, che è la forza ionica I:
1 n 2
2 i∑
(6.2.1) I= · ( zi · ci )
=1
dove n è il numero di ioni derivanti dalla dissociazione elettrolitica del sale, zi è la carica
dell’i-esimo ione, mentre ci è la concentrazione dello stesso ione. Questa grandezza è molto
utile, in quanto la sola concentrazione di sale non è indicativa della quantità di cariche che
vengono prodotte dalla dissoluzione del sale stesso in acqua. Infatti, ioni monoprotici hanno
una forza ionica pari alla concentrazione di sale stessa, mentre, per sali con anioni o cationi
poliprotici, la forza ionica è superiore alla concentrazione di sale.
Ad esempio, la forza ionica prodotta da una concentrazione cSALE di ( NH4 )2 SO4 è pari a:
(6.2.2)
1  2 2
 1  2 2

I = · c NH + · (+1) + cSO2− · (−2) = · 2 · cSALE · (+1) + cSALE · (−2) = 3 · cSALE
2 4 4 2
Quindi, a parità di concentrazione, il solfato di ammonio produce una forza ionica che è tre
volte quella del cloruro di sodio, ad esempio.

118
F IGURE 6.2.1. Tipico andamento della solubilità di un composto proteico al
variare della concentrazione di sale: S è la solubilità del biopolimero, cSALE è
la concentrazione del sale aggiunto.

Nella precipitazione ad opera di sali, quindi, si utilizza come parametro di riferimento la


forza ionica, piuttosto che la concentrazione di sale, poichè sono le cariche introdotte me-
diante dissoluzione dell’elettrolita sono responsabili del fenomeno. Infatti, le proteine, e più
in generale i biopolimeri che presentino cariche superficiali, quando sono dissolte in solu-
zione acquosa tendono ad essere ben solubilizzate poiché esiste un potenziale elettrostatico
repulsivo tra le cariche uguali, presenti su molecole identiche, che previene la formazione
di aggregati. Quando viene aggiunto un elettrolita alla soluzione contenente il biopolimero,
che può essere visto, in termini di cariche elettrostatiche, come un macroione con un’asse-
gnata carica superficiale, l’elettrolita si dissocia e i microioni risultanti vanno a localizzarsi
intorno al macroione; in particolare, si forma il cosiddetto doppio strato ionico, che produce
un effettivo, notevole abbassamento del campo elettrostatico determinato dalla carica super-
ficiale del macroione. In altre parole, la carica del macroione viene schermata dalla presenza
dei microioni dovuti alla dissociazione elettrolitica in acqua del sale aggiunto.

119
Tale effetto di schermo viene quantificato mediante la lunghezza di Debye-Huckel, pari a:
s
e0 e r · k B T
(6.2.3) λD =
2NAv · e2 · I
dove e0 ed er sono, rispettivamente, la permittività nel vuoto e relativa, e è la carica dell’elet-
trone, pari a −1.6 · 10−19 coulombs; tale lunghezza rappresenta l’ampiezza dell’effetto della
carica di uno ione, e dipende dalla presenza di altri ioni in soluzione, attraverso la forza
ionica I. Ad elevate forze ioniche, λ D è piccolo, ad indicare che la carica è smorzata in uno
spazio ristretto a causa della presenza di altre cariche che operano una funzione di schermo.
L’effetto di salting-in (cioè di un aumento di solubilità del biopolimero in conseguenza del-
l’aggiunta del sale), ristretto ad un intervallo molto limitato di forza ionica, è legato al fatto
che l’aggiunta di modeste quantità di elettrolita produce un abbassamento della costante
dielettrica, che provocano un aumento dei potenziali elettrostatici repulsivi tra le cariche
uguali sulla superficie dei macroioni e, quindi una maggiore solubilità dei macroioni stessi,
vista in termini di minore tendenza ad aggregarsi.
Questo effetto positivo sulla solubilità del composto biopolimerico, tuttavia, viene contro-
bilanciato velocemente al crescere della concentrazione di sale, che comporta il sopracitato
effetto di schermo.
I dati di solubilità di proteine in presenza di sali vengono analizzati frequentemente me-
diante la relazione empirica nota come equazione di Cohn-Edsall:

(6.2.4) ln S = β − KS · I

KS viene indicata come la costante di salting-out, e dipende dal biopolimero e dal sale; β è
una costante, che dipende dal composto biopolimerico e dalla temperatura, ma non dal sale.
Come si può vedere dalla figura, essa rappresenta la solubilità della proteina ad un’ipotetica
forza ionica nulla5.
Abbiamo accennato al fatto che non tutti gli ioni agiscono nello stesso modo nei confronti
della solubilità della proteine; si è visto come i più efficaci a precipitare i composti proteici
siano quelli con cationi monovalenti ed anioni polivalenti, come il ( NH4 )2 SO4 ; in gene-
rale, è stata stabilita una scala di efficacia nei confronti del salting-out, chiamata serie di
Hofmeister, ad esempio illustrata in termini di anioni:

(6.2.5) citrato > solfato > fosfato > cloruro > nitrato > tiocianato

confrontando gli anioni della 10.2.6 con l’equazione 10.2.5, si ricava facilmente che i sali
che sono nella parte alta della serie di Hofmeister (cioè quelli più efficaci nei riguardi del
salting-out) sono quelli che presentano valori elevati della costante di salting-out KS ; in altre
parole, si può vedere la serie di Hofmeister come una serie decrescente di valori di costante
di salting-out.

5Si ricorda che in soluzione acquosa, anche in assenza assoluta di sali aggiunti, esistono sempre almeno gli
ioni H3 O+ ed OH − derivanti dalla dissociazione elettrolitica dell’acqua.

120
L’efficacia dei sali nei confronti di salting-out è legata anche alla loro capacità di stabiliz-
zare o rompere la struttura delle molecole d’acqua ad essi prossime. In questa ottica, i sali
vengono detti cosmotropici quando hanno la capacità di interagire fortemente con la strut-
tura dell’acqua, quindi le molecole d’acqua in prossimità degli ioni hanno una struttura più
ordinata rispetto a quella degli ioni nella massa d’acqua: l’effetto complessivo è di stabi-
lizzazione della struttura dell’acqua, che risulta in una sottrazione dell’acqua d’idratazione
alle molecole di biopolimero, favorendone l’aggregazione e la precipitazione. Inoltre, un
altro effetto provocato da questi sali è quella di stabilizzare la struttura tridimensionale dei
biopolimeri.
Al contrario, altri ioni aventi una carica piccola distribuita su una superficie molecolare am-
pia, hanno la tendenza a distruggere, destabilizzare la struttura dell’acqua ad essi prossimi,
favorendo quindi l’idratazione delle molecole di biopolimero. Tali ioni vengono chiamati
caostropici, e spesso interagiscono anche con la struttura dei biopolimeri, destabilizzandola.

6.3. Interpretazione termodinamico-molecolare del salting-out

Il processo di solubilizzazione di una molecola di proteina in una soluzione contenente sali


può essere suddiviso in due passaggi:

(1) innanzitutto, si deve formare una cavità adeguata a contenere la molecola proteica
all’interno della soluzione: questo contenuto richiede un certo dispendio di energia,
di natura entalpica (rottura dei legami tra molecole d’acqua) ed entropico (creazione
della cavità fisica);
(2) quindi, la molecola viene posizionata nella cavità e interagisce con le molecole d’ac-
qua con cui viene a contatto attraverso la superficie.

A partire da queste considerazioni, è possibile derivare la seguente espressione che lega la


solubilità con la forza ionica:

(6.3.1) ln S = x0 + β 0 − (Ω · σ − Λ) · I

dove Ω è una costante che dipende dalla superficie idrofobica, σ è l’incremento di tensione
superficiale molale, β 0 è il contributo di Debye-Huckel, derivato considerando la molecola
proteica di forma sferica, con carica uniforme (ipotesi valida solo a basse forze ioniche), Λ
rappresenta il contributo di Kirkwood, che considera la proteina, invece, come un dipolo
dipolare: questo contributo è proporzionale alla forza ionica, la costante x0 include tutti i
contributi, meno quelli legati alla formazione della cavità e alle interazioni elettrostatiche
tra la proteina e l’elettrolita.
Le forme funzionali della 10.2.5 e della 10.2.7 sono le stesse e per confronto, si ha che β =
x0 + β 0 e KS = Ω · σ − Λ; quindi, ad esempio, un forte sale di salting-out (elevato KS )
presenta un elevato valore di σ, e di fatto, tale parametro viene indicato come una misura
diretta della capacità di un sale di abbassare la solubilità di composti poco polari in soluzione
acquosa.

121
Un altro modo di interpretare il salting-out, è quello di correlarlo alle interazioni preferen-
ziali dei sali con i composti proteici: infatti, le interazioni proteina-sale sono determinanti
nel processo di salting-out; in particolare, nelle condizioni di salting-out, i sali sono prefe-
renzialmente esclusi dalla regione circostante la proteina6, in cui, quindi, la concentrazione
di sali è più bassa che nella massa della soluzione acquosa7; al contrario, il legame specifico
di ioni alla molecola proteica porta ad un innalzamento della solubilità della proteina ed
anche, in alcuni casi, a variazioni conformazionali della macromolecola.
Dal punto di vista termodinamico, il salting-out può essere descritto in termini di separa-
zioni di fase che esso provoca all’interno di soluzioni acquose contenenti proteine (o, più in
generale, biopolimeri). Le possibilità sono molteplici, a seconda delle condizioni di forza
ionica e pH, essenzialmente, e si ha spesso anche la formazione di fasi metastabili, che cor-
rispondono a minimi locali, non assoluti, dell’energia libera di Gibbs. Inoltre, per quanto
riguarda l’insorgere di fasi solide, esse possono assumere diverse struttura microscopiche,
che variano da quella amorfa a quella perfettamente cristallina, a seconda della forza ionica
e, quindi, dall’entità delle interazioni di tipo attrattivo che intercorrono tra le molecole di
proteina.
In generale, il processo di solubilizzazione di un soluto in un dato solvente dipende dalle
interazioni soluto-soluto, solvente-solvente e soluto-solvente. In particolare, un soluto è
solubile in un dato solvente se l’energia libera di Gibbs legata alle interazioni soluto-solvente
∆G1,2 è sufficientemente negativa, cioè se le interazioni risultanti sono di tipo attrattivo. In
questo caso, al processo di solvatazione è a associato un netto decremento dell’energia libera
di Gibbs.
Al contrario, un soluto risulta insolubile in un dato solvente se l’energia libera di Gibbs lega-
ta alle interazioni soluto-soluto e/o solvente-solvente è più negativa (interazioni attrattive
più forti) di quella legata alle interazioni soluto-solvente.
Questo discorso può essere facilmente applicato al caso di solubilizzazione di composti pro-
teici in un solvente acquoso, ovvero è possibile correlare i parametri molecolari ed energeti-
ci delle macromolecole con il comportamento in soluzione. Ad esempio, è presumibile che
maggiore sia la dimensione della molecola proteica, minore sia la sua solubilità, mentre le
molecole con meno cariche superficiali siano meno solubili.

6.3.1. Un’equazione di stato per soluzioni colloidali. I dati di pressione osmotica pos-
sono anche essere utilizzati per scrivere un’equazione di stato, utile a descrivere il com-
portamento della soluzione colloidale, ad esempio acqua+proteina. Il metodo per ricavare
l’equazione di stato si avvale dell’utilizzo di teorie perturbative: queste teorie consistono nello
6L’esclusione preferenziale di sali di salting-out dal dominio spaziale nelle prossimità della molecola proteica è
legata alle interazioni non favorevoli che gli ioni derivanti dalla dissociazione elettrolitica del sale stabiliscono
con le regioni idrofobiche della superficie proteica.
7Tale tipo di misura può essere effettuata mediante dialisi di equilibrio, dove la macromolecola è confinata
all’interno di un sacchetto le cui pareti sono costituite da una membrana porosa semipermeabile, che impedisce
il passaggio della macromolecola verso la regione esterna acquosa.

122
scrivere le grandezze termodinamiche come somma di due termini, uno di riferimento e
l’altro di perturbazione rispetto alle condizioni di riferimento. Uno di questi metodi è la
Random-Phase Approximation (RPA): questa teoria utilizza, nelle condizioni di sistemi co-
munque piuttosto diluiti, un riferimento costituito da un sistema di sfere rigide: tutte le
interazioni aggiuntive al termine di sfera rigida vanno incluse nel termine perturbativo; in
più tutte le interazioni si suppongono sfericamente simmetriche. In dettaglio, le grandezze
termodinamiche d’interesse sono l’energia libera di Helmotz d’eccesso Ares e il fattore di
compressibilità osmotico Z:

 
π π ρU
(6.3.2) Z= = +
ρk B T ρk B T ri f 2k B T

Ares Ares
 
ρU
(6.3.3) = +
NAv k B T NAv k B T ri f 2k B T

dove ρ è la densità di numero totale della macromolecola e U è l’energia di perturbazione


per unità di densità, definita come
Z
(6.3.4) U = 4π WPP (r ) r2 dr
V

dove W (r ) è il potenziale d’interazione di campo medio tra molecole di molecole colloidali.

Il termine di riferimento per il fattore di compressibilità osmotico Z si ricava dalle relazioni


di Carnahan-Starling valutate per le sfere rigide:

1 + η + η2 − η3
 
π
(6.3.5) =
ρk B T ri f (1 − η )3
π ·ρ 
dove η = 6 σ3 è la frazione di impaccamento delle macromolecole, supposte sferiche, di
diametro σ.

Utilizzando le espressioni disponibili per il termine di riferimento di Ares , si può scrivere


per il potenziale chimico per il composto colloidale:

µ − µ0 η 8 − 9η + 3η 2

ρU
(6.3.6) = 3
+ + ln ρ
kB T (1 − η ) kB T

µ0
dove k T = ln Λ3 , con Λ = √2πMk h̄

, lunghezza d’onda di deBroglie ed M è il peso
B BT
molecolare del composto macromolecolare.

Queste equazioni, ad esempio, possono essere utilizzate per calcolare gli equilibri di fase
liquido/liquido di soluzioni colloidali, definiti per il composto macromolecolare come:

123
(
µα = µ β
(6.3.7)
πα = π β

applicando le espressioni 6.3.2, 6.3.5 e 6.3.6.


Un ultimo appunto merita una definizione più dettagliata del potenziale di interazione
proteina-proteina, che compare nella definizione del parametro U (eq. 6.3.4) utilizzato nelle
6.3.2 e 6.3.3. In generale, per proteine globulari (simmetria sferica, l’unica coordinata spaziale
è quella radiale r) è possibile definire un potenziale di interazione tra molecole di proteine
nella seguente maniera:

(6.3.8) WPP (r ) = WSR (r ) + WEL (r ) + WDISP (r ) + WOSM (r ) + WASS (r )

dove WSR (r ) è il contributo di sfera rigida, WEL (r ) è quello elettrostatico, WDISP (r ) è legato
alle forze di dispersione ( dipolo-dipolo, dipolo indotto-dipolo indotto, dipolo-dipolo in-
dotto), WOSM (r ) è il contributo osmotico, presente quando vengono aggiunti polimeri che si
legano alle molecole proteiche, e infine, WASS (r ) è il potenziale di tipo fortemente attrattivo
legato ad associazioni altamente specifiche, per esempio dovute alla formazione di legami
di tipo covalente.

Riferimenti bibliografici.

E.J. Cohn and J.T. Edsall. Proteins, amino acids and peptides. Reihnold, New York, 1943.
F. Hofmeister. Zur lehre von der wirkung der salze. ii. Arch. Exp. Pathol. Pharmakol., 24:247,
1888.
N. von Solms, C. O. Anderson, H. W. Blanch, and J. M. Prausnitz. Molecular thermody-
namics for fluid-phase equilibria in aqueous two-protein systems. AIChE J., 48(6):1292,
2002.
J. Setchenov. Über die konstitution der salzlözungen auf grund ihres verhaltens zu
kohlensäure. Z. Phys. Chem., 4:117, 1889.
W. Melander and C. Horvàth. Salt effects on hydrophobic interactions in precipitation
and cromatography of proteins: an interpretation of the lyotropic series. Arch. Biochem.
Biophys., 1977.

Esercizi.

(1) Sapendo che la legge di variazione della solubilità di una proteina con la forza ionica è ln S =
β − KS · I, dove I è la forza ionica della soluzione, trovare la concentrazione
  di ( NH4 )2 SO4
β
cui corrisponda una solubilità della proteina pari a S = exp 2 ( 6 giugno 2005) - In
generale, la forza ionica di una soluzione contenente elettroliti è pari a:
1 n 2
I = · ∑ zi · ci
2 i =1

124
dove n sono il numero di ioni presenti in soluzione, zi e ci sono, rispettivamente,
la carica e la concentrazione del generico i-esimo ione; nel nostro caso, il solfato di
ammonio si dissocia nella seguente maniera:

( NH4 )2 SO4 → 2NH4+ + SO42−


per cui le specie ioniche presenti in soluzione sono NH4+ e SO4= ; quindi, la forza
ionica di una soluzione a concentrazione cSALE di solfato di ammonio sarà pari a:
1 h i 1
I = · (1)2 · c NH + + (−2)2 · cSO2− = · (2 · cSALE + 4 · cSALE ) = 3 · cSALE
2 4 4 2
Sostituendo questa relazione nell’espressione di Cohn-Edsall, si trova:

ln S = β − KS · I
 
β β
Per avere S = exp 2 si trova cSALE = 6·KS .
(2) Se dobbiamo aumentare la pressione osmotica di una soluzione acquosa a pH 7, quale delle
due opzioni ha maggiore effetto: a) 1 g/L di sieroalbumina bovina (molecola proteica, peso
molecolare 66000 Da); b) 1 g/L di acido oleico (molecola altamente idrofoba, peso molecolare
283 Da). Motivare la scelta. ( 6 giugno 2005) - Per aumentare la pressione osmotica di
una soluzione dobbiamo aggiungere una quantità sufficiente di un soluto, che pos-
sibilmente abbia un secondo coefficiente viriale osmotico positivo, che corrisponde
al caso di potenziale di interazione intermolecolare (tra molecole di soluto) di tipo
repulsivo; nei due casi proposti dal testo, ciò succede sicuramente per le molecole di
albumina, in quanto cariche negativamente, mentre per le molecole di acido oleico
si ha un forte potenziale di interazione attrattivo, che produce un secondo coeffi-
ciente viriale osmotico minore di zero. In realtà, in questo caso il contributo prepon-
derante è determinato dal termine ideale, soprattutto tenendo conto della grande
differenza tra i pesi molecolari dei due composti. Infatti, 1 g/L di sieroalbumina
bovina corrisponde ad una concentrazione molare di circa 1.5 · 10−5 M, mentre a
3.6 · 10−3 M per l’acido oleico, cui corrispondono le seguenti pressioni osmotiche
BSA = c · RT = 3.7 · 10−4 atm e π OA −2 atm; essendo le cor-
ideali:πideale ideale = 8.87 · 10
rezioni apportate presumibilmente dello stesso ordine di grandezza dei termini di
van’t Hoff, è chiaro che in questo caso conviene comunque utilizzare acido oleico, di
qualunque segno sia la deviazione relativa al secondo coefficiente viriale osmotico.
(3) Dai seguenti dati di solubilità di una proteina in presenza di sali, ricavare la solubilità della
stessa proteina in una soluzione 0.5 M di CaCl2 (12 luglio 2005) - La relazione che lega

S, g/L 2.7 2.6 2.5 0


I, M 0.1 0.3 1 3

la solubilità di un composto proteico alla forza ionica è la cosiddetta legge di Cohn-


Edsall:
ln S = β − KS · I

125
Y = ln S 0.99 0.97 0.9 0.7
X=I 0.1 0.3 1 3

Attraverso i dati forniti è quindi possibile costruire una nuova tabella di dati, ai quali
è possibile applicare la regressione lineare mediante i minimi quadrati. La relazione
che si trova è ln S = 1 − 0.1 · I;la forza ionica prodotta da una concentrazione molare
cSALE di CaCl2 è data da:
1 h i 1
I = · (2)2 · cCa2+ + (−1)2 · cCl − = · (4 · cSALE + 2 · cSALE ) = 3 · cSALE
2 2
quindi una soluzione 0.15 M ha una forza ionica di 1.5 M, cui corrisponde una solu-
bilità di S = 2.34 g/L.
(4) Perchè alcuni sali aggiunti in soluzione acquosa fanno precipitare le proteine presenti in
soluzione (salting-out), mentre altri ne aumentano la solubilità (salting-in)? In particolare,
qual è il loro effetto sulla struttura delle molecole proteiche? (22 luglio 2005) - I sali sono
classificabili in due categorie, rispetto al diverso comportamento che hanno rispetto
alla modifica degli equilibri di fase di soluzioni proteiche; i sali che favoriscono il
salting-out, anche chiamati cosmotropici, i quali tendono a stabilizzare sia la strut-
tura delle proteine, che quella dell’acqua; per questo motivo, essi hanno un’elevata
solubilità in soluzione acquosa, sottraggono per la solvatazione molecole d’acqua
alle molecole proteiche, gli ioni che derivano dalla loro dissociazione formano facil-
mente il doppio strato ionico intorno alla superficie esterna della molecola proteica,
schermandone le cariche e provocando, per tutti questi motivi, un’aggregazione
delle molecole proteiche, che provoca precipitazione prematura, rispetto al caso
della semplice soluzione acquosa acqua-proteina. Al contrario, esiste un’altra classe
di composti salini, solitamente costituita da ioni costituenti con una carica singola ed
un’elevata dimensione caratteristica, che hanno meno facilità di solubilizzazione in
soluzione acquosa (anche elettroliti deboli, per esempio), per cui tendono a rompere
la preesistente struttura del solvente acquoso (sali caostropici); essi interagiscono
anche direttamente con la struttura proteica, provocandone la rottura.
(5) Si deve decidere quale di due sali A e B è più adatto per precipitare mediante salting-out un
determinato prodotto proteico. A 20°C vengono quindi determinati i parametri della retta di
salting-out, mostrati in tabella:

β K S M −1
A 0.9 1
B 0.4 0.5

. Quale dei due sali precipita più efficacemente la proteina? (7 luglio 2006) - In questo
caso risulta utile graficare le due rette di salting-out per la valutazione: Si vede come,
per un ristretto intervallo di concentrazione, fino a circa una forza ionica di 1 M, il
sale B risulti meno efficace di quello A; quindi, se si vuole operare a basse forze
ioniche (il che potrebbe essere vantaggioso per i costi inferiori legati alla rimozione

126
2
A
B

-2
log(S)

-4

-6

-8

-10
0 2 4 6 8 10
I, M

del sale) conviene operare con il sale B. Al contrario, la situazione cambia superando
tale valore di break-even, per cui il sale A produce una più cospicua riduzione della
solubilità della proteina, risultando più vantaggioso in tale intervallo di forza ionica.
(6) Una proteina P presenta i seguenti valori di solubilità in soluzione acquosa, in presenza di
CaCl2 : Supponendo che le costanti di salting-out (β e KS ) rimangano invariate, in base

cCaCl2 , M 0.03 0.04 0.06 0.1 0.12


S, g/L 0.9831 0.9455 0.8746 0.7483 0.6921

ai dati indicati determinare la solubilità della stessa proteina in NaCl 0.1 M. (15 gennaio
2008) - La relazione che mette in relazione la solubilità S di una proteina con la forza
ionica è:
log (S) = β − KS · I
dove I è la forza ionica dovuta alla presenza di sale in soluzione; la forza ionica è
definita come:
1 n
I = · ∑ z2i · ci
2 i =1
nel caso del CaCl2 , la dissociazione segue lo schema:

CaCl2 → Ca2+ + 2Cl −

quindi zCa2+ = +2 e zCl − = −1; cCa2+ = cCaCl2 e cCl − = 2 · cCaCl2 ; si trova quindi:
1 h 2 2
i
I = · (+2) · cCaCl2 + (−1) · 2cCaCl2 = 3 · cCaCl2
2
quindi, i dati che sono legati da una correlazione lineare sono quelli mostrati in
tabella: I risultati della regressione sono mostrati in figura: Si trova, per le costanti

127
IM 0.09 0.12 0.18 0.3 0.36
Y = log (S) -0.017 -0.056 -0.134 -0.29 -0.368

−0.05

−0.1

−0.15
log(S)

−0.2

−0.25

−0.3

−0.35

0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35


I M

di salting-out KS = 1.3 M−1 e β = 0.1. Per quanto riguarda la relazione tra concen-
trazione di NaCl e la corrispondente forza ionica, si trova semplicemente I = c NaCl ,
per cui il valore della solubilità S( I = 0.1 M) = 0.9704 g L−1 .
(7) L’alanina presenta un pK A intrinseco per il gruppo carbossilico pari a pK A = 3.42. In realtà,
il gruppo COO− interagisce con i gruppi NH3+ e il pK 0A alterato è pari a pK 0A = 2.34.
Calcolare il ∆Ge relativo all’interazione (esercitazione in classe) - Si ha che:
kcal
∆Ge = 2.303 · RT · ( pK 0A − pK A ) = −2.5
mole
(8) Determinare il punto isoelettrico della leucina, sapendo che pK1 = 2.4 e pK2 = 9.6
(esercitazione in classe) - Innanzitutto, ricaviamo il valore delle costanti di dissocia-
zione K1 e K2 :
K1 = 3.98 · 10−3 M−1
K2 = 2.52 · 10−10 M
per trovare il punto isoelettrico, è necessario massimizzare il valore di f ± , quindi
df±
d[ H + ]
= 0, e si trova:

[ H + ] p.i. = + K2 · K1 = 1 · 10−6 M
p

quindi il punto isoelettrico è:

p[ H + ] p.i. = 6

128
(9) Descrivere l’effetto dei sali sulla stabilità della struttura delle proteine. (23 giugno 2006) -
L’azione dei sali sulla stabilità delle molecole proteiche è legato all’interazione dei
sali con la superficie dei composti proteici, presenti in soluzione acquosa nella forma
nativa.
Generalmente, i sali che competono con le molecole d’acqua per la solvatazione,
sono quelli che sono meno attratti dalla molecola proteica, quindi generalmente si
dice che vengono esclusi dalla regione circostante la proteina, che perde molecole
d’acqua di solvatazione, e quindi tende a formare aggregati e precipitare. Tali sali
vengono detti cosmotropici e stabilizzano la forma globulare delle proteine, in quanto
non interagiscono direttamente con essa. Di solito, tali sali sono quelli che pro-
ducono, per dissociazione elettrolitica, ioni di dimensione ridotta e con densità di
carica superficiale elevata.
Al contrario, esistono sali che producono ioni con una carica ridotta, distribuita
su una superficie molecolare elevata, che tendono a interagire direttamente con la
struttura proteica, formando dei complessi. Tali sali, detti anche caostropici, in re-
lazione alla loro tendenza a destabilizzare la struttura dell’acqua, legandosi specifi-
camente con le molecole proteiche, ne aumentano la carica, e quindi la solubilità in
soluzione acquosa, ma distruggono parzialmente o totalmente la struttura proteica,
che viene completamente rivoluzionata dalla presenza di un grosso ione (il valore di
minimo dell’energia libera, che corrisponde ad una nuova forma struttura stabile, è
in generale diverso da quello corrispondente alla struttura nativa).
(10) Determinare il punto isolettrico della glicina, sapendo che pK1 = 2.34 e pK2 = 9.6. (7
luglio 2006) - Innanzitutto, ricaviamo il valore delle costanti di dissociazione K1 e
K2 :
K1 = 4.57 · 10−3 M−1
K2 = 2.51 · 10−10 M
per trovare il punto isoelettrico, è necessario massimizzare il valore di f ± , quindi
df±
d[ H + ]
= 0, e si trova:

