I racconti del Signor Bardo
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Sabrina Sesiani è nata negli anni Settanta in una piccola cittadina tra i monti del Verbano Cusio Ossola. I racconti del Signor Bardo è la sua prima pubblicazione.
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Anteprima del libro
I racconti del Signor Bardo - Sabrina Sesiani
Sabrina Sesiani
I racconti del Signor Bardo
© 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - [email protected]
ISBN 978-88-306-8176-7
I edizione luglio 2023
Finito di stampare nel mese di giunio 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
I racconti del Signor Bardo
tutte le illustrazioni interne sono del’ autrice
A mia figlia
«Ci si abbraccia per ritrovarsi interi»
Alda Merini
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
1.
Sono quasi giunto al termine del mio cammino e mi ritengo liberato da una promessa, quindi posso ora narrare ciò che vivo ancora in me come respiro di accadimenti che forgiarono la mia pelle, il mio animo e la mia vita
Per quasi tutta la vita fui chiamato Drys, ma il mio nome completo è Drystan, non so da quale arcano movimento mentale di mio padre nacque e giunse alle sue labbra, alla vista del suo primo nascituro; preferisco comunque essere chiamato Drys, ricordando chi con caro pensiero lo pronunziò per la prima volta.
Dietro me nacquero Priscilla, ragazzina esteta e pratica ed Anna, la dolce e piccola di casa, che divenne amorevole e di idee aperte al mondo. Volevo bene ad entrambe, adorando le loro distinte peculiarità ed i loro opposti modi di porsi negli animi delle genti. Trascorsi la mia infanzia e la mia giovinezza nella casa padronale di mio padre a Medelanon, sorgeva in una delle vie maestre di quella che già allora era una grande città che mostrava sfacciatamente ricchezze sfarzose di ori opulenti e vesti ricamate, quanto la più cruda povertà fatta di stracci bucati all’inverosimile e portati come vesti. La dimora paterna era silenziosa e tanto appesantita da mobili massicci e adorni, da sentirne il peso sulle spalle, i passi riecheggiavano sui lastricati in pietra quasi a formare echi; era cupa nei suoi tendaggi e nell’umore che esprimeva, i soffitti altissimi non davano aria, ma soffocavano sotto a grandi travature ricoperte a loro volta da uno spesso assito scuro di tridimensionale intarsio. Grazie alla giovinezza quel pesante palazzo, non era poi così pesante e le mie sorelline lo rallegravano di chiacchiericci e corse appena i nostri genitori si assentavano.
Un grande portone era confine alla strada ed al suo interno un altrettanto grande corridoio portava al colonnato ad archi, posti a sostenere maestosi muri e creavano un camminamento coperto che avvolgeva il giardino interno della sontuosa abitazione. Piante lo arricchivano e cespugli e fiori, quasi a formare un labirinto di profumi e uccellini, lasciando i rumori della città all’esterno, dove le ruote di carrozze e carri e zoccoli di cavalli, creavano un frastuono costante e gente, tanta gente passeggiava o a passo veloce transitava presa dai suoi compiti: mercanti, arrotini e strilloni si univano al brusio con le tante voci a offrire servigi e merci, unici silenziosi in quel mondo in movimento erano i mendicanti, seduti a lato della strada tra la polvere e i ciottoli e scacciati in malo modo se troppo a ridosso dei portoni intarsiati e chiodati delle abitazioni dei signori. Ora penserei che era magico quel giardino celato e posto a celare quel mondo gremito di frastuono così tangibile nelle sue brutture e nelle sue bellezze.
Proprio lì in quel giardino la conobbi. Io ero un giovane pronto alla formazione e alle prime candidate spose, ai suoi occhi sicuramente avevo l’aspetto di un ragazzo quasi in età di maturità, lo si vedeva dal mio viso ancora per poco imberbe, dai miei arti allungatisi ma non ancora forgiati dalla carne, ma unici mai cambiati con l’età, i miei occhi scuri come due pozzi che si posarono nei suoi eguali ai miei e so cosa ci vide lei, un metallo ancora caldo da forgiare alla vita vera. Era giunta a Medelanon la sera, così seppi e fu alloggiata nell’ala est della dimora adibita alla servitù e prima a levarsi al sorgere del sole. Quella mattina arrivò in giardino a sole alto, dopo aver colloquiato con i miei genitori e disposto i nostri insegnamenti, io ero lì con le mie sorelline a giocare tra i cespugli e a ondulare sui rami del melo. Mi imbarazzò un poco che lei mi avesse colto in giochi infantili, aveva richiesto ai miei genitori di presentarsi da sola a noi, ma sono sicuro che non si era mostrata subito, ma ci avesse osservati nascosta tra le colonne d’intorno al giardino, forse per capire quali moti si celavano in noi e per meglio saperli gestire.
