Tutti i diritti di riproduzione e traduzione
sono riservati
In copertina:
Stefano D’Arrigo
© 2022 Il Terebinto Edizioni
Sede legale: via degli Imbimbo 8/E
Sede operativa: via Luigi Amabile 42, 83100 Avellino
tel. 340/6862179
e-mail:
[email protected]
www.ilterebintoedizioni.it
Responsabile: Ettore Barra
Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018
ANNO XLIV (Nuova Serie V) - N. 3, Settembre-Dicembre 2022
Stampato in Italia
Periodicità: quadrimestrale
email:
[email protected]
sito: www.riscontri.net
Anno XLIV - N. 3
Settembre-Dicembre 2022
RISCONTRI
RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ
fondata da Mario Gabriele Giordano
Direttore
EttorE Barra
Segretario di redazione
LorEna CaCCamo
Comitato di Redazione
FranCEsCo Barra
VinCEnzo Barra
Dino gioVino
raFFaELE La saLa
antonio Carrino
CLaUDio mEo
CarLo CrEsCitELLi
miLEna montaniLE
FranCEsCo D’EpisCopo
armanDo montEFUsCo
ottaViano DE BiasE
Dario riVarossa
Ugo DELLa moniCa
FranCo FEsta
gianni FEsta
orsoLa FratErnaLi
mario garoFaLo
mario gaBriELE giorDano
paoLo saggEsE
saLVatorE saLVatorE
CarLo santoLi
CarLo siLVEstri
gUiDo tossani
RISCONTRI
RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ
SOMMARIO DEL FASCICOLO
EDITORIALE
Ettore Barra, La fine dell’homo faber e il trionfo della fortuna........7
STUDI E CONTRIBUTI
Piervittorio Formichetti, «Papè Satàn, Papè Satàn Aleppe». Dante
Templare contro l’Anticristo francese?................................................13
Manuele Marinoni, Alberto Moravia e lo sguardo antropologico. Per
una lettura dell’Uomo che guarda.......................................................37
Leonardo Lastilla, L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo...........65
OCCASIONI
Riccardo Renzi e Luca Berdini, Mitopoiesi sociale nel romanzo volponiano. Quando i temi della lirica giovanile diventano il sostrato di
una vita da scrittore.............................................................................83
Arturo Serra Gómez, Giovanni Antonio Colicci. Un romano nella
scuola napoletana di scultura lignea...................................................91
MISCELLANEA
Alessia Vacca, Chevalier et Heremite. Due mondi culturali irriducibili nel Chevalier au barisel.................................................................119
Lorena Caccamo, Play by chat. Il gioco di ruolo come forma di scrittura collettiva.....................................................................................137
EDITORE MODERNO
Ettore Barra, Le mie galanti avventure burocratiche....................155
ASTERISCHI
Francesco D’Episcopo, La solitudine dello scrittore; Finali..........161
RECENSIONI
Teatro dell’assurdo oblio. La drammaturgia a metà tra Medioevo e Rinascimento [Dario Rivarossa]..............................................................165
Uber Pulga, il partigiano con la camicia nera
[Piervittorio Formichetti]..............................................................168
Emergenza pandemica e finanza. La “pista dei soldi” nel libro di Davide
Rossi [Ettore Barra].......................................................................171
L’Italia (e gli italiani) secondo i giornalisti degli altri paesi
[Piervittorio Formichetti].............................................................174
Un libro per capire la Cina. Incontro e scontro del Dragone con l’Occidente [Ettore Barra]....................................................................177
Dal sottosuolo alla superficie. Le vie recondite dell’unità smarrita
[Nicola Prebenna]...........................................................................180
Gender, tecnica e postumanesimo nell’analisi di Raffaele Sinno
[Ettore Barra].................................................................................186
La metànoia pandemica di Susanna Tamaro in Tornare umani. Un manifesto contro il transumanesimo [Ettore Barra]................................189
INDICI IN BACHECA....................................................................191
65
L’ODISSEA SICILIANA
DI STEFANO D’ARRIGO
L’oggetto di questo saggio è il romanziere siciliano Stefano
D’Arrigo1, meglio conosciuto per il suo enorme romanzo Horcynus Orca, che è il testo che sarà preso in esame. Il suo romanzo
risale al 1975 ma è stato iniziato negli anni Sessanta e in realtà
riflette a pieno lo zeitgeist di quegli anni come dimostrerò più
avanti. Potrei dire che D’Arrigo ha dedicato tutta la sua vita a
quest’opera, il che spiega perché ci ha messo così tanto a finirla
e anche perché ha scritto solo un altro romanzo. Horcynus Orca
racchiude nella sua struttura due tendenze letterarie ben definite:
una è il regionalismo, l’altra è la modernità. Il secondo punto richiede una spiegazione: per modernità intendo che D’Arrigo non
fu sordo al movimento d’avanguardia che nacque negli anni Sessanta e questa influenza è importante nel suo romanzo. In altre parole, accanto agli elementi tipici del regionalismo, come la caratterizzazione di persone e paesaggi, la superstizione, la mitologia,
un ambiente chiuso, tutti fortemente presenti in Horcynus Orca,
Stefano D’Arrigo (1919 - 1992), poeta con Codice Siciliano (1957), e romanziere, lavorò per quindici anni al suo capolavoro Horcynus Orca (1975) e
dieci anni dopo pubblicò il suo secondo romanzo Cima delle Nobildonne (1985).
L’edizione del testo utilizzata per questo saggio è: Horcynus Orca, Mondadori,
Milano, 1982, abbreviata in HO.
