L'immoralista
Di Andre Gide
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In viaggio verso Tunisi in luna di miele con la nuova moglie, il letterato parigino Michel si ammala di tubercolosi. Mentre guarisce, riscopre i piaceri fisici del vivere e si ripromette di abbandonare gli studi del passato per vivere il presente.
Questi non è il Michel familiare ai colleghi e nemmeno il Michel che verrà accettato dalla società tradizionale: è costretto a nascondere i suoi nuovi valori sotto una nuova facciata.
André Gide (Parigi, 22 novembre 1869 – Parigi, 19 febbraio 1951) è stato uno scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nel 1947. I temi centrali dell'opera e della vita di André Gide sono stati affermare la libertà, allontanarsi dai vincoli morali e puritani, ricercare l'onestà intellettuale che permette di essere pienamente sé stessi, accettando la propria omosessualità senza venir meno ai propri valori.
«Per la sua opera artisticamente significativa, nella quale i problemi e le condizioni umane sono stati presentati con un coraggioso amore per la verità e con una appassionata penetrazione psicologica.»
(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura)
Traduzione di Eugenio Giovannetti.
Andre Gide
André Gide (1869–1951), winner of the 1947 Nobel Prize for Literature, was a celebrated novelist, dramatist, and essayist whose narrative works dealt frankly with homosexuality and the struggle between artistic discipline, moralism, and sensual indulgence. Born in Paris, Gide became an influential intellectual figure in nineteenth- and twentieth-century French literature and culture. His essay collections Autumn Leaves and Oscar Wilde, among others, contributed to the public’s understanding of key figures of the day. He traveled widely and advocated for the rights of prisoners, denounced the conditions in the African colonies, and became a voice for, and then against, communism. Other notable works include The Notebooks of André Walter (1891), Corydon (1924), If It Die (1924), The Counterfeiters, and his journals, Journal 1889–1939, Journal 1939–1942, and Journal 1942–1949.
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L'immoralista - Andre Gide
André Gide
L'immoralista
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Indice dei contenuti
PREFAZIONE
Al signor D.R., presidente del Consiglio Sidi b. M., 30 luglio 189…
PARTE PRIMA
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
PARTE SECONDA
I
II
III
PARTE TERZA
Ti lodo Signore, per avermi fatto creatura così ammirabile.
SALMI CXXXIX – 44
PREFAZIONE
Do questo libro per quello che vale. È un frutto pieno di cenere amara; somiglia alle colochinte del deserto, che crescono nei luoghi calcinati e non presentano alla sete se non una più atroce arsura, ma sulla sabbia d’oro non sono senza bellezza. Se avessi dato il mio eroe come esempio, bisogna convenire che sarebbe stato un bel buco nell’acqua. I pochissimi che vollero occuparsi dell’avventura di Michele, lo fecero soltanto per vituperarlo con tutta la forza della loro bontà. Non avendo invano ornato di tante virtù Marcellina, non si perdonava a Michele il non preferirla a se stesso. Se avessi invece dato questo libro come un atto d’accusa contro Michele, non sarei riuscito meglio, perchè nessuno mi fu grato dell’indignazione ch’esso provava contro il mio eroe. Questa indignazione pare che la si risentisse, mio malgrado; da Michele essa traboccava su di me; e si era pronti a confondermi con lui.
Ma non ho voluto fare in questo libro non più atto d’accusa che apologia, e mi sono guardato dal giudicare. Il pubblico non ammette più oggi che l’autore, a seconda dell’azione che dipinge, non si dichiari favorevole o contrario. Ma non basta: si vorrebbe addirittura che pigliasse partito nel corso stesso del dramma: che si pronunciasse nettamente per Alceste o per Filinto, per Amleto o per Ofelia, per Fausto o Margherita, per Adamo o per Geova. Io non pretendo, certo, che la neutralità (stavo per dire: l’indecisione) sia il sicuro segno d’un grande spirito, ma credo che molti grandi spiriti sieno stati sempre assai restii a concludere – e che porre bene un problema, non è un supporlo già da prima risoluto.