[ H + ] p.i. = + K2 · K1 = 1.071 · 10−6 M


p

quindi il punto isoelettrico è:

p[ H + ] p.i. = 5.97

129
CHAPTER 7

Interazioni ligando-proteina e superficie proteina

7.1. Interazioni ligando-proteina

7.1.1. Introduzione. La maggior parte delle funzioni a cui assolvono i composti proteici
prevedono la formazione di un complesso tra la molecola proteica ed altre sostanze, a basso
o elevato peso molecolare: di fatto, in sè le molecole proteiche servono a poco, in quan-
to sono chiamate comunque a partecipare, come attori (reagenti o prodotti) o come registi
(enzimi) ad una molteplicità di reazioni chimiche, durante le quali è necessario che esse
interagiscano con altre molecole.
Le principali classi di complessi che le proteine formano sono:
 proteine-proteine:
∗ chaperonine: le molecole di chaperonine, interagendo con catene svolte o av-
volte, mediano il folding delle strutture proteiche, o contribuiscono ad aumen-
tarne la stabilità strutturale;
∗ aggregati proteici: la formazione di aggregati tra molecole proteiche di va-
ria specie o uguali è alla base di molte strutture di interessi biologico (tessuto
corneo, tessuto muscolare);
∗ prioni: alcune proteine misfolded (prioni) sono in grado di interagire a loro vol-
ta con molecole aventi una struttura corretta ed indurre, spesso in maniera ir-
reversibile, misfolding; questo meccanismo è alla base di malattie degenerative
del tessuto nervoso (morbo di Alzheimer e encefalopatia spongiforme bovina);
 proteine-macromolecole:
∗ proteine-acidi nucleici: la regolazione genica si è visto dipendere strettamente
dall’interazione specifica di acidi nucleici con molecole proteiche, che assolvono
al ruolo di carrier degli acidi nucleici stessi, proteggendone le molecole anche
da eventuali interazioni con l’ambiente indesiderate;
∗ proteine-polisaccaridi: la base del tessuto connettivo è rappresentato da una
fitta rete di glicosaminoglicani (che appartengono alla famiglia dei polisaccari-
di): questa rete è consolidata dall’interazione intercatena mediata da molecole
proteiche (collagene) che attribuisce specifiche caratteristiche chimico-fisiche al
sistema;
∗ anticorpo-antigene: una categoria importantissima di interazioni tra proteine
e biopolimeri è quella relativa all’azione di anticorpi, i quali esplicano la loro
funzione interagendo in maniera specifica con altre proteine o polisaccaridi.
 proteine - ligandi:

131
∗ albumina - tossine epatiche: l’interazione tra le molecole di sieroalbumina con-
tenute nel plasma e le tossine epatiche, di natura idrofobiche, è alla base della
funzione escretoria del fegato;
∗ emoglobina-gas respiratori: l’emoglobina lega i gas respiratori (O2 , CO2 ) e com-
pie una doppia funzione di alimentazione dei tessuti e rimozione delle sostanze
di scarto, attraverso una complessa modalità di azione combinata, dove l’inte-
razione con i singoli gas è condizionata da quella con i rimanenti componenti;
∗ sieroproteine-farmaci: i composti con attività farmacologica hanno la capacità
di interagire con le proteine del siero, dando luogo a complessi che ne facilitano
il trasporto verso i tessuti e gli organi bersaglio, oltre che la loro eliminazione
attraverso le vie escretorie;
∗ recettori-ligando: in questo caso, l’interazione media l’attività endocrina, agen-
do alla base del controllo ormonale delle funzioni ghiandolari.
 proteine-superfici:
∗ adsorbimento su resine: questo processo è alla base di operazione di purifica-
zione di composti di varia natura, dove l’immobilizzazione dei composti pro-
teici su supporti solidi è legata a interazioni attrattive tra regioni superficiali
della proteina e la superficie solida stessa;
∗ biocompatibilità di materiali: l’interazione tra proteine e materiali che vengano
a contatto con componenti biologiche è alla base della definizione di biocompa-
tibilità. In particolare, vengono usate come riferimento due molecole proteiche
che intervengono in maniera ambivalente in tale definizione: l’albumina ed il
fibrinogeno.
La prima, infatti, media l’integrazione del materiale impiantato ed il successivo
bioassorbimento da parte dell’organismo: un’interazione favorevole, in questa
ottica, indica una buona biocompatibilità del materiale.
D’altro canto, per quanto riguarda il fibrinogeno, un’affinità del materiale nei
confronti di questo composto è indice di una bassa biocompatibilità del mate-
riale stesso, poiché la forma adsorbita del fibrinogeno è anche attiva nei termini
della partecipazione alla catena di coagulazione, portando alla formazione di
trombi.

7.1.2. Interazione semplice: classe singola di siti di legame indipendenti. Tutta una
serie di fenomeni importanti a livello biologico coinvolgono interazioni, in generale, tra
macromolecole e molecole a più basso peso molecolare, chiamati ligandi: interazioni enzima-
substrato, ormone-recettori, ioni e proteine, ioni ed acidi nucleici, ecc. ...
Per comprendere gli equilibri ligando-macromolecola, è necessario costruire modelli utiliz-
zando gli strumenti della termodinamica statistica per l’interpretazione degli equilibri stessi.
Il primo approccio consiste nel caratterizzare il sistema sia dal punto di vista macroscopico
che microscopico; infatti, in generale, l’associazione di ligandi con siti multipli appartenenti

132
a macromolecole comporta la definizione di grandezze complessive, macroscopiche e di
corrispondenti grandezze microscopiche. In particolare, consideriamo il caso di una macro-
molecola M che contiene n siti per il ligando L; ogni singolo sito ha la stessa costante di
dissociazione k; inoltre, i siti sono indipendenti1, cioè lo stato di occupazione di un sito non
influenza la costante di dissociazione k degli altri; gli equilibri sono, quindi:

(7.1.1) M0 + L
M1

(7.1.2) M1 + L
M2

..
.

(7.1.3) Mi − 1 + L
Mi

..
.

(7.1.4) Mn − 1 + L
Mn

dove con Mi è indicata la macromolecola con i molecole di ligando associate a i tra gli n siti
di legame (dove si ha i < n); Mi rappresenta l’insieme di tutte le specie microscopiche che
hanno i molecole di L legate.
ESEMPIO: consideriamo il caso di una macromolecola M che abbia n = 4 siti di legame
disponibile, di cui 2 occupati, le possibilità di configurazioni per M2 sono quelle mostrate in
figura:
Come si può osservare, in totale, per la specie M2 sono possibili 6 configurazioni; siccome i
siti di legame hanno tutti la stessa costante di associazione k, e sono siti tra loro indipendenti,
le concentrazioni delle 6 distinte specie sono uguali e le specie stesse sono indistinguibili dal
punto di vista macroscopico; il numero Ωn,i rappresenta il numero di modi di porre i ligando
su n siti ed è pari a:
n!
(7.1.5) Ωn,i =
(n − i )! · i!

quindi esistono Ωn,i forme microscopiche corrispondenti alla forma Mi .

1Di solito, si può fare l’ipotesi di siti identici e tra di loro i qundipendenti quando la proteina presenta una
struttura quaternaria, costituita da subunità polipeptidiche identiche; inoltre è necessario che il sito di legame
non sia prossimo ai legami che tengono insieme la struttura quaternaria stessa.

133
F IGURE 7.1.1. Possibili configurazioni per la disposizione di due molecole di
ligando su quattro siti disponibili in una macromolecola.

Gli equilibri ligando-macromolecola vengono misurati attraverso la valutazione di un parametro


ν che rappresenta le moli di ligando legate per mole di macromolecola; si trova:

∑ i · Mi
i =0
(7.1.6) ν=
n

∑ Mi
i =0

L’obiettivo è quello di esprimere ν in termini di concentrazione di ligando libero L; le con-


centrazioni tra le concentrazioni tra le diverse specie Mi si trova a partire dalle costanti
macroscopiche Ki :
M0 · L
(7.1.7) K1 =
M1

M1 · L
(7.1.8) K2 =
M2
M1 · L M0 · L2
quindi, si trova M1 = MK01· L e, dunque, M2 = K2 = K1 K2 ; per estensione, quindi, possiamo
scrivere, per la generica specie Mi :
Mi − 1 · L M · ( L )i
(7.1.9) Mi = = 0
Ki i

Π Kj
j =1

Le costanti macroscopiche Ki sono differenti da quelle microcopiche k i che sono caratteris-


tiche dei singoli siti; infatti, la costante di dissociazione k i si riferisce all’equilibrio relativo
alle specie microscopiche, mentre la costante macroscopica Ki coinvolge l’intero insieme di

134
F IGURE 7.1.2. Differenza tra costante di dissociazione microscopica e macro-
scopica.

specie rappresentate da Mi ed Mi−1 ; questo concetto è espresso nello schema seguente, nel
caso di n = 4;
si trova per la relazione tra Ki :

(7.1.10) Ki = (Ωn,i−1 /Ωn,i ) · k

Da questo si ricava:
nL/k
(7.1.11) ν=
1 + L/k
che può anche essere messo nella forma:
ν n ν
(7.1.12) = −
L k k
Questa stessa espressione può essere trovata molto semplicemente senza considerazioni di
carattere statistico; indichiamo con θi la frazione di siti attivi per l’i-esimo sito (che è indis-
tinguibile, nelle ipotesi fatte, da tutti i restanti n − 1); si ha:
Ci,b Ci, f · (Ci,b /Ci, f )
(7.1.13) θi = =
Ci,b + Ci, f Ci, f [1 + (Ci,b /Ci, f )]
Ci, f · L Ci,b
Essendo k = Ci,b , si ricava Ci, f = L/k e quindi,

L/k
(7.1.14) θi =
1 + L/k
Questa stessa espressione vale per tutti gli n siti, per cui si ha che

n n
L/k nL/k
(7.1.15) ∑ θi = ν = ∑ =
1 + L/k 1 + L/k
i =1 i =1

che è esattamente l’espressione trovata precedentemente.

135
F IGURE 7.1.3. Grafico di Scatchard, per ’unica classe di siti con eguale costan-
te di dissociazione k, non dipendente dal grado di saturazione dei siti.

L’espressione Lν = nk − νk può essere sfruttata per studiare le relazioni tra ν ed L per il caso
semplice di siti indipendenti. Se l’ipotesi di siti indipendenti è verificata, il grafico è lineare
con un’intercetta sull’asse delle ordinate pari a nk e sull’asse delle ascisse n, con una pendenza
− 1k ; quindi, attraverso questo grafico (detto di Scatchard) è possibile determinare i parametri
dell’equilibrio di legame n e k.

Un altro modo di rappresentare i dati di legame proteina-ligando è attraverso il seguente


schema cinetico:
M
(7.1.16) −
*
M+nL )− Ln
questo schema descrive l’occupazione simultanea di tutti gli n siti disponibili su ogni singola
proteina M.

In questo caso è possibile definire una costante di dissociazione (macroscopica):


[ M ] · [ L]n
(7.1.17) Kd =
[ MLn ]

136
F IGURA 7.1.4. Diagramma di Hill.

Se indichiamo con θ la frazione dei siti occupati, si può scrivere2:


[ L]n
 
θ [ MLn ] θ
(7.1.18) = = → log = n · log ([ L]) − Kd
1−θ [ M] Kd 1−θ
Quindi, graficando i dati di Y (θ ) = 1−θ θ in funzione di [ L] in scala logaritmica, la penden-
za fornisce il valore di n e l’intercetta l’opposto della costante di dissociazione Kd ; questa
rappresentazione è nota come diagramma di Hill ed è mostrata in figura 7.1.4.

Nel caso in cui due diversi ligandi A e B interagiscano con diversa affinità con lo stesso sito
(singolo, per semplicità), è possibile scrivere due equazioni simili per l’equilibrio di legame:
A K
(7.1.19) P+A −
)*
− PA

B K
(7.1.20) −*
P+B )− PB

2Se n sono i siti disponibili su ogni singola macromolecola, allora la frazione dei siti occupati sarà pari
semplicemente:
n · [ MLn ] [ MLn ]
θ= =
n · {[ M ] + [ MLn ]} [ M ]0

137
Le costanti di associazione K A e K B sono esprimibili in termini delle concentrazioni in soluzione,
all’equilibrio termodinamico:
[ P] · [ A]
(7.1.21) KA =
[ PA]

[ P] · [ B]
(7.1.22) KB =
[ PB]
La concentrazione di proteina libera in soluzione sarà quindi uguale a:
K A · [ PA] K · [ PB]
(7.1.23) [ P] = = B
[ A] [ B]
e si trova, dal confronto:
[ PA] K [ A]
(7.1.24) = B·
[ PB] K A [ B]
[ A]
Nel caso in cui le concentrazioni dei due ligandi liberi siano gli stessi ( [ B] = 1), il rapporto
tra le concentrazioni dei due complessi è pari al rapporto tra le due costanti di equilibrio:
[ PA] K
(7.1.25) = B
[ PB] KA
Le costanti di equilibrio di dissociazione K A e K B dipendono dalla temperatura nella forma
espressa dalla legge di van’t Hoff:
∆GPA
0
(7.1.26) ln (K A ) = −
RT

∆GPB0
(7.1.27) ln (K B ) = −
RT
di conseguenza, applicando le due precedenti espressioni all’equazione 7.1.25, si ottiene, per
la dipendenza dalla temperatura del rapporto tra le concentrazioni dei due complessi:
 
[ PA] [ A] 1  0
(7.1.28) = · exp − · ∆GPB − ∆GPA 0
[ PB] [ B] RT
[ PA] [ PB]
Indicando con y A = [ A] e con y B = [ B] il rapporto tra la forma complessata e quella libera
dei due ligandi A e B, si può riscrivere la 7.1.28 come:
 
yA 1  0
(7.1.29) = exp − · ∆GPB − ∆GPA 0
yB RT
ovvero, in forma logaritmica:
 
yA 1  0 
(7.1.30) log · ∆GPB − ∆GPA
=− 0
yBRT

Utilizzando questa espressione, si ha che se ∆GPB


0 − ∆G0
PA < 0, cioè se ∆GPB < ∆GPA , 
0 0


yA
ovvero se il ligando B è più affine del ligando A alla proteina P, all’aumentare di T diminuisce yB ,
cioè è favorito il complesso [ PB] rispetto a quello [ PA].Inoltre, la retta di figura 7.1.5 è tanto

138
F IGURE 7.1.5. Legame competitivo di due ligandi A e B alla stessa proteina P;
[ PA] [ PB]
y A = [ A] e y B = [ B] .

più pendente quanto maggiore è la differenza di affinità dei due ligandi − ∆GPB
0 − ∆G 0 ,

PA
cioè tanto più alta è la differenza di affinità tra i due ligandi.
Un altro aspetto interessante legato alla formazione di complessi proteina-ligando è che se
il ligando presenta una più alta affinità con la forma nativa (N), piuttosto che per le forme
a vario grado di denaturazione (U), questo comporta automaticamente una stabilizzazione
della forma nativa, anche senza prendere in considerazione la possibilità della formazione
di complessi energeticamente più stabili della forma nativa senza ligando.
Infatti, se il ligando forma un complesso preferenzialmente (cioè più stabile) con la forma
nativa piuttosto che con le forme denaturate, questo significa che in presenza di un agente
denaturante, le reazioni reversibili che si instaurano in soluzione sono:
UK
(7.1.31) N−
)*
−U

k
(7.1.32) N+L−
*
− NL
)

139
dove KU è la costante di equilibrio della denaturazione (7.1.31); le costanti di equilibrio si
possono scrivere, in funzione della concentrazione delle varie specie:
[U ]
(7.1.33) KU =
[N]
e
[ N ] · [ L]
(7.1.34) k=
[ NL]
Di conseguenza, la concentrazione totale di composto proteico in forma libera e complessata
sarà pari a:

(7.1.35) [ N ]T = [ N ] + [ NL]
La costante di equilibrio di denaturazione apparente, cioè quella che tiene conto di tutte le
forme native presenti in soluzione sarà pari a:
app [U ] [U ]
(7.1.36) KU = = =
[ N ]T [ N ] + [ NL]
 
k
= [U ]  = KU ·
[ N ]· 1+ [ Lk ] k + [ L]
app
Come si può vedere, la costante di denaturazione apparente KU , cioè in presenza di reazione
di legame con il ligando L, è minore della costante di denaturazione KU , e il fattore molti-
plicativo minore di uno dipende dalla concentrazione di ligando e dalla costante di equilib-
rio di dissociazione k.

7.1.3. Siti multipli, interazione allosterica e legame competitivo. Tutta una serie di
fenomeni possono essere causa della deviazione dei dati di legame dalla forma lineare del
grafico di Scatchard. Questi fenomeni possono essere descritti a partire dall’eliminazione
delle ipotesi fatte per la costruzione del grafico di Scatchard. Il primo caso che si prendiamo
in considerazione e’ la presenza di piu’ classi di siti indipendenti; in questo caso, la forma
modificata del grafico di Scatchard che si ottiene nel caso, ad esempio, di n1 moli di siti con
costante di dissociazione microscopica k1 , n2 con costante k2 , etc..., e’:

m
ni L/k i
(7.1.37) ν= ∑
1 + L/k i
i=1

da cui si trova facilmente


m
ν ni /k i
(7.1.38) = ∑
L 1 + L/k i
i =1

Questo tipo di espressione può essere utilizzata per determinare i parametri relativi al legame
per i diversi tipi di legame. Facciamo il caso di due sole classi di siti , cioè n1 siti di legame

140
F IGURE 7.1.6. Rappresentazione del grafico di Scatchard nel caso di due classi
di siti distinti, n1 con costante di dissociazione k1 ed n2 con costante k2 .

con costante di dissociazione k1 ed n2 siti con k2 ; l’espressione 7.1.38 diventa:


ν n1 /k1 n /k
(7.1.39) = + 2 2
L 1 + L/k1 1 + L/k2

Se si rappresenta questa espressione in funzione di L, si ottiene un grafico curvo:

dalle intercette di questo grafico si possono ricavare i parametri di legame delle due classi
lim ν
di siti. Infatti, per , L ha una forma indeterminata 00 ; il valore di questa forma indeter-
L →0

minata può essere trovato usando la regola di de l’Hopital:

lim dν n n
(7.1.40) = 1+ 2
L→0 dL k1 k2

ν
Esiste anche il vincolo fisico che L = 0 per L = n1 + n2 .
Un grafico Lν in funzione di L può non essere lineare anche nel caso in cui non ci siano più
classi di siti a diversa affinità con il ligando; una possibile alternativa spiegazione, infatti, è
che il legame di un ligando con un determinato sito possa influenzare la costante di dissoci-
azione k (ν) degli altri siti.

Questo caso rientra nella classe dei fenomeni noti con il nome di allosterismo: sotto questo
nome ricadono tutti quei casi in cui l’interazione ligando-proteina vengono modificati dal
legame di una molecola effettore al sito allosterico (che e’ differente dal sito attivo); in
particolare, si indicano con il termine di attivatori allosterici degli effettori che intensifi-
cano l’attività del composto proteico, con il termine di inibitori allosterici quelli che invece
riducono l’attivazione della proteina.

141
Se l’inibitore allosterico è il prodotto della reazione enzimatica, la reazione allosterica può
fungere da controllo retroattivo (a feedback negativo).
Inoltre, l’attivatore allosterico può essere lo stesso ligando ( che in questo caso si indica
anche con il termine modulatore allosterico omotropico, ed è tipicamente un attivatore),
oppure una molecola differente dal ligando specifico (in questo caso, si parta di modulatore
eterotropico).
Consideriamo il caso di siti identici e non indipendenti tra di loro, in questo caso, la costante
di dissociazione dei siti dipende dal grado di saturazione ν, facendo l’ipotesi che tutti i siti,
in partenza, abbiano la stessa affinità per il ligando, cioè che il legame della prima molecola
di ligando con uno qualunque dei siti sia equiprobabile.
Se consideriamo una macromolecola M con un’unica classe di siti; indichiamo con k0 la
costante di dissociazione a ν = 0; mano a mano che µ aumenta, si registra una variazione di
k; indichiamo con ∆G0 la variazione di energia libera standard relativa alla dissociazione di
un ligando legato, che è data da:

(7.1.41) ∆G0 = ∆G00 + RTφ(ν)

dove ∆G00 è la variazione di energia libera standard per il processo di dissociazione per
ν → 0; inoltre, è possibile scrivere ∆G00 = − RT ln k0 e ∆G0 = − RT ln k, che sostituiti nella
7.1.41 danno luogo all’espressione:

(7.1.42) k(ν) = k0 · exp(−φ(ν))

φ(ν) è una funzione che, per definizione, dipende dagli effetti delle interazioni tra i siti
che variano con il grado di saturazione; in particolare, se φ(ν) è una funzione decrescente
in ν, k(ν) è una funzione crescente in ν, il che vuol dire che mano a mano che i siti ven-
gono occupati, l’affinità del legando per la macromolecola diminuisce, cioè che vengono
esaltate il contributo delle interazioni repulsive tra ligando e sito, rispetto a quelle attrat-
tive; al contrario, se φ(ν) è una funzione crescente in ν, k(ν) è una funzione decrescente in
ν, cioè mano a mano che si saturano i siti di legame, essi mostrano una crescente affinità
per i ligandi stessi. Questo tipo di comportamento rientra nella classe più ampia di processi
ed interazioni di tipo cooperativo; in particolare, se il legame aumenta l’affinità, si parla di
cooperatività positiva, altrimenti negativa.
Altri esempi interessanti, oltre quelli citati all’inizio del paragrafo, di legami tra macro-
molecola e ligando sono: il legame tra proteine del plasma e farmaci e il comportamento
di proteine allosteriche.
I legami che si stabiliscono tra specifici farmaci e alcune proteine del plasma rappresentano
un punto importante nello stabilire l’efficacia e i tempi di azione di un farmaco. Infatti, solo
la forma libera, non legata del farmaco ha una specifica azione farmacologica. E’ quindi
importante stabilire, nella fase preliminare di sperimentazione e messa a punto di un rime-
dio farmacologico, l’entità di tale legame, cioè individuare quali proteine sono in grado di
“catturare” la molecola del farmaco, in quanti siti e con quali affinità.

142
7.1.3.1. Allosterismo dell’emoglobina. L’emoglobina rappresenta il caso più conosciuto ed
importante di regolazione allosterica dell’interazione dei composti proteici con ligandi di
basso peso molecolare: infatti, nel caso di questo composto proteico ritroviamo tutti i casi
specifici di interazione di più ligandi e di interazione allosterica tra siti di legame apparte-
nenti a classi differenti o uguali.
L’emoglobina è una proteina tetramerica, costituita, cioè, da quattro catene avvolte di mio-
globina, legate tra di loro attraverso dei gruppi eme (spiegare meglio, figure); questi quattro
gruppi di coordinazione rappresentano anche i punti di legame specifico di questo compo-
sto con l’O2 , trasportato da questa proteina, presente negli eritrociti, dagli alveoli polmonari
ai diversi tessuti cui ha accesso la corrente ematica.
Un’altra funzione a cui assolve tale composto è quella di rimuovere anche l’anidride carbo-
nica prodotta dagli stessi tessuti che vengono ossigenati: quindi, in un certo senso, l’emo-
globina funziona contemporaneamente come un sistema di trasporto di nuc

7.2. Interazioni superficie-proteina

Le interazioni tra composti proteici e le superfici sono implicate in molti processi di interesse
biomedico. Tali interazioni danno luogo a dei processi di adsorbimento, cioè alla formazione
di complessi locali, in corrispondenza di particolari regioni della superficie solida, tra le
molecole proteiche e la superficie solida stessa. In figura sono schematizzate le interazioni
in gioco nell’adsorbimento di un composto proteico su una superficie solida.
Le zone della superficie in cui si instaurano tali interazioni sono chiamate siti attivi e pos-
sono essere delle dislocazioni della struttura cristallina del solido, oppure dei gruppi fun-
zionali (specifici o carichi) con cui interagiscono i componenti che si adsorbono. L’adsor-
bimento di proteine su superfici solide è implicato in molti processi. Ad esempio, uno dei
fenomeni principali alla base di interazioni di cellule con superfici naturali e artificiali è
proprio l’adsorbimento di composti proteici localizzati sulla superficie esterna delle cellu-
le. Altri processi, come la trombosi, la guarigione di ferite, le infezioni e le infiammazio-
ni sono determinati dall’adsorbimento su superfici in vivo. Inoltre, molti metodi diagno-
stici in vitro e le tecniche cromatografiche, ampiamente esposte in un capitolo successivo,
si basano su fenomeni di adsorbimento di molecole proteiche in corrispondenza di inter-
facce solido-liquido. Inoltre, tecniche di adsorbimento vengono applicate in dispositivi di
emopurificazione extracorporea per la rimozione di tossine presenti nel plasma.
In particolare, l’adsorbimento di due molecole proteiche, l’albumina e il fibrinogeno, è stato
ampiamente studiato, in quanto tali molecole sono coinvolte in processi che limitano (fibri-
nogeno, aggregazione piastrinica e trombotica) o favoriscono (albumina, promozione dei
processi di adesione cellulare a superfici esogene) la biocompatibilità di un biomateriale in
vivo3.
3La qualità superficiale dei solidi che sono interessati da processi di risposta immunitaria da parte dell’orga-
nismo ospite, oppure che vengono utilizzati in operazioni di emopurificazione deve essere necessariamente
differente. Infatti, soffermandoci esclusivamente alla struttura superficiale dei solidi, e trascurando tutte le

143
F IGURA 7.2.1. Interazione superficie - proteina.

La cinetica e la termodinamica dell’adsorbimento di composti proteici su solidi dipendono


fortemente dalla struttura e dall’eterogeneità delle molecole proteiche. In generale, l’equili-
brio di adsorbimento può essere espresso attraverso la seguente espressione stechiometrica:
A K
(7.2.1) −*
P+σ )−σ
A tale reazione, è quindi associata una costante di adsorbimento K A , definita, ad una deter-
minata temperatura, come:
c Pσ
(7.2.2) KA =
c P · cσ

considerazioni relative alla natura chimica delle superfici, è evidente che la finitura superficiale dei materia-
li impiantabili deve essere tale da consentire una minore concentrazione possibile di siti attivi, in termini di
imperfezioni superficiali, che possano agire da regioni promotrici dell’adsorbimento proteico.
Al contrario, i solidi approntati al fine di essere utilizzati come adsorbenti in dispositivi di purificazione del
sangue hanno il compito di promuovere i processi molecolari di adsorbimento. A questo fine, si cerca di
massimizzare il più possibile la concentrazione di siti attivi: tale obiettivo viene raggiunto massimizzando la
superficie esposta (il solido è poroso e preparato sotto forma di particelle sferiche); inoltre, la concentrazione
di siti attivi per unità di superficie viene incrementata attivando il solido, cioè incrementando il numero di
imperfezioni superficiali che possano fungere da siti attivi.

