- Introduzione
- La cefalea: che cos’è e quali sono le cause
- L’emicrania: che cos’è e quali sono i disturbi
- La cefalea di tipo tensivo: come si manifesta e come si cura
- La cefalea a grappolo: che cos’è, come si manifesta e come si cura
- Gli anticorpi monoclonali contro l’emicrania
- La malattia di Alzheimer: che cos’è e quali sono le cause
- I principali disturbi provocati dall'Alzheimer: la sintomatologia
- Come si riconosce e si cura l'Alzheimer: diagnosi e terapia
- Le distonie: che cosa sono, quali sono le cause e come si curano
- L’ictus: che cos’è, quali sono le cause e come s’interviene
- La malattia di Parkinson: quali sono i disturbi e come si cura
1Introduzione
L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha denunciato un incremento delle patologie neurologiche. La lista è lunga e impegnativa: cefalee, epilessia, disturbi del movimento, meningite, Alzheimer, Parkinson, SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), sclerosi multipla, ictus, demenze… I disturbi legati a queste affezioni coinvolgono oltre un miliardo di persone in tutto il globo e le stime riferiscono che entro i prossimi vent’anni costituiranno la principale causa di morte e di disabilità. Un fenomeno dovuto in parte all’invecchiamento della popolazione e alla carenza di risorse terapeutiche risolutive, ma anche alla scarsa diffusione ed efficacia delle misure preventive. Vero è anche però che le crescenti conoscenze dei meccanismi fisiopatologici sta consentendo ai ricercatori di mettere a segno innovative procedure diagnostiche e originali fronti terapeutici volti al miglioramento delle cure e della qualità assistenziale dei pazienti con problematiche neurologiche.
Ecco una carrellata esemplificativa delle principali situazioni patologiche (rimandando ai relativi lemmi la spiegazione degli specifici quadri clinici).
2La cefalea: che cos’è e quali sono le cause
La cefalea è il termine medico per indicare il generico mal di testa. Sono distinguibili due raggruppamenti principali.
1) Le cefalee primarie sono quelle forme in cui il dolore è un disturbo autonomo; il male al capo, cioè, non risulta legato alla presenza di altre patologie, la sofferenza non è giustificata da alcuna condizione nota. In definitiva, rappresenta una “malattia” vera e propria. Del tutto indipendente. Le cefalee primarie scaturiscono fondamentalmente da un’alterazione dei sofisticati meccanismi biologici che regolano la percezione e l’elaborazione del dolore nel sistema nervoso centrale. Si possono considerare disturbi con connotati benigni, perché non causano deficit neurologici permanenti, però potrebbero assumere, questo sì, un andamento così disabilitante da compromettere in modo serio la qualità della vita del paziente, che si vede spesso costretto a ridurre significativamente la propria attività lavorativa e sociale. Le più frequenti cefalee primarie sono:
- l’emicrania;
- la cefalea di tipo tensivo;
- la cefalea a grappolo.
2) Le cefalee secondarie sono, invece, quelle forme in cui il mal di testa non è un disturbo con una sua propria indipendenza. Qui il dolore è un “sintomo”, un segnale, la spia di una ben definita, precisa malattia sottostante: una sinusite, un trauma cranico, una malattia oculare… A questo proposito, i sintomi che, in linea generale, devono indurre a sospettare una cefalea “pericolosa” sono:
- la comparsa recente, improvvisa, del dolore, tendente da subito al peggioramento;
- l’esordio dopo i 40 anni;
- la sede fissa, su un solo lato del capo;
- l’associazione col vomito profuso;
- la presenza di altri disturbi altrimenti inspiegabili: stato confusionale, perdita di coscienza, convulsioni, torpore, vertigini, disturbi della vista.