Entrò in giardino con viso serio e solo quando ci arrivò vicino, sorrise mischiando quel segno di piacere a un lungo sguardo negli occhi di ognuno e si presentò: il suo nome era Dorenezie, la nostra balia e a quella parola lei lesse il mio disappunto. Come potevano, pensai, affibbiarmi una balia, lo avrei concepito per le mie sorelline, ma non per me. Il fatto che lei avesse capito il mio pensiero mi fece piacere e a quel punto specificò di essere stata incaricata dai miei genitori alla nostra istruzione e nel frattempo al seguirci nelle nostre mansioni sociali ed anche a quelle di svago, aggiungendo che per un certo periodo si sarebbero assentati di frequente e a noi necessitava una presenza costante a cui riferirci.
Le giornate che seguirono al nostro primo incontro avevano uno scorrere tranquillo, regolato e regolare, le mie sorelline erano già aperte alla sua presenza, come se la giovane donna facesse parte della loro vita da sempre, naturalmente, come fosse ovviamente intrinseco relazionarci con lei in tale senso. Pettinava i lunghi capelli biondi di Anna in acconciature ricche di treccine e la vestiva semplicemente, mentre preferiva per Priscilla mille boccoli e la vestiva con gusto principesco, come avesse già letto in ognuna di loro il vero segno che le distingueva e si rapportava a loro con affetto e complicità; sentivo desiderasse un diverso approccio con me da quello presente, ma per me non era così, non ero prevenuto o distaccato, al contrario, nutrivo una sana curiosità verso lei che avevano imposto nella mia vita e la osservavo quasi studiandola e rendendomi conto che proveniva da un mondo diverso di cui io non conoscevo nulla, una vita parallela a quella che saturava la grande dimora che girava attorno a personaggi di stile tutto uguale, di pensare tutto uguale, mentre intuivo nei silenzi di Dorenezie un mormorio dentro lei e la distanza che tenevo tra noi giungeva da un senso di protezione del mio mondo, come se lei potesse trasformarlo, rovinarlo, corromperlo in qualche modo. Ora ripensandoci direi non fosse per protezione del mio mondo la distanza che tenevo, ma semplice paura di crescere, di imparare, di affrontare, soprattutto di affrontare e conoscere e decidere, pensare. È difficile pensare per chi non ne ha voglia ed è difficile guardare con occhi diversi pur rimanendo se stessi ed è difficile considerare da altre angolazioni una stessa cosa, perché potrebbe rivelare che da dove l’avevamo sempre vista, non rispecchia il suo intero o la verità. E fu colpa di Dorenezie se ora vedo l’intero.
Era una giovane donna alta per l’epoca e dal portamento apparentemente nobile, sicuramente dovuto al suo spirito e non alla sua condizione sociale, raccoglieva i chiari capelli in una acconciatura semplice nascondendoli sotto ad una cuffietta che le dava un’aria un po’ ridicola, il suo corpo al quale non diedi molto sguardo mostrava però una forza che non avrebbe dovuto avere una balia, come se nella sua vita avesse anche svolto umili lavori di vigore.
Raccontò delle sue origini e della sua infanzia, disse di giungere dalla zona dei laghi al confine dello Stato e che felicemente era cresciuta sulle colline degli stessi, sopra, in alto, su un pianoro che dominava il lago di Orta; era stata allevata dal padre avendo perduto la madre ancora bimba ed il padre per lei era divenuto tutto il suo mondo, le raccontava storie a lei care e leggende di luoghi che lei non conosceva ed alcuni che conosceva a stento. In tutto segreto ci confidò che era stato suo padre ad insegnarle l’arte della lettura e della scrittura e che da quel momento lei aveva divorato ogni scritto le capitasse tra le mani e pur avendo umili origini, spinta dalla sua volontà di conoscere, a fatica aveva raggiunto la qualifica di balia che pur essendo riduttiva per le sue capacità, le aveva dato modo di vedere altri luoghi e spostarsi tra feudi e villaggi sino a giungere a Medelanon con referenze ottime. Aveva preso l’indole del padre di vedere il mondo e disse anche che non seppe mai come suo padre di umilissime origini, fosse riuscito ad avere una cultura tale di scrittura e lettura di testi anche in lingue antiche. Il padre l’aveva lasciata due anni prima per un viaggio che doveva intraprendere e lei, trascorsi questi due anni senza sue notizie, ne era veramente in pena, ma si era decisa ugualmente ad andare avanti nei suoi propositi e trovare un lavoro consono alla sua capacità e quindi era giunta a noi, sempre sperando che un giorno le sarebbero giunte notizie del suo papà e lasciando il recapito della nostra abitazione per ogni missiva. La vedevo correre alla porta ogni qualvolta giungeva un messaggero, si vedeva chiaramente il suo desiderio e la sua speranza di riabbracciare il padre o di averne notizie, nella mia giovane età pensavo quasi con invidia al rapporto che li legava; il mio non era altrettanto profondo e con mio padre vi era un distacco innato, societario, di modi e di costume, che rispecchiava la nostra levatura sociale, un modo di affrontare le relazioni affettive ben diverso dal calore umano che esse avrebbero dovuto avere o così percepii dai modi di Dorenezie.