144
1
theta(x)

0.9

0.8

0.7

0.6
eta
0.5

0.4

0.3

0.2

0.1

0
0 0.0002 0.0004 0.0006 0.0008 0.001
CP, moli/L

F IGURE 7.2.2. Isoterma di Langmuir, con K A = 1 · 10−4 M−1 .

Indicando con nσ il numero totale di siti attivi per unità di volume del solido e con θ la
frazione di tali siti occupata, se c P0 è la concentrazione totale di proteina, si può scrivere che
c P0 = c P + c Pσ , c Pσ = nσ · θ e cσ = nσ · (1 − θ ); introducendo queste espressione nella 7.2.2,
si trova:
θ
(7.2.3) KA =
c P · (1 − θ )
dove c P è la concentrazione di proteina libera, non adsorbita. Si trova:
K A · cP
(7.2.4) θ=
1 + K A · cP
che è la forma della ben nota isoterma di Langmuir (si ricorda che questa espressione si è
ottenuta in condizioni di temperatura costante).

Tale isoterma ha la forma mostrata in figura.

Si vede come al crescere della concentrazione di proteina c P aumenti anche la percentuale


di siti occupati; al limite, per c P → ∞, la frazione di siti occupati è unitaria. Per ricavare
i valori della costante di adsorbimento K A si possono fare delle misure di concentrazione
libera di proteina all’equilibrio c P al variare della concentrazione iniziale di proteina c0P , da
cui si può ricavare θ, dalle relazioni esposte precedentemente. L’espressione 7.2.4 può essere
facilmente realizzata nella forma:
1 1 1
(7.2.5) = 1+ ·
θ K A cP
quindi, graficando 1θ in funzione di c1P , si ottiene una retta dalla pendenza positiva, e pari
all’inverso della costante di assorbimento K A , con intercetta unitaria. Un altro parametro
importante che si utilizza per la valutazione dell’efficienza dei processi di adsorbimento è
la concentrazione di proteina libera cui corrisponde la metà dei siti attivi occupati, chiamata

145
1
prot1(x)
prot2(x)
0.9

0.8

0.7

0.6
eta
0.5

0.4

0.3

0.2

0.1

0
0 0.0002 0.0004 0.0006 0.0008 0.001
CP, moli/L

F IGURE 7.2.3. Isoterme di Langmuir per due composti proteici che si adsor-
bono su uno stesso solido con differenti costanti di associazioni K A .

c̃ P , che è pari a c̃ P = K1A ; quanto più bassa è tale concentrazione, tanto maggiore è l’affi-
nità delle molecole proteiche per la superficie, e tanto più efficiente risulterà il processo di
adsorbimento.
La costante K A può essere messa direttamente in relazione con l’energia libera di Gibbs
attraverso la legge di van’t Hoff:

(7.2.6) ∆G0A = − RT · ln K A

Gli andamenti qualitativi di ∆G0A possono essere ricavati in base a considerazioni generali
circa le interazioni tra le molecole proteiche e le superfici adsorbenti. Le interazioni che si
instaurano tra le molecole proteiche e le superfici idrofobiche e quelle idrofiliche sono molto
differenti. In generale, l’adsorbimento di composti proteici su substrati idrofobici è gover-
nato da energie di natura entropica: infatti, le molecole d’acqua sono presenti in strutture
ordinate in corrispondenza della superfici idrofobica; la creazione di questo strato compor-
idr ' − T · ∆Sidr , ∆Sidr < 0 e quindi
ta un dispendio energetico di natura entropica (∆G− 0 0 0

∆Gidr
0 > 0), compensato da un termine entalpico (∆H 0 < 0). Il successivo adsorbimento di
idr
composti proteici, quindi, comporta la rottura della struttura di molecole d’acqua (deidra-
tazione), che corrisponde ad un contributo entropico positivo ∆Sdeid 0 > 0, cui corrisponde
∆Gdeid = ∆G A < 0.
0 0

Al contrario, le interazioni favorevoli che si instaurano tra le regioni superficiali ad ele-


vata polarità dei composti proteici e la superficie idrofilica sono essenzialmente di natura
entalpica (∆G0A ' ∆H A0 < 0).

Si consideri, a titolo di esempio, l’adsorbimento di due differenti composti proteici su una


stessa superficie solida, cui corrispondono due differenti isoterme, come mostrato in figura:
Le due curve corrispondenti mostrano una diversa affinità dei composti verso la superficie.

146
Enzimi Catalizzatori non biologici
specifici non specifici
agiscono solo in presenza di cofattori non necessitano di fattori di attivazione
strutture 3D fragili (decadimento facile) maggiore resistenza alla disattivazione
massima attività catalitica a Tamb massima attività catalitica a T elevate (> Tamb )
TABLE 1. Principali differenze tra i catalizzatori biologici e gli enzimi.

Un modo per valutare direttamente tale affinità è quello di valutare il valore di concentra-
zione di semisaturazione, citato precedentemente, c̃ P : si nota come c̃ P,1 > c̃ P,2 , quindi si
ricava facilmente che è maggiore l’affinità del composto 2 che quello del composto 1; infatti,
K A,1 = 1 · 104 M−1 e K A,2 = 1 · 105 M−1 , cui corrispondono, a 25°C: ∆G0A,1 = −22.83 kJ/moli
e ∆G0A,2 = −28.54 kJ/moli.

7.3. Reazioni enzimatiche

Un esempio caratteristico e di vasta applicazione in campo biologico delle interazioni tra


proteine e molecole di vario genere è rappresentato dalle reazioni enzimatiche, che si basano
sull’interazione fortemente specifica di un composto proteico, chiamato enzima, con una
molecola, che viene chiamata substrato.
Gli enzimi sono catalizzatori biologici, cioè sono sostanze che migliorano la cinetica di speci-
fiche reazioni biologiche, rimanendo inalterate in concentrazione e forma.
La nomenclatura degli enzimi, pur non essendo codificata in maniera ufficiale, è spesso
relazionata alla funzione che compie; è presente, inoltre, un suffisso -asi, che si aggiunge
alla radice che deriva dal nome del substrato (ad esempio, l’ureasi è l’enzima che catalizza
la decomposizione dell’urea), oppure alla reazione cha catalizza (ad esempio, l’alcool dei-
drogenasi catalizza la reazione di deidrogenazione ossidativa di un alcool). Alcuni enzimi,
come la tripsina e la pepsina (enzimi proteolitici) non ricadono in questa classificazione.
L’effetto degli enzimi sull’energetica delle reazioni che catalizzano non è quello di modifi-
care l’energia libera del substrato e dei reagenti, ovvero il ∆G0 della reazione enzimatica, ma
bensì di modificare l’energia di attivazione della reazione stessa (vedi figura 7.3.1)
Le reazioni catalitiche trasformano un determinato reagente, chiamato substrato, in un prodotto,
in generale attraverso una reazione irreversibile che può essere schematizzata nella seguente
maniera:
E
(7.3.1) S−
*
−P
)

La differenze principali tra gli enzimi e i catalizzatori biologici sono riassunte in tabella ,
in particolare, si nota come i catalizzatori biologici necessitino di opportuni fattori di at-
tivazione (cofattori) per funzionare in maniera corretta. Tale necessità è legata all’elevata
attività e specificità di tali catalizzatori, che sono chiamati a lavorare in alcune regioni ben
delimitate dell’organismo (organo o tessuto bersaglio dell’azione enzimatica), e al di fuori
di tali zone, è opportuno che rimangano in una fase inattivata.

147
E

att
E att Ee
ne

reagenti
reagenti

 G0reaz

prodotti

Avanzamento della reazione

F IGURE 7.3.1. Energetica delle reazioni catalitiche (enzimatiche): in rosso è


raffigurato il percorso reattivo per una reazione in presenza di catalizzatore, in
blu quello per la stessa reazione in assenza di catalizzatore; ∆Greaz
0 = G0prodotti −
0
Greagenti att
è la variazione di energia libera di Gibbs associata alla reazione, Ene
è l’energia di reazione in assenza di catalizzatore, Eeatt è la stessa grandezza
relativa alla reazione catalizzata.

I cofattori sono, da un punto di vista chimico, dei composti non peptidici, che si legano alla
forma disattivata dell’enzima (chiamata apoenzima) per formare un complesso attivo dal
punto di vista catalitico, chiamato oloenzima o, semplicemente, enzima.
I cofattori possono essere ioni metallici (ad esempio, lo ione calcio Ca2+ funge da cofatttore
per l’amilasi, la collagenasi e la lipasi), o di natura organica (in questo caso vengono chiamati
coenzimi, e sono più comunemente noti come vitamine). La differenza principale tra i cofat-
tori e i gruppi prostetici è che questi ultimi instaurano con il composto proteico un legame
di tipo irreversibile, mentre la natura controllabile dell’attività enzimatica è legata alla for-
mazione di legami reversibili e dipendenti dalle condizioni dell’ambiente tra il cofattore e
l’apoenzima.
In generale, quando si caratterizza un enzima, viene sempre indicata la fonte, cioè la specie
dell’organismo di provenienza: questo perché enzimi che compiono la stessa funzione all’interno
di organismi di specie differenti operano in ambienti differenti, e presentano delle differenze
strutturali e funzionali (attività catalitica).
L’attività di un enzima è misurata in termini di numero di turnover della proteina, che indica
il numero di molecole di substrato che reagiscono per sito catalitico, per unità di tempo.

148
In generale, l’aumento della temperatura ha un effetto contrastante: in un intervallo prossimo
alla temperatura ambiente, l’aumento di temperatura comporta un miglioramento dell’attività
catalitica, mentre a temperature superiori variazioni conformazionali legati alla denatu-
razione termica possono ridurre bruscamente l’attiività catalitica.

L’attività di un enzima è spesso modulato dalla presenza di molecole a basso peso moleco-
lare, che possono essere anche il prodotto della reazione stessa; se essi agiscono come cofat-
tori, si instaura un loop di controllo sistemico a feedback positivo, se da inibitori a feedback
negativo.

E’ stato dimostrato, attraverso diverse tecniche sperimentali, che l’azione dell’enzima passa
attraverso la formazione di un complesso substrato-enzima. La reazione di complessazione
avviene in corrispondenza di un unico sito attivo: in generale, le interazioni che si instau-
rano tra la molecola di substrato e il sito attivo sull’enzima sono di tipo attrattivo, e i legami
che si formano sono principalmente di natura non covalente.

Come visto precedentemente, il primo approccio all’interpretazione della specificità dell’interazione


enzima-substrato è considerare un riconoscimento di tipo chimico-strutturale di tipo rigido
(modello chiave-serratura) ; tuttavia, tale modello si è rivelato insufficiente nello spiegare
la conservazione di parte dell’attività catalitica anche in seguito a cambiamenti strutturali
della molecola proteica. Quindi, tale visione è stata modificata, comprendendo la possibil-
ità di adattamenti conformazionali della struttura proteica in seguito alla formazione del
legame enzima-substrato (adattamento indotto), capace di formarsi anche in seguito a de-
formazioni locali del sito di interazione specifica (modello mano-guanto).

In termini energetici, il complesso enzima-substrato risulta maggiormente stabile dell’enzima


libero, cioè al complesso enzima-substrato corrisponde una buca di potenziale conformazionale
più profonda di quella cui corrisponde la forma libera.

Infine, il meccanismo mediante il quale l’enzima riesce a favorire la reazione si basa su due
fenomeni principali:

 l’enzima può accelerare la reazione semplicemente tenendo accostate due molecole


di substrato ad una posizione ottimale per lo svolgimento della reazione stessa (con-
tributo energetico di natura entropica);
 il legame substrato-enzima può instaurarsi se il substrato è nello stato di transizione;
tale stato è, dunque, stabilizzato o forzato dal legame tra l’enzima e il substrato
(contributo di natura prevalentemente entalpica).

7.3.1. Meccanismo di reazioni enzimatiche. Come visto precedentemente, le reazioni


enzimatiche possono essere riassunte attraverso uno schema reattivo irreversibile di trasfor-
mazione del substrato in prodotti (eq. 7.3.1); la velocità di scomparsa (−rS ) indica il numero
di moli di substrato che vengono consumate per unità di volume e di tempo.

149
Il meccanismo molecolare di tale reazione può essere riassunto nella sequenza di reazioni di
seguito indicate:
1 k
(7.3.2) −−
S+E )*
−− ES
k −1

2 k
(7.3.3) ES −
*
)− E+P
ES è il complesso enzima-substrato, che è all’equilibrio con l’enzima e il substrato liberi;
in questo caso, se la reazione è elementare4, per la prima reazione è possibile scrivere,
all’equilibrio termodinamico:

(7.3.4) k1 · cS · c E = k −1 · c ES

per cui è possibile scrivere:


cS · c E k
(7.3.5) K= = −1
cSE k1
dove K è la costante di dissociazione del complesso enzima-substrato. Analogamente, per la
decomposizione del complesso seguendo lo schema reattivo della seconda reazione, sempre
secondo l’ipotesi di reazione irreversibile, si può scrivere, per la velocità di formazione del
prodotto:
dc P
(7.3.6) = k2 · c ES = (−rS )
rP =
dt
Inoltre, sempre dallo schema della seconda reazione, possiamo scrivere:
dcS
(7.3.7) (−rS ) = k2 · c ES = −
dt
La velocità di formazione del complesso, mettendo insieme le due reazioni, sarà pari a:
dc ES
(7.3.8) r ES = k1 · cS · c E − k −1 · c ES − k2 · c ES = k1 · cS · c E − (k −1 + k2 ) · c ES =
dt
Inoltre, è possibile scrivere il seguente bilancio per l’enzima:

(7.3.9) c0E = c E + c ES

Di conseguenza, per trovare le quattro incognite cS , c E , c ES e c P è necessario risolvere le tre


equazioni differenziali ordinarie 7.3.6 - 7.3.8, con le seguenti condizioni al contorno:




 cS (0) = c0S

 c (0) = c0

E E
(7.3.10)


 c ES (0) = 0


c P (0) = 0

4Si chiamano reazioni elementari tutte quelle reazioni in cui gli ordini di reazione per i singoli componenti
corrispondono ai relativi coefficienti stechiometrici.

150
1

0.9

0.8
cES
0.7 cP

0.6 cS
cE
0.5
c

0.4

0.3

0.2

0.1

0
0 0.002 0.004 0.006 0.008 0.01
t

F IGURE 7.3.2. Andamento nel tempo delle concentrazioni di enzima libero,


complesso enzima-substrato, substrato e prodotto.

Un esempio di andamenti, ricavati mediante risoluzione numerica del sistema di equazioni


differenziali ordinarie, che rappresentano l’andamento nel tempo delle concentrazioni c E ,
cS , c ES e c P è mostrato in figura 7.3.2.

Se si fa l’approssimazione di stato quasi stazionario per il complesso enzima-substrato, cioè


se si suppone che la velocità di formazione del complesso sia indenticamente nulla in ogni
istante, dalla 7.3.9 si ottiene:
dc ES
(7.3.11) =0 ⇒ k1 · cS · c E = (k −1 + k2 ) · c ES
dt
e si ricava, quindi:
k1 · cS · c E
(7.3.12) c ES =
k −1 + k 2
Dalla 7.3.9 si ricava:
k1 cS · c0E − c ES

(7.3.13) c ES =
k −1 + k 2
dalla quale si ricava:
k1 · cS · c0E
(7.3.14) c ES =
k −1 + k 2 + k 1 · c S
Sostituendo quest’ultima espressione nella 7.3.7, si ottiene, per la velocità di consumo del
substrato:
k1 · k2 c0E · cS k2 c0E · cS
(7.3.15) (−rS ) = k2 · c ES = = ( k −1 + k 2 )
( k −1 + k 2 ) + k 1 c S + cS
k!

151
0.01

0.009

0.008

0.007
(−r ) M min−1

0.006

0.005
S

0.004
kM=1 ⋅ 10−3 M
0.003
kM=5 ⋅ 10−3 M
0.002

0.001

0
0 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05
cS M

F IGURE 7.3.3. Cinetica di Michaelis-Menten: le due curve presentano lo stesso


valore asintotico, pari a r MAX = 1 · 10−2 M min−1 e diversi valori di K M .

(k +k )
Introducendo i seguenti parametri r MAX = k2 c0E e K M = −1k 2 rappresentano, rispet-
!
tivamente, il massimo valore della velocità di reazione e la costante di Michaelis-Menten;
l’espressione 7.3.15 può essere ridotta sotto forma della nota espressione cinetica di Michaelis-
Menten:
r ·c
(7.3.16) (−rS ) = MAX S
K M + cS
In figura 7.3.3 viene mostrato l’andamento della velocità di reazione di Michaelis-Menten in
funzione della concentrazione di substrato.

7.3.2. Inibizione enzimatica. L’attività enzimatica può essere modificata dall’interazio-


ne delle molecole proteiche con altre molecole, diverse da quelle di substrato: questa intera-
zione modifica la velocità di conversione del substrato in prodotto.
Quando la velocità è ridotta, la sostanza si chiama inibitore; altre sostanze, chiamate attiva-
tori, invece, aumentano l’attività catalitica.
Molti farmaci sono degli inibitori enzimatici (basti pensare ai più usati anti-retrovirali per la
cura all’AIDS) e vengono caratterizzati, in questa funzione, in base alla specificità (capacità
di legarsi in maniera specifica ad un unica molecola di enzima bersaglio) e alla loro efficacia,
cioè alla concentrazione necessaria per ridurre l’attività enzimatica.

152
k1
E+S k-1
ES k2
E+P
+
I
k3 k-3

EI

F IGURA 7.3.4. Inibizione competitiva.

In generale, il legame che si stabilisce tra l’inibitore e la molecola di enzima può essere rever-
sibile o irreversibile; nel primo caso, il potenziale di interazione intermolecolare è non molto
intenso ed a raggio piuttosto ampio (interazioni idrofobiche - forze di van der Waals - o inte-
razioni di tipo elettrostatico), mentre nel caso di legame irreversibile ha luogo una reazione
(diversa da quella che dà luogo alla formazione del prodotto), che porta alla formazione di
una complesso stabile, disattivato rispetto alla reazione con il substrato.
Di seguito vengono descritti i meccanismi di inibizione reversibile più comuni, che sono
presenti in ambito biologico singolarmente, o combinati in schemi più complessi, che sono
alla base della regolazione dei processi biologici. Per quanto riguarda l’inibizione irrever-
sibile, lo schema seguito è specifico della coppia enzima-inibitore e non può essere, quindi,
generalizzato.
7.3.2.1. Inibizione competitiva. In questo caso, il substrato e l’inibitore si legano allo stesso
sito attivo sulla molecola proteica (senza dar luogo a reazione chimica); lo schema cinetico
prevede la presenza di due serie di reazioni in parallelo, come mostrato in figura 7.3.4, cui
corrispondono le seguenti equazioni cinetiche:
1 k k
(7.3.17) E+S −

)*
−− ES →2 E + P
k −1

3 k
(7.3.18) −−
E+I )*
−− EI
k −3

153
da notare che l’interazione E-I è reversibile; analogamente a quanto fatto nel caso della de-
rivazione della cinetica di Michaelis-Mente, si fa l’ipotesi di stato quasi-stazionario, cioè
si suppone di studiare il problema nelle condizioni in cui la concentrazione delle forme
enzimatiche (E libero, EI ed ES) possa essere considerata costante:
dCE dCES dCEI
(7.3.19) = = =0
dt dt dt
di conseguenza, è costante anche la concentrazione di enzima totale

(7.3.20) CE0 = CE + CEI + CES

dalle eq. 7.3.19, si ricavano le seguenti equazioni (algebriche):


dCE
(7.3.21) = 0 = −k1 CE CS + k −1 CES + k2 CES − k3 CE C I + k −3 CEI
dt

dCES
(7.3.22) = 0 = k1 CE CS − k −1 CES − k2 CES
dt

dCEI
(7.3.23) = k3 CE C I − k −3 CEI
dt
a partire da queste 4 equazioni algebriche, posto che si è in grado di misurare CE0 , C I e CS ,
si può valutare la velocità (iniziale) di formazione del prodotto v = dP
dt = k 2 CES in funzio-
ne delle concentrazioni misurabili (da notare che, per vincoli stechiometrici, la velocità di
formazione del prodotto equivale alla velocità di consumo del substrato convertito S); dalla
7.3.22 si ricava:
K M CES
(7.3.24) CE =
CS
avendo usato la definizione precedentemente introdotto di costante di Michaelis-Menten
k +k
K M = −1k 2 ; dalla 7.3.23 si ricava, per la concentrazione del complesso enzima-inibitore:
1

k3 C I K M CES
(7.3.25) CEI =
k −3 CS
Introducendo la 7.3.24 e la 7.3.25 nella 7.3.20 si ottiene, per la concentrazione di complesso
enzima-substrato:
CE0
(7.3.26) CES =
CS + K M · (1 + CI/K I )
dove K I = CE CI/CEI rappresenta la costante di dissociazione del complesso enzima-inibitore.

Usando la 7.3.26, la velocità di formazione del prodotto diviene_


CS CS
(7.3.27) v = v MAX · = v MAX ·
CS + K M · (1 + CI/K I ) CS + K 0M
che rappresenta proprio la cinetica enzimatica modificata in virtù della presenza dell’inibi-
tore competitivo I; in questo caso, quindi, non cambia la massima velocità di reazione, ma
solo la costante di Michaelis-Menten apparente K 0M = K M · (1 + CI/K I ) > K M : la velocità

154
k1
E+S k-1
ES k2
E+P
+
I
k3 k-3

ESI

F IGURA 7.3.5. Inibizione incompetitiva.

di reazione è minore, quindi, a basse concentrazioni di substrato, poiché è sensibile l’effetto


della presenza di un inibitore che blocca i siti attivi, ma ad alte concentrazioni di substrato
la velocità è comunque pari a v ' v MAX , sia nel caso di presenza di inibitore che in sua
assenza.
7.3.2.2. Inibizione incompetitiva. In questo caso, l’inibitore reagisce reversibilmente sol-
tanto con il complesso enzima-substrato5, cui corrisponde lo schema cinetico mostrato in
figura 7.3.5.
dCES dCESI
In condizioni stazionarie ( dC E
dt = dt = dt = 0), è possibile scrivere i seguenti bilanci:
(7.3.28) CE0 = CE + CEI + CES

dCE
(7.3.29) = 0 = −k1 CE CS + k −1 CES + k2 CES
dt

dCES
(7.3.30) = 0 = k1 CE CS − k −1 CES − k2 CES − k3 CES C I + k −3 CESI
dt

dCESI
(7.3.31) = k3 CES C I − k −3 CEI
dt
5Dal punto di vista molecolare, ciò corrisponde al caso in cui, nella formazione del complesso, si abbia una
modifica della struttura della proteina tale da rendere disponibile all’inibitore un sito attivo localizzato sulla
superficie.

155
dalla 7.3.31, si ricava CESI = CES CI/K I , avendo introdotto la costante di dissociazione del
complesso con l’inibitore K I = k−3/k3 ; dalla 7.3.29, si ricava CES = CE CS/K M , dove la costan-
te di Michaelis-Menten è pari a quella già definita nel caso di assenza di inibitore (K M =
k −1 + k 2
k ). Introducendo queste espressioni nella 7.3.28, si trova:
1

CE0
(7.3.32) CE = CS C I CS
1+ KM + KI KM

CE0 CS
(7.3.33) CES =  
CI
K M + CS · 1 + KI

Come nel paragrafo precedente, si definisce la velocità (iniziale) di formazione del prodotto_
k2 CE0
dP CE0 CS 1+C I/K I · CS v0MAX CS
(7.3.34) v= = k2 CES = k2  = =
KM K 0M + CS

dt CI
K M + CS · 1 + KI 1+C I/K I + CS

avendo indicato con v0MAX = v MAX · 1+C1I/K e K 0M = K M · 1+C1I/K i parametri cinetici modi-
I I
ficati dalla presenza dell’inibitore I, rispetto ai parametri cinetici K M e v MAX della cinetica
enzimatica in assenza di inibizione; è da notare che in questo caso, diminuisce anche la velo-
cità massima di formazione del prodotto, oltre a diminuire, della stessa quantità, la costante
K M (notare che, in questo caso, rimane inalterata la pendenza della retta che rappresenta
la velocità - lineare - a basse concentrazioni di substrato, cioè, quando la concentrazione di
substrato è molto bassa, gli effetti della presenza di inibitore non si avvertono.

7.3.2.3. Inibizione non competitiva. In questo caso, il legame tra inibitore ed enzima si ve-
rifica in corrispondenza di un sito diverso da quello attivo (efficace per la formazione del
prodotto); in questo caso, a differenza del caso illustrato nel paragrafo precedente, l’inibito-
re legato all’enzima libero impedisce il legame con il prodotto, come parimenti il complesso
ES legato all’inibitore I non dà luogo alla formazione del prodotto. Lo schema cinetico è
illustrato in figura 7.3.6. Come nei casi precedenti, nel caso di stato stazionario, valgono le
seguenti relazioni:

(7.3.35) CE0 = CE + CEI + +CES + CESI

dCE
(7.3.36) = 0 = −k1 CE CS + k −1 CES + k2 CES
dt

dCES
(7.3.37) = 0 = k1 CE CS − k −1 CES − k2 CES − k i2 CES C I + k −i2 CESI
dt

dCEI
(7.3.38) = 0 = k i1 CE C I − k −i1 CEI
dt

dCESI
(7.3.39) = k i2 CES C I − k −i2 CEI
dt

156
k1
E+S k-1
ES k2
E+P
+ +
I I
ki1 k-i1 ki2 k-i2

EI ESI

F IGURA 7.3.6. Inibizione non competitiva.

k −i1 k −i2
Introducendo le due costanti di dissociazione K I = k i1 e K 0I = k i2 e la solita costante di
k −1 + k 2
Michaelis-Menten K M = k1 , si trova:
CE C I
(7.3.40) CEI =
KI

CE CS
(7.3.41) CES =
KM

k −1 + k2 + k i2 C I k C I CE CS
(7.3.42) CESI = CES − 1 CE CS =
k −i2 k −i2 K M K 0I
introducendo le espressioni 7.3.40 - 7.3.42 nella 7.3.35, si trova:
CE0
(7.3.43) CE = 1
(1 + CI/K I ) + KM (1 + CI/K0I ) CS
Definendo, al solito, la velocità (iniziale) di formazione del prodotto:
 
0 CI
dP CE CS · 1 + K0 v0MAX CS
I
(7.3.44) v= = k2 CES = k2 =
K 0M + CS
 
C
dt 1+ K I
K M ·  C I  + CS
1+ 0I
K
I

157
CI CI CI

competitiva non competitiva incompetitiva

F IGURA 7.3.7. Diagramma di Lineweaver-Burk.