1
66
Leonardo Lastilla
D’Arrigo affianca alcuni elementi tipici del romanzo contemporaneo: in particolare, crea un romanzo aperto con un sapiente uso
del flusso di coscienza di joyceana memoria e di metafore. Potrei
dire che Horcynus Orca è un’Odissea siciliana perché riprende il
tema mitico del viaggio di Ulisse nella sua terra, ed è anche un
Ulisse moderno perché, sull’esempio di Joyce, D’Arrigo utilizza
alcune tecniche contemporanee.
Horcynus Orca è un lungo poema narrativo (1265 pagine)
composto da metamorfosi all’interno di una storia che si sviluppa
in pochi giorni, nonostante la sua lunghezza. È la storia del marinaio ’Ndrja che si lascia alle spalle la seconda guerra mondiale a
cui ha partecipato e torna a casa:
Ma forse anche questo era segno che la guerra aveva
mischiato, nei soldati come in lui, il bianco col nero, il
vero col falso, il sostanziale con l’apparente, il pratico con
l’ideale, il desiderio col bisogno, la nostalgia col possesso,
il passato col futuro, lo sbarbatello col vecchio (HO, p.
61).
Il romanzo racconta il viaggio mitico di ’Ndrja dalla Calabria
alla Sicilia, viaggio che si trasforma in un’odissea:
’Ndrja Cambrì vedeva così la notte, una notte doppiamente tenebrosa, per oscuramento di guerra e difetto di
luna, rovesciarsi fra lui e quell’ultimo passo di poche miglia marine che gli restava da fare, per giungere al termine
del suo viaggio: che era Cariddi, una quarantina di case a
testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera,
visavì con Scilla sulla linea dei due mari (HO, p. 16).
Durante il viaggio, attraverso metamorfosi, incontri, simboli,
visioni, sogni, ’Ndrja sperimenta la morte e le anticipazioni della
morte, che è simboleggiata dall’orca, fino alla fine del libro dove
’Ndrja muore. D’Arrigo è bravissimo ad intersecare i due piani
narrativi, la dimensione realistica e quella visionaria, quella evocativa e quella onirica:
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
67
Era come se il sonno gli avesse pigliato solo metà mente, e metà mente invece non gli riusciva d’impossessarsene; ed era come se con quella metà mente sognasse e con
questa vivesse, sicché, pure facendo tutte e due le cose,
non ne faceva veramente nessuna delle due, né tutto sognava né tutto viveva, ma faceva una cosa sola di tutte e
due, un di più e un di meno: sognava, come si dice, a occhi
aperti (HO, p.172).
’Ndrja fa un doppio viaggio, uno reale che lo riporterà a casa, e
uno interiore che lo porterà alla propria maturità. Sarebbe impossibile districare l’intero romanzo nel piccolo spazio che mi sono
concesso per l’analisi del libro di D’Arrigo. Horcynus Orca è già
un classico del romanzo italiano contemporaneo e ci sono tanti
modi di leggerlo, infinite metaletture possibili e queste meriterebbero un intero libro piuttosto che un saggio che non può essere
necessariamente esaustivo. Mi concentrerò quindi su quegli elementi che fanno del romanzo un insospettato capolavoro della letteratura italiana e non solo, purtroppo poco letto e insegnato. Ho
già accennato, ad esempio, alla presenza delle metamorfosi che
D’Arrigo inserisce in tutto il romanzo con lintento di rimarcare il
ritmo e portare il lettore nel mondo interiore di ’Ndrja:
Dall’aria che aveva in faccia, si sarebbe detto che la sua
mente riguardasse quella sua bellezza di corpo, né più né
meno, come una nuvoletta che gli stava sopra e ci giocasse quasi a fargli ombra, ora coprendolo, ora scoprendolo,
ora fingendo di inseguirlo, ora di farsi inseguire. Era una
impressione immediata, netta e insieme oscura, che si riceveva al primo sguardo: nell’ombra molle, sottomarina del
giardino, sembrava di vederla come specchiata in un’acqua, sembrava non di vedere lei, col suo sguardo sano, reale, ma la sua immagine riflessa fuori di sé, svagatamente,
nei suoi stessi occhi, come un pensiero cadutole di mente
(HO, p. 27).
Le metamorfosi non riguardano solo ’Ndrja ma anche gli altri
personaggi. Infatti tutto il romanzo è un grande inno alla metamorfosi come una chiave interpretativa del reale:
68
Leonardo Lastilla
In quel momento, la bella senza senno riapparve sotto
gli alberelli: si era sciolte le trecce e i capelli ora le incorniciavano il viso che usciva dall’ombra più pallido ancora
del suo naturale. S’appoggiò con le spalle a uno degli alberelli, che non era più alto di lei, e allora diventò come uno
di quei tronchetti e parve che rami e fronde e bottoncini
spuntassero da lei, dalla sua testa, dalle sue braccia e spalle
(HO, p. 42).
In alcune parti del libro, D’Arrigo sembra lasciar intendere che
le metamorfosi siano prodotti della mente, di una mente pazza:
«perché la mente pazza, è cosa notoria, è l’unica fra tutte le menti, che a decifrarla manda un suono di verità, dolce o terribile,
come di corde divine, qualcosa che fa trattenere il respiro e non
si saprebbe mai spiegare, dire» (HO, p. 41). Questo è molto importante perché mostra che D’Arrigo ha capito la lezione della
modernità: sembra che ogni metamorfosi porti con sé una trasformazione esterna come prodotto della mente e questo significa, secondo me, che metamorfosi è un’altra parola per l’alterità.