Iniziammo ad uscire dalla grande casa accompagnati da Dorenezie, per piccole commissioni, le mie sorelline venivano accompagnate da lei dalle modiste, dai cappellai e in tutti quei negozi atti a gestire l’impronta modaiola dell’epoca, rendendo giustizia allo status dei nostri genitori. Anche a me era destinato tale compito, essere degno del cognome che porto curando il mio aspetto al pari di altri, cosa che non mi dispiaceva essendo un tantino vanitoso del mio apparire. Quindi tra le giornate scandite di normalità, vi erano giornate diverse, dove Dorenezie si assentava con le mie sorelline ed io di rado andavo con loro, anche perché lei non si risparmiava di affliggermi compiti o letture durante la loro assenza ed al loro ritorno controllava cosa avessi svolto; in quelle occasioni il silenzio ed il peso di quella enorme dimora ogni tanto si facevano sentire come un sudario immerso nella penombra e ne ero al punto disturbato da non riuscire a concentrarmi sul daffare, ma poi al loro rientro tutto riprendeva con gioiosa allegria e commenti su questo o su quello, ricchi di pensieri e giudizi su stoffe o commesse.
Uscivamo anche per recarci dalle famiglie meno abbienti per portare i nostri abiti smessi o cose di dubbio valore per noi e così utili per loro, era compito che in genere svolgeva la servitù, ma Dorenezie non ne era del tutto d’accordo e quindi facevamo la nostra parte diligentemente. I miei genitori ne venivano informati da lei stessa a posteriori quando tornavano dai loro impegni mondani, con meste parole, rinfrancandoli di ragioni ed avendo la loro approvazione sempre sul suo operato. Per me un giorno destinò una diversa uscita, avremmo dovuto recarci da un fabbro fuori città poiché Dorenezie aveva ordinato dei particolari chiodi per lo scranno di mio padre posto nello studio e che doveva essere rifoderato. Trovai curioso se ne occupasse la balia, ma con l’assenza dei miei genitori era divenuta lei responsabile dell’andamento della casa ancor più della governante in certe faccende.
Partimmo con la carrozza chiusa e attraversammo la città e a mano a mano che ci allontanavamo dal centro cittadino e dal mio mondo, i palazzi lasciarono il passo a case dai muri di roccia nuda e poi di solo legno ed usciti dalle mura di Medelanon, la povertà che già si vedeva nella città, era palese al suo esterno, sfacciata come uno schiaffo. Perché mi portava lì in quello scempio per gli occhi e l’olfatto, cosa voleva massacrare del mio mondo intatto?! In città i lebbrosi, gli impiccati, i giullari che ballavano mimando gesti di paladini eroici, erano visione rara per me ma conosciuta, ma all’esterno delle mura era un altro mondo, la commissione mi era sembrata palesemente una scusa per buttare nei miei occhi un’altra realtà, più viva, più vera, non consueta, ma per mia indole non diedi soddisfazione al suo sguardo nel cogliermi sorpreso, mostrandomi invece con una presunzione avvezza a tali visioni; ora so che ella andava oltre al mio apparire e libera nell’arte del sentire che ancora in me non era presente, forse solo affacciata e nulla le sfuggiva. Svolta la commissione tornammo a palazzo, pensai più a Dorenezie che a ciò che avevo visto, come nasconderlo ai miei pensieri appoggiandoli altrove.
Al ritorno dei miei genitori dopo una loro ennesima assenza, degli eventi nuovi e nuova aria coinvolsero la dimora e grandi novità mi vennero annunciate per la mia vita futura, i miei genitori iniziarono ad organizzare banchetti ai quali invitarono le famiglie in vista della città ed anche di fuori città. Avevano per me deciso il cammino e lo annunciarono ad uno dei festosi banchetti di una sera nebbiosa, dove la città era inghiottita dai primi rigori dell’inverno, gli invitati scendevano dalle carrozze con ampi mantelli pesanti e fluenti cappelli; vi erano dignitari, ricchi feudatari, nobili di altri centri prolifici al pari di Medelanon e persino clerici giunti da Novalia, posta nella grande pianura ad ovest dello stato, giunsero anche nostri parenti, più o meno vicini di sangue e tra questi una famiglia caduta in disgrazia per degli affari non andati come preannunciato, si erano sforzati di essere all’altezza delle aspettative ed in pochissimi sapevamo le loro vere condizioni e forse non immaginavamo fino a che punto fossero giunte. La famiglia era di nostra stirpe e probabilmente sperava in qualche modo di donare alla figlia un matrimonio onorevole anche se potevano offrire misera dote, ma quel banchetto offriva loro la possibilità di mettersi in gioco e capivo la loro apprensione per il futuro della loro giovanissima ragazza.