 
C
1+ K I
avendo introdotto i parametri cinetici modificati K 0M = K M · 
C
I  e v0MAX = v MAX ·
1+ 0I
K
  I
CI
1+ K 0I
, dove K M e v MAX sono i parametri dell’espressione di Michaelis-Menten in assenza
di inibizione; nel caso, piuttosto frequente6, in cui K I ' K 0I , si trova anche K M ' K 0M .
I dati cinetici relativi a reazioni enzimatiche possono essere valutati in diversi modi; general-
mente tali dati sono disponibili sotto forma di velocità di formazione del prodotto v in fun-
zione della concentrazione di substrato CS . La forma più utilizzata è quella del diagramma
di Lineweaver-Burk:
1 KM 1 1
(7.3.45) = · +
v v MAX CS v MAX
La variazione, rispetto alla retta attesa in assenza di inibizione, è mostrata in figura per i tre
tipi di competizione analizzati.

Riferimenti bibliografici.

B. Z. Chowdhry and S. E. Harding, editors. Protein-Ligand Interactions: hydrodynamics and


calorimetry. Oxford University Press, 2001a.
B. Z. Chowdhry and S. E. Harding, editors. Protein-Ligand Interactions: structure and
spectroscopy. Oxford University Press, 2001b.

6Questo caso si verifica quando il sito di interazione con l’inibitore è molto lontano, sulla superficie, rispetto a
quello relativo all’interazione con il substrato, per cui la costante di dissociazione del complesso, in assenza o
presenza di substrato legato, rimane invariata.

158
C. R. Cantor and P. R. Schimmel. Biophysical Chemistry: Part III: The Behavior of Biological
Macromolecules. W. H. Freeman, 1980.
V. T. Moy, E.L. Florin, and H. E. Gaub. Intermolecular forces and energies between ligands
and receptors. Science, 1994.

Esercizi.
(1) Gli equilibri di interazione tra un ligando L ed una macromolecola M sono espressi me-
diante i dati in tabella, dove ν rappresenta il numero di moli di ligando legate per mole
di macromolecola, mentre L rappresenta la concentrazione di ligando non legato presente
in soluzione, mentre L rappresenta la concentrazione di ligando non legato presente in
soluzione. Trovare il numero di siti di legame n (unica classe di siti di legame, non inter-
agenti tra di loro) e la corrispondente costante di equilibrio termodinamico di associazione.
(22 luglio 2005) - I dati disponibili possono essere facilmente interpretati mediante
moli L legate
ν mole M 0.099 0.1980 0.91735 1.6805 3.3559
L, M 0.0101 0.0202 0.101 0.202 0.5051

un’opportuna manipolazione attraverso il diagramma di Scatchard:


ν n ν
= −
L k k
Quindi, rimaneggiando i dati, è possibile ottenere, come parametri di regressione
lineare, il numero di siti totali n e la costante di associazione k; la tabella dei dati per
la regressione lineare è la seguente. Si ottiene, dalla regressione: n = 10 e k = 1 M−1 .
(2) Una macromolecola M presenta n = 10 siti di legame identici ed indipendenti per legare un
ligando L, con costante di associazione k = 2; se si misura una concentrazione c L = 1 M di
ligando libero, quante moli di ligando sono legate per mole di macromolecola (ν)? (4 ottobre
2005) - Per ricavare il valore di ν in corrispondenza della c L data, si può utilizzare
l’espressione di Scatchard:
ν n ν
= −
cL k k
Si ricava: n
moli L
ν = 1 k 1 = 3.33
c + k
moli M
L
(3) Si effettuano delle prove di adsorbimento all’equilibrio termodinamico di una proteina su
due solidi differenti, di natura polimerica non polare, a 25°C; i dati sono riportati in tabella:
(1) (2)
c P0 · 105 , M c P · 105 , M c P · 105 , M
1 0.512 0.01
2 1.05 0.217
4 2.20 0.531
5 2.81 0.742
8 4.77 1.70

Tenendo conto che la densità totale di siti attivi è uguale per i due solidi, e pari a nσ =

159
1 · 10−5 M, determinare i K Ai , ∆G0A,i e ∆S0A,i per l’adsorbimento sui due solidi. Quale dei
due è più opportuno per la separazione del composto proteico? Per quale solido il potenziale
di attrazione solido-proteina è maggiore? (esercitazione in classe) - I dati possono essere
interpretati mediante l’isoterma di Langmuir:

K A · cP
θ=
1 + K A · cP
dove c P è la concentrazione di proteina libera, mentre θ è la frazione di siti occupati,
pari a θ = cnPσσ = cP0n−σ cP . L’espressione di Langmuir può essere facilmente lineariz-
zata nella forma 7.2.5 , quindi, se indichiamo con Y = 1θ = cP0 −ncσP var e con X = c1P ,
queste due variabili sono correlate con una forma lineare del tipo:

Y = α·X+1

Si trova K A1 = 1 · 104 M−1 e K A2 = 1 · 105 M−1 . Mediante l’equazione di van’t Hoff

∆G0 = − RT · ln K A

ed essendo preponderante il termine di natura entropica (solido idrofobico ) si ha


∆G0A ' − T · ∆S0A = − RT · ln K A , quindi:

∆S0A = R · ln K A

I valori numerici sono:


kJ J
∆G0A,1 = −22.83 ∆S0A,1 = 76.575
moli moli · K
kJ J
∆G0A,2 = −28.54 ∆S0A,2 = 95.718
moli moli · K
Dai risultati dell’analisi termodinamica è evidente che il legame che si instaura
tra le molecole proteiche e il solido 2 è più forte di quello con il solido, essendo
K A2 > K A1 , ∆G0A,2 < ∆G0A,1 e ∆S0A,2 > ∆G0A,1 .
(4) A 37°C una macromolecola M lega un ligando L, con concentrazione c L = 0.2 M su n = 5
siti di legame, e con una costante di dissociazione k (37°C ) = 1 · 10−1 M−1 ; supponendo che
il numero dei siti rimanga costante, e sapendo che a 20°C, a parità di c L e di concentrazione di
ν(37°C )
macromolecola, si osserva un numero di moli legate ν(20°C ) = 2 , calcolare k (20°C ).
Discutere, sulla base dei risultati ottenuti, l’effetto della temperatura sulle interazioni macro-
molecola M - ligando L (23 giugno 2006) - A 37°C abbiamo tutti i dati sufficienti per
calcolare il numero di moli di ligando legate per mole di macromolecola:
n · c L /k (37°C )
ν(37°C ) = =4
1 + c L /k (37°C )
ν(37°C )
Quindi, dai dati del problema, si ricava immediatamente ν(20°C ) = 2 = 2 e,
quindi:
c L · (n − ν(20°C ))
k(20°C ) = = 0.4 M−1
ν(20°C )

160
Questo significa che la dissociazione è esotermica, cioè è favorita a basse tempera-
ture; al contrario, l’associazione è quindi endotermica, come succede spesso nelle
interazioni tra siti superficiali di molecole proteiche, di solito a natura idrofobica,
con composti poco polari.
(5) La fibronectina è un composto proteico presente nel plasma, che tende ad adsorbirsi su bioma-
teriali sintetici impiantati, producendo patologie anche gravi (trombosi). Al fine di valutare
la biocompatibilità di due materiali A e B, vengono valutati i parametri dell’isoterma di
Langmuir a 37°C
n · cF
nS = MAX
k + cF
(c F è la concentrazione di fibronectina libera, nS è il numero di moli di fibronectina adsorbita
per unità di superficie del materiale, n MAX e k sono i due parametri dell’isoterma), mostrati
in tabella:
n MAX mM/cm2 k mM
A 0.179 0.082
B 0.122 0.018

Quale dei due materiali è maggiormente biocompatibile, utilizzando questi dati? ( 7


luglio 2006) - Il grafico comparativo delle due isoterme è mostrato in figura . Si vede
0.18
A
B
0.16

0.14

0.12
nS, mM/cm2

0.1

0.08

0.06

0.04

0.02

0
0 2 4 6 8 10
CF, mmoli/L

come per concentrazioni di fibronectina di circa 0.1 mM le curve siamo molto simili,
con una leggera prevalenza del solido B, che però presenta interazioni molto meno
spiccate per valori superiori di concentrazione di fibronectina. Dall’analisi delle
curve, quindi, si evince che, in ogni caso, il solido A pare mostrare una maggiore
affinità per la fibronectina, e quindi risultare meno biocompatibile del solido B.
(6) Discutere la natura cooperativa del legame ligando-proteina. ( 20 luglio 2006) - La natura
cooperativa dei legami proteina-ligando subentra quando i siti disponibili per il

161
T, K KU
280 0.319
290 0.332
300 0.344
310 0.356
330 0.379

X= 1
T · 103 K −1 Y = − ln KU
3.5714 1.1429
3.4483 1.1035
3.3333 1.0667
3.2258 1.0323
3.0303 0.9697

legame non sono tra loro indipendenti, cioè quando l’energia di interazione tra le
molecole di ligando e il sito sulla superficie macromolecolare dipende dal grado di
occupazione degli altri siti ν. In generale, la costante termodinamica microscopica k
dipende da ν, secondo una legge:

k (ν) = k0 · exp(−φ(ν))

dove k0 è la costante di dissociazione per ν → 0. A seconda che φ(ν) sia crescente


o decrescente con ν, la cooperatività del legame ligando-proteina è positiva o nega-
tiva. In particolare, se φ(ν) è una funzione decrescente con ν, k (ν) cresce al crescere
di ν, quindi il legame ligando-proteina ha cooperatività negativa. Al contrario, se

dν > 0, la cooperatività del legame è positiva, cioè la formazione di legami è via via
più facile.
(7) La costante di denaturazione KU di un composto proteico P varia con la temperatura secondo
i dati della seguente tabella: Determinare la frazione di proteina denaturata a 320 K.La
proteina P, inoltre, interagisce con il ligando L, secondo lo schema:
k
P+L −
*
− PL
)

dove k = 1 · 10−3 M è la costante di dissociazione; se è presente tale ligando alla concen-


trazione c L = 0.5 · 10−3 M, qual’è la nuova frazione di proteina denaturata? (Esercitazione
in classe) - La dipendenza di KU dalla temperatura è data dalla legge di van’t Hoff:
∆GU0
ln KU = −
R·T
Quindi, graficando il valore di ln KU in funzione dell’inverso della temperatura, si
ottiene una retta passante dall’origine, mediante la quale è possibile determinare
il valore dell’energia libera di Gibbs in condizioni standard: Dai seguenti dati si
ottiene effettivamente un andamento di diretta proporzionalità e si trova:
cal
∆GU
0
= −635.84
mole

162
 
∆G0
Quindi, a T=320 K si ottiene KU (320) = exp − R·TU = 0.3679, di conseguenza la
percentuale di proteina denaturata in assenza di reazione di legame è:
KU
f D0 = = 0.2689
KU + 1
Nel secondo caso, in presenza dell’equilibrio di legame indicato, si trova:
 
app k
KU = KU · = 0.2453
cL + k
da cui si ricava, per la frazione di proteina denaturata in presenza di equilibri di
legame:
app
KU
f D = app = 0.1970
KU + 1
Si vede come, quindi, un equilibrio di legame possa modificare notevolmente una
forma strutturale, in particolare quella che presenta la maggiore affinità con il lig-
ando in esame.
(8) La costante di dissociazione del legame tra il composto proteico P ed il ligando L varia con il
grado di saturazione ν secondo la seguente legge:
 
k (ν) = k0 · exp −ν3 − 4 · ν2 + 5

Dire se il legame tra la proteina P ed il ligando L mostra cooperatività positiva o negativa


(Esercitazione in classe) - In generale, si dice che un legame mostra cooperatività pos-
itiva se la costante di dissociazione diminuisce all’aumentare di ν; dalla 7.1.42 si
trova che_   
k(ν)
d ln k0 dφ (ν)
=−
dν dν
Quindi, si ha cooperatività positiva se il termine a secondo membro dell’espressione
precedente è positivo, ovvero se:
dφ (ν)
<0

In questo caso:
dφ (ν)
= −3 · ν2 − 8 · ν < 0

sempre nel caso di ν > 0.
(9) Due ligandi A e B competono con un unico sito di interazione con un composto proteico P;
[ PA] [ PB]
sono disponibili i seguenti dati di y A = [ A] e y B = [ B] a varie temperature: Determinare
dai seguenti dati quale dei due ligandi è più affine con il sito di interazione presente sul
composto proteico, e i relativi parametri termodinamici.
Determinare, inoltre, a 320 K, il rapporto tra le concentrazioni dei due complessi PA e
PB, di uguale concentrazione dei ligandi liberi ([ A] = [ B]) (Esercitazione in classe) - La

163
T, K y A y B , ·106
270 0.40 2.37
290 0.35 4.75
310 0.30 8.40
330 0.25 13.21
350 0.20 18.55
 
yA
X = 1/T, ·103 K Y = log yB
3.7037 12.037
3.4483 11.207
3.2258 10.484
3.0303 9.849
2.8571 9.286

relazione tra le variabili y Ae y B e la temperatura è data dalla 7.1.30, per cui, grafi-
y
cando la grandezza log yAB in funzione dell’inverso della temperatura in K, la pen-
denza della retta passante passante per l’origine fornisce il valore della differenza
di affinità in termine di differenza di energie libere di Gibbs in condizioni standard.
Di seguito vengono elencati i valori delle grandezze correlate linearmente:
∆GPA
0 − ∆G0
PB
Si trova R = 3250 K; di conseguenza, si trova, per la differenza di affini-
tà:
kcal
∆GPA
0
− ∆GPB
0
= 3.25 · 103 · 1.987 = 6.46
    mole
yA [ PA] 3250 [ PA]
A 320 K, si trova log yB = log [ PB] = 320 = 10.16 da cui si ricava [ PB]
=
2.58 · 104 .
(10) Un ligando L forma complessi di associazione con una macromolecola A; per studiare tale
equilibrio, si misura all’equilibrio la concentrazione di ligando libero c L , partendo da soluzioni
con concentrazione A costante, e pari a c A0 = 0.1 mM, ma con diverse concentrazioni in-
iziali di ligando. I risultati di tale esperimento sono mostrati nella seguente tabella: Dai

CL0 , ·104 M 1 3 5 6 8
4
CL , ·10 M 0.7 2.5 4.4 5.2 7

seguenti dati, determinare il numero di siti n presenti sulla macromolecola, e la relativa


costante di dissociazione k. (21 giugno 2007) - Dai dati sperimentali di equilibrio, si
possono ricavare i valori di ν e quindi, si può costruire il grafico di Scatchard:
CL0 − CL
ν=
C A0
Graficando i dati secondo il grafico di Scatchard, che è espresso nella forma seguen-

ν 0.3 0.5 0.6 0.8 1


ν −1 1700 1400 1500 1200 1000
cL , M

164
te:
ν n ν
= −
cL k k
si trovano i seguenti risultati: n = 2 e k = 1 mM.
(11) Un ligando L forma un complesso con una proteina P secondo lo schema:

P + L ⇔ PL

Sono disponibili i seguenti dati di concentrazione di ligando libero in soluzione c L , al variare


della concentrazione iniziale (totale della proteina) c P0 (la concentrazione iniziale di ligando
è uguale per tutti gli esperimenti, e pari a c L0 = 0.01 M): In base a questi dati, deter-
c L , mM 1 1.2 1.5 2 2.5 3
c P0 , mM 0.2 0.4 0.5 0.8 1 1.2

minare la costante di dissociazione del complesso PL k e il numero di siti disponibili n. (15


gennaio 2008) - La relazione da utilizzare per determinare i parametri dell’equilibrio
richiesto è l’equazione di Scatchard:
ν n c
= − L
cL k k
Il parametro ν è definito, come al solito:
c P0 − c P c
ν= = PL
c P0 c P0
la concentrazione di complesso PL può essere determinato a partire dai dati forniti:

c PL = c L0 − c L

e si trovano i seguenti valori di c PL e di ν: I dati vengono regrediti linearmente sec-

c PL , mM 0.055 0.129 0.196 0.400 0.600 0.831


ν 0.2727 0.3214 0.3913 0.5 0.6 0.6923

ondo l’equazione mostrata, la variabile indipendente è ν, mentre la variabile dipen-


dente è Y = cνL ; i valori sono mostrati in tabella: I risultati della regressione sono

ν 0.2727 0.3214 0.3913 0.5 0.6 0.6923


Y= ν
cL M−1 272.7273 267.8571 260.8696 250 240 230.7692

mostrati in figura.
(12) La costante di associazione di un composto proteico P con un ligando L
k
N+L−
*
− NL
)

ad una certa temperatura T è k = 1 · 10−2 M−1 . Alla stessa temperatura la costante di


denaturazione di N
KU
N− )*−U
è pari a KU = 0.15. Determinare:

165
275
ν/c vs ν
L
equazione di Scatchard
270

265

260

255
−1
ν / cL Lg

250

245

240

235

230

0.3 0.35 0.4 0.45 0.5 0.55 0.6 0.65


ν

(a) la frazione f D di proteina denaturata alla temperatura T se non sono presenti equilibri
di legame;
(b) la frazione f D0 di proteina denaturata in presenza di ligando alla concentrazione c L =
0.1 M.
Se la denaturazione è endotermica e l’equilibrio di legame esotermico, globalmente l’aumento
di T produce un aumento o una denaturazione della frazione denaturata?- (19 dicembre
2008) - La frazione di proteina denaturata, in assenza di ligando L, è pari a:
KD
fD = = 0.1304
1 + KD
Aggiungendo il ligando alla concentrazione c L assegnata, si trova per la nuova
frazione:  
0 k
KD = KD · = 0.136
k + cL
quindi, la percentuale di denaturazione è:
0
KD
f D0 = 0 = 0.12
1 + KD
passata dal 13% all’12%, a causa di una stabilizzazione della forma nativa grazie
all’insorgere dell’equilibrio di legame indicato.
Se la reazione di legame è esotermica, mentre la denaturazione è endotermica,
significa che ↑ T comporta ↑ K D e ↓ k, per cui si ha un globale ↑ f D .

166
CHAPTER 8

Termodinamica dei sistemi contenenti molecole anfifiliche

8.1. I composti anfifilici

I composti anfifilici o anfoteri sono particolari composti che presentano una doppia natura,
dovuta al fatto che la loro struttura molecolare è costituita da due regioni a diversa natura,
fortemente polare e idrofobica, come mostrato in figura.
Il termine anfifilico1 deriva dal greco (αµφισ, entrambi, φιλια, amore) e indica l’affinità di
tali composti con ambienti idrofilici e idrofobici, dovuta alla presenza concomitante delle
due regioni a differente natura.
Queste molecole sono presenti in molti sistemi di interesse biomedico e biotecnologico e il
loro comportamento peculiare assicura proprietà uniche a tali sistemi.
1Una classe di composti simili, ma chimicamente distinti, sono i composti anfoteri, che mostrano una doppia
natura, acida e basica, presente nella struttura molecolare. Un tipico esempio di molecole anfotere, di cui ci
siamo già occupati, è rappresentato dagli amminoacidi, che hanno la caratteristica di avere un gruppo acido
(carbossilico) e uno basico (amminico) che si ionizzano in soluzione, dando luogo ad una certa percentuale di
ioni con una carica positiva e una carica negativa presenti in concomitanza (ioni dipolari o zwitterioni)

F IGURE 8.1.1. Molecole anfifiliche: struttura della singola molecola e degli


aggregati molecolari.

167
Esempi di molecole anfifiliche di interesse biomedico e biotecnologico sono:
(1) fosfolipidi, che grazie alla loro natura anfotera sono i principali componenti struttu-
rali delle membrane cellulari;
(2) colesterolo e glicolipidi: queste sostanze, necessarie al funzionamento di complessi
cicli metabolici, devono la loro attività principalmente alla loro natura molecolare
anfifilica;
(3) acidi grassi: la denominazione stessa di questa ampia classe di molecole dal cruciale
ruolo biologico indica la doppia natura, idrofila (acidi) e idrofobica (grassi);
(4) proteine e amminoacidi: tali composti, di cui è superfluo ribadire l’importanza nel-
l’ambito dei processi biologici, sono costituiti da gruppi polari o ionici, e gruppi
idrofobici, disposti in maniera complessa all’interno della struttura, dando luogo a
regioni dal carattere idrofobico adiacenti a regioni dal carattere idrofilico; la man-
canza di una segregazione netta tra regioni a differenti natura conferisce a tali com-
posti un comportamento meno spiccato di anfifilicità, ma caratteristiche peculiari
all’interno della categoria dei composti anfifilici.
La varietà struttura degli aggregati molecolari dei composti molecolari, mostrata in figura
8.1.1, è legata alla struttura delle singole molecole anfifiliche e dalle condizioni ambientali;
in particolare, il passaggio da una ad un’altra struttura è attuabile cambiando l’ambiente in
cui le strutture sono immerse (pH, forza ionica, ecc...).

8.1.1. La tensione superficiale e i tensioattivi. La tensione superficiale è una caratte-


ristica della superficie dei liquidi, che la rende simile ad un lenzuolo; tale forza, che tiene
coese le molecole di liquido a contatto con la fase gassosa (tipicamente aria), è responsabile
di alcuni fenomeni ( di equilibrio meccanico metastabile) come la possibilità di alcuni insetti
di muoversi sull’acqua e di galleggiamento di monete o oggetti metallici sottili (vedi figura)
La tensione superficiale è generata dall’attrazione tra molecole del liquido in corrisponden-
za della superficie di separazione (interfaccia) con l’aria. Infatti, le molecole d’acqua nella
massa del liquido subiscono reciproca attrazione, ma essendo immerse in un ambiente con-
tinuo ed omogeneo, la risultante delle forze attrattive su ogni singola molecola è nulla. Al
contrario, le molecole d’acqua che si trovano nella regione di separazione con la fase gassosa
subiscono attrazione da parte delle molecole che sono nella massa del liquido, ma non su-
biscono un corrispettivo effetto da parte delle molecole d’aria. Quindi, tutte le molecole di
liquido che sono localizzate all’interfaccia sono soggette ad una forza diretta verso la mas-
sa del liquido, che è bilanciata solo dalla resistenza offerta dal liquido alla compressione;
la conseguenza è che il liquido tende a comprimersi il più possibile, in modo da offrire il
minimo di superficie esposta.
In altre parole, la tensione superficiale deriva dalla diversa natura delle due fasi delimitate
dalla superficie liquida; quanto più sono differenti dal punto di vista chimico le due fasi a
contatto, tanto più è elevata la tensione superficiale, che può essere vista anche come una
misura della diversità di natura tra la fase liquida (ad esempio, acquosa, quindi idrofilica)

168
F IGURE 8.1.2. In natura la tensione superficiale permette ad una moneta di
galleggiare e ad un insetto di camminare sull’acqua.

e quella gassosa (ad esempio aria, di natura prevalentemente idrofobica). Da questo punto
di vista, è molto bassa la tensione superficiale tra un liquido in equilibrio con un’atmosfe-
ra costituita dal suo solo vapore: in questo caso, la tensione superficiale è legata solo alla
differente complessità della fase liquida piuttosto che della fase gassosa.
Quando si aggiungono particolari composti anfifilici chiamati tensioattivi2 ad una soluzione
acquosa, la testa idrofila delle molecole si localizza nella fase acquosa, mentre le code non
polari sono orientate verso la fase gassosa, di natura prevalentemente non polare.
Di conseguenza, la superficie del liquido viene modificata in modo tale che la differenza
di energia tra le due fasi a contatto sia drasticamente ridotta, risultando automaticamente
in una notevole riduzione della tensione superficiale tra le due fasi. Per questo motivo, i
tensioattivi vengono ampiamente usati anche come molecole umettanti, per aumentare la
bagnabilità dei solidi da parte di liquidi.

8.2. Termodinamica dell’autoassociazione

Come visto ampiamente nel capitolo precedente, le molecole di composti anfifilici presenta-
no la tendenza a formare aggregati composti da un’unica classe di molecole; in questo caso,
si parla di autoassociazione o autoaggregazione, per distinguere il processo dall’aggregazione
di molecole appartenenti a più specie chimiche. Le forze che stabilizzano gli aggregati an-
fifilici sono forze cosiddette deboli (van der Waals, legami idrogeno, forze di dispersione),
in contrapposizione a legami più forti (covalenti o ionici) presenti all’interno di solidi ionici
o covalenti. Quando le molecole a carattere anfifilico vengono immerse in una soluzione
2Il termine tensioattivo deriva dall’inglese surfactant ed è una contrazione dell’espressione “surface active
agent”.

169
F IGURE 8.1.3. Le molecole di tensioattivo abbassano la tensione superficiale dell’acqua.

acquosa, la testa polare ha una forte affinità con l’ambiente polare, cioè le molecole d’acqua
coordinano facilmente la regione polare della molecola polare; al contrario, la coda non po-
lare ha una scarsa affinità con l’ambiente acquoso, per cui tende ad aggregarsi con regioni
analoghe appartenenti a molecole differenti. In questa maniera, si vengono a creare delle
strutture autoassociative, chiamate micelle, in cui le teste polare sono localizzate sulla super-
ficie, mentre le code non polari rimangono segregate nella parte interna dell’aggregato, in
cui sono escluse le molecole polari del solvente acquoso. Per questo motivo, gli aggregati di
composti anfifilici sono fortemente deformabili, hanno un comportamento analogo a quello
dei fluidi, e cambiano struttura se cambiano le condizioni ambientali. Per queste loro pecu-
liarità, si indicano con il termine di colloidi di associazione le soluzioni colloidali contenenti
composti anfifilici, per distinguerle dalle sospensioni di particelle solide e dalle soluzioni
di molecole rigide (per esempio, di DNA). Inoltre, la struttura degli aggregati può variare
drammaticamente da una forma all’altra, come mostrato in figura.
In particolare, se le molecole anfifiliche sono poste in un solvente fortemente non polare,
la struttura degli aggregati sferici può subire addirittura un’inversione: la coda idrofobica
rimane protesa nell’ambiente non polare, mentre le teste polari sono segregate all’interno,
creando un ambiente polare, che può anche fungere da carrier per composti polari (per
esempio, proteine). Tali strutture, in analogia con le analoghe formantesi in ambiente polare,
vengono chiamate micelle inverse.
Una delle caratteristiche più importanti dei sistemi contenenti molecole anfifiliche è che di-
verse proprietà chimico-fisiche di tali sistemi (pressione osmotica, torbidità, tensione super-
ficiale e conduttività elettrica, solo per citarne alcune) mostrano una discontinuità al variare
della concentrazione di tensioattivo (vedi figura).