Quando ’Ndrja o altri personaggi vedono se stessi o qualcun altro
in una prospettiva nuova, riconoscono semplicemente l’alterità di
queste persone, ovvero capiscono di non essere solamente come
pensano di essere o come vengono visti ma comprendono la possibilità di entrare in sintonia con qualcuno o qualcosa di diverso da se stessi. In altre parole le metamorfosi sono accettazione
dell’alterità e di come questa venga automaticamente incorporata
dentro di sé. Ad esempio la metamorfosi del suono nel brano successivo simboleggia la relazione di ’Ndrja con Ciccina Circè (una
donna che incontra prima della traversata); nella sua barca ha un
campanello per tenere lontani gli squali. Per ’Ndrja la campana
diventa il mezzo attraverso il quale ricorderà e considererà Ciccina Circè come altro da sé:
Gli parve di ascoltare, per miglia addirittura, le fere e
il mare frusciante sotto di esse, sempre più fino e oscuro,
sempre più confuso al silenzio della notte. Poi, sopra il silenzio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
69
d’unghia sull’orlo del bicchiere; e lo sentì ancora, anche
quando quel bicchiere sembrò riempirsi d’acqua come
dovesse contenere tutta l’acqua del mare. E poi lo sentì
ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte, gli diventò inafferrabile ai sensi: lo sentì ancora
e continuò a sentirlo, o a immaginare di sentirlo, nel suo
orecchio, dentro, acconchigliato, senza suono, come dovesse sentirlo ormai per tutta la sua vita (HO, p. 411).
Un altro aspetto importante è il linguaggio. Horcynus Orca può
essere considerato un pastiche linguistico sul modello di Joyce (in
Finnegans Wake) o Céline (in Mort à Crédit)2. Per cominciare è
interessante rilevare come nel romanzo il linguaggio cambi e trasformi l’ortografia delle parole come se le parole stesse subissero
una metamorfosi:
Strada facendo, a quella prima, grossa avvisaglia femminota, se ne erano aggiunte altre, alcune a sola conferma: c’è ferribò? Nisba ferribò; e altre, ad aggravio: velieri,
chiatte, caicchi, lance, barche in una parola, barche, almeno, se ne trovano? nisba barche. Nisbarche nisb’arche. In
una parola: a mano se lo potevano fare, il trasbordo (HO,
pp. 71-72).
“Bar…cabar…abar…a…” […] “Baara. Baara. Baara”
[…] “Baara. Baara” […] come se anche prima, sillabando
‘Barcabarcabarca’ non avesse fatto altro, in effetti, che sillabare, evocare, invocare, scafarsi la bara dentro la barca
(HO, p. 1122).
La lingua può essere utilizzata anche per una sorta di gioco linguistico. In altre parole il linguaggio diventa un mezzo per reinterpretare la realtà e giocare con essa per creare meta-significati e
anche un approccio ironico nei confronti del mondo:
J. Joyce, Finnegans Wake [1939], Penguin, Londra, 1992; L. F. Céline, Mort
à Crédit [1936], in Romans, vol 1, Gallimard, Parigi, 1962.
2
70
Leonardo Lastilla
Solo questo, sempre questo: Aci mio… Aci reale mio…
lei, e: Galatea… Gala a te… lui, ed era come si passassero
e ripassassero, sempre uno stesso garofano lei a lui, sempre una stessa rosa lui a lei (HO, p. 461).
Sono quelle razze di fame che contempo, nello stesso
corpo, sono quelle razze di manna e fame e manna si chiamano, con un solo nome: famanna, e il corpo che le figlia
è quello della fera. Per queste sponde, per questo scill’e
cariddi, quando soffiano le ventate pestilenziali di quella
razza di fame, è la fera, la madre matrasta, il madrone di
fame che fa torcere le visceri, ed è lei stessa, la fera, la
manna, lei unica e sola, la fera, questa e quella una cosa e
il suo contrario, fame viva, manna morta: famanna, ruttata
fresca o ammosciata vecchia (HO, pp. 300-301).
La ricchezza di latinismi, anglicismi, francesismi disseminati in tutto il testo mostra il duro lavoro certosino che D’Arrigo ha dedicato al linguaggio: es. “visavi” (vis-à-vis), “ferribò”
(ferry-boat), “focu meo” (fuoco mio), “defaglianza” (defaillance), “jotto” (yacht). Il linguaggio può anche indicare un senso di
appartenenza ad un ambiente specifico; può essere espressione
di un’identità o una tipologia radicata territorialmente come nel
brano seguente dove la parola “cicero” viene usata per indicare la
sicilianità, creando un pastiche comico:
“Dici ciciro, gli dicono, e lui dice ciciro. E quelli: no,
gli dicono, sisiro, si dice. Tu siciliano? Tu nix siciliano. Tu
francise. Ciciro francise, tu francise. Sisiro, sisiro, si dice.
Sasà che fa? Ride e s’azzarda a dire: la guerra, forse, la
ridusse a babele la Sicilia? Un tale franciaspagna faceste a
cannonate, eccellentissimi” (HO, p. 79).
La parola diventa il simbolo del romanzo. Conoscere la lingua
significa avere potere. Quando Mister Monanin, l’unico personaggio colto del romanzo, cerca di spiegare alla gente del posto
come catturare l’orca, secondo il suo metodo scientifico, trova
una mancanza di comprensione perché la sua lingua è diversa
dalla loro:
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
71
E lei insiste a mettere sempre avanti la parola. […] Ma
perché lei per una volta non fa la prova a mettere avanti
l’animale, lo mette all’opera e poi gli mette il nome? […]
A noi […] la parola ci serve solo per intenderci. […] Non
è che la parola ci serve per spiegare la fera, perché la fera
ce la spieghiamo con le sue azioni o per meglio dire, con
le sue malazioni (HO, p. 243).