3L’emicrania: che cos’è e quali sono i disturbi
Degli oltre 35 tipi e sottotipi di cefalea primaria è senz’altro lei, l’emicrania, la cefalea di maggior rilievo clinico, tra le malattie più diffuse nel pianeta. Si tratta di un disturbo che affligge in media il 12% della popolazione mondiale (6 milioni gli emicranici in Italia), con punte che sfiorano il 25% nelle donne in età fertile (son proprio loro a pagare il maggior tributo). Dunque, dovrebbe essere chiaro il concetto, a questo punto, che “emicrania” e “cefalea” non sono affatto sinonimi: l’emicrania è un mal di testa distinto, specifico. Compare sotto forma di attacchi periodici, distanziati da intervalli di benessere. La crisi si manifesta con:
- un dolore d’intensità moderata o severa, generalmente pulsante, che affligge un solo lato del capo.
È possibile tracciare uno spartiacque, all’interno del dolore emicranico, nel senso che l’attacco viene classificato sulla base della cosiddetta aura.
Esiste infatti un emicrania senz’aura e una emicrania con aura.
Aura sta a indicare fondamentalmente un corteo di disturbi che coinvolge di solito la capacità visiva. Succede, durante la crisi dolorosa, che il paziente percepisca dei flash luminosi, oppure delle immagini geometriche che scintillano. Può anche comparire una macchiolina scura dinanzi agli occhi, dalla quale traggono origine tante striscioline scintillanti, o di forma semicircolare, a ferro di cavallo, o come linee zigzaganti.
Ma l’anomalia, anziché manifestarsi sotto forma di immagini luminose, potrebbe pure comportare, nelle forme più gravi, una perdita parziale o totale (non permanente!) del campo visivo. E non è finita: ci sono anche pazienti che riferiscono di percepire una visione distorta, “a mosaico”, delle immagini (tant’è che si parla di “sindrome di Alice nel Paese delle meraviglie”).
Ma non solo disturbi visivi: l’aura emicranica può abbracciare un’ampia varietà di sintomi neurologici che accompagnano, ma più spesso seguono, l’anomalia della visione. Così possono subentrare sensazioni da alterata sensibilità, come la percezione della puntura di spilli; al disturbo visivo potrebbe associarsi anche un deficit di linguaggio, come la difficoltà ad articolare e a emettere le parole.
Una caratteristica ben precisa è il criterio temporale: l’aura dura per un lasso di tempo non inferiore ai 5 minuti e non superiore ai 60 minuti.
- L’emicrania non è pericolosa.
- È dovuta a una serie di alterazioni temporanee che coinvolgono le strutture nervose e i vasi sanguigni cerebrali.
- In genere è condizionata dai fattori ereditari.
- È una malattia episodica e la tipologia degli attacchi è variabile.
- Benché non vi sia una singola cura specifica, sono oggi disponibili trattamenti estremamente efficaci (dai triptani ai Farmaci antinfiammatori non steroidei).
A seconda dell’intensità del dolore e della gravità dei sintomi associati, gli attacchi sono definiti:
- lievi o non disabilitanti, quando non impediscono le attività abituali del paziente;
- moderati o parzialmente disabilitanti, quando limitano, ma non impediscono tali attività;
- forti o completamente disabilitanti, quando impediscono lo svolgimento di qualsiasi attività, anche quelle routinarie.
La frequenza mensile delle crisi permette, poi, d’identificare forme:
- a bassa frequenza, quando non si verificano più di 2 crisi al mese;
- a media frequenza, quando il numero mensile degli attacchi è compreso fra 3 e 5;
- ad alta frequenza, quando le crisi si manifestano almeno 6 volte al mese.
4La cefalea di tipo tensivo: come si manifesta e come si cura
La cefalea di tipo tensivo (che spesso s’identifica con il comune, ordinario “mal di testa”) è la più frequente ed eterogenea tra tutte le cefalee primarie, con una percentuale di prevalenza (cioè di “presenza” all’interno della popolazione generale) tra il 30% e il 78%.
Tutte le età della vita possono venir coinvolte, in special modo nella fascia 30-39 anni, ed è il sesso femminile il target prediletto.
Il volto del nemico è tipico, e ben lo descrivono i pazienti che l’hanno incrociato nella loro vita:
il dolore (di grado lieve-moderato) è “a cerchio” oppure “a fascia”, non pulsante e a entrambi i lati del capo.
Il fastidio trae origine molto spesso dalle aree posteriori del capo per poi estendersi alle tempie o alla fronte, oppure s’irradia al collo e alle spalle (potendo anche nascere in tali sedi).