170
F IGURE 8.2.1. Variazione di alcune proprietà chimico-fisiche al variare della
concentrazione di tensioattivo.

La concentrazione in corrispondenza della quale si verifica tale discontinuità viene indicata


come concentrazione critica micellare ( CMC, acronimo dell’inglese “critical micelle concentra-
tion”). In generale, tale concentrazione viene determinata come segue: le regioni al di sotto e
al di sopra della CMC mostrano due ben distinti andamenti; le curve che rappresentano tali
andamenti si intersecano in corrispondenza di una concentrazione che è definita operativa-
mente come concentrazione critica micellare. E’ evidente che le CMC misurate con diversi
metodi sono differenti, per cui è sempre opportuno corredare il valore della CMC misurata
con l’indicazione del metodo utilizzato per misurarla.
La discontinuità osservata nelle proprietà chimico-fisiche sperimentalmente misurate de-
nuncia la formazione di aggregati, e il fatto che la variazione sia così repentina è indice
della natura cooperativa delle forze che contribuiscono alla formazione degli aggregati di
molecole anfifiliche.
A concentrazioni superiori alla concentrazione critica micellare, si osserva che la concentra-
zione delle molecole monomeriche libere rimane sempre pari al valore della CMC, mentre
le molecole di tensioattivo aggiunte vanno a formare nuovi aggregati micellari.
La trattazione termodinamica degli equilibri di associazione che mostreremo di seguito fu
sviluppato Tanford ?, per descrivere la formazione di micelle, poi estesa alla formazione di
strutture più ampie e complesse, come doppi strati e vescicole.
Da un punto di vista assolutamente generale, l’aggregazione di molecole anfifiliche in mi-
celle è un esempio di formazione di un complesso molecolare; la natura cooperativa del

171
processo di micellizzazione rende possibile ridurre il numero di parametri necessari alla de-
scrizione del fenomeno, poiché è possibile schematizzarlo come una reazione reversibile del
tipo3:
K
(8.2.1) −
*
− AN
N A1 )

Se il sistema è ideale, la costante di equilibrio può essere espressa come:


Cmic ( N )
(8.2.2) KN = N
CA 1

dove Cmic ( N ) rappresenta la concentrazione molare di micelle (numero di moli di micelle


per unità di volume) considerate monodisperse di dimensione N, mentre C A1 è il numero di
molecole anfifiliche in forma monomerica libera, in equilibrio con gli aggregati micellari.
La concentrazione totale di molecole anfifiliche, in termini di numero di molecole anfifiliche
totali per unità di volume, è pari a:

(8.2.3) C AT = C A1 + N · Cmic ( N ) = C A1 + C̃ A N

dove C A1 rappresenta la concentrazione di singole molecole anfifiliche libere, in equilibrio


con gli aggregati di rango N, mentre C̃ A N = N · Cmic ( N ) rappresenta la concentrazione
molare delle singole molecole anfifiliche intrappolate nelle micelle. Di conseguenza, si può
riscrivere la 8.2.3 come:
C̃ A N
(8.2.4) KN = N
N · CA 1

CA C̃ A
Indicando con X1 = CAT1 e X N = CATN rispettivamente le frazioni di molecole presenti sotto
forma di monomeri e di aggregati di rango N, si trova che la frazione molare di micelle è
C (N)
pari a Xmic ( N ) = mic
CA = XNN , per cui la 8.2.4 diventa:
T

Xmic ( N ) XN
(8.2.5) KN = N
=
X1 N · X1N

Definiamo ∆G0N l’energia libera standard di Gibbs relativa al trasferimento di una singola
molecola anfifilica dalla soluzione acquosa ad una micella di dimensione N; l’energia as-
sociata alla formazione della micella di dimensione N sarà quindi pari a N · ∆G0N e, per la
legge di van’t Hoff:
∆G0N
(8.2.6) −N · ∆G0N
= RT · ln K N ⇒ ln X N = − N · + N · ln X1 + ln N
RT
Questa espressione rappresenta una vera e propria distribuzione dimensionale, ovvero uno
strumento che possa valutare la frazione e la dimensione degli aggregati presenti in so-
luzione, nota la dimensione, la temperatura e il ∆G0N della reazione di formazione delle

3Il numero N di molecole anfifiliche che costituiscono la singola micella viene indicato con il termine di rango
o numerosità dell’aggregato micellare.

172
micelle.

D’altro canto, la concentrazione C A1 rappresenta proprio la concentrazione delle molecole


singole libere in soluzione in equilibrio con gli aggregati, ovvero la concentrazione critica
micellare, per come è stata definita precedentemente.

La termodinamica di equilibrio impone che in un sistema di molecole che formano aggregati


in soluzione il potenziale chimico di tutte le molecole identiche ma presenti in aggregati di
diverso rango deve essere uguale; nel caso di formazione di un unico aggregato micellare a
partire da molecole singole, come schematizzato dall’espressione 8.2.1, si ha:

(8.2.7) µ1 = µ N

dove µ1 e µ N sono rispettivamente i potenziali chimici delle singole molecole anfifiliche nella
forma monomerica libera e nell’aggregato di rango N. Il potenziale chimico della micella è
pari alla somma dei contributi delle singole molecole che lo costituiscono, quindi

(8.2.8) µmic ( N ) = N · µ N

Se si esprimono i potenziali chimici in termini di uno stato di riferimento che condivida P e


T con quelli del sistema, la 8.2.8 si riscrive come:

(8.2.9) µ0mic + RT · ln Xmic = N · (µ01 + RT · ln X1 )


XN
ed essendo Xmic = N si trova:
1 X
(8.2.10) µ01 + RT · ln X1 = µ0N + · RT ln N
N N
µ0
dove µ0N = N mic
è il potenziale chimico di riferimento della singola molecola presente in un
aggregato di rango N.

Dalla 8.2.10 si trova:


( !) N
µ01 − µ0N
(8.2.11) XN = N · X1 · exp
RT
ed essendo X N = 1 − X1 per definizione, questa espressione può essere utilizzata, per
esempio, a partire da dati di concentrazione critica micellare X1 e da misure del grado di
µ0 − µ0
aggregazione N, per ricavare il valore di 1RT N ; al contrario, noto questo valore e il gra-
do di aggregazione, si può valutare la concentrazione critica micellare ad una determinata
temperatura.

Se µ01 = µ0N , la 8.2.11 diventa:

(8.2.12) X N = N · X1N

essendo X1 < 0, l’espressione 8.2.12 indica che, al crescere del rango dell’aggregato N, di-
minuisce la frazione di molecole presenti in aggregati di rango N, cioè è improbabile la
formazione di grossi aggregati, quindi la maggior parte delle molecole anfifiliche è presente

173
µ0 − µ0
sotto forma di monomeri. Se µ0N cresce al crescere di N (quindi 1RT N diminuisce al crescere
di N), la formazione di aggregati è ancora meno probabile che nel caso precedente.
Quindi, condizione necessaria e sufficiente affinché si formino degli aggregati micellari sta-
bili è che esista un intervallo, anche molto ristretto, di N in cui µ0N < µ01 , quindi che µ0N abbia
un andamento decrescente con N; in particolare, la forma delle varie strutture micellari è
determinata dalla forma funzionale di µ0N in funzione di N.

Riferimenti bibliografici.
T. Cosgrove, editor. Colloid Science: Principles, Methods and Applications. Blackwell Publishing,
2005.
A. T. Hubbard. Encyclopedia of Surface and Colloid Science. CRC Press, 2002.
J. N. Israelachvili. Intermolecular and Surface Forces. Academic Press, 1991.
J. Lyklema. Fundamentals of Interface and Colloid Science. Academic Press, 2000.

Esercizi.
(1) Descrivere il meccanismo mediante il quale i tensioattivi abbassano la tensione superficiale
dell’acqua. (7 luglio 2006) - La tensione superficiale dell’acqua deriva dalla differ-
ente natura dei due fluidi a contatto: acqua (polare) e aria (apolare). I tensioat-
tivi, che sono molecole anfifiliche, cioè possiedono regioni molecolari polari e non
polari, si orientano in modo tale che espongono la parte polare verso l’acqua e le
code idrofobiche verso l’aria. Questo comporta una grande diminuizione della dif-
ferenza tra la natura dei fluidi a contatto attraverso l’interfaccia, che si traduce in
una riduzione della tensione superficiale. In altri termini, più “poetici”, il tensioat-
tivo agisce da diplomatico tra due posizioni molto differenti, creando un terreno
comune d’incontro, che è rappresentato dall’interfaccia in cui si adsorbe.

174
Parte 2

Metodi sperimentali
CAPITOLO 9

Misure del peso molecolare di biopolimeri

9.1. Nozioni generali sui polimeri

I polimeri sono composti chimici risultanti dalla sintesi di unità strutturali semplici, detti
monomeri; più alto è il numero di monomeri contenuti nel polimero, più lunga sarà la catena
risultante.
La reazione di sintesi viene detta reazione di polimerizzazione; tale reazione, in linea generale,
può procedere in maniera indefinita, a meno che non intervenga un fattore di terminazione.
Affinchè i monomeri reagiscano tra di loro, essi devono possedere dei gruppi funzionali
attivi in grado di reagire tra di loro. Durante la reazione di polimerizzazione, si distinguono
tre fasi: la fase detta di inizio, nella quale l’azione di un catalizzatore (detto anche iniziatore
di catena) attiva una prima molecola di monomero, la fase detta di propagazione, nella quale
il polimero aumenta via via il suo peso molecolare, aggiungendo alla catena nuove molecole
alla prima molecola attivata, e la fase di terminazione, nella quale il processo di accrescimento
della catena polimerica si arresta.
Da un punto di vista chimico, la reazione di polimerizzazione può avvenire per policon-
densazione, ossia per unione dei monomeri con la formazione di sottoprodotti (solitamente
acqua) o per poliaddizione, ovvero senza formazione di prodotti secondari.
Nel caso in cui i monomeri non siano tutti uguali, ma differiscano tra di loro (è questo
il caso delle proteine e degli acidi nucleici), il composto risultante si chiama copolimero e
presenta delle caratteristiche più complesse rispetto al polimero costituito dalla ripetizione
di un singolo monomero, detto anche omopolimero.
La condizione necessaria per realizzare tali composti attraverso una reazione di copolimer-
izzazione è che, per ogni monomero, le condizioni e la velocità di tale reazione siano molto
simili.
In campo biologico, di notevole importanza sono i polielettroliti, i quali sono costituiti da
monomeri che possiedono dei gruppi funzionali polari e/o ionici.
A questi composti appartengono sia gli acidi nucleici che le proteine; come vedremo in se-
guito, la determinazione della carica per queste ultime rappresenta un passo fondamentale
per stabilire le condizioni separative e per interpretarne l’attività biologica.
In generale, quindi, i polimeri rappresentano una classe di composti che hanno delle carat-
teristiche molto diverse da quelle dei composti “semplici”; queste differenze sono dovute
essenzialmente alle forti differenze di dimensioni delle molecole polimeriche rispetto alle
altre molecole.

177
Le proprietà caratteristiche dei polimeri possono essere suddivise in due categorie: semplici
e distribuite. Le prime possono essere attribuite all’insieme di tutte le molecole polimeriche
e sono, per forza di cose, proprietà mediate o complessive relative all’intero insieme, come la
quantità totale di polimero presente, la quantità residua di monomero, il grado di polimer-
izzazione medio, e così via.
Le proprietà distribuite sono quelle, invece, descrittive dell’intera popolazione di polimeri;
infatti, quando viene innescata la reazione di polimerizzazione o nella sintesi biologica di
macromolecole funzionali, le molecole polimeriche risultanti sono eterogenee.
Le caratteristiche distribuite più importanti sono la distribuzione di peso molecolare, di
composizione, di lunghezza delle catene e di gruppi funzionali.

9.1.1. Caratteristiche principali di una distribuzione molecolare. Che cos’è una dis-
tribuzione? Come si definisce?
Consideriamo come esempio la lunghezza della catena polimerica, la distribuzione caratter-
istica si dice distribuzione dimensionale.
Di solito, le distribuzioni dimensionali vengono rappresentate con curve del genere (figura
1):
Il primo rettangolo indica che una frazione
f 1 delle molecole di polimero hanno dimen-
sione compresa tra 0 e l1 . Di queste curve
si possono avere anche delle “versioni” con-
tinue (figura 2), ottenute attraverso modelli
teorici o interpolazioni; in questo caso, la
f ( x ) localizzata in corrispondenza di un in-
tervallo infinitesimo compreso tra x e x +
dx, rappresenta la frazione di popolazione
la cui grandezza caratteristica è compresa
tra x e x + dx.
L’ampiezza della distribuzione relativa ad
una proprietà distribuita determina se un
polimero è eterogeneo o omogeneo rispetto
a tale caratteristica; se la distribuzione
rispetto ad una proprietà è ampia, significa
che tale proprietà assume molti valori per
la popolazione polimerica in esame, quindi
F IGURE 9.1.1. Distribuzione di-
tale polimero è da considerarsi eterogeneo
mensionale discreta
nei confronti di tale proprietà.
In base a questa classificazione, si possono definire:
 polimeri monodispersi: sono omogenei rispetto a tutte le proprietà distribuite (ad es-
empio, un omopolimero, con una distribuzione di peso molecolare molto stretta);

178
F IGURE 9.1.2. Distribuzione dimensionale continua.

 polimeri polidispersi: sono eterogenei rispetto ad una sola proprietà distribuita (ad
esempio, un omopolimero con un’ampia distribuzione di massa molecolare);
 polimeri complessi: che sono eterogenei rispetto a più di una proprietà distribuita.

Riassumendo in un’unica espressione, le differenti eterogeneità di una molecola polimerica


vengono chiamate complessivamente “eterogeneità molecolare”, includendo la distribuzione
di massa molecolare, di composizione chimica e di tipo funzionale.
Tutti questi aspetti contribuiscono a creare delle conformazioni molecolari ben precise.
Andiamo ad analizzare più in dettaglio le diverse fonti di eterogeneità, cioè le principali
distribuzioni di proprietà di sistemi polimerici.
9.1.1.1. Distribuzione di peso molecolare. Il peso molecolare è la più importante caratteris-
tica di una molecola. I composti a basso peso molecolare e i biopolimeri1 generalmente sono
monodispersi rispetto al peso molecolare.
In generale, il grado di polimerizzazione P è dato dal rapporto tra il peso molecolare del
polimero M e quella del monomero M0 :
M
(9.1.1) P=
M0

1Per quanto riguarda le proteine, esse danno luogo, in soluzione acquosa, ad equilibri di oligomerizzazione
o di autoaggregazione, per cui, sebbene come molecole singole mostrino un’elevata omogeneità nei confronti
della distribuzione di peso molecolare, tuttavia, sotto forma di aggregati possono avere una distribuzione di
peso molecolare anche piuttosto ampia.

179
Questo valore e quello del peso molecolare vengono mediati sull’intera popolazione di
molecole polimeriche. Tali medie possono essere fatte in modo differente e dare, quindi,
valori differenti a seconda del metodo di valutazione :
(1) peso molecolare medio M̄: (tout court) rappresenta la media dove il peso gi è pari
alla frazione di molecole di polimero che hanno peso molecolare Mi :
∑ i f i Mi
(9.1.2) M̄ =
∑i f i
= ∑ f i Mi
i

(2) peso molecolare mediato sul numero Mn : in questo caso gi = ni , dove ni è il numero
di moli della specie con peso molecolare Mi :
∑ i n i Mi
(9.1.3) Mn = = Pn M0
∑i ni
dove Pn è il grado di polimerizzazione mediato sul numero;
(3) peso molecolare mediato sul peso: in questo caso, gi = wi , dove wi è il peso della
specie con peso molecolare Mi :
∑ i w i Mi
(9.1.4) Mw = = Pw M0
∑ i wi
dove PW è il grado di polimerizzazione mediato sul peso.
La differenza tra Mn ed Mw fornisce un’idea dell’ampiezza della distribuzione di peso moleco-
lare; in particolare, quanto più ampia è la distribuzione, tanto più grande è la differenza tra
Mn e MW ; il rapporto MW /Mn è una misura della dispersione del peso molecolare; viene
definita polidispersione U:
MW
(9.1.5) U= −1
Mn
9.1.1.2. Distribuzione della composizione chimica. Questa caratteristica è, ovviamente, rela-
tiva solo ai composti eterogenei, cioè ai copolimeri.
Questa distribuzione è molto più difficile da definire di quella relativa alle dimensioni moleco-
lari, soprattutto quando le unità monomeriche sono due o più.
Tuttavia, attraverso le tecniche cromatografiche si può fare un’indicazione indiretta della
eterogeneità chimica, che comporta anche un’eterogeneità strutturale e di caratteristiche
chimiche superficiali della molecola che possono essere utilizzate nelle tecniche analitiche.
Questo discorso vale anche per l’eterogeneità dei gruppi funzionali, che trovano un’ulteriore
possibilità di individuazione nelle tecniche che utilizzano analiti con interazioni specifiche
con i gruppi funzionali (cromatografia per affinità).

180
CHAPTER 10

Metodi cromatografici

10.1. Introduzione

La cromatografia è una tecnica analitica basata sulle differenti affinità che mostrano i com-
ponenti una miscela nei confronti di due diverse fasi in equilibrio.
Sebbene alcune ricerche svolte nella seconda parte dell’800 possano essere definite come el-
ementi precursori della cromatografia, è stato stabilito che la tecnica venne sviluppata per la
prima volta da S. M. Tsweet, un botanico russo, per separare ed isolare dei pigmenti vegetali,
nel 1903. Tsweet coniò anche il nome per tale tecnica, che deriva da parole greche dal signi-
ficato “scrittura mediante colore”, in riferimento alle bande delle differenti sostanze colorate
che egli riuscì a separare su colonne riempite con polvere di gesso. Tuttavia, questo metodo
non si limitava, già nell’intenzione di Tsweet, alla risoluzione di sole sostanze colorate.
Successivamente, negli anni 60, è stata sviluppata la moderna cromatografia in fase liquida
ad elevate prestazioni (HPLC).
La definizione data dalla UPAC è la seguente: “La cromatografia è un metodo fisico di
separazione in cui i componenti da separare si distribuiscono tra due fasi, una fissa (fase
stazionaria), mentra l’altra (fase mobile) si muove in una determinata direzione.” La sepa-
razione, quindi, è dovuta alla differenza nei coefficienti di distribuzione dei singoli compo-
nenti del campione tra le due fasi.
Il letto stazionario può essere costituito dal riempimento di una colonna, oppure formare
uno strato; la fase mobile può essere gassosa (cromatografia in fase gassosa o gascromatografia)
o liquida (cromatografia in fase liquida).
Inoltre, la cromatografia può essere realizzata su diversi supporti: nella cromatografia su
strato sottile e su carta, la fase stazionaria si presenta sotto forma di strato (cromatografia
piana o su strato sottile), mentre nella cromatografia su colonna, essa costituisce il riempimento
di un tubo di diametro appropriato.
In relazione alla cromatografia liquida su colonna, essa può essere classificata in base alla
natura della fase stazionaria e al fenomeno chimico fisico di separazione; in questo modo, si
individuano quattro categorie:

 cromatografia di adsorbimento: nella quale la fase stazionaria è un mezzo adsorbente, e


la separazione e basata su di una serie di processi di adsorbimento e desorbimento;
 cromatografia di ripartizione: nella quale la separazione non è basata sull’ adsorbi-
mento, ma sulla ripartizione tra le fasi mobile e stazionaria, anch’essa liquida;

181
F IGURE 10.1.1. Risoluzione dei componenti della clorofilla mediante cro-
matografia su strato sottile.

F IGURE 10.1.2. Rappresentazione dei diversi tipi di cromatografia.

 cromatografia di scambio ionico: nella quale il letto stazionario reca una superficie ioni-
camente carica, di carica opposta a quella dei composti contenuti nella fase mobile;
questa tecnica è impiegata esclusivamente per composti ionici (cariche unitarie) o
polari (cariche frazionarie); quanto più elevata è la carica della molecola, tanto più
essa verrà attratta dalla superficie ionica della fase stazionaria e, pertanto, tanto più
lungo sarà il suo tempo di ritenzione. La fase mobile è un tampone acquoso, il cui
pH e forza ionica sono regolati per controllare il tempo di eluizione in colonna;
 cromatografia di esclusione dimensionale, nella quale la colonna è riempita con un ma-
teriale avente pori di dimensioni controllate, i composti vengono semplicemente fil-
trati in funzione delle differenti dimensioni molecolari; questa tecnica, soprattutto
per motivi di ordine storico, viene anche detta cromatografia su gel.

182
In relazione ai primi due casi, spesso non è molto chiaro se il processo dominante sia l’adsorbimeno
o la ripartizione, o se entrambi i fenomeni abbiano un peso confrontabile.
Per questo motivo, si utilizza spesso una definizione che tiene conto della polarità relativa
delle due fasi: cromatografia a fase normale o a fase inversa.
 Cromatografia a fase normale: il letto stazionario è di natura fortemente polare (ad
esempio, silice) e la fase mobile è non polare (ad esempio, n-esano); i composti polari
sono quindi ritenuti nella colonna per tempi più lunghi dei campioni non polari o
poco polari.
 Cromatografia a fase inversa: avviene esattamente il contrario, il letto stazionario ha
carattere non polare (idrocarburi), mentre la fase mobile è un liquido polare (acqua
od alcool, ad esempio); quanto più i composti sono di natura non polare, tanto più
saranno ritenuti.
La fase mobile può essere modificata in modo da regolare la sua polarità mediante l’aggiunta
di solventi di diversa polarità.

10.2. Teoria della ritenzione

Per ben comprendere i fenomeni implicati dalla ritenzione all’interno di una colonna cro-
matografica, servono degli elementi di base di termodinamica e fenomeni di trasporto.
Ai fini di questo corso, le indicazioni circa i fenomeni diffusivi saranno comunque molto
semplificati ed inseriti direttamente nella discussione circa l’efficienza delle colonne cro-
matografiche.
Per quanto riguarda le nozioni di termodinamica, è invece possibile dare una breve panoram-
ica dei concetti principali. In particolare, due sono i fenomeni termodinamici implicati nei
processi cromatografici: la partizione di un composto tra due fasi liquide in equilibrio tra di
loro e l’adsorbimento su una fase solida.
Per quanto riguarda i fenomeni di adsorbimento, ci si riferisca al capitolo sulle interazioni
tra proteine e superfici; l’equilibrio di ripartizione merita, invece, ulteriori approfondimenti.

10.2.1. Ripartizione di un soluto tra due fasi liquide in equilibrio: il coefficiente di


ripartizione. Consideriamo due fasi liquide α e β parzialmente o totalmente immiscibili
tra di loro; se ad esse aggiungiamo un soluto (liquido, gassoso o solido), a seconda della
quantità aggiunta si scioglierà parzialmente o totalmente e, in generale, si distribuirà in
maniera non uniforme tra le due fasi liquide.
Questo tipo di fenomento è impiegato ampiamente negli esperimenti di chimica organica:
un esempio classico è l’uso dei dietiletere, praticamente immiscibile con l’acqua, per estrarre
prodotti di reazioni da soluzioni acquose.
La distribuzione di un soluto tra fasi liquide coesistenti ha un importante utilizzo industri-
ale nelle procedure di purificazione, come l’estrazione in fase liquida e la cromatografia di
partizione; inoltre, in campo farmaceutico, viene analizzata la distribuzione di farmaci tra i

183
F IGURE 10.2.1. Schema di separazione cromatografica

lipidi e i fluidi fisiologici e, infine, in campo ambientale, per determinare come un inquinante
si distribuisce tra aria, acqua e terreno.
I dati sperimentali di distribuzione di un soluto tra due fasi liquide sono forniti sotto forma
di un coefficiente di distribuzione, definito come:
[soluto ]α
(10.2.1) K=
[soluto ] β

Un’importante applicazione della distribuzione tra fasi solide, che c’interessa molto da vi-
cino è la cromatografia di ripartizione; in questa tecnica, un solvente contenente diversi so-
luti è messo a contatto con un altro solvente, che tipicamente è completamente immiscibile
con il primo solvente. Quando si stabilisce l’equilibrio, alcuni soluti sono più concentrati
nel primo solvente, altri nel secondo solvente. Se questo processo viene ripetuto più volte, è
possibile ottenere un buon grado di separazione dei diversi soluti.

10.2.2. Analisi del cromatogramma. Consideriamo un generico componente contenuto


nella fase mobile, l’andamento in uscita della concentrazione di questo componente nel
tempo è detto cromatogramma; questa curva ha lo scopo di fornire la quantità del com-
ponente in esame nella fase mobile.
Se il componente viene immesso ad impulso, il cromatogramma ha la forma mostrata in
figura 4:
La composizione in uscita può essere rappresentata in vari modi, facilmente intercambi-
abili: tempo-concentrazione, volume-concentrazione, lunghezza-concentrazione, volume-
assorbanza. E’ molto comoda la rappresentazione volume-concentrazione, in quanto for-
nisce direttamente la quantità di eluente necessare per operare una certa separazione cro-
matografica.