Ma cosa è sta lingua che dici, cosa è sta lingua che
parli, la lingua forse che ha in bocca quella vostra fera là?
Quella, se è quella, è vostra, hai ragione, quella solo, voi la
parlate la lingua di quella là, e voi soli la parlate e voi soli
la intendete (HO, p. 247).
Per Monanin, il linguaggio è uno strumento realistico per nominare le cose della realtà; per i siciliani è uno strumento dell’immaginazione: «I siciliani, diceva, travagliavano di fantasia, i siciliani: lui, no, era realistico, lui» (HO, p. 250). Per i siciliani la
parola è ancora un tabù: «Non ne possono più di tenersi in bocca
quella cosa proibita che diventò la parola» (HO, p. 449). Si sentono più a loro agio nell’assenza di parole o per essere più precisi
nell’usare il loro esclusivo codice linguistico fatto di storie e arcane credenze:
Era un arcano, non si discuteva, non per loro, però: non
li toccava, non passava per la loro vita, come non passava
in realtà lei, l’anguilla, né in bene né in male. A loro, gli
faceva l’effetto di una favola che non li riguardava al reale,
nei loro stretti bisogni di vita, ma li riguardava solo all’immaginario, come se fosse una storia di magare in forma di
anguille e di un professore in forma di folletto che per tornare professore era stato condannato a cercare, fra milioni
e milioni di altre, le uova di quelle anguille (HO, p. 168).
La questione della lingua, secolare e irrisolto dibattito italiano,
ha un ruolo fondamentale nel romanzo perché D’Arrigo propone
l’idea che la realtà sia solamente una costruzione del linguaggio,
72
Leonardo Lastilla
come la linguistica in quegli anni stava teorizzando. La realtà riflette il modo in cui “parliamo” il mondo. Loquor ergo cogito
ergo sum. Infatti, la diffidenza che la popolazione di quella terra
prova per la lingua, vista come simbolo della natura, è il segno del
loro atteggiamento. Queste persone hanno paura del potere del
linguaggio perché lo vedono come una minaccia contro la loro
visione sicura del mondo. Non vogliono che il linguaggio sconvolga le loro convinzioni. D’Arrigo raffigura molto bene questo
aspetto e crea il suo bozzetto regionalista definendo con precisione l’atteggiamento di queste persone. Solo la tradizione orale è
importante e rilevante per loro:
Per un poco stette a decantare l’impresa memorabile
delle femminote come se poi avesse dovuto passare col
piattino, e davvero, nell’infervoramento, pigliò l’inchiavatura del cantastorie, che la fa sempre tragica e ci mette
accenti pomposi, come se gli venissero dal cuore (HO, p.
129).
L’educazione non può cambiare questo atteggiamento e nemmeno il sentimento fortissimo sul quale la credenza popolare si
fonda:
Visto cogli occhi, tu dici. Eh, caro, le sirene non c’era
uno che non le avesse viste cogli occhi suoi, ed erano voci
che correvano, no? fantasticherie, invenzioni di marinai.
Queste fere che voi dite, tanto terribili e selvagge, chi può
dire che non siano pure queste, voci fantasie, o come si
vogliono dire, immaginazioni e credenze, eh? Non potrebbero appartenere alla stessa razza inesistente di quelle sirene, eh? queste vostre fere, non potrebbero essere solo la
parola, il nome, essere, insomma, solo parole, nomi, falsi
nomi, non essere altri che gli innocenti delfini, calunniati e
malfamati? (HO, p. 244).
Come per gli antichi greci, la lingua è mito e non uno strumento razionale per nominare le cose né un mezzo utile di comunicazione. Per queste persone, la funzione principale del linguaggio è
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
73
quella di raccontare storie da tramandare per creare e rinforzare il
mito. La loro visione del mondo è permeata dal mito. “Vivono” il
mito e nel loro caso il mito non è metafora del mondo intero ma
solo riflesso e identità della propria piccola realtà:
Quando i pellisquadre ripetevano che c’era un passato
fra loro e quelle, quando si vantavano di conoscersi reciproci, non facevano caso che nello stesso momento, in
quelle stesse parole, quel passato tornava presente, il futuro era già quello che chiamavano passato e stava, fra loro
e quelle, come presente. Il passato, insomma, era il prezzo
che pagavano per possederla, averne scienza: ma la fera
era, è come una credenza che non finivano mai di pagare.
E difatti, quando il pellesquadre scende di barca perché si
fece vecchio e lo mettono e levano mattina e sera davanti
alla porta, come per asciugarsi dalla salsedine che gli incorporò in tanti anni e che gli trasuda dalla pelle in un velo
di sale, non saprebbe mai dire quanto di quella credenza fu
pagata e quanto ancora resta da pagare: perché, con la fera,
in effetti, ricominciano sempre da zero, come se una nuova
credenza s’accavalli sulla vecchia (HO, p. 316).
Altrimenti il linguaggio è usato per simboleggiare la realtà rituale in cui vivono e che è solo loro. La ritualità diventa espressione di un gruppo di persone specifico e definito:
Veniva a questo punto il quadro, se non più tragico, più
impressionante di tutti, un altro di quei quadri che sembravano venire a pennello, per suo padre, fatti proprio su
misura, come una testa col suo cappello, da sembrare quasi che fossero tutte invenzioni sue, del cantastorie, se però
mente umana potesse inventare mai quadri più inventati di
quelli che inventa la realtà della vita (HO, p. 560).