Lei era graziosa e dallo sguardo mite, si vedeva che era di buon cuore, ma questo all’epoca purtroppo non bastava. Il suo nome era Davina, le pesavano negli occhi le aspettative dei genitori che si sarebbero anche accontentati di farla maritare ad un vecchio, la qual cosa era probabile vista la sua dote e sapeva essa stessa di non potersi aspettare altro, nel suo cuore ovviamente avrebbe sperato ad un giovane come me di buona famiglia e modestamente, dichiaro, di bell’aspetto e di ottimo lignaggio, con un cognome rispettabilissimo. Il suo sguardo triste si vedeva mentre le venivano presentati gli ospiti e e veniva introdotta, o meglio offerta, ai vari possibili pretendenti. I genitori erano più cupi e nervosi, da loro si vedeva l’impazienza di tornare a far parte del mondo dorato e quasi astiosi nei confronti della mia famiglia, forse perché convinti che se non fossero caduti in disgrazia, la loro figlia con tutta probabilità in un futuro sarebbe potuta divenire mia sposa, portando altro onore alla loro casata e nuove possibilità di investimenti e garanzie.
Non sapevo da dove venissero in realtà e nulla sulla loro dimora si sapeva, né se avessero ancora servitù, né averi, ma i miei genitori nei loro brevi dialoghi aperti anche a noi, avevano dichiarato solo di dare loro una possibilità di riscossa dalla loro situazione. La serata fu un piacevole susseguirsi di nuove conoscenze, di giovanissime ragazze, il banchetto fu strepitoso e dopo esso musici suonarono per tutta la sera, le danze vennero aperte dai miei genitori che mai avevo visto così raggianti e prima del termine di quella serata, mio padre prese la parola dinnanzi agli invitati e fece il suo annuncio.
«Cari Signori» e sorridendo «e Signorine, vi ho con piacere riuniti per ragguagliarvi della prossima futura entrata in società del mio primogenito a tal proposito annuncio che in primavera lascerà questa dimora per una formazione agli affari degna di questa città». Con un attimo di pausa continuò: «ho avuto dai nostri cari clerici di Novalia il permesso di inviare il mio primogenito in uno dei loro feudi, dove sotto la guida esperta e saggia dell’ecclesiaste Pofride, il mio ragazzo riceverà studio di gestione degli affari e avrà modo di apprendere ogni sfaccettatura per le future alleanze commerciali». Detto ciò, aspettò un minuto e poi riprese: «Ma in fondo non è questo che mi ha spinto a riunirvi in questa piacevole serata, ma l’annunciarvi che al suo completo apprendistato, quando farà ritorno alla dimora, io avrò già scelto una degna moglie per lui e così presto la mia casata sarà allietata da nuovo sangue. Tra voi mie giovani e splendide ragazze, si nasconde la futura moglie di Drystan, che vi assicuro non deluderà nessuna aspettativa». Alzò il calice e tutti lo alzarono con lui, brindando al mio futuro, subito dopo fu portata nel salone una enorme torta e aperta una fenditura ne uscirono delle colombe con la sorpresa di tutti e simbolo del mio primo volo verso la vita adulta.
Tutto questo mi lasciò senza fiato e dopo il dolce i musici ripresero a suonare, mentre gli ospiti lentamente se ne andavano e io osservavo le ragazze sapendo che tra loro vi fosse, ancora non decisa, la mia futura sposa. Che serata pazzesca, non riuscivo nemmeno a prender sonno, non mi sarei mai aspettato nulla del genere. Il mattino dopo le mie sorelline già mi prendevano in giro chiamandomi Signor sposino e ridendone di gusto. Le giornate invernali passarono senza grandi novità, l’andamento degli studi con Dorenezie proseguiva in modo spedito e prodigo, ma giunta la neve ella decise che era tempo di giocare e per due pomeriggi non facemmo altro che costruire palazzi e disegnare angeli e cappelli nella neve e tirarci palle di neve e a sera rossi in viso e stanchi anche dalle risa, i letti ci accoglievano per un sano ristoro.
