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Je m’appelle Giselle
Je m’appelle Giselle
Je m’appelle Giselle
E-book237 pagine3 ore

Je m’appelle Giselle

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Info su questo ebook

Giselle vive ad Ajaccio con l’amorevole padre Aris e il resto della sua aristocratica famiglia. Nulla le manca se non l’affetto della madre Maria, venuta a mancare ma sempre presente nel suo cuore, come ricorda l’incisione riportata su un albero della collina in cui la giovane si rifugia nei momenti di riflessione. Ed è lì che conosce Ivan, anche se i suoi occhi profondi le suggeriscono che lo ha già visto prima, ma l’incontro con il ragazzo ne rivela i modi villani, che a Giselle non vanno a genio. Eppure, scorge in lui un’anima malinconica che ha bisogno di essere indirizzata verso il bene. Ancora non conosce la vita dolorosa di Ivan, segnata dalla povertà, dall’ombra delle malefatte commesse (che la riguarderanno molto da vicino) e dal rapporto di odio-amore con Lisa, la perfida madre, donna arrivista in grado di architettare piani diabolici per sottrarsi alla miseria, ma marchiata da un passato feroce che ha devastato la sua ingenuità di una volta. Tanti gli intrighi e le novità che Giselle dovrà affrontare: segreti famigliari che vengono a galla; nuove relazioni, passioni e confronti anche con se stessa; eventi devastanti e minacce da sventare. L’autrice delinea una storia coinvolgente e ricca di colpi di scena, in cui il bene e il male sono separati da un linea sottile e i personaggi, colti nella loro ricerca di ciò che è giusto o sbagliato, affascinano fino alla fine. 

Marilisa Barberio nasce il 04 aprile del 1979. Vive la sua adolescenza a Corazzo (in Calabria), piccola frazione di pochissimi abitanti. Attualmente risiede a Reggio Emilia insieme a suo marito e ai suoi splendidi figli. La scrittura rappresenta la sua libertà nell’esprimersi. Esordisce con il libro L’albero dei ricordi, che le ha conferito una menzione d’onore in un interessante concorso letterario. La frase che più la rappresenta è: “Dedica la tua vita a coloro che ameranno pronunciare il tuo nome”.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2022
ISBN9788830656000
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    Je m’appelle Giselle - Marilisa Barberio

    cover01.jpg

    Marilisa Barberio

    Je m’appelle

    Giselle

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - [email protected]

    ISBN 978-88-306-4600-1

    I edizione novembre 2021

    Finito di stampare nel mese di novembre 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Je m’appelle Giselle

    Dedico questo mio libro con amore a mio marito Tonino,

    a Carmine e Gabriel, pilastri fondamentali della mia vita.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile:

    Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere.

    Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Je m’appelle Giselle

    Cara madre, son passati ormai sedici anni dalla tua morte, eppure il tuo ricordo nel mio cuore e più vivo che mai.

    A volte provo a pensare a come sarebbe stato averti accanto, sentire la tua dolce voce chiamarmi al mattino, le tue dolci carezze, tutte quelle volte che provando ad arrampicarmi sul tuo maestoso albero son caduta sbucciandomi le ginocchia, ma io testarda come un mulo, ci riprovavo, non una, ma due, tre, quattro, finché un giorno a malincuore decisi di lasciar perdere perché tanto non avrei mai avuto la tua grinta, il tuo coraggio, la tua testardaggine, qualità che pur sforzandomi non avrei mai reso mia. Non sarei mai riuscita a leggere con i miei occhi quello che tante volte mi aveva letto il mio caro padre, che il più delle volte, sotto le mie prestanti insistenze, saliva raggiungendo quel ramo e sedendosi a cavalcioni su di esso mi leggeva quelle poche parole che per me rappresentavano tutto, l’amore infinito che provavi per me, e per il tuo unico amore Aris, mio padre.

    Su quella cima erano incisi i nostri nomi e una parola in francese che recitava così pour toujours, che nella nostra amata lingua significava per sempre.

    Cara madre, ogni volta che ti penso mi si riempie il cuore di speranza, ti renderò fiera di me, te lo giuro, cara madre mia.

    Adesso ti lascio, avrei voluto tanto abbracciarti, ma ogni volta che sento forte questo desiderio dentro di me chiudo gli occhi e ti penso con tutto il cuore, so, mia cara madre, che tu in quel momento sei qui e, anche se non ti vedo, in fondo al mio cuore so che ci sei.

    Mi recavo su quella collina praticamente tutti i giorni, erano rari i momenti in cui non ci andavo, tanto che mio padre e miei nonni per il troppo tempo passato lassù avevano fatto costruire vicino quell’albero una piccola casetta con tutti confort possibili. C’era un piccolo camino, una camera da letto, una finestra per ogni stanza con delle tende tempestate di piccoli punti luce colorate, che quando vi si rifletteva il sole emanavano una luce trasformando quelle stanze in veri e propri arcobaleni di colori scintillanti.