Generalmente, i pazienti più vessati da questo mal di testa sono coloro che si vedono costretti a mantenere per periodi prolungati una certa posizione, durante lo svolgimento di una mansione mentale o fisica: si pensi agli studenti, agli insegnanti, oppure agli operai addetti alle catene di montaggio. Bersagli di tale cefalea sono pure le persone sottoposte agli stressanti ritmi di lavoro e anche i soggetti che vivono particolari problematiche psicopatologiche. Ragion per cui, sospendere l’impegno lavorativo o concedersi il giusto riposo o una parentesi di relax sono provvedimenti capaci di attenuare il fardello dei disturbi.
Dormire o ripararsi dagli stimoli sensoriali (suoni e luci), a differenza di quanto avviene nel paziente emicranico, non produce un sostanziale giovamento durante l’attacco della cefalea di tipo tensivo. Anzi, non è infrequente che qualcuno sperimenti un miglioramento svolgendo attività che in qualche modo possono distrarlo. È un’entità non singola ma sfaccettata: la Classificazione internazionale delle cefalee la suddivide in tre forme. Vediamole.
- Cefalea di tipo tensivo episodica sporadica - È caratterizzata da infrequenti episodi di mal di testa, almeno 10, che si verifichino per meno di 12 giorni all’anno (meno di un giorno al mese). La cefalea dura da 30 minuti a 7 giorni.
- Cefalea di tipo tensivo episodica frequente - Secondo le indicazioni fissate dagli esperti le crisi debbono presentarsi per più di 12 giorni all’anno, ma meno di 180 giorni annualmente (il che significa: più di un giorno al mese ma meno di 15 giorni mensilmente per almeno 3 mesi).
- Cefalea di tipo tensivo cronica - Qui il mal di testa è presente per 15 o più giorni al mese per oltre 3 mesi consecutivi (per 180 giorni e passa all’anno). La cefalea dura ore o può essere continua.
Il trattamento della cefalea di tipo tensivo si basa su diverse strategie: farmaci (analgesici in prima battuta e antidepressivi serotoninergici nella terapia di profilassi, cioè preventiva), fisioterapia, terapia comportamentale (contrattura/decontrattura muscolare e biofeedback) nonché agopuntura.
5La cefalea a grappolo: che cos’è, come si manifesta e come si cura
Emicrania e cefalea di tipo tensivo rappresentano di certo i mal di testa di più frequente riscontro nella popolazione generale e nella pratica clinica. Però la cefalea a grappolo è la forma più invalidante. Il segno distintivo? L’estrema gravità del dolore. Talmente devastante, che tale disturbo da sempre si porta addosso un appellativo atroce. Che non ha bisogno di commenti: cefalea da suicidio.
L’immagine che dipingono i neurologi, per tracciare l’identikit del paziente che sperimenta questa tipologia di dolore così severa, è quella della persona che si contorce, che vagola nel buio con le lacrime che colano abbondanti solamente da un globo curare, e col viso congelato nella smorfia della sofferenza.
Ma perché quell’etichetta: grappolo? Questa cefalea è caratterizzata clinicamente da un andamento del tutto particolare delle crisi, con l’alternarsi di periodi attivi (e cattivi), definiti, per l’appunto, grappoli, durante i quali compaiono gli attacchi, e fasi di assoluto benessere.
Il termine “a grappolo” si riferisce proprio al susseguirsi di più crisi dolorose che si affastellano in un lasso temporale limitato: la durata media del grappolo oscilla da uno a due mesi.
Nella forma episodica, la cadenza dei grappoli è annuale o biennale; nella forma cronica, invece, i periodi attivi abbracciano una durata superiore a un anno senza remissione (cioè senza intervalli di sollievo), o comunque con fasi di remissione inferiori ai 14 giorni. In genere, l’attacco in sé e per sé dura tra i 15 e i 180 minuti, più di frequente tra i 30 e i 120 minuti. Ancora: il dolore coinvolge sempre un solo lato del capo. L’elemento più prostrante è di certo l’intensità del dolore: può risultare più lieve all’esordio della crisi, ma nel giro di una manciata di minuti finisce per toccare punte violentissime, senza recedere, mantenendo questa sua violenza fino a qualche momento prima che l’attacco si risolva.