Nell’espressione di un concetto e di una parola, il lettore può
trovare sempre qualcosa che sembra andare oltre la pagina. Le
parole sembrano vivere oltre i loro soliti e comuni confini; si allargano, si deformano, si moltiplicano all’infinito. D’Arrigo sente
74
Leonardo Lastilla
e costruisce nuovi significati, per coniare nuove parole che definiranno l’identità di chi parla: es. “pellisquadre”, “nonnavi”,
“flaccomodo”, “bassobasso”, “maremare”, “sfantasiamento”,
“incoffariamento”, “alliffamento”, “scasamento”, “rivivibellionamento”, “incazzatoria”, “allertamento”, “strabilia”, “brublu”,
“carneficesalvatore”.
Le immagini e i concetti si ripetono all’infinito e alla fine perdono il loro significato originario; ecco perché non ci può essere
comunicazione. Il simbolismo nasce da lì. Infatti, se la comunicazione è bloccata, le persone hanno bisogno di andare oltre il
linguaggio e trovare, nel simbolo, un mezzo di espressione. È
come tornare al passato. I popoli primitivi usavano simboli per
definire la realtà e comunicare (e la comunità raffigurata da D’Arrigo sembra molto primitiva). In epoche successive, i popoli primitivi hanno sviluppato un linguaggio che ha reso possibile la
comunicazione tra gli esseri umani. Ma quella era un’illusione,
perché i romanzi contemporanei raccontano che il linguaggio non
è perfetto per la comunicazione: al contrario, il linguaggio non
corrisponde del tutto a una realtà definita. Quindi bisogna tornare
al simbolo e nel suo libro D’Arrigo mostra esattamente questo:
E io ora, qua, minoranza maggioranza, fu come se già
decisi, decisi quello che mi successe, succede dentro, dentro la mente, dentro gli occhi, che è come se parola che mi
passò o non mi passò don Luigi, era quello che era destinato, che ero destinato che mi succedeva a me: perché è
come se quell’arca lasca, losca, fu destino che l’allascai,
nel modo che dovevo, nel modo per cui ora mi pare che
mi fa come un groppo in gola e mi soffoca se non la dico,
se non la sputo, subito, subitissimo, ecco: orca, orca, orca,
orcarca. Sicché, ora, veniva a transigere, transigeva con se
stesso, con gli altri, transigeva con la vita e la morte, transigeva, perché per lui si rivelava impresa impossibile, tormento e pena, fare il padrefamiglia, decidere cosa è bene
e cosa è male per gli altri, decidere ed agire in conseguenza, decidere che il male, alla finfine, è scegliere la morte
contro la vita, che è così corta e passeggera, e non così
triste, così miseranda, la vita che si passa sopra una barca,
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
75
un’arca, dentro una bara, varo su varo. La barca della vita
si scopre sempre più arca, sempre più bara che va incontro
alla morte, la quale è lunga, senza fine e c’è sempre tempo
a morirla (HO, pp. 1152-153).
La metamorfosi dipende dal linguaggio e viceversa perché
ognuno dà il ritmo e la forza per trasformare l’altro. In questa tecnica c’è l’idea dell’essere come un continuo flusso di coscienza
e Horcynus Orca è un eterno flusso di coscienza perché la metamorfosi cambia continuamente la sua natura. C’è un movimento
costante del linguaggio che deforma la realtà e penetra nei personaggi dando loro la possibilità di vivere la loro mitologia e dando
anche all’autore la possibilità di passare da un registro stilistico
all’altro. È così che D’Arrigo riesce a mettere insieme diversi
aspetti della realtà. Innanzitutto c’è molto spazio dato ai sogni e
infatti ogni volta che ’Ndrja si avvicina a una nuova tappa della
sua odissea, entra e sublima la realtà attraverso un sogno: «Non
sapeva dire se questo pensiero gli era venuto fuori, da sveglio e
l’aveva portato con sé dentro il sonno, o se gli era venuto dentro,
dormendo, spiando fuori di laddèntro» (HO, p. 654).
In secondo luogo, ovviamente, c’è il realismo, che rimane il
principale approccio stilistico di D’Arrigo, nonostante l’enorme
ruolo svolto dalla metamorfosi. Il realismo è visto come il legame
tra queste persone e gli eventi della loro vita. Hanno bisogno di
avere un approccio realistico per superare le loro paure; ecco perché, ad esempio, rifiutano l’intrusione di una lingua diversa come
mostrato in precedenza. Tutto deve essere reale o realistico per
loro perché solo così possono accedere al mondo:
La scena di Federico, che gli mostrava quel rotolo di
vaccina ulcerata, e di lui che gli stava davanti, pigliava agli
occhi della sua mente un senso che non era solo quello che
aveva nella realtà, ma quello più quell’altro, che come è
notorio, ogni scena della vita tiene sotto velame, e raro a
rari manifesta, e che sarebbe il senso della verità massima
(HO, pp. 617-18).
76
Leonardo Lastilla
Infine c’è il mito che è il rovescio della medaglia della realtà.
La necessità del mito, specialmente il proprio, si spiega con il
fatto che quando la realtà non può essere definita oppure è cangiante, è possibile trovare riparo nei simboli:
Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano, le
une con le altre, come si meritavano, e forse c’era del vero
in quello che sosteneva Mimì Nastasi, che cioè erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano
tutte e due, per gradi, dalle sirene (HO, p. 153).