Uso di contraggenio qui la parola problema
. A dir vero, non ci sono problemi in arte, di cui l’opera d’arte stessa non sia la sufficiente soluzione.
Se per «problema» s’intende «dramma», dirò che quello che questo libro racconta, pur rappresentandosi nell’anima stessa del suo eroe, è tuttavia troppo generale per restare circoscritto nella sua singolare avventura. Non ho la pretesa d’averlo inventato questo problema: esisteva già prima del mio libro. E che Michele trionfi o soccomba, il problema continua a sussistere, e l’autore non propone come accertato nè il trionfo nè la disfatta.
Se poi qualche spirito distinto non ha consentito a vedere in questo dramma che il racconto d’un caso bizzarro, e nel suo eroe che un malato; se hanno misconosciuto che possono sussistervi alcune idee molto urgenti e d’interesse assai generale, la colpa non è di queste idee nè di questo dramma: è del suo autore, e mi riferisco senz’altro alla sua inettitudine – anche se abbia messo in questo libro tutta la sua passione, tutte le sue lacrime e tutta la sua cura. Ma l’interesse reale di un’opera e quello che il pubblico d’un giorno vi porta son due cose assai differenti. Si può, io credo, senza troppa fatuità, preferire il rischio di non interessare il primo giorno, con cose interessanti all’appassionare senza domani un pubblico avido d’insulsaggini.
Del resto, non mi sono studiato di provare cosa alcuna, ma di dipinger bene e di mettere bene in luce il dipinto.
A Henri Ghéon, il suo bravo compagno
A. G.
Al signor D.R., presidente del Consiglio Sidi b. M., 30 luglio 189…
Sì, avevi colto nel segno. Michele ci ha parlato, caro fratello. Ed eccoti il racconto che ci ha fatto. Tu l’avevi chiesto; io te l’avevo promesso; ma al momento di mandartelo esito ancora, e più lo rileggo, più mi pare orribile. Che penserai tu del nostro amico? E, d’altra parte, che ne penso io stesso. Lo condanneremo senza appello, negando che si possano mai volgere al bene facoltà che si manifestano così crudeli? Ma c’è più d’uno, oggi, temo, che oserebbe riconoscersi in simile racconto. Si potrebbe mai considerare come immaginario l’impiego di tanta intelligenza e forza, o rifiutare a tutto ciò diritto di cittadinanza?
In che cosa Michele può servire lo Stato? Confesso che l’ignoro. Un’occupazione gli è necessaria. L’alta posizione che ti hanno valso i tuoi grandi meriti, il tuo grande potere, ti permetteranno di trovarla? Affrettati. Michele è devoto; lo è ancora: fra poco non lo sarà più che a se stesso.
Ti scrivo sotto un azzurro perfetto. Noi, Dionigi, Daniele ed io, siamo già qui da dodici giorni e mai una nuvola, mai un velarsi del sole. Michele dice che il cielo è così puro da due mesi.
Io non sono triste nè gaio. L’aria qui vi riempie d’una lievissima esaltazione e vi mette in uno stato che pare tanto lontano dalla gaiezza quanto dalla pena: forse è la felicità.
Noi restiamo accanto a Michele. Non vogliamo lasciarlo. Capirai perchè, se vorrai leggere queste pagine. Attendiamo dunque qui, in casa sua, la tua risposta. Non tardare.
Sai quale amicizia di collegio, forte già e ogni anno accresciuta, legasse Michele a Dionigi, a Daniele, a me. Tra noi quattro una specie di patto fu concluso: al menomo appello dell’uno dovevano rispondere gli altri tre. Quando dunque ricevetti da Michele quel misterioso grido di allarme, avvertii immediatamente Daniele e Dionigi, e tutt’e tre, piantando ogni cosa, partimmo.