Numerose ricerche hanno cercato, negli anni, di afferrare il mistero che si annida in questa complessa manifestazione patologica, ma oggi l’attivazione disfunzionale dell’ipotalamo, la cruciale cabina di regia collocata nel mezzo degli emisferi cerebrali, risulta ampiamente documentata.
Anche qui sono due i fronti farmacologici: la terapia dell’attacco e la terapia di profilassi. Per fronteggiare con decisione la crisi, il farmaco di prima scelta è il sumatriptan: somministrato per via sottocutanea, risulta efficace in una manciata di minuti. È anche disponibile in supposte, spray nasale e compresse. Negli attacchi di lieve-media entità, è pure possibile ricorrere all’inalazione di ossigeno (alla velocità di 7-10 litri al minuto per una quindicina di minuti).
La strategia profilattica punta invece sull’utilizzo dei calcio-antagonisti: in pole position figura il verapamil, ormai considerato il medicinale di prima scelta un po’ dovunque nel mondo.
6Gli anticorpi monoclonali contro l’emicrania
Contro l'emicrania è attualmente disponibile una famiglia di farmaci innovativi che non consistono in una pillola antidolorifica da prendere al bisogno. Lo scopo è invece prevenire del tutto la crisi, riducendone frequenza, intensità e durata nel corso del tempo.
Stiamo parlando di un farmaco che viene somministrato una volta ogni 28 giorni, con un’iniezione sottocutanea, per diversi mesi consecutivi. I risultati delle ricerche cliniche sono eloquenti; il 70% circa dei pazienti dimezza il numero dei propri attacchi già a partire dal mese successivo alla prima somministrazione.
Le molecole farmacologiche in questione sono anticorpi monoclonali, “proiettili” biologici costruiti ad hoc in laboratorio per centrare un determinato bersaglio corporeo. In questo caso, il target si chiama CGRP. La sigla sta per Calcitonin Gene Related Peptide, ovvero “Peptide correlato al gene della calcitonina”. Gli eccessi nel corpo di tale sostanza agevolano la dilatazione dei vasi sanguigni (e si sa da tempo che la vasodilatazione delle arterie cerebrali influisce sulla comparsa della cefalea) e inoltre velocizzano la trasmissione degli impulsi nervosi di natura dolorosa. Questi due fenomeni vengono arginati quando il medicinale si aggancia in maniera altamente specifica al CGRP e ne ostacola l'azione. Proprio per questa interazione così precisa, non si sono registrati sostanziali effetti collaterali nei pazienti.
7La malattia di Alzheimer: che cos’è e quali sono le cause
La demenza coinvolge oltre 55 milioni di persone in tutto il pianeta. Nel nostro Paese si stima che interessi oltre 1, 2 milioni di persone, destinate a diventare 1,6 milioni nel 2030. Svariate le possibili cause ma la più comune, nel 60-70% dei casi, è la malattia di Alzheimer, patologia neurodegenerativa che compromette la memoria, il pensiero e il comportamento.
8I principali disturbi provocati dall'Alzheimer: la sintomatologia
- Perdita della memoria (si dimenticano nozioni e accadimenti rilevanti, si chiedono più volte le medesime informazioni, si lasciano gli oggetti in luoghi insoliti).
- Difficoltà a risolvere problemi e a portare a compimento attività che una volta risultavano di facile gestione.
- Cambiamenti nell’umore e nella personalità, con propensione ad allontanarsi dagli amici e dalla cerchia dei familiari (si diventa sospettosi, depressi, spaventati/ansiosi, e anche irascibili).
- Problemi di comunicazione, sia scritta, sia verbale (chi soffre della malattia di Alzheimer fatica a seguire una conversazione).
- Tendenza a fare confusione, sui luoghi, sulle persone e sugli eventi.