    Tante volte la servitù di mia nonna si recava fin sopra la collina a portarmi il pranzo, per me rimanere in quel luogo era veramente appagante.

    Erano ormai anni che i miei nonni non venivano più fin quassù, mi ricordo che quando ero bambina erano loro che ogni pomeriggio mi accompagnavano a rendere omaggio a mia madre Maria, e a godere di quella collina quasi sempre fiorita.

    Mio nonno ancora in ottima forma mi accompagnava spesso, ma la mia cara nonna no, da tempo ormai immobilizzata a letto, da quando il vaiolo era comparso a devastare la nostra terra e tutte le altre città.

    In tanti pagarono a duro prezzo la comparsa di questa piaga, che pian piano stava sterminando intere famiglie. Ma mia nonna non aveva contratto fortunatamente la malattia, ma era convinta di averla.

    La sua mente fragile si era convinta di essere infetta, e per questo tutti i tentativi per farla ricredere furono vani, la sua più grande paura di ammalarsi le costò la vita, e anche se non era morta era come se lo fosse, essere immobilizzati in un letto e fissare il soffitto, non parlando, non interagendo con nessuno, equivaleva a essere inesistenti. Noi fummo una delle poche famiglie a essere miracolate, nessuno si ammalò in casa nostra, neppure la nostra servitù sembrava accusare i sintomi di quella maledetta malattia che aveva preso piede rapidamente nella nostra città.

    In qui mesi tutto sembrava morire, i cadaveri giacevano lungo tutte le strade ammassati come se fossero parte integrante delle vie.

    Morivano uno dietro l’altro, tanto che oramai le fosse comuni erano colme, era così straziante assistere a quello sgomento e non poter far niente per aiutare. Da quando si era diffusa quella terribile epidemia anche l’aria era cambiata, non si sentiva più il profumo dei fiori, degli alberi germogliati, tutti gli odori della natura erano sopraffatti da quel forte effluvio di putrefazione che volteggiava nell’aria.

    Affinché la malattia non proseguisse oltre, e per evitare qualsiasi altra contaminazione, i corpi venivano bruciati costantemente, da tutte le parti si vedevano nubi di fumo che coprivano il cielo, quel cielo azzurro che tanto amavo guardare.

    Passarono anni prima che quella situazione migliorasse, e la popolazione che dimorava sulla mia adorata isola venne dimezzata bruscamente.

    Non solo la mia zona risentì di quella pestilenza, ma tante e tante città persero tutto, non solo la popolazione ma bensì l’arte dei vari mestieri.

    Tanti padri di famiglia, morti troppo presto, non riuscirono a tramandare ai figli l’arte dei mestieri più nobili, i quali non potendo portare avanti l’attività di famiglia si son sentiti costretti a chiudere e a intraprendere lavori nuovi.

    Mancavano dottori, artigiani, panettieri, tutto sembrava essere tornato all’era della pietra quando l’uomo ancora doveva imparare a vivere e a riorganizzarsi; ci sarebbero voluti tanto tempo e tanta buona volontà prima di respirare a pieni polmoni un giorno di normalità.

    * * *

    Giselle allora era bambina, Aristeo un giorno le disse: «Andiamo a trovare la mamma? O sei ancora impegnata, sarei molto curioso di leggere tutte queste poesie che ti ostini a tenermi nascoste.» Accennò un sorriso divertito. «Padre, certo che siete molto curioso, prima o poi vi farò leggere tutto, promesso, ma per adesso dovrete aspettare. L’argomento principale lo conoscete bene, quindi perché avere fretta, lo sapete meglio di me, no, che la fretta è cattiva consigliera» gli disse Giselle con aria autoritaria. «Adesso siamo nella fase in cui sei tu a darmi consigli, beh, siamo proprio messi bene allora.»

    «Dai su, padre, non fare il brontolone, e muovetevi che siamo in ritardo, lo sapete che se non ci muoviamo rischiamo di perdere lo spettacolo.»

    «Giselle, stai calma, non correre, manca più di una mezzora, benedetta ragazza somigli tutta a tua madre.» Aris osservava la figlia con tanta ammirazione, più cresceva e più somigliava a sua zia Giselle fisicamente, e alla sua cara Maria che tanto mancava nella sua vita, più passavano gli anni e più lei lo stupiva, possedeva tutte quelle doti che aveva riscontrato in un’unica persona, quella persona che mai aveva lasciato il suo cuore, quella persona che sarebbe vissuta in lui per sempre. Maria è stato l’unico amore di Aris, da quando lei era morta, mai neanche per un misero secondo lui aveva guardato un’altra donna. L’amore che provava per lei era così forte che non era più riuscito a innamorarsi di nuovo.