184
Uno dei composti sempre presenti nella miscela da analizzare è un tracciante inerte (cioè
un composto che può essere individuato analiticamente, ma che non interagisce con la fase
stazionaria, quindi non viene assolutamente ritenuto dal solido); il tempo di uscita t0 dalla
colonna del cromatogramma di questo componente (detto, in generale, tempo di ritenzione)
è minimo e viene utilizzato come riferimento e per caratterizzare la colonna. Se al posto
di un tracciante inerte viene immesso in colonna un campione di una sostanza in grado
di interagire con la fase stazionaria, la ritenzione rallenta il composto nella sua corsa verso
l’uscita, rispetto a quella di un componente non ritenuto, quindi il tempo di attraversamento
t R sarà maggiore di t0 .
Si definisce fattore di ritenzione il rapporto:
t R − t0
(10.2.2) k=
t0

Un componente non ritenuto passa il suo tempo di attraversamento interamente nella fase
mobile, senza mai sostare nella fase stazionaria; al contrario, un componente ritenuto, oltre
a muoversi insieme alla fase mobile, in altri momenti può, invece, fissarsi sulla superficie
della fase stazionaria; quindi, t0 = t M e t R − t0 = tS , dove t M è il tempo che ogni compo-
nente passa in fase mobile, mentre tS è il tempo che la molecola in esame passa nella fase
stazionaria; quindi, il fattore di ritenzione si può anche riscrivere come k = tS /t M . Analoga-
mente, si trova k = NS /NM , dove NS ed NM sono, rispettivamente, le molecole dell’analita
presenti in fase stazionaria e mobile, rispettivamente.
Se la colonna cromatografica ha una lunghezza pari ad L, si possono definire le velocità
medie d’attraversamento, rispettivamente, del composto non ritenuto e ritenuto:
L
(10.2.3) u0 =
t0
e

L
(10.2.4) uR =
tR
tR
da cui si ricava, per il fattore di ritenzione, k = t0 − 1.
Spesso conviene lavorare con i volumi invece che con i tempi di ritenzione; indicando con v
la portata volumetrica trattata nel reattore, per i volumi di ritenzione si trova:

(10.2.5) VR = t R v

per il volume di ritenzione dell’analita ritenuto, e

(10.2.6) VM = t0 v

per il volume di ritenzione del composto ritenuto, ovvero della fase mobile.
Si trova facilmente che VR = t0 (1 + k )v = VM (1 + k ) = VM + kVM .

185
Per quanto riguarda l’interpretazione termodinamica del fattore di ritenzione, ricordiamo la
definizione del coefficiente di partizione
CS
(10.2.7) K=
CM

dove CS e C M sono, rispettivamente, le concentrazioni del componente non ritenuto in fase


stazionaria e in fase mobile. Indicando con VS e VM rispettivamente i volumi della fase
stazionaria e mobile contenuti nella colonna, e con β = VS /VM il loro rapporto, si può
scrivere:
C V
(10.2.8) k = S S = β·K
C M VM

Inoltre, tenendo conto che la costante di equilibrio di partizione K è legata alla temperatura
dalla ben nota relazione di van’t Hoff ∆G
RT = − ln K, sostituendo nella 10.2.8 si trova:
0

∆G0
(10.2.9) ln k = ln β −
RT
che fornisce la dipendenza teorica del fattore di ritenzione dalla temperatura assoluta T.
Infine, la ritenzione relativa è definita come il rapporto tra i fattori di ritenzione di due
diversi composti:
k2 K
(10.2.10) α2,1 = = 2
k1 K1

questo è un parametro puramente termodinamico; generalmente, si considerano i compo-


nenti in modo che α < 1, ponendo, cioè, a numeratore il fattore di ritenzione del composto
che viene maggiormente ritenuto.
Se il sistema è ben progettato, il picco corrispondente all’uscita di un generico componente
(ritenuto o meno) ha la forma tipica mostrata in figura 5.
Il picco “buono” è simmetrico, cioè il fronte e la coda del picco sono speculari; inoltre,
un’altra importante caratteristica che contraddistingue sistemi ben progettati è il fatto che i
picchi siano ben separati, cioè che essi non si intersechino. Questo permette non solo una
migliore e più precisa analisi qualitativa della composizione della miscela, ma anche una
migliore efficienza di separazione (i.e. selettività) nelle tecniche preparative.
Un altro parametro importante nel caratterizzare la ritenzione di un componente è il tempo
medio del picco, che può essere stimato, in generale e in prima approssimazione, pari al
massimo del picco. Tale valore è quello definito come tempo (o volume) di ritenzione del
componente.
Dalla figura 6 si possono evincere delle grandezze che rappresentano la bontà della sepa-
razione; ad esempio, è definita la varianza del picco, pari a
R∞ 2
2 0 cR( x )( x − L ) dx
(10.2.11) σ = ∞
0 c ( x ) dx

186
F IGURE 10.2.2. Parametri caratteristici di un picco cromatografico.

La varianza può essere calcolata per un singolo picco, ma è caratteristica per tutti gli al-
tri, dipendendo esclusivamente dalla fluidodinamica della colonna; approssimativamente,
l’ampiezza del picco w si trova una volta nota la varianza σ, secondo alcune relazioni ap-
prossimate (ad esempio, w(50%)=2.355σ). La separazione è migliore quanto più stretto è il
picco, quindi quanto minore è la varianza; inoltre, in cromatografia preparativa, il fatto che
il picco sia molto stretto è una vantaggio, in quanto si possono ottenere campioni di analita
il più concentrati possibile.

Un’altra caratteristica dei picchi che va valutata è la simmetricità; si può calcolare un fattore
di asimmetria AS a partire dai parametri t e f (vedi figura 6):

(10.2.12) AS = t/ f

Esso è una misura pratica della qualità di una colonna cromatografica: ampie code (o fronti)
possono intersecarsi tra di loro, quindi i picchi non risultano ben separati e l’analita, per
scopi preparativi, esce più diluito.

In base al fattore di asimmetria, è possibile stabilire un criterio per valutare la bontà della
separazione:

187


 AS = 1.0 − 1.5 eccellente

 AS = 1.2 accettabile


 AS = 2 inaccettabile
AS = 4 pessima

10.2.3. Efficienza di una colonna cromatografica. Quando la fase mobile contenenti i


componenti da separare si muove lungo la colonna, oltre alla migrazione differenziata dei
vari componenti (legata alla diversa affinità dei componenti per la fase stazionaria) si os-
serva anche un altro fenomeno rilevante: le diverse bande di concentrazione, oltre a sepa-
rarsi, in virtù della diversa ritenzione sulla fase stazionaria, tendono ad espandersi sempre
di più lungo la direzione assiale.
Ovviamente, questo aspetto è fortemente controproducente ai fini della separazione e può
influire in misura notevole sull’efficienza complessiva dell’operazione. Quello che si riscon-
tra sperimentalmente è che l’ampiezza del picco w (come visto, direttamente proporzionale

alla varianza σ) è proporzionale a L, mentre la distanza tra due picchi ∆ ∝ L.
Si definisce altezza equivalente di un piatto teorico (HETP)
dσ2 σ2
(10.2.13) H= =
dL L
infatti, essendo σ2 ∝ L, si trova che la derivata di σ rispetto ad L è costante e pari al rapporto
di queste due grandezze.
Una colonna è tanto più efficiente quanto più piccolo è H per ogni analita.
Assegnata una colonna di lunghezza L, il numero di piatti teorici ad esso corrispondente
sarà pari a
L L2
(10.2.14) N= = 2
H σ
H ed N forniscono una misura dell’efficienza di una colonna cromatografica mediante l’analisi
di un singolo picco, trascurando l’effetto di sovrapposizione con altri elementi presenti nella
soluzione trattata.
La risoluzione RS è un parametro che è in grado di misurare l’efficienza di separazione di
due composto; essa è definita come:
∆t R
(10.2.15) RS = 1
2 ( w1 + w2 )
In corrispondenza di RS ≥ 1, le bande di concentrazione sono ben separate.

10.2.4. Idrodinamica della cromatografia. Nei paragrafi precedenti, è stata valutata la


velocità lineare attraverso la colonna, pari a:
L
(10.2.16) u0 =
t0

188
questa definizione prescinde dall’effettivo percorso seguito dalla fase mobile attraverso il
riempimento presente all’interno della colonna.

La teoria idrodinamica della cromatografia è basata sull’assunzione che la fase mobile si


muova all’interno della colonna tramite un processo convettivo che interessa solo lo spazio
compreso tra le particelle sferiche che costituiscono la fase stazionaria, e che all’interno di
esse siano presenti pori in cui il liquido permea grazie ad un fenomeno esclusivamente dif-
fusivo: in altre parole, esso è stagnante nelle zone accessibili della fase stazionaria, con una
concentrazione che dipende dal coefficiente di diffusione dei singoli componenti la miscela e
dall’effettiva capacità delle molecole di penetrare nei pori (in funzione dell’ingombro sterico
che le caratterizza).

Indichiamo con Vi e con VP il volume libero totale presente tra le varie particelle di riempi-
mento (interparticellare) ed il volume libero totale presente all’interno dei pori (intraparti-
cellare), si possono definire due gradi di vuoto:
Vi + VP
(10.2.17) et =
VTOT

grado di vuoto totale e


Vi + VP
(10.2.18) ei =
VTOT

grado di vuoto interparticellare.

La velocità lineare si definisce in base all’area accessibile al flusso Ai = A TOT ei = ei πR2 ,


dove R è il raggio della sezione trasversale della colonna:
v
(10.2.19) ui =
ei πR2

questa è la definizione di velocità interstiziale, che può essere calcolata sperimentalmente


dal cromatogramma o da misure di grado di vuoto; si definisce anche una velocità superfi-
v
ciale uS = πR 2.

Si è visto precedentemente che l’efficacia della separazione cromatografica dipende dalla


dimensione effettiva della banda di soluto in uscita dalla colonna (che è rappresentabile
mediante il parametro H).

In realtà, l’efficienza della colonna dipende da molti fattori. Si distinguono i seguenti con-
tributi principali:

 diffusione ordinaria: la presenza di notevoli gradienti di concentrazione nella colonna


genera delle forze motrici che spingono le molecole di soluto a migrare da zone ad

189
alta concentrazione verso altre a basse concentrazioni1: questa diffusione avviene
fondamentalmente in direzione longitudinale rispetto alla colonna stessa;
 diffusione turbolenta: nel moto di attraversamento della colonna, in virtù della
presenza di canalicoli che circondano le particelle costituenti la fase stazionaria, le
molecole di soluto si possono muovere lungo direzioni differenti; per questo mo-
tivo, la banda si espande perchè alcune molecole seguiranno percorsi più lunghi e
tortuosi, mentre altre avranno tempi di percorrenza più brevi: la media di questi
tempi rappresenta il tempo di ritenzione medio;
 trasporto di materia nella fase mobile: quando le molecole si muovono nel fluido
contenuto all’interno dei pori della fase stazionaria, questi pori si comportano alla
stregua di tubi, le cui pareti hanno la capacità di rallentare le molecole nella fase
mobile;
 trasporto di materia nella fase mobile stagnante all’interno dei pori: questo fenomeno
è dovuto esclusivamente a cause diffusive, poichè il moto convettivo non ha in-
fluenza nei pori;
 trasporto di materia nella fase stazionaria: questo termine si riferisce al gradiente di
concentrazione presente nel film liquido a contatto con le pareti della fase stazionaria.

Sperimentalmente si trova l’andamento dell’HETP in funzione della velocità lineare mostrato


in figura 6.
Dal grafico si evince che esiste un punto di funzionamento ottimale, dettato dalle condizioni
fluidodinamiche del sistema; questa curva è stata correlata attraverso diverse espressioni,
tipicamente semiempiriche.
Una delle equazioni più famose, che si adattano bene a questo andamento sperimentale, è
l’equazione di Van Deemter:
B
(10.2.20) H = A+ + Cu
u
secondo questa equazione, l’HETP è costitutito da tre termini, ognuno dei quali è rappre-
sentativo di fenomeni differenti.
Il primo termine è indipendente dalla velocità lineare e dipende solo dalle caratteristiche
geometriche del sistema: questo termine ingloba il contributo della diffusione turbolenta e
delle caratteristiche di impaccamento della colonna.
Il secondo termine, direttamente proporzionale ad u1 , è legato alla diffusione in direzione
longitudinale.

1La diffusione avviene sempre nella direzione opposta a quella del gradiente di concentrazione, quindi, per
il flusso (che rappresenta la quantità di moli di un componente i-esimo generico che si spostano nell’unità di
tempo, per unità di superficie) si scrive come:
∂C
Ji,z = − Di
∂z
dove il coefficiente Di viene detto coefficiente di diffusione del componente i-esimo generico.

190
F IGURE 10.2.3. Andamento di H in funzione di u.

Il terzo membro, proporzionale ad u, tiene conto degli effetti di diffusione nelle particelle
che costituiscono la fase stazionaria e di cinetiche di assorbimento.

10.3. Progetto tecnologico dei sistemi di cromatografia in fase liquida

La tecnologia legata ai sistemi cromatografici ha avuto un notevole sviluppo negli ultimi


decenni; se si pensa ai primi rudimentali esperimenti di Tsweet, realizzati con pezzi di carta
o colonne di vetro riempite di gesso, e li si confronta con i moderni apparati per HPLC, si ha
un’immagine immediata della veloce progressione che ha avuto questa tecnica.
Tutto quello che è stato detto nei paragrafi precedenti è di fondamentale importanza per una
progettazione razionale dei sistemi cromatografici.

10.3.1. Criteri per il dimensionamento di una colonna cromatografica. La corretta pro-


gettazione di una colonna cromatografica richiede tre scelte fondamentali:

 la natura chimico-fisica del riempimento e della fase mobile;

191
 le dimensioni fisiche della colonna e la quantità di soluzione da trattare (scala ana-
litica o preparativa);
 l’idrodinamica adottata.
La scelta del riempimento riguarda sia le sue caratteristiche chimiche e l’eventuale inter-
azione con i vari componenti presenti nella miscela da analizzare e/o separare, sia quelle
fisiche, come dimensione e forma delle particelle e dimensione dei pori (ove presenti).
Le caratteristiche della colonna che possono essere scelte in base ai criteri progettuali sono
la lunghezza e il diametro.
L’unica scelta realmente indipendente è quella delle fasi stazionaria e mobile, fatta sulla base
di considerazioni di efficienza e costo; tutti gli altri fattori, invece, si influenzano a vicenda.
Come già visto, gli obiettivi di un processo cromatografico sono quelli di avere una sepa-
razione con un’elevata risoluzione, con un basso tempo di ritenzione e, possibilmente, con
basse perdite di carico ( per ridurre gli elevati costi di esercizio legati alla potenza necessaria
per il pompaggio dei liquidi all’interno delle colonne cromatografiche).
In generale, le perdite di carico influenzano direttamente la portata volumetrica trattata e,
quindi, il tempo di ritenzione; inoltre, all’aumentare della lunghezza della colonna e del

tempo di ritenzione, aumenta la risoluzione; infatti, RS ∝ L e t R ∝ L.
Per quanto riguarda le caratteristiche fisiche del riempimento, si osserva che RS ∝ √1 ;
dP
tuttavia, ∆p ∝ 1
d2P
, quindi le perdite di carico aumentano notevolmente al diminuire della
dimensione delle particelle e al conseguente aumento della risoluzione.
Quindi, dalla discussione precedente, si evince che i parametri di progetto, soggetti a scelta,
sono la lunghezza della colonna L e il diametro d P delle particelle che costituiscono il riem-
pimento.
Entro ragionevoli termini, il diametro della colonna non influenza l’efficienza della sepa-
razione cromatografica. Infatti, la presenza del riempimento fa sì che il flusso della fase
mobile non sia modificato sensibilmente dalle pareti dell’apparecchiatura.
E’ ovvio che nella cromatografia preparativa il diametro e, quindi, il volume della colonna
influenzano la produttività nel tempo. Tuttavia, l’efficienza della colonna può essere in-
fluenzata negativamente a causa di due fattori in fase di scale-up del processo:
(1) sovraccarico di volume: al crescere delle quantità iniettate in colonna, i picchi di-
ventano sempre più larghi;
(2) sovraccarico di massa: se si devono analizzare componenti in tracce, l’aumento della
massa iniettata può facilmente oscurare i risultati a causa delle impurezze presenti
nella fase mobile.

10.3.2. Sviluppo di un metodo cromatografico. La messa a punto di un metodo cro-


matografico può risultare, spesso, in una lunga serie di frustranti prove, in cui vengono
cambiati la composizione del solvente, il tipo di riempimento, le dimensioni della colonna.
Esistono, tuttavia, dei criteri che permettono di facilitare questa procedura di ottimizzazione.

192
La prima cosa da fare è scegliere opportunamente i possibili solventi da usare come fase
mobile; spesso, infatti, la fase mobile utilizzata in cromatografia liquida utilizza due o più
componenti come soluzione base. Se la composizione del solvente rimane costante durante
l’eluizione, essa si dice isocratica, mentre se varia la composizione di uno dei due com-
ponenti viene detta a gradiente. La scelta dei solventi tiene conto anche della tecnica cro-
matografica scelta e dei rivelatori disponibili. Un altro parametro importante di cui tener
conto è la solubilità del campione nel solvente scelto, che deve essere la più alta possibile: è,
infatti, da evitare che i componenti siano in concentrazione nella fase mobile maggiore della
corispondente concentrazione di saturazione.

A questo punto, bisogna stabilire se la cromatografia ha scopi analitici o preparativi; questa


scelta condiziona la concentrazione dei campione, la quale deve essere ottimizzata in fun-
zione della risposta del rivelatore.

Un altro accorgimento da avere è diluire il campione, se troppo viscoso, fino ad ottenere una
viscosità simile a quella della fase in colonna.

Il passo successivo nella scelta della fase mobile riguarda la selezione del tipo di separazione
più adatta. La prima considerazione da fase è sulla natura chimica dei composti da separare.

Ad esempio, la separazione dei composti ionici o polari da composti relativamente neutri


può essere eseguita nel migliore dei modi tramite scambio ionico; per questo tipo di sepa-
razione, il principale componente della fase mobile è l’acqua.

D’altro canto, la separazione di composti di peso molecolare molto differente (≥ 10%) può
essere eseguito attraverso una separazione cromatografica ad esclusione sterica; in questo
caso, la fase mobile non è condizionata dalle caratteristiche chimiche della fase stazionaria,
cioè non influenza le interazioni tra componenti presenti nella fase mobile e particelle che
costituiscono la fase stazionaria.

La scelta della fase mobile è anche legata al tipo di rivelatore usare, di cui parleremo succes-
sivamente.

Nella cromatografia in fase liquida, come già accennato precedentemente, è importante che
la fase mobile non contenga particelle in sospensione; per questo motivo, la soluzione da
analizzare deve essere filtrata prima di essere iniettata in colonna.

Solitamente, i sistemi di filtrazione sono piuttosto severi e spesso è necessario utilizzare


delle pompe per forzare i liquidi attraverso queste apparecchiature. La scelta della fase
stazionaria è strettamente legata al tipo di separazione adottata. La dimensione delle parti-
celle che costituiscono la fase stazionaria, come visto in precedenza, viene scelta operando
un compromesso tra costi operativi (perdite di carico) e risoluzione.

Le dimensioni della colonna (diametro e colonna) sono scelte in maniera indipendente, in


base ad alcune considerazioni che tengono conto delle specifiche del problema; per quanto
riguarda il diametro della colonna, esso dipende fortemente dal tipo di applicazione richiesto

193
al processo (analisi qualitativa, quantitatica, cromatografia preparativa), dal tipo di campi-
one (analiti presenti in tracce o ad elevate concentrazioni) e dal costo dei solventi utilizzati
per l’eluizione.
Ovviamente, se le portate volumetriche da trattare sono elevate, il volume della colonna
corrispondente sarà elevato; tuttavia, se la concentrazione dei componenti da analizzare è
molto bassa, un volume eccessivo può falsare completamente i risultati.
Al contrario, se lo scopo dell’operazione è quello di raccogliere le varie frazioni, si preferisce
disporre della maggiore quantità in peso possibile del campione.
Per quanto riguarda la lunghezza della colonna, si è già detto che essa è legata all’efficienza
della colonna stessa, attraverso il numero di piatti teorici; inoltre, la risoluzione aumenta
all’aumentare della lunghezza della colonna.
Infine, è da tenere in conto il fatto che spesso le colonne sono fornite in dimensioni stan-
dard, per cui, per realizzare una lunghezza che viene fuori dal calcolo di progetto effettuato
per ottenere una determinata separazione, è necessario collegare in serie più colonne; tale
collegamento, se fatto con accortezza, può essere eseguito senza un allargamento di banda
significativo.

10.4. Strumentazione per la cromatografia in fase liquida

I componenti fondamentali di un’apparecchiatura per cromatografia in fase liquida sono:


una pompa, per spingere il solvente utilizzato come fase mobile; un sistema di iniezione
del campione; una colonna per effettuare la separazione e un rivelatore per evidenziare la
separazione.

10.4.1. Pompe. Sono considerate i componenti più importanti di un sistema per cro-
matografia in fase liquida, elenchiamo i tipi più importanti:

(1) a flusso costante: sono le pompe più usate in cromatografia in fase liquida; esse
assicurano la stabilità della portata dell’eluente in colonna, che non dipende dalla
resistenza opposta al passaggio del flusso (che dipende dalla viscosità dell’eluente
e dalla permeabilità del riempimento cromatografico). Queste pompe garantiscono
la massima riproducibilità e accuratezza analitica, nelle più diverse condizioni di
lavoro;
(2) alternative (reciprocanti): queste pompe, che assicurano il flusso in un’unica di-
rezione sono costituite da un sistema rotante che invia la soluzione attraverso un
flusso pulsato; questa natura del flusso può nuocere sia dalla colonna, sia dall’efficienza
della separazione. E’, quindi, necessario per questi dispositivi un sistema di smorza-
mento delle pulsazioni.

10.4.2. Introduzione del campione. Nell’HPLC, il metodo di introduzione del campi-


one ha una notevole influenza sull’efficienza della separazione: se infatti, in fase di iniezione,

194
c’è un ampio allargamento delle bande, è impossibile, anche con le migliori colonne, avere
separazioni ad elevate risoluzioni.
Storicamente, il primo sistema è stato l’iniezione attraverso un setto; tuttavia, le specifiche
dei moderni sistemi, estremamente efficienti, sono molto rigide. Oggi si utilizzano valvole
ad iniezione studiate e realizzate per questo impiego specifico.
10.4.2.1. Introduzione mediante iniezione attraverso un setto. Questo sistema, molto simile a
quello usato in gascromatografia, è poco usato a causa di inconvenienti di non affidabilità e
riproducibilità dei risultati. Inoltre non può essere utilizzato ad alte pressioni.
10.4.2.2. Iniezione stopflow (a flusso interrotto). L’introduzione del campione viene effet-
tuata a flusso fermo e aprendo la colonna; il campione viene deposto in testa alla colonna.
Questo sistema si usava in passato, quando era necessario utilizzare pressioni elevate. E’
stato dismesso come metodo, in quanto lento e laborioso.
10.4.2.3. Iniezione mediante valvola. E’ il metodo più recente ed accurato, permette di
avere un’ottima riproducibilità dei dati.

10.4.3. Rivelatori. In passato, l’analisi quantitativa veniva effettuata tagliano la colonna


in sezioni ed analizzando i vari anelli; in alternativa, si raccoglievano le diverse frazioni
mano a mano che venivano eluite (tale sistema viene ancora utilizzato, previa un’analisi
quantitativa accurata, per scopi preparativi), che poi venivano analizzate separatamente.
Lo sviluppo di rivelatori in linea con la colonna cromatografica ha permesso un notevole
sviluppo della tecnica, soprattutto riguardo le applicazioni di separazione in scala industri-
ale.
Tuttavia, nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, non è ancora stato messo a punto
un rivelatore universale, semplice da usare, affidabile, sensibile a tutte le sostanze in tutti i
sistemi di fase mobile. Per questo motivo, in cromatografia in fase liquida, è necessario usare
più di un tipo di rivelatore.
10.4.3.1. Scelta del rivelatore. Il rivelatore più comunemente usato è uno spettrofotometro
UV, che funziona ad una lunghezza d’onda prefissata (per le proteine, 254 o 280 nm), ovvero
consente di selezionare la lunghezza d’onda in un fissato intervallo.
Se la natura e le proprietà del campione da separare sono note, è semplice stabilire il tipo di
rivelatore da usare e la lunghezza d’onda di lavoro: di solito, si sceglie la lunghezza d’onda
alla quale il campione presenta un massimo di assorbimento.
Al contrario, se del campione si sa poco, è necessario usare un rivelatore più versatile, come
i rivelatori a lunghezza d’onda variabile nell’ultravioletto lontano (210-190 nm) o i rivelatori
ad indice di rifrazione (R. I.).
Ciascuno di essi ha delle limitazioni: quelli FAR-UV necessitano di solventi particolari,
quelli ad alto indice di rifrazione hanno delle limitazioni ancora più restrittive, in quanto
non permettono di lavorare in gradiente e richiedono tempi molto lunghi ogni volta che
viene cambiata la composizione della miscela eluente.

195
Un altro punto da considerare riguarda le sensibilità richieste, soprattutto nel campo biochim-
ico e nelle analisi di medicina legale. Per queste esigenze molto particolari si usano spettro-
fotometri a fluorescenza, estremamente sensibili, e i rivelatori elettrochimici.

10.5. Tipi di cromatografia

In questo corso analizzaremo alcune delle tecniche cromatografiche maggiormente usate


in campo biomedico e soprattutto biotecnologico. In particolare, ci occuperemo della cro-
matografia ad esclusione sterica, a scambio ionico, a fase inversa e per affinità.

10.5.1. Cromatografia ad esclusione sterica. La cromatografia ad esclusione sterica (SEC


Size Exclusion Chromatography) è una tecnica adeguata a separare molecole aventi dimen-
sioni molecolari molto diverse tra di loro (>10%). Per questo motivo, questa tecnica è us-
ata soprattutto per separare biomacromolecole, soprattutto proteine, con peso e diametro
molecolare molto diversi tra di loro; il range di utilizzo è 107 ÷ 109 Da.
Questa tecnica viene utilizzata soprattutto con scopi analitici (non preparativi). E’ una tec-
nica molto sensibile ed ha il vantaggio di utilizzare sempre come solvente di eluizione lo
stesso solvente in cui sono disciolti gli analiti e il riempimento è poco costoso e completa-
mente rigenerabile.
La scarsa efficacia nel separare composti con differenze di dimensioni molecolari non elevate
è legata al meccanismo di funzionamento di tale tecnica. Il principio alla base è che, nel
passare attraverso il letto impaccato con particelle porose, i componenti in soluzione hanno
due possibilità: o sono più grandi della dimensione media dei pori e, quindi, sono costretti
a passare nello spazio interparticellare, oppure, al contrario, se la dimensione molecolare è
inferiore di quella dei pori, le molecole penetrano nei pori e si spostano con più difficoltà,
seguendo un percorso più tortuoso.
Quindi, i tempi di ritenzione sono più alti per molecole più piccole, ma è molto difficile
distinguere tra di loro molecole molto grandi o molto piccole.
Un’importante applicazione della SEC è la separazione di molecole proteiche contenute in
miscele complesse di diverse proteine. In questo caso, per aumentare la selettività e permet-
tere la separazione di molecole proteiche che differiscano di pochi amminoacidi, una tecnica
usuale è quella di operare la separazione di molecole proteiche denaturate, la cui struttura
molecolare, cioè, è completamente svolta, tipicamente a seguito dell’uso di agenti chimici
(uno dei solventi di eluizione in cui viene sciolto il campione più tipici è costituito da una
soluzione acquosa di urea concentrata).
In questo modo, la dimensione delle molecole denaturate corrisponde alla lunghezza delle
catene, che differisce da proteina a proteina, in funzione del numero di amminoacidi.
Un’altra applicazione notevole della SEC è la determinazione della distribuzione molecolare
di un polimero; in particolare, esistono delle proteine che oligomerizzano ed uno dei metodi
più usati per determinarne la corrispondente distribuizione molecolare è quella di effettuare
un’operazione di SEC.