Il linguaggio è quindi il filo conduttore di tutti questi diversi
universi che in Horcynus Orca trovano il loro equilibrio. Alla fine
non c’è né tempo né spazio, tutto è suggestione collettiva, o visione, come quando Caitaniello crede di vedere l’orca:
Non era infatti la visione di un becco di fera smorfiosa
e sfottente, collocata come in un tronetto al centro di una
tavola? Non era un trionfo di fera, una trionfera? E il senso
di questa visione era forse difficile da leggere agli occhi di
un cariddoto, anche se si trattava di un cariddoto analfabeta come lui? Il senso, a senso suo, era che se andavano
avanti di quel passo, ogni famiglia di Cariddi, finiva che
banchettavano con la morte al centro della tavola, la morte
in sembiante di fera, come quei militi della Dicat, scelti
per campioni, scelti forse per dare ai cariddoti un senso più
triste e infamante della morte che li attendeva. Eh, non era
questo forse il senso di quella visione mortifera, ovverosia
a morti e fera? (HO, pp.564-65).
Nel brano seguente si può notare l’abilità di D’Arrigo nel far
combaciare perfettamente i due mondi, il reale e l’onirico, come
se ’Ndrja fosse scisso in due:
Il fatto era che il suo sonno e lui giocavano a ladro
e carabinieri perché, non appena lui s’immedesimava in
qualche cosa e gli veniva come una visione davanti agli
occhi, quello, quatto quatto, subito gli gettava la sua pol-
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
77
verina alloppiante sugli occhi: magari solo un pizzico, una
spolveratina, poca per levarlo tutto di coscienza, bastevole però a tenerlo come incantesimato sopra quelle visioni
che gli venivano o rinvenivano in mente come per caso,
per una ispirazione di tempo lontano e una suggestione di
luogo vicino, per un sentore de rena vulcanica, per cause
dentro e fuori di lui. Sogno, ma forse no, avrebbe potuto
dirsi. Sogno, ma forse no, dava bene l’idea di quel suo
sogno fatto con un occhio aperto e l’altro chiuso (HO, pp.
187-88)3.
’Ndrja, infatti, oltre a vivere il vero viaggio che lo porta a casa
dove potrà incontrare nuovamente suo padre, la sua amante, la
sua gente, sta vivendo un viaggio insieme esistenziale e morale
dentro la sua coscienza. È un personaggio che vorrebbe rimanere
fedele a se stesso ma sa quanto sia diversa la vita al di fuori della
comunità e sperimenta il disagio di trovarsi tra due mondi schiacciato da due forze opposte. Viaggia verso la maturità che altro
non è che l’equilibrio tra realtà e simbolismo. Nel suo viaggio,
’Ndrja è una meteora inghiottita dalla morte. Con lui muore un
mondo:
Ma non solo quella, bensì tutte le lingue, di tutti i sentimenti e di tutti i sensi fisici, sembrava che fossero morte
per lui da qualche momento. I ricordi e i desideri che lo
aveano assaltato, si allontanavano da lui come il sole dalla
terra, […] come una linea di silenzio e di cose morte, naufragate, […] dove questo mare qui si curvava su se stesso
per tutta la sua estensione, come se lì finisse e un altro
e profondo mare, un maremorto, di acque come cristalli,
cominciasse da lì (HO, p. 132).
L’uso insistito delle parole “Sogno ma forse no” richiama forse deliberatamente Sogno ma forse no di Pirandello.
L. Pirandello, Sogno, ma forse no [1929], in Maschere Nude, vols. 2, Mondadori, Milano, 1986-1993.
3
78
Leonardo Lastilla
Per simboleggiare il flusso di coscienza di ’Ndrja, D’Arrigo
sceglie il mare con il suo andare e venire, il suo flusso filosofico.
Il mare è una presenza costante nel romanzo e scorre con i pensieri dei personaggi a dettare il ritmo, l’intensità, il dolore:
E intanto guardava fisso il mare: un punto solo, ma
come se in quel punto il mare si raccogliesse tutto nel suo
occhio. Perché, il mare sembra veramente essere tutto in
ogni suo punto, se si guarda come lo guardava il vecchio
in quel momento, col chiaro, profondo occhio, rigonfio di
tutte le lagrime che possono riempire un occhio e l’occhio
trattenere e mai versare, di tutte le lagrime di cui è capace l’animo umano quando è veramente felice e quando è
veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa
più che cosa precisamente sia l’una e che cosa sia l’altra,
se si può credere di provarle, sentirle e vederle confuse
insieme, indecifrabilmente, in un occhio che fissa un punto
del mare al tramonto e si fa rigonfio di lagrime, rigonfio di
tutto il mare di lagrime che guarda (HO, pp. 142-43).
Dal mare arriva la creatura che è l’altra protagonista del romanzo: l’orca. L’orca è il simbolo per eccellenza, nell’immaginario collettivo di queste persone. I tre principali simboli di cui è
investita l’orca sono:
1. la morte: «Orcynùs, sarebbe a dire, che come vi dissi, significa quello che dà la morte, la Morte in una parola»
(HO, p. 776);
2. l’immortalità: «Sì, è immortale: c’è dubbio? si dicevano
sulla barca. È aldilà sia di bene, sia di male, è, fu e sarà, lo
stato in cui si trova non è di vita e non sarà mai di morte,
perciò nello spettacolo che offre, tutto ci può essere fuorché dolore» (HO, p. 751);
3. una metafora del fascismo: «Ora, pigliamo l’orcaferone e
mettiamolo al posto di Mussolini» (HO, p. 821).