La primavera a passo lento avanzava, i primi boccioli spuntarono nel giardino e a breve il mio futuro avrebbe avuto inizio. Dorenezie, con sua sorpresa e mia, ebbe l’incarico di accompagnarmi nel mio viaggio, essendo lei proveniente da quelle terre i miei genitori ritennero opportuno che fosse lei a seguirmi, così da descrivermi le peculiarità che avrei visto in quei luoghi. Quando il sole si fece più caldo Dorenezie organizzò per noi ragazzi un picnic all’esterno delle mura di Medelanon in un posto da lei scoperto, grazioso e riparato dalle brutture della povertà, in modo che le mie sorelline avessero tempo in futuro di scoprire quel mondo, quando fossero state più grandi di età e di spirito. La casa di un membro della nostra servitù sorgeva in un grazioso spazio verdeggiante, con filari di alberi e campi coltivati ed animali da cortile che vivacemente scorrazzavano all’intorno, presso la casetta di umile costruzione ma ben rifinita, scorreva un piccolo fiume le cui rive ospitavano paperelle e fiori a perdita d’occhio, ci mettemmo proprio lì in riva al fiume, stendemmo dei teli e poggiammo i cestini con le cibarie.
Giocammo a rincorrerci fino all’ora del desinare e dopo ci riposammo stesi sotto alla nuova chioma di un albero non ancora in pieno rigoglio. Anna cominciò a giocare con le paperelle e Dorenezie fu chiamata alla casetta dalla padrona dell’abitazione lasciando a noi l’incarico di sorvegliarci a vicenda. Io prontamente le dissi di non preoccuparsi, non pensavo ci fossero pericoli in un luogo così bello e le mie sorelline comunque erano grandicelle, dopo poco mi addormentai ed Anna iniziò a dare da mangiare ad ogni piccola creatura trovasse lungo il torrente, mentre Priscilla si diede al ricamo. Non passò molto, o almeno così mi sembrò, che un urlo mi destò dal mio sonno, dopo l’urlo più nulla, mi guardai allarmato in giro e Priscilla sorpresa come me mi guardava, Anna non era più visibile, ci alzammo e potei solo vedere una macchietta di colore che veniva portata via dalla corrente, Priscilla corse alla casetta per cercare aiuto ed io mi avviai lungo il fiume chiamando Anna a squarciagola e non avendone risposta. Preso dal panico mi misi a correre più forte e lontano in fondo al prato vidi Anna, che incerta sulle gambe veniva verso me, quando fu più vicina vidi che grondava di acqua e di fianco a lei un cane dal pelo nodoso che gli poggiava sulle ossa quasi prive di muscoli, incedeva grondante al pari della mia sorellina, appena mi raggiunsero il cane si allontanò e scappò via. Anna con aria mortificata e di scusa e due occhi grandi di paura, mi disse senza fiato: «Mi spiace, ma la paperella mia amica si era allontanata e io per darle ancora da mangiare l’ho seguita e poi ho visto Magro, il cane, l’ho chiamato così e mentre gli allungavo un tozzo di pane sotto ai miei piedi il terreno è scomparso e sono caduta nel fiume, sarei morta se Magro non mi avesse preso per le vesti e non mi avesse trascinata fuori dall’acqua, lo posso tenere? Lo portiamo a casa?». Ma non ci fu bisogno di rispondere, Magro era già scomparso alla vista. Io e Anna andammo incontro agli altri, lo sguardo di Dorenezie nei miei riguardi fu un urlo di rimproveri senza parole, mentre Anna con occhioni grandi chiedeva alla proprietaria della casetta se Magro fosse suo perché voleva portarlo a casa, ma la donna le disse di non possedere cani e che anzi lì nei dintorni se ne aggiravano diversi, ma randagi e pericolosi e rabbiosi per la fame.
Anna contrariata prese subito le parti di Magro, rispondendo educatamente ma per tono alla Signora: «Magro mi ha salvato la vita, non merita l’appellativo di rabbioso, ma anzi direi di eroe nobile». Dorenezie la prese di lato mentre la bimba iniziava a piangere la portò ai teli dove provvidenzialmente aveva un cesto con un cambio di abiti, per farci rientrare puliti alla dimora se per caso ci fossimo sporcati. E mentre si appartavano le raccontò una storia, una di quelle che il suo papà aveva raccontato a lei quando era piccola, l’intento era calmarla da tutte quelle emozioni e con voce dolce iniziò la sua narrazione. Io e Priscilla non eravamo di molto discosti e la ascoltammo anche noi, direi con indifferenza, ma comunque fu piacevole. Me la ricordo ancora.
La bimba dei monti
C’era una volta una graziosa bimbetta di nome Alice, che abitava in un paesino arroccato in una stretta valle tra i monti. Era figlia di gente semplice che accudiva gli animali e con un poco di orto e un po’ di artigianato viveva dignitosamente. Alice come tutti i bimbi di montagna amava gironzolare ovunque e si recava spesso fuori paese, giù nel fondo della valle dove scorreva un grazioso ruscello ed era diventato il suo posto preferito. Quella parte di mondo era per lei un luogo incantato, di verde di mille sfumature vestito, disseminato di fiori dalle tenere corolle colorate e immerso nel leggero canto dell’acqua. Isolato e tranquillo era abitato da tantissimi animaletti, farfalle, scoiattoli, rane, caprioli, ogni sorta di essere sembrava passare di lì, oltre a questi timidi esseri alla bimba ogni tanto pareva di scorgere dei movimenti ai lati degli occhi a margine di sguardo, ma quando si voltava per vedere non vi era nessuno.