196
10.5.2. Cromatografia a scambio ionico. La cromatografia a scambio ionico (IEC, Ionic
Exchange Chromatography) è una delle tecniche più usate in campo biomedico, ma soprat-
tutto in campo biotecnologico.
Essa si basa sulla diversa interazione di polielettroliti con la fase stazionaria, che ha dei
gruppi funzionali carichi; tale interazione è più o meno forte a seconda della qualità (positiva
o negativa) e dell’entità della carica portata dai polielettroliti.
Tipicamente, le biomacromolecole interessate sono ancora una volta le proteine, le quali soli-
tamente vengono trattate in condizioni severe, per cui le strutture molecolari sono, spesso,
parzialmente o totalmente denaturate.
Inoltre, essendo le cariche degli amminoacidi fortemente dipendenti dal pH, la separazione,
di conseguenza, dipende dal pH della fase eluente.
Le matrici per cromatografia a scambio ionico possono essere classificate in due categorie:
 a scambio cationico, se tendono ad attrarre molecole a cariche positive, che vanno a
dislocare cationi dalla superficie delle particelle porose, che risulta così essere carica
negativamente;
 a scambio anionico, se ritengono preferenzialmente anioni.
Un altro parametro che influenza la separazione (attraverso l’affinità dei componenti per
la matrice costituente la fase stazionaria) è la forza ionica. Infatti, a basse forze ioniche, le
interazioni tra composti ionici sono elevate; al contrario, per alte concentrazioni di sale, le
interazioni ioniche sono schermate, per cui le molecole sono meno legate alla fase stazionaria
e possono essere facilmente eluite.
Questo fenomeno è dovuto anche ad una competizione tra ioni salini e molecola polielettro-
litica per le zone cariche della matrice.
In questo senso, l’eluizione mediante soluzione salina è un’eluizione per dislocamento.
Per migliorare l’efficienza della separazione, tipicamente le eluizioni per separazioni a scam-
bio ionico sono a gradiente lineare di forza ionica.
Questo permette di modulare in maniera ancora più efficiente le interazioni fase mobile/stazionaria.
Una delle applicazioni più note è quella dell’analisi di amminoacidi, che veniva effettuata
mediante IEC soprattutto nel passato; attualmente, tale operazione viene effettuata pref-
erenzialmente mediante HPLC a fase inversa.
Attualmente è il metodo più usato per l’analisi di miscele di proteine ed acidi nucleici.

10.5.3. Cromatografia a fase inversa. Nella cromatografia in fase normale (NPC Normal
Phase Chromatography) la fase stazionaria è polare e la fase mobile è non polare.
Al contrario, nella cromatografia in fase inversa (RPC, Reverse Phase Chromatography), la
fase stazionaria è apolare e quella mobile polare. Una tipica fase stazionaria è costituita da
lunghe catene idrofobiche attaccate ad un supporto, mentre una tipica fase mobile è costi-
tuita da miscele di acqua o un tampone con solventi polari, come metanolo, acetonitrile o
tetraidrofurano.

197
La cromatografia a fase inversa è attualmente la tecnica HPLC più popolare. Circa il 90%
di tutte le separazioni analitiche di campioni a basso peso molecolare è condotta mediante
tecniche di HPLC a fase inversa. Per composti a peso molecolare intermedio, come peptidi
ed oligonucleotidi, essa ha ancora un ruolo rilevante, mentre è poco usata per l’analisi di
composti ad elevato peso molecolare (proteine e polimeri industriali).
La popolarità della tecnica di cromatografia a fase inversa è dovuta a due fatti:
 il principio di separazione è di facile comprensione;
 si possono ottenere buoni risultati per molti composti con pochi accorgimenti tec-
nici.
La ritenzione dei composti che vengono eluiti attraverso una colonna cromatografica dipende
dall’idrofobicità dei composti, che dipende dalle dimensioni dell’area superficiale idrofobica
dei composti stessi.
Quindi, la RP-HPLC è ideale per la separazione di composti appartenenti alla stessa se-
rie omologa (tipo polifenoli dalle foglia di vite); addirittura, è possibile prevedere apriori
l’ordine di eluizione degli analiti sulla base della loro struttura molecolare.
Per la maggior parte degli analiti si hanno forme per i picchi buone e tempi di eluizione
riproducibili.

10.5.4. Cromatografia per affinità. Il principio di separazione si basa sull’interazione


biospecifica o gruppo-specifica tra un ligando ed il soluto.
Data l’assoluta specificità delle interazioni, il sistema cromatografico (fase mobile/stazionaria)
viene scelto in base al composto da rimuovere ed analizzare.
In questo caso, sulla matrice vengono immobilizzati dei ligandi che interagiscono con molecola
bersaglio, che viene trattenuta all’interno della fase stazionaria a seguito della formazione
di un legame forte con il ligando immobilizzato.
Le altre tecniche cromatografiche fanno affidamento anch’esse sull’interazione più o meno
specifica ed intensa degli analiti con le particelle che costituiscono la fase stazionaria; nel
caso della cromatografia per affinità, però, l’interazione è fortemente specifica e spesso viene
realizzata attraverso legami biologicamente significativi (ad esempio, ligando-proteina).
Una volta che il componente viene chemiadsorbito sulla matrice recettiva, esso viene suc-
cessivamente eluito cambiando le condizioni della fase mobile, tipo pH o composizione, in
modo da indebolire il legame ligando-analita.
Una variante molto usata di tale tecnica, soprattutto nel campo della purificazione di enzimi,
è l’immunoadsorbimento.
In questo caso, l’interazione che viene utilizzata è quella antigene-anticorpo; in particolare,
una volta individuata la molecola bersaglio (antigene) viene creato l’anticorpo corrispon-
dente, che viene poi immobilizzato nella matrice solida, che costituisce la fase stazionaria.
Gli anticorpi sono i ligandi di migliore qualità, perchè non solo sono altamente specifici per
la sequenza di amminoacidi e l’organizzazione tridimensionale, ma comportano dei legami

198
con le molecole bersaglio molto forti. Virtualmente, il coefficiente di ritenzione dell’antigene
tende a ∞.

Glossario di cromatografia

 Analita: sostanza che deve essere separata mediante cromatografia.


 Cromatografia analitica: è utilizzata per determinare la presenza ed eventualmente
la concentrazione di uno o più analiti presenti in una soluzione liquida.
 Cromatogramma: è il risultato dell’operazione di cromatografia, messo sotto forma
di un diagramma su un piano cartesiano bidimensionale; sull’asse dell’ascisse viene
indicato il tempo dell’operazione o, in maniera equivalente, il volume di eluizione,
mentre sull’asse delle ordinate è indicato il segnale del rivelatore posizionato in
fondo alla colonna cromatografica.
 Cromatografo: apparecchio che consente di effettuare l’operazione di cromatografia;
può lavorare con correnti liquide (cromatografia in fase liquida) o gassose (gascro-
matografia).
 Eluente: fase mobile, che passa attraverso la colonna cromatografica.
 Fase mobile: fase fluida che si muove attraverso la colonna cromatografica, sec-
ondo una ben definita direzione: può essere liquida (cromatografia in fase liquida),
gassosa (gascromatografia) o supercritica (cromatografia supercritica). E’ costituita
dagli analiti che si vogliono separare od analizzare, ed un solvente, che trascina i
composti lungo la colonna.
 Cromatografia preparativa: è utilizzata per la separazione di uno o più componenti,
al fine di purificare tali sostanze, piuttosto che per eseguire un’analisi.
 Tempo di ritenzione: riferito ad ogni singolo analita presente nella fase mobile,
indica il tempo trascorso dall’analita nella colonna, indicato come media della dis-
tribuzione di concentrazione dell’analita stesso, ovvero come il massimo del picco
corrispondente al composto in esame.
 Fase stazionaria: sostanza che rimane fissa nello spazio durante la cromatografia;
può essere solida porosa (particelle porose - cromatografia in colonna - o strato
poroso sottile - cromatografia su carta o strato sottile).
 HPLC (High Performance Liquid Chromatography): cromatografia ad alta pres-
sione e prestazioni, che si basa sull’utilizzo di colonne di piccole dimensioni, che
realizzano operazioni di cromatografia tipicamente analitica, o micropreparativa, in
tempi e volumi ridotti.
 Colonna cromatografica: dispositivo cilindrico, realizzato in vetro, metallo o ma-
teriale polimerico, che contiene la fase stazionaria sotto forma di solido granulare
poroso. In testa alla colonna di solito è presente una precolonna, che serve a rimuo-
vere dalla fase mobile in ingresso eventuali particelle solide presenti come impurezze.

199
In fondo alla colonna viene posto un rivelatore, in grado di misurare la concen-
trazione degli analiti in uscita dalla colonna stessa e fornire il cromatogramma rap-
presentativo dell’operazione.
 Picco: termine che indica la distribuzione di concentrazione di un componente, pre-
sente come curva avente un massimo sul cromatogramma.

200
CHAPTER 11

Metodi spettrofotometrici per l’analisi di biopolimeri

11.1. Introduzione: l’interazione radiazione elettromagnetica - materia

I metodi spettroscopici sono largamente usati nello studio delle caratteristiche molecolari e
per l’analisi quantitativa di un gran numero di composti chimici.
Tali metodi si basano sull’interazione della radiazione elettromagnetica e la materia, costi-
tuita da molecole ed atomi che, in base alla teoria quantistica, possiedono solo determinati
livelli energetici, che sono, quindi, quantizzati.
Un primo approccio alla rappresentazione delle radiazioni elettromagnetiche si è avvalso
della teoria delle onde, e si basa sulla rappresentazione delle radiazioni sotto forma di onde
sinusoidali, che possono interagire tra di loro, dando luogo a fenomeni di interferenza; in
questa ottica, ogni radiazione elettromagnetica è caratterizzata, da una lunghezza d’onda
λ, che rappresenta la distanza tra due creste o due gole successive della rappresentazione
grafica della radiazione detta forma d’onda.

A
tempo o distanza

1
=

F IGURE 11.1.1. Forma d’onda di una radiazione elettromagnetica.

201
frequenza lunghezza d’onda
Onde radio < 3GHz > 10cm
Microonde 3GHz − 300GHz 10cm − 1mm
Infrarossi 300GHz − 428THz 1mm − 700mm
Luce visibile 428THz − 749PHz 700nm − 400nm
Ultravioletta 749THz − 30PHz 400nm − 10nm
Raggi X 30PHz − 300EHz 10nm − 1pm
Raggi gamma > 300EHz < 1pm
TABLE 1. Spettro elettromagnetico.

L’inverso della lunghezza d’onda ν̄ = λ1 è chiamato numero d’onda, e rappresenta il numero


di onde complete presenti nell’unità di lunghezza.
L’intervallo di tempo, invece, che intercorre tra il passaggio di due massimi o due minimi
dell’onda successivi, viene detto periodo, ed è indicato con T ; l’inverso del periodo ν = T1
viene chiamato frequenza, e solitamente si misura in hertz; un hertz corrisponde ad un ciclo
per secondo; infine, l’ampiezza dell’onda radiativa è rappresentata dal modulo del vettore
elettrico in corrispondenza del massimo della forma d’onda.
L’insieme delle radiazioni, a tutte le possibili frequenze, è detto spettro elettromagnetico.
Nel vuoto, la velocità della radiazione è massima e non dipende dalla lunghezza d’onda;
questo valore, che è anche una costante universale, è nota come velocità della luce, ed è pari
a c = 3 · 1010 cm/sec, ed è pari a c = ν · λ.
Quando una radiazione passa in un qualunque mezzo contenente materia (diverso, quindi,
dal vuoto), la propagazione della radiazione è diminuita: tale diminuizione è dovuta all’interazione
della radiazione con gli elettroni, gli atomi e gli ioni presenti nel mezzo stesso.
Una misura diretta di tale interazione è data dall’indice di rifrazione, definito come:
c
(11.1.1) ni =
vi
dove ni è l’indice di rifrazione ad una certa frequenza i, mentre vi è la velocità di propagazione
della radiazione nel mezzo in esame, e c è sempre la velocità di propagazione nel vuoto.
Poiché la frequenza dipende dalla sorgente di emissione, e rimane quindi invariata, deve
diminuire la lunghezza d’onda; in particolare, si esprime la seguente relazione in base al
numero d’onda:

(11.1.2) ν̄ = k · ν

dove k è l’inverso della velocità della radiazione nel mezzo in esame e dipende dal mezzo
stesso.
Infine, la potenza P della radiazione è l’energia del fascio che raggiunge una certa area per
secondo, mentre l’intensità I della radiazione è la potenza per unità di angolo solido.
In generale, l’effetto del passaggio di una radiazione elettromagnetica, ad esempio di natura
luminosa, passa attraverso un mezzo contenente particelle o molecole, è che la radiazione

202
viene attenuata; questo fenomeno si indica con il nome di estinzione, che è descritta come
una diminuizione esponenziale dell’intensità dell’onda luminosa nel passaggio attraverso il
mezzo. Per quanto riguarda l’intensità del segnale luminoso che è trasmesso attraverso il
mezzo, si ha la seguente espressione:

(11.1.3) IT = I0 · exp(−τ · l )

dove IT è l’intensità della luce trasmessa attraverso la soluzione, dopo aver attraversato
una distanza l nella soluzione, detta cammino ottico; τ è definita come la torbidità della
soluzione stessa; seguendo questa legge di attenuazione dell’intensità del fascio incidente,
si definisce un’ulteriore grandezza, detta trasmittanza:
IT
(11.1.4) T=
I0

La luce polarizzata di una certa lunghezza d’onda λ arriva sul campione da analizzare con
una certa intensità I0 ; supponiamo che le molecole che assorbono la luce all’interno del cam-
po abbiano concentrazione nel campione analizzato c. La parte della radiazione luminosa
che non è assorbita all’interno del campione ne riemerge con un’intensità IT < I0 . Tale va-
lore dell’intensità trasmessa attraverso il campione può essere valutata analiticamente nella
seguente maniera. Consideriamo un volume di spessore infinitesimo dl, tanto piccolo che
all’interno del volume si può ritenere l’intensità della luce costante e pari al valore riemesso
IT ; la quantità di luce assorbita da questo volume di soluzione si pone pari a −dI e la fra-
zione corrispondente sarà quindi pari a − dII e si suppone proporzionale allo spessore dello
strato dl e alla concentrazione c delle particelle assorbenti presenti in soluzione:
dI
(11.1.5) − = c · e0 · dx
I
Il termine e0 è detto coefficiente di estinzione molare: esso non dipende da c (che corrisponde
a ipotizzare assenza di interazioni tra le particelle o le molecole presenti in soluzione) e
contiene in sè la dipendenza dalla lunghezza d’onda del raggio incidente λ.

Se si integra l’espressione differenziale 11.1.5 sull’intero campione, cioè sull’intero percorso


del raggio luminoso l, detto anche cammino ottico, si trov
 
IT
(11.1.6) ln = c · e0 · l
I0
Convertendo in logaritmi decimali, otteniamo la nota legge di Lambert-Beer:
 
IT
(11.1.7) A(λ) = log10 = c · e(λ)·
I0
I due coefficienti d’estinzione nelle due espressioni 11.1.6 e 11.1.7 sono legati dalla relazione
e0
e = 2.303 e τ = 2.303 · A (λ).

La grandezza A(λ), detta anche densità ottica, viene più comunemente chiamata assorbanza;
generalmente, i valori di A che danno misure affidabili vanno da 0.1 a 2.

203
F IGURE 11.1.2. Rappresentazione schematica dell’assorbimento di un raggio
luminoso incidente da parte di una soluzione collodale ad una certa concen-
trazione c del composto colloidale.

Per composti macromolecolari, riveste grande interesse misurare lo spettro di differenza


rispetto al solvente (spettrofotometro a doppio raggio).

La legge 11.1.7 non è in generale più valida per concentrazioni elevate e per molecole forte-
mente interagenti le une con le altre.

L’estinzione è dovuta sia alla diffusione (o assorbimento secondario) che devia la luce inci-
dente dal percorso iniziale, sia dall’assorbimento “vero” (primario), che converte la luce in
altre forme di energia (ad esempio, termica), cioè, lo vediamo in termini di coefficiente di
estinzione:

(11.1.8) eext = eass + edi f f

questo tipo di ragionamento è valido per tutte le particelle, di qualsivoglia dimensione.

L’assorbimento primario è legato alla rimozione selettiva di alcune frequenze costituenti la


radiazione, a seguito dell’interazione della stessa radiazione con particolari orbitali elettron-
ici; gli elettroni presenti in tali orbitali, infatti, secondo la teoria quantistica, sono presenti
se indisturbati in uno stato energetico normale, a temperatura ambiente, e sono in grado di
effettuare delle transizioni a stati ad energia superiore se ottengono una precisa quantità di
energia, necessaria al salto. L’energia associata ad una radiazione, sempre secondo la teoria
quantistica, è legata alla lunghezza d’onda dalla relazione:
c
(11.1.9) E = h·ν = h·
λ
dove E è l’energia associata alla radiazione di frequenza ν e h è la costante di Plank.

204
F IGURE 11.1.3. Tipico schema di un apparecchio di spettrofotometria.

Quando una radiazione della giusta frequenza interagisce con un elettrone che necessita
proprio dell’energia associata alla radiazione stessa, l’elettrone abbandona lo stato fonda-
mentale a minima energia, e compie una transizione in uno stato eccitato. Tale fenomeno
produce un assorbimento specifico, ad una precisa lunghezza d’onda, della radiazione in-
cidente. L’entità di tale assorbimento dipende dal mezzo che la radiazione attraversa, e in
particolare, dalla densità degli elettroni capaci di compiere il salto energetico. Maggiore è
tale intensità, a parità di tutte le altre condizioni, maggiore è l’entità dell’assorbimento, cioè
lo smorzamento dell’intensità della radiazione incidente alla specifica lunghezza d’onda.

Uno dei parametri fondamentali per valutare il termine di diffusione è la dimensione delle
particelle che interagiscono con la radiazione luminosa. L’unità di misura per valutare la di-
mensione di tali oggetti è la lunghezza d’onda della radiazione incidente λ. Più in generale,
la dimensione si dice piccola se ha dimensioni molto inferiori a λ; a tal fine, si definisce il
parametro adimensionale α = 2πr λ , dove r è il raggio della particella.

Nella figura viene mostrato lo schema di un tipico apparecchio per misure spettrofotometri-
che, tipicamente a raggio singolo.

11.2. Analisi spettroscopica di biopolimeri

Ogni molecola assorbe la luce a certe lunghezze d’onda; comunque, per ogni fissata lun-
ghezza d’onda, alcuni gruppi chimici dominano lo spettro osservato. Tali gruppi, infatti,
sono caratterizzati da particolari legami chimici, ovvero da particolari orbitali di legame che
sono in grado di assorbire la luce ad una particolare lunghezza d’onda.

205
F IGURE 11.2.1. A livello atomico, gli elettroni in particolari orbitali atomici
sono in grado di assorbire la luce ad una particolare lunghezza d’onda e di
spostarsi in un orbitale a maggiore contenuto energetico; tale posizione vie-
ne mantenuta per un breve periodo di tempo, dopo di che l’elettrone ritorna
nell’orbitale di provenienza (stato fondamentale), riemettendo l’energia assor-
bita per la promozione energetica.

I gruppi chimici responsabili dell’assorbimento della luce a particolari lunghezze d’onda


vengono chiamati cromofori. Tipici cromofori per proteine ed acidi nucleici assorbono a lun-
ghezze d’onda inferiori ai 300 nm. I biopolimeri vengono analizzati tipicamente in soluzio-
ne acquosa, a pH prossimi a 7; in tali condizioni, non è possibile procedere con un’analisi
spettroscopica a lunghezze d’onda inferiori 170 nm (assorbimento da parte dei legami del-
le molecole d’acqua). Inoltre, per λ < 200 nm, inizia ad essere rilevante l’assorbimento da
parte di ioni salini presenti in soluzione (ad esempio, perclorati e fluoruri). Inoltre, essendo
l’acqua fortemente polare, le bande di assorbimento elettroniche sono più ampie che in altri
solventi.
Un ulteriore vincolo è la temperatura di utilizzo delle soluzioni acquose, che deve rimanere
nella finestra di liquidità dell’acqua.

11.2.1. Gruppi cromofori nelle proteine. I tipici gruppi cromofori per le proteine sono:

(1) il legame peptidico;


(2) i residui amminoacidici;
(3) i gruppi prostetici.

Per quanto riguarda il primo gruppo, le bande di assorbimento del legame peptidico sono
localizzate intorno a 210 − 220 nm, nel ultravioletto prossimo; nel campo dell’ultravioletto
lontano, altre bande (che corrispondono a particolari transizioni strutturali delle molecole
proteiche) si riscontrano a 190 − 175 nm.
Molti amminoacidi (tra cui Asp, Glu, Asn, Gln, Arg, His) presentano transizioni elettroniche
nella stessa regressione dello spettro in cui si verifica forte assorbimento da parte del legame

206
peptidico, pertanto non sono utilizzabili come gruppi cromofori per l’analisi spettroscopica
di soluzioni proteiche, avendo, inoltre, un basso assorbimento specifico rispetto a quello del
legame peptidico stesso.
In definitiva, la regione adatta per l’uso degli amminoacidi nell’analisi spettrale è 230 −
300 nm, nel vicino ultravioletto; gli amminoacidi che assorbono in maniera specifica in que-
sto intervallo sono gli amminoacidi aromatici - tirosina, triptofano e fenilalanina - e altri due
residui, istidina e cisteina. In generale, sono proprio gli amminoacidi aromatici che sono
utilizzati più frequentemente nell’analisi spettrale.
L’assorbività molare di questi amminoacidi dipende fortemente dall’ambiente in cui sono
immersi e da quanto sono esposti all’ambiente esterno nella struttura proteica.
Praticamente, l’assorbività molare delle proteine, che sono, come visto in precedenze, dei
polimeri dalla struttura complessa, derivanti dalla condensazione di amminoacidi, si deter-
mina con metodi simili a quelli utilizzati per le molecole più semplici, ad esempio gli stessi
amminoacidi.
In pratica, la procedura consiste nei seguenti passi successivi:
(1) si preparano delle soluzioni proteiche contenenti il composto proteico in esame, a
concentrazione nota: molta attenzione deve essere portata affinché la soluzione sia
limpida, che non siano presenti particelle solide del composto proteico, o di altra
natura ( si consiglia di procedere alla dissoluzione di quantità di proteina tali da
ottenere concentrazioni finali molto lontane dal punto di saturazione del composto
proteico nel solvente utilizzato);
(2) si misurano le assorbanze ad una lunghezza d’onda nota1 dei diversi campioni a
composizione nota: nel campo di validità della legge di Lambert-Beer, se la proce-
dura di preparazione delle soluzioni è stata condotta in maniera corretta, i punti cor-
rispondenti alle misure (c, A) si disporranno lungo una retta passante per l’origine;
(3) il coefficiente angolare della retta corrisponderà, secondo la 11.1.7, al prodotto dell’assorbività
molare e (λ) per il cammino ottico x e rappresenta il cosiddetto coefficiente d’estinzione
della proteina, a quei determinati lunghezza d’onda e cammino ottico.

11.2.2. Assorbimento secondario: la diffusione. Nel caso di composti biopolimerici, la


maggiore causa di assorbimento non specifico è legato all’interazione delle grosse strutture
molecolari con la radiazione che attraversa la materia.
In generale, si distinguono tre tipi differenti di dispersione:
(1) Rayleigh: si riferisce all’interazione di un’onda elettromagnetica con particelle di
dimensioni ridotte (ridotto rapporto r g /λ);
(2) interazione con particelle di dimensioni moderate e grandi: nel campo di dimen-
sioni colloidali, la diffusione diventa sufficientemente intensa da essere visibile ad
occhio nudo (effetto Tyndall); le misure di radiazione diffusa, in questo caso, sono
1Nel caso delle proteine, la lunghezza d’onda più utilizzata è di 280 nm, che corrisponde alla media dei massimi
dello spettro di assorbimento dei principali gruppi cromofori di tali composto, nel campo dell’UV.

207
determinanti per individuare caratteristiche strutturali (dimensioni e fattori di forma)
delle particelle in soluzione e, con particolari tecniche, che verranno illustrate di se-
guito, anche le interazioni intermolecolari tra particelle;
(3) Raman: in questo caso, a differenza delle situazioni di diffusione semplice già anal-
izzate, la radiazione diffusa subisce variazioni (quantizzate) di frequenza, che sono
il risultato di variazioni di livelli energetici vibrazionali delle molecole sollecitate
dalla radiazione che investe il mezzo.

Le diverse modalità di diffusione consentono di utilizzare diversi strumenti spettroscopici


per la rilevazione della percentuale di radiazione diffusa, o lo stesso strumento ottico con
procedure di raccolta ed analisi dei dati.
In generale, i metodi di studio della diffusione della luce (in inglese light scattering) si divi-
dono in due categorie principali:

(1) static o Rayleigh light scattering (SLS): fornisce informazioni circa il peso molecolare,
il raggio d’inerzia molecolare e il secondo coefficiente viriale osmotico per particelle
colloidali in soluzione;
(2) dynamic light scattering (DLS): serve per valutare la velocità di diffusione delle par-
ticelle in soluzione, che serve per valutare il raggio idrodinamico di Stokes delle
particelle, che include informazioni circa la dimensione e la forma delle particelle
stesse.