Non avevamo rivisto Michele da tre anni. Si era ammogliato, aveva condotto la moglie in viaggio e, al suo ultimo passaggio per Parigi, Dionigi era in Grecia, Daniele in Russia, io rattenuto, lo sai, presso nostro padre malato. Non eravamo tuttavia rimasti senza notizie; ma quelle che ci avevano date Silas e Will non avevano potuto che sorprenderci. Un cambiamento si produceva in lui, che noi non comprendevamo ancora. Non era più il puritano dottissimo ch’era sempre stato, dai gesti goffi a forza d’esser convinti, dagli sguardi così limpidi che sovente, dinnanzi ad essi i nostri troppo liberi discorsi si fermavano. Era... Ma a che serve indicarti già quello che il suo racconto ti spiegherà?
A te dunque è indirizzato questo racconto, tal quale Dionigi, Daniele ed io l’abbiamo sentito. Michele lo fece sulla sua terrazza, dove accanto a lui, noi eravamo distesi nell’ombra, al chiaror delle stelle. Alla fine, abbiamo visto levarsi il giorno sulla pianura. La casa di Michele la domina, come fa il villaggio poco distante. Col gran calore, falciate tutte le messi, quella pianura somiglia al deserto.
La casa di Michele, benchè umile e bizzarra, è graziosa. D’inverno ci si patirebbe il freddo, perchè non ci sono vetri alle finestre, o, meglio, non ci sono affatto finestre ma vasti buchi nei muri. Il tempo è così bello che dormimmo all’aria aperta, su stuoie.
Devo dirti ancora che avevamo fatto un buon viaggio. Siamo arrivati qui di sera, estenuati dal caldo, ebbri di novità, essendoci fermati appena in Algeri; poi a Costantina. Da Costantina nuovo treno ci condusse a Sidi b. M. dove un carretto ci attendeva. La strada cessa lontano dal villaggio. Questo è annidato in cima ad una roccia, come certi paesini dell’Umbria. Salimmo a piedi. Le valigie erano state caricate su due muli. Per chi ci arrivi da quella parte, la casa di Michele è la prima del villaggio. Un giardino chiuso da muri bassi o piuttosto un recinto la circonda, dove crescono tre melograni curvati ed un superbo oleandro. Un ragazzo kabilo era là, che fuggì al nostro arrivo scavalcando il muricciolo senza complimenti.
Michele ci ha ricevuti senza alcun segno di gioia; semplicissimo, pareva temesse ogni manifestazione di tenerezza: ma sulla soglia dapprima abbracciò ciascuno di noi tre gravemente.
Sino alla notte non iscambiammo dieci parole. Un pranzo d’una frugalità quasi estrema era pronto in una sala le cui decorazioni suntuose ci meravigliarono, ma che ti spiegherà il racconto di Michele. Poi ci servì il caffè, che prese cura di fare lui stesso. Salimmo poi sulla terrazza la cui vista s’estendeva all’infinito: e tutt’e tre, simili ai tre amici di Giobbe, aspettammo, ammirando sulla pianura in fuoco, il rapido declinare della giornata.
Quando fu la notte, Michele disse:
PARTE PRIMA
I
Cari amici, vi sapevo fedeli. Al mio appello siete accorsi proprio come io avrei fatto al vostro. Eppure non mi vedevate più da tre anni. Possa la vostra amicizia, che resiste così bene all’assenza, resistere altrettanto bene al racconto che voglio farvi. Poichè se v’ho chiamati d’improvviso e vi ho fatto viaggiare sino alla mia casa lontana, è per vedervi soltanto e perchè voi possiate ascoltarmi. Non voglio altro soccorso che questo parlarvi, perchè sono a tal punto della mia vita ch’io non posso più oltrepassare. Eppure non è stanchezza. Ma non capisco più. Ho bisogno: bisogno di parlare, vi ripeto. Saper liberarsi non è niente: il difficile è saper mantenersi libero. Permettetemi di parlarvi di me: sto per raccontarvi la mia vita, semplicemente, senza modestia e senza orgoglio, più semplicemente che se parlassi a me stesso. Ascoltatemi.