9Come si riconosce e si cura l'Alzheimer: diagnosi e terapia
Non ci sono mai stati trattamenti efficaci capaci di arrestare la progressione della neurodegenerazione. Esistono farmaci che possono mitigare in qualche modo i sintomi di tale demenza, come il donepezil, la rivastigmina e la galantamina, molecole che puntano a inibire l’acetilcolinesterasi perché quest’enzima degrada l’acetilcolina, il mediatore chimico che governa la trasmissione degli impulsi nervosi, compromessi in caso di Alzheimer. In tal modo, grazie alla maggiore disponibilità di questo neurotrasmettitore, migliorano i sintomi cognitivi associati alla malattia. I problemi di insonnia, di ansietà e di depressione, presenti nel quadro clinico, vengono trattati con i relativi farmaci sintomatici. Ma il 2021 ha segnato un traguardo per certi versi epocale. Contro la malattia di Alzheimer, infatti, mancavano nuove risorse farmacologiche dal 2003!
La Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che regolamenta prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato l’uso di una molecola alquanto promettente. Si chiama aducanumab e può essere somministrata nelle fasi precoci della malattia per rallentare il declino cognitivo. Prodotta dalla Biogen, azienda americana all’avanguardia nelle biotecnologie applicate alle neuroscienze, viene somministrata con un’iniezione per via endovenosa una volta al mese. Agisce contro uno dei fattori alla base della malattia, ossia l’accumulo della famigerata beta-amiloide nel cervello dei pazienti. Aducanumab, che è un anticorpo monoclonale, va a distruggere quegli abnormi aggregati.
L’entusiasmo deve però fare i conti con diversi nodi da sciogliere. Non esistono ancora dati convincenti che tale effetto "sciogli-placca" comporti pure un reale rallentamento nella progressione della patologia o addirittura una sua regressione. Inoltre il trattamento non è del tutto esente dagli effetti collaterali (come l’eventualità che si verifichino microemorragie cerebrali, pur sempre in un numero limitato di pazienti). Di certo, però, il varo dell’innovativo trattamento segna una svolta storica per la sanità mondiale. Perché a questo punto diventa assolutamente pressante una parola d’ordine: diagnosi precoce. Riconoscere per tempo la vera natura di certi disturbi (la perdita di memoria o l’incapacità di comprendere il linguaggio) significa infatti avere la possibilità di somministrare con tempestività il nuovo farmaco, quando la malattia non ha ancora compromesso seriamente le strutture cerebrali.
10Le distonie: che cosa sono, quali sono le cause e come si curano
La contrazione muscolare è un vero miracolo di bio-ingegneria biologica. Ma può capitare che le fibre muscolari si contraggano in maniera prolungata o intermittente, producendo movimenti e posture anomale. Si parla allora di distonie. Rientrano in questa definizione il blefarospasmo, ossia la chiusura persistente e involontaria delle palpebre, e il torcicollo spasmodico, uno spasmo protratto dei muscoli del collo che produce rotazioni e inclinazioni innaturali della testa. Ma la distonia può colpire qualsiasi parte del corpo: dalle braccia alle gambe, dal tronco alle corde vocali.
Contro questo disagio, di cui non si conoscono completamente le cause, scende in campo la tossina botulinica. Gettonato rimedio per spianare le rughe d’espressione, viene impiegato anche per correggere le "anarchie" muscolari, con la differenza che le fiale impiegate nella medicina estetica posseggono un contenuto inferiore del composto. La tossina, legandosi alle terminazioni nervose che arrivano ai muscoli, impedisce la liberazione della citata acetilcolina, trasmettitore indispensabile per produrre la contrazione muscolare e il movimento. L’effetto, insomma, è paralizzante.
Iniettata per via intramuscolare, non agisce subito ma richiede qualche giorno: di solito dai tre ai sette. L’azione “rilassante” dura circa tre mesi. In pratica, il beneficio tende ad attenuarsi col tempo e così c’è bisogno di una nuova seduta. In media si eseguono dai due ai quattro trattamenti all’anno, a seconda dei risultati nei singoli pazienti.
Contro le distonie esiste anche una cura chirurgica: prevede l’inserimento di due elettrodi in alcune strutture cerebrali profonde, ma è una soluzione indicata per le forme complesse, generalizzate, che compromettono la qualità della vita. E l’aiuto giunge pure dai farmaci, come quelli sedativi e miorilassanti (benzodiazepine, anticolinergici e antispastici).