Per quanto riguarda specificamente il campo della termodinamica molecolare, grande im-
portanza riveste la prima classe di metodi, che forniscono informazioni sulla conformazione
e sul campo di interazioni riguardanti le particelle in soluzione, che provocano diffusione.
Come esempio, viene mostrato un metodo che consente di utilizzare dei dati ottenuti me-
diante un comune spettrofotometro UV-visibile, per la determinazione della radiazione dif-
fusa, dalla quale si possono ricavare interessanti parametri molecolari.
In generale, la relazione che permette di valutare la torbidità in base alla misura dell’intensità
del raggio diffuso I è data dall’espressione di Debye-Cashin:
I · π · r2
  Z π
(11.2.1) τ= · P (θ ) · (1 + cos 2θ ) sin 2θ dθ
I0 · V 0

dove r è la distanza dal punto di osservazione, I0 è l’intensità della radiazione polarizzata


incidente, con una certa lunghezza d’onda λ, I è l’intensità diffusa, θ è l’angolo a cui viene
misurato il raggio diffuso, P (θ ) è un fattore di forma. Questa espressione generale viene
integrata, apportando le opportune approssimazioni semplificative, per vari valori di r g /λ.
Nel caso di particelle le cui dimensioni siano ridotte rispetto alla lunghezza d’onda della
radiazione incidente (r g /λ < 20), l’integrazione della 11.2.1 porta alla:
 2
32 · M · π 3 n2o · ∂n
∂c
(11.2.2) τ=
3 · N ( λ4 + A D 2 · λ2 )

208
dove M è il peso molecolare del composto chimico che costituisce le particelle in sospen-
sione, c è la concentrazione delle particelle in sospensione, n0 è l’indice di rifrazione del
solvente in cui sono sospese le particelle, ∂n
∂c è l’incremento dell’indice di rifrazione del sol-
vente a cui siano state aggiunte le particelle colloidali in esame, N è il numero di Avogadro,
A è un fattore di forma, che è pari a 6.056 per le particelle sferiche, D è il diametro delle
particelle presenti nella soluzione analizzata.
τ è la torbidità della soluzione, che è pari, come visto a 2.303 · A, dove A è l’assorbanza
misurata ad una lunghezza d’onda in cui non siano presenti assorbimenti specifici.
L’espressione 11.2.2 rappresenta un utile strumento per la determinazione del diametro
molecolare D e del peso molecolare M delle specie diffondenti; infatti, tale espressione può
essere riorganizzata nella forma:
1 λ2 β
(11.2.3) 2
= +
τλ α α
questa espressione può essere utilizzata misurando la torbidità al variare della lunghezza
2
32· M·π 3 n2o ·( ∂n
∂c )
d’onda; α = 3·N e β = AD2 sono delle costanti al variare della lunghezza d’onda,
supponendo che nell’intervallo di lunghezze d’onda analizzate si possano trascurare le vari-
azioni dell’indice di rifrazione e la variazione dello stesso con la concentrazione.
Per una soluzione diluita di particelle di dimensioni ridotte rispetto alla lunghezza d’onda,
ogni singola particella può essere considerata una sorgente singola di diffusione della luce;
al contrario, nel caso di particelle di dimensioni superiori, confrontabili con la lunghezza
d’onda della radiazione incidente, l’ipotesi fatta per le particelle piccole non è più valida.
Infatti, in questo secondo caso, regioni differenti di ogni singola particella diffondono in-
dipendentemente la radiazione; di conseguenza, possono insorgere fenomeni di interferenza
tra diverse radiazioni diffuse dalla stessa singola particella.
Per descrivere questo effetto, quindi, si introduce una funzione P (ϑ ), noto come fattore di
forma:
intensità diffusa da particelle grandi
(11.2.4) P (ϑ ) =
intensità diffusa senza interferenza
dove ϑ è l’angolo di misura della radiazione diffusa.
In generale P (ϑ ) è molto piccolo ( 1) per valori di ϑ grandi, ed aumenta al diminuire di ϑ,
fino a diventare pari ad 1 per ϑ = 0°.
Attraverso gli strumenti di misura della radiazione diffusa, di solito si ricavano, a diversi ϑ,
valori del rapporto di Rayleigh, definito come:
Iϑ r2
(11.2.5) Rϑ = ·
I0 V
Quando si misura l’entità della diffusione della luce da parte di una soluzione, costituita da
un solvente e da un soluto, è più conveniente utilizzare un rapporto di Rayleigh di eccesso,

209
definito come:
2
Iϑ − Iϑ0
(11.2.6) R̄ϑ =
I0 V
dove Iϑ0 è l’entità della luce diffusa dal solo solvente.
I dati ottenuti mediante esperimenti di SLS possono essere utilizzati per ricavare parametri
molecolari attraverso l’espressione:
K·c 1
(11.2.7) = +2Bc
R̄ϑ Mw · P ( ϑ )
 2
dove c è la concentrazione di soluto, K = 4 π 2 n20 ∂n
∂c λ−4 N −1 è una costante ottica e
T,P
Mw è il peso molecolare del soluto; B è, infine, il secondo coefficiente viriale osmotico.
Questa espressione, che viene costruita a partire dall’ipotesi che la radiazione incidente sia
polarizzata verticalmente, è la base dei diagrammi bilineari di Zimm ( R̄ϑ = f (ϑ, c), che per-
mettono l’analisi dei dati di SLS per ricavare i parametri molecolari indicati (peso molecolare
e secondo coefficiente viriale osmotico.
L’espressione 11.2.7 contiene tutti i termini che possono intervenire nel caso di diffusione
della luce da parte di particelle colloidali, cioè è presente un termine che tiene conto delle
dimensioni relative delle particelle rispetto alla lunghezza d’onda e dell’angolo di misura
(P (ϑ )) e un ulteriore termine che include gli effetti delle interazioni interparticelle, a mod-
erate concentrazioni (B secondo coefficiente viriale osmotico, nell’ipotesi di un’espansione
viriale della pressione osmotica troncata al secondo ordine.
Il fattore di forma P (ϑ ) può essere
D Eespresso in termini dell’angolo di misura ϑ e del raggio
di girazione quadratico medio r2g e, quindi, la 11.2.7 può essere riscritta come:

K·c 16 π 2 D 2 E
    
1 2 ϑ
(11.2.8) = +2Bc · 1+ · r g sin
R̄ϑ Mw 3 λ2 2

Nel caso di angoli molto ridotti (ϑ → 0 , diffusione ad angoli ridotti SALLS - Small Angle
Laser Light Scattering) e per dimensioni molto ridotte del, P (ϑ ) → 1, e l’espressione 11.2.7 si
riduce a:
K·c 1
(11.2.9) = +2Bc
R̄ϑ Mw

In questo caso, quindi, il rapporto KR̄ϑc non dipende dall’angolo di misura ϑ (diffusione
isotropa) e quindi l’intensità della luce diffusa Iϑ può essere misurata ad un solo angolo.
Un metodo molto potente per l’analisi dei dati di light scattering è il metodo di Zimm, che
consente di costruire i diagrammi omonimi. Per costruire tali diagrammi, si opera innanz-
itutto alla misura della diffusione della luce di campioni diluiti della specie in esame, in
un intervallo ampio di concentrazione, che copra almeno un ordine di grandezza, a diversi
angoli di misura.

210
R
K⋅c

pendenza=−2⋅B⋅M w 2

Mw

F IGURE 11.2.2. Analisi dei dati di diffusione della luce a bassi angoli di
misura (SALS).

Tali dati potrebbero essere intepretati comunque mediante la 11.2.8 mediante regressioni
successive:
(1) facendo misure a c costante, e variando l’angolo di misura ϑ, si ottiene un dia-
gramma lineare di KR̄·c in funzione di sin2 ϑ2 ; la pendenza della retta di regressione
 ϑ  D E  
π2
sarà pari a M1w + 2 B c · 16 3 λ2
· r 2 , mentre l’intercetta sarà pari a
g
1
Mw + 2 B c ;
(2) ripetendo l’operazione del punto precedente a diverse concentrazioni, le intercette
di tutte le rette così ottenute varieranno linearmente con c, e operando una seconda
regressione lineare di tali intercette in funzione della concentrazione c, si otterranno
la pendenza 2 B e M1w ;
(3) sostituendo tali valori nell’espressione per un’intercetta adD unE qualunque valore di
c, si otterrà anche il raggio di girazione quadratico medio r2g .
Kc
Ovviamente, al medesimo risultato si arriva partendo da diagrammi di R̄ϑ
vs. c, a ϑ costanti,
e poi lavorando sui parametri di regressione ai vari ϑ.
Questo metodo è applicabile in un intervallo di concentrazioni tale da poter considerare lin-
eare la dipendenza con la concentrazione, ed introdurre solo il secondo coefficiente viriale
osmotico per tenere in conto le interazioni intermolecolari delle particelle colloidali respon-
sabili della diffusione della luce (cioè, come visto precedentemente, se la distanza tra le
particelle è elevata rispetto al raggio delle interazioni, in modo da poter considerare solo le
interazioni tra coppie di particelle).

211
K⋅c c5
c4
R
 c3
c2 4
c1
3

c=0 2

1

=0

2 
sin  k⋅c
2

F IGURE 11.2.3. Diagramma di Zimm per l’analisi dei dati di diffusione di luce.

Inoltre, se gli angoli


 di misura sono sufficientemente bassi, si possono trascurare tutti termini
superiori a sin2 ϑ
2 della dipendenza dall’angolo di misura ϑ.
Questo metodo è piuttosto laborioso; in alternativa, è stato proposto da Zimm un metodo
che permette di rendere più semplice e veloce la procedura per la determinazione dei parametri
molecolari attraverso i dati di diffusione della luce.
In questa procedura, il primo passaggio è la rappresentazione di dati di KR̄·c in funzione di
  ϑ
2 ϑ
sin 2 + S · c, dove S è un fattore arbitrario, scelto in modo che i dati siano ben distribuiti
nel diagramma.2
Diagrammando i dati così modificati, il risultato è una griglia come quella mostrata in figura;
tutti i nodi della griglia sono rappresentati da dati sperimentali, a meno di quelli presenti
sulla retta più in basso (ϑ = 0) e più a sinistra (c = 0); l’intercetta comune di queste due rette
rappresenta M1w .
L’equazione che rappresenta il diagramma di Zimm è:
K·c 16 π 2 D 2 E
    
1 2B 2 ϑ
= + ·Sc · 1+ · r g sin
R̄ϑ Mw S 3 λ2 2
D E h 
22B 2 16 π 2
Le pendenze di tutte le rette calcolate ai diversi angoli ϑ1 , ϑ2 , . . . sono date da · 1+ · r g sin
S 3 λ2
questi valori dipendono dal valore di ϑ costante delle singole rette, e variano al variare di ϑ.
 
2Siccome sin2 ϑ
≤ 1 , è conveniente utilizzare un valore di S tale che S · c ≤ 1, per cui una buona scelta per
2
1
Sè cmax dove cmax è la massima concentrazione utilizzata.

212
Questo significa che il diagramma di Zimm non è un parallelogramma (lati non paralleli),
ma è un quadrilatero generico.
Analogamente,
 D Edelle rette calcolate alle varie concentrazioni c1 , c2 , . . . sono date
le pendenze
1 2B 16 π 2 2
Mw + S · S c · 3 λ2 · r g , che dipendono, a loro volta, dalle varie concentrazioni c a cui

D Ependenze delle rette calcolate ai costanti ϑ e c dipendono, in-


vengono calcolate le rette.Le
oltre, entrambe da B e da r2g . Quindi, una volta valutate le pendenze di due qualunque di
D E
queste rette, è possibile valutare B e r2g .

213
CHAPTER 12

Metodi per la determinazione degli equilibri proteina-ligando

215
CHAPTER 13

La misura sperimentale e l’analisi di strutture proteiche

13.1. Introduzione

Nel capitolo 2 è stata stressata la forte relazione tra struttura e funzione di un composto
proteico: il paradigma fondamentale della biologia strutturale è che le proteine funziona-
no soltanto nella forma corretta dal punto di vista fisiologico, e la perdita di questa inte-
grità strutturale comporta una diminuizione o perdita completa della funzione biologica
esercitata dalla molecola proteica denaturata.
In questo senso, la determinazione e l’analisi delle strutture dei composti proteici hanno an-
che lo scopo di comprenderne i meccanismi di funzionamento, oltre che di fornire elementi
per la previsione di strutture di proteine “nuove”, ottenute attraverso le tecniche di bio-
logia molecolare (proteomica); questi studi rientrano nell’ambito della biologia strutturale,
che cerca di mettere in relazione la conformazione dei composti ad attività biologica con le
funzioni che sono chiamati a svolgere all’interno dell’organismo.
In questo capitolo verrà presentata una rassegna veloce dei principali metodi impiegati per
la determinazione sperimentale della struttura dei composti proteici. Queste strutture ven-
gono tradotte in informazioni codificate attraverso dei formati di file testuali standard, che
sono immagazzinati in database dedicati e sono utilizzati da applicativi software per la
visualizzazione e la manipolazione di rappresentazioni strutturali tridimensionali.
Queste informazioni sono elaborate per ricavare informazioni di carattere funzionale, ma
anche per l’implementazione di modelli ed algoritmi per la previsione di strutture: le tec-
niche sempre più avanzate di simulazione molecolare, sostenute anche da potenze di cal-
colo sempre più ampie, hanno permesso una grande crescita nel campo della simulazione
predittiva di strutture proteiche, anche con l’utilizzo di hardware a basso costo.
Infine, è presentata una tecnica innovativa, basata sull’applicazione della teoria dei grafi, per
l’analisi di tali strutture: l’obiettivo è ambizioso, cercare degli elementi strutturali comuni a
composti proteici con struttura e funzioni simili, per la previsione di comportamento di
sostanze nuove, che presentino gli stessi elementi.

13.2. Metodi per la determinazione della struttura proteica

Come visto ampiamente nel capitolo 2, la struttura dei composti proteici è organizzata in
livelli gerarchici, ognuno dei quali ha delle caratteristiche specifiche, che determinano anche
i metodi di analisi sperimentale.

217
F IGURA 13.2.1. Dicroismo circolare.

Per quanto riguarda la struttura primaria, la determinazione della sequenza amminoacidica


non può che procedere per scissione dei legami peptidici, operazione che avviene attraverso
l’azione di enzimi che rompono selettivamente solo alcuni dei legami (che coinvolgono, cioé,
solo specifiche coppie di amminoacidi).
La sequenza di operazioni per la determinazione di strutture primarie può essere schema-
tizzata come segue:

 scissione dei legami disolfuro e rottura completa della struttura tridimensionale


della struttura proteica;
 determinazione degli amminoacidi C- ed N-terminale;
 scissione del polipeptide in frammenti;
 determinazione ed ordinamento delle sequenze dei frammenti peptidici.

L’analisi di strutture secondarie eventualmente presenti all’interno della struttura oggetto


di analisi avviene attraverso l’interazione della struttura stessa, in forma nativa o a vari gra-
di di denaturazione, con radiazioni elettromagnetiche, che possano interagire con elementi
strutturali con particolari conformazioni.
In questo senso, la tecnica più utile è il dicroismo circolare (CD), basata sul principio che una
molecola otticamente attiva assorbe la luce polarizzata circolarmente1, in maniera differente
nelle due direzioni di rotazione (sinistrorsa o destrorsa) a seconda della forma stereoisome-
rica molecolare che interagisce.

1Nel caso di luce polarizzata linearmente, il vettore del campo elettromagnetico cambia solo in un piano,
mentre l’onda radiativa procede in una direzione assegnata.
Una radiazione elettromagnetica si dice polarizzata circolarmente se l’estremità del vettore campo elettroma-
gnetico associata descrive una spirale (fissando un punto nello spazio, descrive un cerchio nel tempo, fissato
un determinato istante temporale, la traccia è una spirale); il modulo del vettore non cambia nel tempo e nello
spazio.

218
F IGURA 13.2.2. Principio di difffrazione nella cristallografia a raggi X.

La risoluzione dei metodi spettroscopici dipende, come visto anche precedentemente, di-
pende dal rapporto tra la lunghezza d’onda della radiazione incidente e la dimensione ca-
ratteristica dell’elemento molecolare da studiare; in particolare, per lo studio di strutture
secondarie, si usa CD nel lontano UV (λ < 250 nm).

13.2.1. Analisi sperimentale della struttura tridimensionale dei composti proteici. Per
quanto riguarda la determinazione della struttura tridimensionale delle molecole protei-
che, le tecniche che vengono utilizzate si basano sul principio della diffrazione di radiazio-
ni ad elevatissima lunghezza d’onda (raggi X e neutroni), dalle quali è possibile ricavare
informazioni sulla mappa di densità elettronica degli atomi di cui è costituita la molecola.

Queste tecniche vengono applicate su cristalli in soluzione o in fase solida di composto pro-
teico: infatti, il singolo cristallo agisce come agente di diffrazione, in quanto insieme di un
gran numero di celle unitarie di reticolo cristallino. Se il reticolo è molto regolare, l’effetto di
diffrazione è additivo, per cui il cristallo funziona da amplificatore del segnale di diffrazione
della singola cella unitaria.

Dallo spettro di rifrazione è possibile risalire alla densità di elettroni nella struttura: questa
mappa tridimensionale può essere quindi interpretata in termini di posizioni di atomi nella

219
F IGURA 13.2.3. Schema a blocchi che illustra le operazioni che permettono di
ottenere a partire dallo spettro di diffrazione la struttura proteica.

struttura tridimensionale. Da queste misure, inoltre, una volta ricostruita la posizione spa-
ziale degli atomi, è possibile riconoscere livelli strutturali superiori (strutture secondarie)
dalla conformazione della struttura stessa.
La qualità dei cristalli che vengono analizzati condiziona molto la precisione dei dati strut-
turali ottenuti attraverso metodi cristallografici; questa esigenza ha motivato tutta una serie
di studi volti alla determinazione delle condizioni per l’ottenimento di cristalli non agglo-
merati, regolari, in tempi ragionevoli2.
In maniera analoga vengono condotte le misure mediante la spettroscopia di risonanza ma-
gnetica nucleare, che utilizza le proprietà magnetiche dei nuclei per registrare gli spettri di
riemissione magnetica (in particolare, i tempi di rilassamento T1 e T2 ) in seguito a sollecita-
zioni mediante intensi campi magnetici. Anche in questo caso le misure vengono effettuate
su soluzioni liquide di cristalli proteici e gli spettri di riemissione vengono usati per derivare
la struttura tridimensionale delle strutture analizzate.

13.3. PDB: un archivio per le strutture proteiche

La comunità di studiosi che fin dagli anni ’50 hanno continuato a collezionare dati sulle
strutture proteiche, in varie condizioni, hanno condiviso questo patrimonio immagazzinan-
do questi dati in database dedicati. Il più noto di tutti, diventato un punto di riferimento
per chiunque si occupi di biologia strutturale e proteomica, è il Protein Data Bank, che è un
2Le condizioni di cristallizzazione sono fortemente legate alle proprietà termodinamiche alle condizioni di
temperatura e di pressione assegnate. Queste ultime, a loro volta, dipendono dal potenziale di interazione
intermolecolare tra le molecole di proteina in soluzione: in particolare, come visto precedentemente, valori di
secondo coefficiente viriale osmotico BPP promuovono la precipitazione dei composti proteici, e si è indivi-
duata una finestra (nel campo dei valori di BPP negativi) che corrisponde alla formazione di cristalli di buona
qualità, sia per la formulazione di prodotti di natura proteica in polvere, sia per lo studio cristallografico.

220
ATOM 32 0 ALA A 5 16.990 17.450 8.440 1.00 0.00 0
ATOM 33 (B ALA A 5 16.200 19.030 10.670 1.00 0.00 (

ATOM 34 N ASP A 6 14.930 17.940 7.660 1.00 0.00 N


ATOM 35 (A ASP A 6 14.860 16.730 6.810 1.00 0.00 (

ATOM 36 ( ASP A 6 15.310 17.450 5.540 1.00 0.00 (

ATOM 37 0 ASP A 6 16.050 16.880 4.710 1.00 0.00 0


ATOM 38 (B ASP A 6 13.440 16.160 6.830 1.00 0.00 (

F IGURA 13.3.1. Informazioni strutturali immagazzinate nel formato testuale PDB.

archivio accessibile via web, che immagazzina decine di migliaia di strutture di proteine ed
acidi nucleici. Questo archivio è nato nel 1971 presso il Brookhaven National Laboratory,
e conteneva originariamente 7 strutture. Nel 1998 la responsabilità dell’archivio è passato
al Research Collaboratory for Structural Bioinformatics (RCSB), dando luogo, nel 2003, al
progetto wwPDB, ovvero ad un archivio online unico, disponibile gratuitamente a tutta la
comunità mondiale di studiosi del settore.
Per gestire in maniera standardizzata i dati relativi a strutture macromolecolari, è stato sta-
bilito un formato standard di file per immagazzinare le informazioni strutturali, chiamato
.pdb: questo formato, di tipo testuale, immagazzina molte altre informazioni riguardanti la
struttura molecolare, compresi la letteratura a riguardo.
Le informazioni riguardanti la struttura sono presenti in record particolari, detti ATOM, in
cui sono registrate le coordinate spaziali degli atomi che costituiscono la struttura stessa.
Riferendoci alla figura 13.3.1, nelle righe che iniziano con la stringa ’ATOM’ vengono im-
magazzinate le informazioni sui singoli atomi presenti nella struttura. Il primo valore è un
indice che definisce la posizione dell’atomo nella sequenza di informazioni, la stringa suc-
cessiva (’CA’) rappresenta il tipo di atomo, in questo caso un carbonio alfa, la stringa ’GLYA’
si riferisce all’amminoacido a cui appartiene l’atomo, il numero successivo ’22’ rappresen-
ta l’indice rappresentativo dell’amminoacido stesso nella sequenza primaria, i tre numeri
successivi rappresentano le coordinate spaziali (in Å), il numero successivo rappresenta la
occupancy dell’atomo, ovvero la frequenza di probabilità di trovare l’atomo in quella posi-
zione strutturale - nel caso in cui ci siano più configurazioni misurate, ad esempio, il numero
successivo rappresenta il fattore di temperatura, ovvero l’abilità del singolo atomo di oscilla-
re più o meno ampiamente intorno alla propria posizione di equilibrio (una sorta di inerzia
atomica a rispondere, a temperatura crescenti, al caos termico): fattori di temperatura ele-
vati indicano un moto molto accentuato degli atomi nella posizione in cui si trovano. Infine
l’ultima stringa, ’C’ nella fattispecie, rappresenta il simbolo chimico dell’elemento stesso.

13.4. La teoria dei grafi e le strutture proteiche: applicazioni di System Biology

221
APPENDICE A

Metodo dei moltiplicatori indeterminati

Sia presa una funzione F ( x, y, z); se desideriamo individuare il massimo (o il minimo) di F


dobbiamo avere
∂F ∂F ∂F
(A.0.1) dF = dx + dy + dz = 0
∂x ∂y ∂z

comunque si scelgano dx, dy e dz in maniera indipendente, per cui la 1.4.11 è verificata se e


solo se ∂F ∂F ∂F
∂x = 0, ∂y = 0 e ∂z = 0; queste tre equazioni permettono di calcolare le tre coordinate
del massimo (o del minimo).
Supponiamo, ora, di voler calcolare il massimo di F ( x, y, z) posto che le soluzioni di tale
problema di massimizzazione appartengano ad un luogo G ( x, y, z) = c, dove c è una co-
stante reale, cioè vogliamo trovare il massimo vincolato alla G ( x, y, z) = 0 della F ( x, y, z). In
questo caso, a differenza di quello precedente, le dx, dy, dz non sono tutte indipendenti, ma
legate da
∂G ∂G ∂G
(A.0.2) dG = dx + dy + dz
∂x ∂y ∂z

essendo G = c = costante.
La procedura per risolvere questo problema è dovuta a Lagrange; in corrispondenza del
massimo condizionato, dG = 0 quindi αdG = 0, dove α è una costante reale arbitraria;
inoltre, dF = 0 e quindi dF − αdG = 0, che scritto in maniera estesa:

     
∂F ∂G ∂F ∂G ∂F ∂G
(A.0.3) −α dx + −α dy + −α dz = 0
∂x ∂x x0 ,y0 ,z0 ∂y ∂y x0 ,y0 ,z0 ∂z ∂z x0 ,y0 ,z0

( ∂F
∂z ) x0 ,y0 ,z0
dove α è una costante arbitraria, e si può porre pari a α = , dove x0 , y0 e z0 sono
( ∂z )x0 ,y0 ,z0
∂G

ancora delle incognite; per calcolarle, con la scelta di α, risulta


 
∂F ∂G
(A.0.4) −α =0
∂z ∂z x0 ,y0 ,z0
e si possono variare indipendentemente dx e dy, per cui possiamo scrivere

  
 ∂F

∂x − α ∂G
∂x x ,y ,z = 0
(A.0.5)   0 0 0

 ∂y∂F
− α ∂G
∂y =0
x0 ,y0 ,z0

223
risolvendo la 1.4.11 e le 1.4.11 si trovano i valori delle coordinate x0 , y0 e z0 , in funzione della
costante c; tale dipendenza si risolve considerando:

(A.0.6) G ( x (α), y(α), z(α)) = c

224
APPENDICE B

Grandezze parziali molari

Sia Φ una grandezza termodinamica estensiva, valutata per un sistema termodinamico, ad


esempio a T, P e composizione (ni , i = 1 → c) assegnati; la corrispondente grandezza
specifica φ sarà pari a:
Φ Φ
(B.0.7) φ= =
∑ic=1 ni n
La grandezza parziale molare della grandezza estensiva Φ rispetto al componente i-esimo
sarà pari a:  
∂Φ
φ̄i =
∂ni T,P,n j6=i

T HEOREM . (di Eulero)


Se una funzione f ( x1 , x2 , . . . , xn ) di grado m rispetto alle variabili x1 , x2 , . . . , xn , allora

(B.0.8) f (kx1 , kx2 , . . . , kxn ) = km · f ( x1 , x2 , . . . , xn )

Quasi tutte le funzioni termodinamiche d’interesse sono funzioni omogenee di primo grado
rispetto alle ni :
c
(B.0.9) Φ= ∑ ni · φ̄i
i =1

Essendo Φ = n · φ, si trova:
       
∂ ∂φ ∂n ∂φ
(B.0.10) φ̄i = (n · φ) = n· +φ· = φ+n·
∂ni T,P,n j6=i ∂ni ∂ni ∂ni

si ricava:
c  
∂φ
(B.0.11) φ̄i = φ − ∑ ∂xk
· xk
T,P,x j6=k
k=1
k 6= i
Per un sistema binario:

φ̄ = φ + (1 − x ) · ∂φ
1 1 ∂x1
(B.0.12)
φ̄1 = φ − x1 · ∂φ
∂x 1

225
Indice analitico

A proteine, 41
α-eliche, 44 proteine fibrose, 46
attività, 47 proteine globulari, 46
attività enzimatica, 47, 48
R
B reagente, 47
biocatalizzatori, 47 residui, 43

C S
catalisi, 47 siti attivi, 47, 48
catalizzatore, 47, 48 sito attivo, 48
catalizzatori biologici, 48 struttura nativa, 43, 46
catalizzatori inorganici, 47 struttura primaria, 43
complesso substrato-enzima, 47 struttura secondaria, 44
struttura terziaria, 45
D substrato, 47
denaturazione, 46, 47

E
enzima, 47, 48

F
foglietti-β, 44

I
inibizion, 47
inibizione, 48
insieme, 24

L
legame cooperativo, 45
legame disolfuro, 45
legame peptidico, 42

M
modello chiave-serratura, 47
modello mano-guanto, 48

P
polipeptidi, 41

227

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