L’ultima volta che ci siamo visti, era, mi ricordo nei dintorni d’Angers, nella chiesetta di campagna in cui si celebrava il mio matrimonio. Il pubblico era poco numeroso, e l’eccellenza degli amici faceva di questa banale cerimonia qualcosa di commovente. Mi pareva che tutti fossero commossi e questo commoveva me stesso. In casa di quella che diventava mia moglie, un breve pasto vi unì a noi all’uscire dalla chiesa. Poi la vettura ordinata ci condusse via, secondo l’uso che nei nostri spiriti unisce l’idea d’un matrimonio con quella d’un marciapiede donde si parte.
Conoscevo pochissimo mia moglie e, senza soffrirne troppo, pensavo che neppur lei mi conoscesse. L’avevo sposata. L’avevo sposata senza amore e sopratutto per compiacere mio padre che, morendo, non avrebbe voluto lasciarmi solo. Amavo mio padre teneramente. Angosciato dalla sua agonia non pensai in quei tristi momenti che a rendergli più dolce la fine: e così impegnai la mia vita prima ancora di sapere quel che la vita fosse. Il nostro fidanzamento al capezzale del morente fu senza festa ma non senza una grave gioia, tanto fu grande la pace che mio padre ne ottenne. Se non amavo, come vi ho detto, la mia fidanzata, almeno non avevo amato alcun’altra donna. Questo bastava ai miei occhi per assicurare la nostra felicità; e, ignorando ancora me stesso, credetti di darmi tutto a lei. Era orfana anche lei e viveva con due suoi fratelli. Marcellina aveva appena vent’anni: io ne avevo quattro più di lei.
Ho detto che non l’amavo in modo alcuno. Per lo meno non provavo per lei niente di quel che si suol chiamare amore, ma l’amavo nel significato della tenerezza, d’una specie di pietà, infine d’una stima abbastanza grande. Lei era cattolica ed io sono protestante... ma io credevo esserlo così poco. Il prete m’accettò, io accettai il prete, e tutto passò alla pari.
Mio padre era, come suol dirsi «ateo»: o almeno lo suppongo, non avendo io, per una specie di pudore che credo egli dividesse, mai potuto parlare con lui delle sue credenze. Il grave insegnamento ugonotto di mia madre s’era, con la sua bella immagine, lentamente cancellato dal mio cuore. Sapete che la perdetti giovane. Non sospettavo ancora quanto quella prima morale di fanciullo ci domini, nè quale pieghe lasci allo spirito. Quella specie d’austerità di cui mia madre m’aveva lasciato il gusto con l’infondermene i principii, la consacrai tutta agli studi. Avevo quindici anni quando perdetti mia madre: mio padre s’occupò di me, mi circondò e fece dell’istruirmi una passione. Sapevo già bene il latino e il greco: con lui imparai presto l’ebraico, il sanscrito, ed infine il persiano e l’arabo. Verso vent’anni ero così riscaldato ch’egli osava associarmi ai suoi lavori. Gli piaceva elevarmi a suo pari e me ne volle dare una prova. Il Saggio sui culti frigi, che apparve sotto il suo nome, fu opera mia. Egli l’aveva appena riveduto. Niente mai gli aveva fruttato tanti elogi. Ne fu entusiasta. Per me, ero confuso al vedere quella soperchieria riuscire. Ma ormai ero lanciato; e gli scienziati più eruditi mi trattavano come loro collega. Sorrido ora di tutti gli onori che mi si fecero. Arrivai così ai venticinque anni, non avendo mai guardato quasi altro che rovine e libri, e non sapendo niente della vita. Mettevo nel lavoro un singolare fervore. Amavo alcuni amici (tra cui voi) ma piuttosto l’amicizia che gli amici stessi. La mia devozione per essi era grande, ma non era che il bisogno di nobiltà. Io vagheggiavo in me ogni bel sentimento. Del resto ignoravo gli amici come ignoravo me stesso. Non mi balenò neppure per un istante l’idea che avessi potuto