Ma l’efficacia della tossina botulinica è sicuramente superiore ai rimedi farmacologici ed è di certo il trattamento di prima scelta nelle distonie isolate.
11L’ictus: che cos’è, quali sono le cause e come s’interviene
“Ictus” è una parola latina. Significa “colpo”. E infatti, purtroppo, arriva così, di punto in bianco. Ma saper riconoscere per tempo i sintomi che annunciano l’ictus è di vitale importanza, perché la diagnosi precoce consente di reagire con tempestività. Nel nostro Paese l'ictus rappresenta la terza causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore e i tumori. Ed è anche la prima causa di invalidità: il 75% delle bufere cerebrali si abbatte sulle persone over 65.
Ecco i segnali che svelano la sua presenza:
- il brusco indebolimento di un arto e l’incapacità di muoverlo;
- la perdita della forza o della sensibilità su tutto un lato del corpo;
- un’improvvisa difficoltà nel formulare le parole (non si riesce a parlare in modo corretto) o nel comprendere quelle che ci vengono rivolte;
- il repentino oscuramento di una parte del campo visivo, la percezione di uno sdoppiamento delle immagini, la perdita della vista in un solo occhio;
- le vertigini e un deficit nell’equilibrio;
- lo scoppio fulmineo di una cefalea tremenda, violentissima, mai sperimentata prima in tutta la vita.
Mentre i primi quattro disturbi suggeriscono un ictus ischemico, l’ultimo sintomo è la firma quasi esclusiva di un ictus emorragico. L'ictus mostra infatti due facce. Il “colpo” in questione consiste in un’interruzione del flusso di sangue al cervello e la colpa può essere o di un “blocco”, un coagulo di sangue all’interno di un tubo arterioso (è l’ictus ischemico e rappresenta la forma più frequente, l’80% circa dei casi), o di una rottura della parete del vaso sanguigno (l’ictus emorragico).
Il risultato, drammatico, non cambia: i neuroni cerebrali, privati di ossigeno e nutrimento, cominciano a morire.
Ecco perché, se ci ritroviamo alle prese con qualcuno dei malesseri elencati, dobbiamo chiamare all’istante il 118, recarci all’ospedale possibilmente più vicino e in cui siano disponibili gli interventi terapeutici ad hoc e le équipe esperte per affrontare l’emergenza. Non aspettiamo che il disturbo passi da solo e non attardiamoci interpellando il medico di famiglia!
La TC, la tomografia computerizzata, è l’esame diagnostico cui si viene sottoposti di primo acchito per distinguere il tipo di ictus; se c’è in ballo un’ostruzione del flusso di sangue, la cura regina, assodata in tutto il mondo, è l’iniezione per via endovenosa di un farmaco “sciogli-coagulo” (è la trombolisi), che viene somministrato dopo le opportune analisi di laboratorio e un’attenta valutazione del paziente. Se invece è in corso un’emorragia, vi è la possibilità di procedere chirurgicamente, per sanare l’arteria cerebrale che si è interrotta. Il massimo del risultato si ottiene se dall’inizio dei disturbi alle cure trascorre un’ora.
Il regolamento dell’Agenzia Italiana del Farmaco ammette un ulteriore lasso di tempo: da quando emergono i sintomi fino a quattro ore e 30 minuti, la terapia trombolitica può ancora essere effettuata ma con minore vantaggio e un sensibile aumento dei rischi.
Se si interviene entro 60 minuti, questo è il concetto, si quadruplicano le chance di arginare gli eventuali deficit neurologici e di uscire indenni dalla tempesta.