    Eppure era un uomo bellissimo e ricco soprattutto, ma per lui contavano solo i suoi vecchi genitori e quella figlia che tanto riempiva le sue giornate, erano praticamente inseparabili padre e figlia, avevano un intesa perfetta, erano d’accordo praticamente su tutto, e anche se Giselle aveva ormai gli anni per prendere marito lui non aveva fretta, preferiva lasciarla vivere serenamente tanto per l’amore c’è sempre tempo. «Visto, mia cara, che ancora siamo in anticipo, dai siediti vicino a me, e aspettiamo che il sole venga a salutarci.» disse Aristeo riempiendosi gli occhi per la bellezza che vedeva ogni giorno di più germogliare in Giselle.

    Era un momento speciale per padre e figlia, si sedevano lì ad attendere che quella meraviglia si compisse, il loro sguardo era rivolto verso l’intaccatura delle due maestose montagne dove ogni giorno succedeva l’incanto, il sole tramontava proprio lì dietro e creava una magia. Tutto succedeva in pochissimo tempo, ma per loro sedersi lì, uno accanto all’altro e aspettare che l’ultimo pezzetto di sole gli facesse l’occhiolino era la cosa più appagante della giornata. Ma entrambi pensavano e sentivano la stessa sensazione, anche se loro non lo sapevano ma lì, seduti con loro, c’era Maria, che mai aveva abbandonato padre e figlia, e Aris in cuor suo sapeva che Maria c’era, riusciva sempre a percepirne la presenza, nei piccoli movimenti della natura lui sentiva lei che lo accarezzava, come il vento accarezza l’erba, lui sentiva la sua presenza costante nella sua vita ma in particolare modo lì.

    Non aveva mai dimenticato quello che Maria gli aveva detto prima di morire: «Io rimarrò sempre nel tuo cuore, non andrò mai via, mi ritroverai sempre qui, sulla nostra collina, vicino al nostro albero e quando sarà giunta la primavera e comincerai a sentire il caldo tepore del vento, il profumo dei fiori chiudi gli occhi e io sarò lì, mi sentirai in tutti quei rumori perché io sarò sempre con voi, in ogni passo della vostra vita.» erano queste le splendide parole lasciate come tesoro da Maria ad Aris, parole che lui si era inculcato nel cuore per non lasciarle mai andare. «Giselle, pronta per tornare a casa?»

    «Sì padre, andiamo pure, prima che la notte vera arrivi, abbiamo come al solito i nostri venti minuti prima che cali il buio, quello che fa paura.» «Sei tremenda, Giselle, la paura e l’unica cosa che non ti appartiene, non ho mai conosciuto una ragazza più coraggiosa di te, giorno dopo giorno mi dai la prova di quanto sei tenace, quando ti ci metti riesci sempre a stupirmi, come fai non lo so, ma posso assicurarti che sono fiero di te per come stai crescendo e per la ragazza meravigliosa che stai diventando.» «Padre, tanto coraggiosa non mi sento, ancora non sono riuscita ad arrampicarmi sull’albero della mamma, eppure sono tante le volte che ci ho provato, ma niente non ci riesco proprio, arrivo a metà e poi discendo, è più forte di me, non appena guardo in alto per scegliere la cima più appropriata per salire, avverto una paura fin dentro lo stomaco, e quel che mi resta da fare è scendere a malincuore. Vedi, padre, poi così tanto coraggiosa non lo sono.» «Giselle, avere paura di una singola cosa non vuol dire non essere valorosi, significa soltanto nel tuo caso avere paura delle altezze, magari, ed è per questo che non appena guardi in alto ti assale la paura. Ma vedrai che bisogna soltanto lavorarci, e ti prometto che se un giorno vorrai provarci io sarò lì a prenderti se mai sarai titubante.»

    Padre e figlia si avviarono verso casa, erano felici, per loro bastava stare insieme, eppure era stato un brutto periodo, in casa succedevano cose strane, più di una volta avevano sorpreso malintenzionati che all’apparenza sembravano ladri, ma poi in quella casa cercavano di tutto, tranne i valori che sembravano proprio non interessargli.

    Giselle era rimasta immobile di fronte a quelle persone che la fissavano dritto negli occhi, la guardavano in modo minaccioso ma c’era un ragazzo in particolare, della sua età più o meno, che la fissava in modo diverso.

    I suoi occhi erano talmente profondi, e di un colore così scuro che lei in vita sua mai aveva visto un colore nero così intenso. Aveva mezzo viso coperto da un foulard rosso, un po’ bizzarro in realtà, ma i suoi occhi suscitarono in Giselle un sussulto che lei non riusciva proprio a capire, la sua non era paura ma avrebbe voluto vedere quel ragazzo senza quel ridicolo foulard.