La bimba non perdeva occasioni per recarsi al ruscello e prestava sempre attenzione a non farsi seguire dagli altri bimbi del paese, che con il loro vociare e giocare avrebbero sicuramente spaventato le creature del suo mondo, che ormai si erano talmente abituate alla sua presenza da passarle accanto senza timore, a volte osservandola, a volte no, come fosse ormai parte del loro vivere.
Come ogni anno mentre la bella stagione volgeva al termine ed i primi giorni della breve stagione autunnale giungevano a colorare il paesaggio e a spettinare i monti con le fredde brezze, tutti gli animaletti erano indaffarati per ultimare i preparativi per i mesi di freddo e per la coltre bianca che sempre ogni anno cadeva abbondante in quella valle; come ogni anno Alice dava loro una mano, ai topini dava una presa di lana per i loro giacigli ed una mela per la loro dispensa, agli scoiattoli dava una manciata di noci e castagne, alle volpi dava un tozzo di pane raffermo, agli uccellini qualche briciola e qualche seme, anche se loro sarebbero andati per tutto l’inverno sul suo davanzale a chiamarla con i loro cinguettii e a mangiare ciò che lei dava loro; erano gli unici esserini a poterle far visita in inverno ed a ricordarle sino alla bella stagione il suo luogo magico.
E fu proprio in uno degli ultimi giorni d’autunno che successe un disgraziato incidente. Gli animaletti erano già tutti in letargo ma Alice voleva vedere ancora una volta il suo posto incantato.
Era pomeriggio inoltrato e delle grosse gonfie nubi minacciose rotolavano giù dai monti abbracciandoli, la bimba affrettò il passo e raggiunse il fiume, ma mentre lo attraversava un sottile strato di ghiaccio sulle rocce la fece scivolare facendole perdere l’equilibrio e cadde nell’acqua gelida rimanendo incastrata con il piedino tra due rocce; provò a disincastrarlo in ogni modo, provò e riprovò, fino a quando l’acqua gelida le tolse le forze, mentre l’imbrunire corvino scendeva ella rimase lì con le gambine nell’acqua ed il resto del corpo adagiato sulla fredda roccia.
Un gran sonno pervase Alice e mentre dalle nubi nasceva la tormenta, la bimba si addormentò e quel poco di luce rimasto lasciò il passo alla nera notte imperlata di neve giostrante nei turbini di vento.
Ogni gesto buono e gentile non cade mai dimenticato, non viene cancellato nel tempo, infatti nel luogo magico vivevano altre creature che la bimba non era mai riuscita a scorgere, ma loro avevano osservato lei e quanto amore dimostrasse per quel luogo e gli esserini che di lì passavano.
La neve copiosa continuava a cadere tra i giochi sferzanti del vento, il canto forte dell’inverno fischiava nella valle a rivendicare il suo posto e il suo tempo. Non tutti però erano a riposare nei loro rifugi e nella tormenta un leggero movimento spostò una radice ed ecco spuntare un piccolo essere e poi un altro, probabilmente Elfi o folletti a giudicare dagli abiti, si misero lì ad osservare la bimba ormai profondamente addormentata, ma così fredda che a stento respirava e capirono che non avrebbe superato la notte, non con quel freddo tutta bagnata nella gelida tormenta di neve.
Andarono quindi a svegliare altri piccoli esseri magici tra cui le Fatine del bosco e le incaricarono di cercare le Ninfe del fiume, per l’assoluta gravità e urgenza della situazione. Non fu cosa facile trovare le Ninfe, ma le Fate ci riuscirono. Quando le Ninfe giunsero sul luogo dove si trovava la bimba, essa ormai respirava a fatica e una soluzione andava trovata subito. Gli Elfi proposero di interrompere il corso d’acqua dove si trovava Alice, però si resero conto che non sarebbe bastato per salvarle la vita, la bimba aveva bisogno di calore per sopravvivere, così le Ninfe presero una grande decisione: avrebbero ceduto una parte dell’acqua del loro regno profondo per la salvezza di Alice e corsero ad aprire fenditure e passaggi per deviare l’acqua, spostarono massi nelle profondità della terra. Il regno delle Ninfe sorgeva in acque caldissime in recondite e profondissime grotte sotterranee e quando le fenditure furono pronte ed i passaggi liberati, l’acqua sgorgò sotto la roccia sulla quale giaceva la bimba e arrivò a lambire le sue gambine gelate ed ora immerse nel caldo abbraccio dell’acqua.