12La malattia di Parkinson: quali sono i disturbi e come si cura
La malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa cronica, che ha una evoluzione lentamente progressiva ed è dovuta a un'alterazione che coinvolge il controllo cerebrale dei movimenti e dell’equilibrio. All'origine di questo disordine c’è una perdita dell'attività neuronale nella substantia nigra. Si chiama così un agglomerato di neuroni localizzato nel mesencefalo, la regione nel tronco encefalico interposta tra il talamo e l’ipotalamo in alto e il ponte in basso. Questo ammasso di sostanza grigia contiene cellule scure, pigmentate, che gli conferiscono un aspetto nerastro. Tali elementi neuronali provvedono a fabbricare il neurotrasmettitore dopamina, che svolge un ruolo importante nel controllo fine dei movimenti (e, per inciso, il pigmento bruno non è altro che melanina, un derivato della sintesi della dopamina). Se i neuroni deputati a fabbricare il neurotrasmettitore in questione vengono danneggiati o distrutti (per cause genetiche o fattori tossici), il risultato è la comparsa di tremori, rallentamento motorio e rigidità, disagi tipici della malattia di Parkinson, una realtà che in Italia coinvolge circa 450 mila individui.
I sintomi peculiari di quest'affezione neurologica sono quindi:
- il tremore a riposo, presente cioè quando la persona non compie movimenti;
- la rigidità muscolare, ossia un incremento involontario del tono dei muscoli;
- la bradicinesia, ovvero il rallentamento nell'esecuzione dei movimenti e dei gesti (che interferisce con la gran parte delle attività quotidiane);
- i disturbi a carico dell’equilibrio, che si manifestano più tardivamente nel corso della malattia.
Con un trattamento adeguato, l’aspettativa di vita di questi pazienti viene considerata simile, o soltanto lievemente diminuita, rispetto a quella della popolazione generale. Anche nella malattia di Parkinson vige comunque una parola d’ordine decisiva: diagnosi precoce. Primo, perché i trattamenti oggi a disposizione (dalla levodopa ai dopaminoagonisti, dagli inibitori delle monoamino-ossidasi di tipo B all’amantadina) risultano efficaci anche se somministrati nelle fasi inizialissime della malattia. Secondo, per il fatto che le recenti evidenze cliniche prospettano originali trattamenti farmacologici potenzialmente in grado di rallentare la progressione della patologia. Sempre a patto che venga scovata il prima possibile. Note molecole terapeutiche, impiegate per altri scopi curativi, si sono dimostrate capaci di ridurre il rischio di sviluppare la malattia e di ritardarne l’evoluzione, come gli antidiabetici per via sottocutanea, quali l’exenatide o la liraglutide, e la terazosina, farmaco ben conosciuto perché trova comunemente impiego nel trattamento dei sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna.
E proprio nell’ottica della diagnosi precoce si colloca una strumentazione sofisticata: il sistema ANScovery. Ha il potere di passare in rassegna in una sessantina di minuti oltre 30 segnali fisiologici per cogliere le prime avvisaglie del Parkinson. Bisogna infatti sapere che oltre ai sintomi cardini, poc'anzi elencati, esiste pure un corteo accessorio di problematiche minori, non particolarmente specifiche. Disturbi che vengono definiti non motori. Possono precedere quelli classici della malattia conclamata e, adeguatamente studiati e soppesati, potrebbero indirizzare verso una diagnosi tempestiva. Ecco di quali disagi stiamo parlando:
- difficoltà intestinali come una stitichezza ostinata (si possono presentare anni prima della comparsa dei sintomi motori);
- riduzione o perdita del gusto e dell’olfatto (che però niente ha a che vedere col Covid-19!);
- un’aumentata frequenza delle minzioni durante la notte;
- l’eccessivo calo della pressione arteriosa quando si assume la posizione eretta;
- il disturbo del sonno REM, per cui la persona mostra un’esagerata attività motoria notturna; in pratica, vive fisicamente il sogno e perciò mostra comportamenti bruschi e violenti, gridando, tirando pugni e calci e cadendo persino dal letto.
Il macchinario hi-tech può consentire di individuare e inquadrare correttamente questi malfunzionamenti del sistema nervoso autonomo, la centralina che governa l’attività degli organi interni. Il paziente viene collocato su un lettino basculante e in una singola seduta, che dura pressappoco un’ora, è sottoposto a una batteria di test rivelatori. Semplice, non invasivo, l’esame rientra nelle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale.
23 marzo 2022 (modifica il 6 settembre 2024 | 13:19)
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