    Sapeva in cuor suo che le persone difronte a lei erano pericolose, e Giselle nel profondo del suo cuore sentiva la paura crescerle dentro come un uragano che quando arriva poi scoppia in un secondo, ed era questo che la turbava; se solo quei malviventi fossero rimasti un tantino in più chissà cosa sarebbe successo.

    E poi in fondo lei era una ingenua, non vedeva la cattiveria delle persone, in quel momento pensava che quel ragazzo fosse capitato in casa sua per caso, magari era stato coinvolto da quelle persone adulte che chissà cosa gli avevano mai promesso.

    Se avesse dovuto giudicarli avrebbe pensato proprio così, ma il tempo avrebbe condannato quelle sue insulse parole, perché Ivan, quel misterioso ragazzo, avrebbe scombussolato la sua vita per sempre, e sarebbe successo a breve, tutto in quella casa sarebbe cambiato, in primis Giselle. «Buona notte, Giselle, dormi bene Bambina mia.»

    «Padre, per voi io resterò sempre una bambina, vero, eppure siamo della stessa altezza, anzi con un po’ di tacco sarei più alta di voi» lui sorrise di gusto e rivolgendosi a lei disse:

    «Giselle, tu per me sei e sarai sempre la mia piccola bambina, da coccolare e proteggere per sempre, e poi lo sai benissimo: la mia non è una vocazione, è una promessa che io feci alla persona più importante della mia vita e mai e poi mai infrangerò quella supplica fatta quel maledetto giorno in cui persi tua madre.»

    «Sì padre, lo so benissimo, dai sedetevi qui accanto a me e parlatemi ancora una volta della mia dolce madre, di come era meraviglioso stare con lei e di tutto il bene che nutriva nei miei confronti.»

    Quella notte passò in fretta, per Giselle sentire parlare della sua mamma le rasserenava la serata, e poi quella mattina doveva essere elettrizzante per lei, finalmente sarebbe arrivata una persona speciale che aspettava da molto tempo. Infatti, a poche ore di distanza sarebbe sbarcata una sua lontana cugina che lei non aveva mai visto, ma solo conosciuto per lettera, numerose lettere che le due ragazze si erano scambiate nel corso del tempo.

    Era la figlia di un cugino di suo padre nata e cresciuta a Parigi, e adesso finalmente stava venendo a fare visita a Giselle.

    Lei non stava nella pelle dall’emozione, tutto quello che faceva in quella mattinata tremenda le veniva bruscamente storto. Provò a fare una pettinatura diversa, un po’ sbarazzina ma i suoi capelli avevano preso la forma ingarbugliata di un nido di uccelli, mancavano solo una dozzina di uova e il gioco era fatto.

    Era talmente nervosa da rovesciare tutto quello le veniva a tiro, perfino quel delizioso vassoio di dolcetti che portavano il suo nome cioè le Giselle, che Aris, il suo papà, aveva fatto preparare giusto per l’occasione.

    Non poteva farci niente, aveva le mani di burro, decise che per calmarsi non le restava altro da fare che recarsi sulla sua amata collinetta, magari in quel posto si sarebbe calmata, per essere pronta per accogliere Isabel che presto sarebbe arrivata, mancavano sì e no poche ore e presto quella ragazza misteriosa sarebbe sbarcata. Giselle era seduta per terra a fianco a quel maestoso albero, e più lo guardava e più aveva l’istinto di salire, era più forte di lei voleva a tutti i costi leggere con i suoi occhi quello che sua madre aveva scritto su quella cima, sapeva perfettamente cosa c’era inciso eppure lei, che non lo aveva visto con i propri occhi, non poteva credere che sua madre fosse riuscita ad arrampicarsi fin lassù. Si alzò di scatto, voleva almeno provarci, anche se il padre si era raccomandato di non farlo; era sicuro che lei avesse troppo paura dell’altezza per riuscirci. Ma Giselle presa dalla foga di quel giorno si sentiva pronta, per lei superare quella prova rappresentava in parte farcela.

    E allora senza dubbi alcuni si avvicinò, afferrò una dopo l’altra le cime e pian piano senza neppure accorgersene si trovò lassù dove tutto sembrava diverso, magico.

    Non riusciva a crederci, sembrava tutto così facile, eppure quell’impresa tempo fa le sembrava insormontabile, tanto che numerose volte aveva fallito miseramente, ma non quella volta, era troppo vicina per arrendersi, si fece coraggio e senza mai – neppure per una volta – girarsi e guardare in basso arrivò alla meta, dove sapeva con certezza essere la cima giusta poiché il Padre Aris, già da tempo, aveva legato un nastro rosa affinché lei si ricordasse quale

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