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
79
Secondo me, tutti e tre i simboli sono collegati e in realtà significano la stessa cosa. Se si facesse una metafora delle metafore, si potrebbe immaginare che le caratteristiche della morte e
dell’immortalità nell’orca rappresentino paura e speranza nella
mente di D’Arrigo, che teme la morte di un mondo arcano e primitivo, quasi immaginario, e teme che questo mondo scompaia a
causa di una comunità che si rivolta contro i suoi miti. Alle pagine 775-776 sembra che la comunità abbia perso il contatto con
la realtà. Pensano che l’orca sia falsa, che non sia quella creata
dal loro mito. Il mito ha creato un’orca immortale, che non può
mai morire e quando i pescatori uccidono l’orca rimangono delusi
perché il mito non ne ha previsto la morte. Sembra paradossale
ma non lo è: la morte dell’orca rappresenta la fine di un’era. Per
questo D’Arrigo ne fa il simbolo dell’immortalità: spera che questo mondo non scompaia mai. In altre parole, quando i pescatori
combattono contro l’orca, combattono contro se stessi, contro la
loro tradizione e il loro mito, che sta per scomparire. Il tema della
lotta e della sparizione introduce il terzo simbolo: il fascismo.
Infatti, chiamando tutti gli uomini della comunità a combattere
nella guerra (e probabilmente a morire), la dittatura fascista li sottrae semplicemente alle loro famiglie e impedisce ai popoli della
terra un ricambio generazionale che significa la fine dell’arcana
comunità. L’orca è il riflesso di queste persone, è lo specchio che
dovrebbero guardare per capire che il loro mondo fatto di miti,
simboli, paure, rituali, superstizioni, sta per scomparire.
Horcynus Orca ritrae perfettamente questa comunità arcana e
primitiva. Ho già mostrato che hanno una loro lingua, non vivono
di parole ma di cose, hanno una tradizione orale, non sanno nulla
di altri mondi o culture, simboleggiati nel romanzo dal delfino.
Possono solo sperimentare l’illusione, la disperazione, la necessità di vivere. Possono solo affrontare il male. Horcynus Orca è il
romanzo di questa comunità. D’Arrigo ha voluto fare uno studio
antropologico ed etnico su un gruppo di persone che stanno scomparendo. La comunità ha una struttura piramidale con l’autorità
indiscussa del padre in cima. Infatti il viaggio di ’Ndrja è anche
un viaggio verso il padre che non può nemmeno riconoscerlo:
80
Leonardo Lastilla
«“Faticavo di meno” mormorò masticando amaro. “Faticavo di
meno se effettivamente non ero suo figlio”» (HO, p. 490).
Intorno a questa piramide il mondo si è fermato per sempre, la
comunità vive fuori dalla realtà, in un passato remoto, immobile, silenzioso e abbandonato. È un piccolo gruppo inconsapevole
messo da parte, che vive con la sua magia e i suoi mostri. Niente
può toccarli tranne se stessi; non c’è assolutamente alcuna conoscenza; c’è, piuttosto, oscurità suprema e silenzio nelle loro menti
ma ciò che temono è proprio dentro di loro. La comunità è ben
rappresentata nel romanzo e D’Arrigo è bravo a creare diverse
tipologie. La comunità si basa su tre gruppi principali. Ci sono
gli “spiaggiatori”, ex pescatori che portano dentro sia la tristezza
di non essere più pescatori (che significa che hanno perso il loro
speciale rapporto con il mare) sia la miseria di vivere. Sono persone che, dopo tante lotte contro il mare, hanno capito l’impossibilità di vincere contro le forze della natura. Sono i più saggi di
questa comunità, salvano e continuano la tradizione, trasmettono
l’identità mitica e storica del gruppo. Ma la loro identità individuale è fatta di solitudine e silenzio che sono in definitiva le due
lezioni apprese dal mare che è sempre silenzioso e solo:
È la solitudine che il mare gli scava intorno, cancellando viavia all’orecchio e alla mente ogni altro rumore del
mondo dentro il suo, che viene e va, rotola e copre tutto
come un tuono di silenzio: è questo isolamento, anche se
nel momento che si avvistano, e ancora lontani si vengono
incontro per le plaie assolate, che gli mette in corpo come
un sospetto, un batticuore, un senso di paura come all’avvicinarsi di un nemico, spinge poi i due spiaggiatori, appena scambiata qualche parola, quasi a gettarsi le braccia al
collo. Questo successe sempre in tempo di pace, e figurarsi
in tempo di guerra (HO, pp. 93-94).
Ci sono poi le “femminote”. Si potrebbe pensare che vivendo in una comunità così arcaica e piccola, le “femminote” siano
obbligate a una vita servile. Non è affatto così. In realtà sono il
simbolo della vita e dell’indipendenza. Sono la celebrazione della
L’odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
81
natura e della magia e infatti, nel libro, si vedono sempre vivere
al mare o in un bosco:
Col suo senso pratico, spratico, il vecchio gli parlava
della divozione femminota come di un giardino di tesori
che era sotto un incantesimo che lui doveva rompere, con
porte e passaggi da aprirsi a lusinghe e sciabolate, rischi
e arcani di femminone nude, in apparenza di draghesse e
serpentesse, da vincere e svelare: e le parole mammalucchine che doveva dire senza sbagliare, e le prove di forza e di valore che doveva dare con la sua arma naturale,
e questo e quello, e quando questo, quando quello (HO,
pp.139-140).