La bimba lentamente riprese colore e le sue gote persero il pallore dell’abbraccio mortale del gelo ed il suo respiro divenne regolare e continuò a dormire, ma ora di un dolce sonno. Alle prime luci dell’alba il paesaggio era immerso in una coltre bianca, il silenzio ovattato regnava nella valle ed il gorgoglio dell’acqua era sordo e dolce, solo una macchietta di colore punteggiava le onde bianche di neve ed erano i vestiti della bimba ancora addormentata.
I genitori di Alice per tutta la notte nella bufera sferzante, vagarono alla debole luce delle lampade, nella disperazione di non ritrovarla e nel vento gelido da far lacrimare oltre le lacrime di preoccupazione che rigavano i loro volti. Giunsero alfine, ormai a mattina, sul ciglio della collina che sovrastava il fiume a monte del villaggio, la bufera si era placata e la valle era ben visibile, un solo punto di colore riconoscibile: erano i vestitini di Alice.
Un urlo soffocato riempì la gola della sua mamma e sul volto del padre comparve il dolore profondo del pensiero di averla persa per sempre nel vedere il suo corpicino immerso per metà nella gelida acqua del fiume. Corsero giù per la collina chiamandola, inciampando, ma non smettendo di chiamarla e gridare il suo nome ad ogni respiro.
Alice si svegliò e tra il gorgoglio soffuso del fiume sentì le voci di mamma e papà che gridavano il suo nome, sollevò la testa ed aprì gli occhi assonnati. Davanti a lei alcuni piccoli esseri fecero un cenno di saluto e scapparono velocemente, ricordandole i fugaci movimenti visti con la coda dell’occhio nella parvenza di una piccola presenza, mentre sedeva tra gli animaletti nella bella stagione e pensando che allora non si era sbagliata.
In quel momento arrivarono i suoi genitori e mentre la mamma tra le lacrime la abbracciava, il padre le sbloccava il piedino dalla morsa che l’aveva tenuta prigioniera e fu con stupore che i genitori si accorsero che l’acqua era calda come quella della pignatta sulla stufa.
Fu così che dai gesti buoni e generosi di una bimba nacquero le acque termali che ora sgorgano nella Valle di Bogna.
2.
La giornata nonostante l’incidente ci lasciò un ricordo molto piacevole di leggerezza. I miei pensieri volarono però alla mia partenza e un brivido mi corse lungo la schiena, emozioni contraddittorie mi attraversarono. Mio padre aveva ricevuto una missiva dal parente Pofride che si era dichiarato entusiasta, reputando un privilegio l’incarico di istruirmi alla vita matura e precisando che da subito aveva iniziato i preparativi per ospitarmi degnamente al suo castello. Ero sicuro che Bencio, il suo maggiordomo personale nonché responsabile della servitù, stesse dirigendo alacremente le sue mansioni, sapevo poco di lui, solo accenni di mio padre che dicevano che Bencio non fosse relegato solo ai suoi incarichi ma che era la persona fidata dell’ecclesiaste e suo grandissimo amico fin dai tempi del sacerdozio, raccomandandomi che in un futuro anch’io avrei dovuto circondarmi di persone fidate e che negli affari amministrativi erano fondamentali anche tali figure. I giorni volarono anche se dentro me li sentivo lenti e la casa paterna si trasformò nuovamente per ospitare il mio banchetto di commiato, mia madre non tratteneva l’emozione per la partenza del suo primogenito e mio padre se fosse stato un pavone si sarebbe dovuto fargli spazio per passare nei corridoi tanto la sua ruota di piume sarebbe stata grande.
Furono invitati i parenti e carrozze si susseguirono nella dimora illuminata a giorno, non vi erano tutti gli invitati della festa dell’annuncio della mia futura vita, ma il numero dei partecipanti era comunque notevole. Il banchetto fu molto piacevole, i commensali si sprecarono in consigli e complimenti, in particolare mi avvicinò Onofrio, padre di Davina, e mi fece un lungo discorso sull’importanza di gestire bene le conoscenze e gli affari; sapendo della sua posizione oramai frantumata da debiti e in gravi difficoltà, apprezzai che si premurasse di darmi tutti quei consigli, chi più di lui poteva sapere a cosa portasse una mala gestione e degli investimenti sbagliati? Ma sottolineò soprattutto di non affidarmi a persone di cui non sapevo l’esatta esperienza, perché avrebbero potuto guidarmi in vie deleterie per il mio patrimonio. Mi meravigliai del suo interesse visto il modo nervoso e freddo con cui si era rapportato alla cena dell’annuncio del mio futuro. E seguii con attenzione il suo discorso, comprendendo appieno che lui aveva commesso l’errore di accordare fiducia a gente non meritevole ed ora ne pagava le conseguenze.
Aggiunse: «ragazzo dovrai anche scegliere una compagna che sappia appoggiarti sapendo nel suo piccolo consigliarti, sapendo ella sottigliezze sulle persone che ti circondano e poi si sa che le donne si nutrono del loro sesto senso nel rapportarsi con gli esseri e distinguono nei loro silenzi forse meglio degli uomini chi sia degno di fiducia o meno, ci sono giovani poi che hanno già esperienza in tali cose magari per eventi trascorsi nella loro stessa vita». Questo commento non lo afferrai subito e mi limitai a rispondere che sarebbe stato mio padre a scegliere per me una degna sposa al mio ritorno a Medelanon, ma egli aggiunse: «ma a parità di livello sociale tra nobili giovani, potresti anche tu avere parola di scelta, non dimenticarlo». Capii solo più tardi il suo velato suggerimento leggendo tra le sue frasi, egli aveva una graziosa giovane figlia, Davina, che se non fosse stato per la sua ormai decaduta posizione economica, sarebbe potuta essere una delle candidate ideali ed oltre tutto ella aveva esperienza di tali cose economiche e sicuramente più prevenuta e prudente di altre candidate prive di tale esperienza. Questo voleva dirmi, ma come poteva fare tale suggerimento sapendo che Davina non sarebbe mai rientrata nelle candidate possibili agli occhi di mio padre, molto oculato in alleanze di lustro?
Quando fu l’ora dei commiati il grande portone della dimora era spalancato e noi famiglia in fondo al corridoio davamo saluto ai nostri ospiti; ebbi modo di notare un uomo poco oltre l’uscita che sembrava mi fissasse, sicuramente fu una mia impressione, non lo vedevo bene, ma notai che sicuramente non faceva parte della mia cerchia di conoscenze, aveva vesti troppo dimesse, un grande cappello celava il suo viso e discosto dalle luci delle lampade era ombrato, eppure ebbi la sensazione dei suoi occhi puntati su me. Quando anche lo zio Onofrio ci salutò e varcò il portone per raggiungere la sua carrozza, vidi uno sguardo scorrere fra i due uomini e pensai che forse si conoscessero e non ero io il destinatario dello sguardo dell’uomo.
Il sole iniziò ad essere più caldo e nel giardino le foglie sul melo erano tenere farfalle di colore verde chiaro e mosse dalla brezza, per me era arrivato il momento di preparare i bauli. Una schiera di domestici varcava correndo le mie stanze e all’interno eravamo io, le mie sorelline e Dorenezie, si parlava di luoghi e storie ed a proposito di queste Anna era silenziosa, avrei detto triste, quindi le chiesi cosa ci fosse che la turbava, se fosse la mia partenza o altro; lei con i lacrimoni più grandi dei suoi occhi, mi disse che le sarei mancato tanto, aggiungendo: «so che vai dove ci sono i monti, come nella storia di Dorenezie, ma ho dubbi che tu potrai incontrare creature magiche perché non esistono».
Dorenezie sentì le parole di Anna e rispose: «Anna mia piccola, non si può dire nulla di ciò di cui non si conosce e poi non si può dire cosa si nasconda ai nostri occhi, pensa al mago che ha fatto apparire una monetina da dietro al tuo orecchio il giorno del tuo compleanno, chissà da dove proveniva quella monetina, eppure nelle sue mani non c’era nulla e dopo c’era una moneta; le storie sono così, chi mai può dire cosa può nascere da una storia. Dai piccola Anna che facciamo scomparire quei lacrimoni dal tuo bel visino, vieni» e tendendo le braccia accolse Anna sulle sue ginocchia e le asciugò le lacrime.
Anna la guardò seria e le chiese di raccontarle un’altra storia e Dorenezie, mentre stuoli di domestici andavano e venivano carichi di vesti e oggetti, si mise a narrare la storia di una valle di nome…
Valle di Agaro
In una lontana valle adagiata in alto tra grandi picchi, un po’ discosta dalle mete del popolo comune, molti e molti anni fa sorgeva un villaggio Walser fatto delle stesse rocce dei monti e dello stesso legno delle foreste. Appoggiato sul fianco della montagna tra larici e prati sembrava essere e fare parte stessa dei monti, sembrava nascere dalla terra stessa, un prolungamento naturale di quel luogo meraviglioso tanto era armonico nelle sue costruzioni ed era il più grazioso villaggio di alti pascoli di tutta la zona. Ai lati del fiumiciattolo che vi scorreva vicino una discesa arborea ospitava una incredibile varietà di fiori tra i più rari e di erbe mediche e commestibili da cui le donne del villaggio traevano di che nutrire e curare la famiglia. Vedendolo un’unica parola sorgeva spontanea: armonia.
Vivevano lì un nutrito numero di abitanti tra cui molti vivaci bimbi e ragazzi, poiché a quell’epoca le famiglie erano numerose e come ogni villaggio antico tutti si aiutavano tra loro ed i compiti come ogni mansione erano ben suddivisi tra le famiglie. Vi era chi era addetto alla legna, chi ai campi, chi agli