Infine ci sono i “pellisquadre”, pescatori. Rappresentano la
novità, la forza, la sopravvivenza, la speranza, la continuazione
della tradizione. In definitiva, mantengono l’arcano e mitico desiderio di vincere l’eterna lotta contro il mare:
Quelli sono pellisquadre, caro mio, e il nome dice tutto. Lo sapete voi che significa pellisquadre? Significa che
hanno la pelle come quella dello squadro, che sarebbe
il verdone, ovverossia il pescecane, e squadro ci sta per
squadrare, una pelle insomma come la cartavetrata, quella
che serve ai falegnami per ripulire tavoli e compensati dalle lische, pareggiandole e allisciandole come un velluto,
per poi impellicciarle e lucidarle. Pelli, insomma, come la
cartavetrata, ma più che pelli, caratteri (HO, p.307).
La filosofia di vita di questa comunità è ben descritta nel seguente brano che, seppur riferito agli “spiaggiatori”, è indicativa
di tutti:
Si era posato nel tramonto, in quel momento di verità
della sua vita, perché per nessuno, come per uno spiaggiatore, il tramonto sembra cadere ogni volta non solo sul
giorno breve di ore, ma su quello lungo della vita. E per lo
spiaggiatore dev’essere ogni volta come trovarsi in punto
82
Leonardo Lastilla
di morte e ricordarsi del tempo vissuto e rivedere tutta la
propria vita, come se il mare gliela rovesci, ondata su ondata, lì davanti, sulla riva, anni e anni, fra scoppi di spume
che durano attimi. E non ha con chi parlarne e dev’essere
questo il morire dello spiaggiatore: cancellato dal mondo come le sue stesse impronte di piede su cui sbava il
mare, sperso per l’eternità nel silenzio tonante del mare.
E quando, per avventura, gli capita di abboccarsi, proprio
a quell’ora, con qualcuno, un marinaio, per esempio, lo
spiaggiatore parla, parla della sua vita vissuta e di quella
anche non vissuta, non solo del vistocogliocchi reale, ma
anche di quello immaginato: per intrigarsi con quella vita
che non visse, arriva a fare carte false, inventa deisse e
incantesimi, diventa menzognaro; è vecchio e sfantasìa di
cose che non conobbe mai, come un muccuso di cose che
non conobbe ancora, si fa insomma furfantello di una vita
che non visse, come si fa furfantello di una morte che ancora non morì (HO, p. 143-44).
Seppure ampiamente connotato regionalmente, Horcynus
Orca rappresenta la perdita di un mondo che è più esteso dei
confini siciliani. D’Arrigo, attraverso la descrizione di un gruppo
di un’arcaica comunità in Sicilia, ha infatti scritto una metafora
dell’essere umano contemporaneo perso nella sua coscienza. In
quel breve tratto di mare, tra Scilla e Cariddi, si trova infatti, simbolicamente, l’origine di tutta la civiltà occidentale che nel corso
dei secoli, a questo sembra alludere D’Arrigo, ha progressivamente voltato le spalle a quel mito fondante per ritrovarsi, nella
modernità, annegante in mezzo al mare. Il viaggio di ’Ndrja è il
viaggio dell’umanità alla deriva avendo perso gli elementi basilari di ciò che rende umani. In primis l’immaginazione.
Utilizzando le tecniche dei migliori romanzi contemporanei e
affiancandoli per grandezza e vastità di obiettivi, D’Arrigo aggiorna l’odissea omerica ricordando a tutti che non si può prescindere dalla nostalgia dell’origine e che il ritorno a casa è l’ineludibile viaggio che può dar senso a ciascun individuo.
Leonardo Lastilla
RISCONTRI
RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ
fondata da Mario Gabriele Giordano nel 1979
Quando la cultura è attualità
e l’attualità è cultura
Proprietà:
Il Terebinto Srl
e-mail:
[email protected]
www.ilterebintoedizioni.it
tel. 340/6862179
Prezzo del presente fascicolo: € 15,00
Periodicità: quadrimestrale
Abbonamenti. Per il 2023: € 50,00; Sostenitore, € 100,00.
L’abbonamento è annuale e decorre dal 1º gennaio. Se contratto
con ritardo, dà diritto al ricevimento dei numeri arretrati dell’annata in corso. Gli abbonamenti non disdetti entro il 1º dicembre di
ciascun anno si intendono tacitamente rinnovati.
È possibile attivare l’abbonamento direttamente sul sito della casa
editrice o inviando una mail all’indirizzo terebinto.edizioni@
gmail.com. I versamenti vanno effettuati tramite bonifico (all’IBAN IT43X0306915102100000004716) oppure tramite Paypal
(all’indirizzo
[email protected]).
Per proporre articoli e recensioni si prega di inviare gli elaborati in
formato elettronico all’indirizzo
[email protected].
Avvertenze per i collaboratori:
•
•
•
•
Saranno pubblicati solo gli articoli giudicati pertinenti agli obiettivi
della Rivista.
Ciascun autore è responsabile dei contenuti dell’articolo proposto
e della loro originalità. La collaborazione non dà diritto ad alcun
compenso.
Gli articoli vanno inviati unitamente all’abstract e – preferibilmente – ad un breve profilo biografico dell’autore.
A garanzia dell’uniformità della stampa, la Redazione si riserva di
apportare eventuali modifiche a caratteri e a corpi indicati nell’originale.
Gli autori per la stesura dei propri lavori sono pregati di attenersi
alle seguenti norme:
•
•
•
•
•
Sia nel testo che nelle note, i titoli delle opere e degli articoli vanno
in corsivo, mentre quelli dei periodici, che vanno sempre per intero,
debbono essere chiusi tra “virgolette alte doppie”. Quando il titolo
di un’opera è incorporato in un altro titolo, come quello dell’intero
scritto o di un paragrafo, deve essere chiuso tra virgolette.
Le citazioni brevi vanno riportate tra «virgolette basse». Se superiori alle tre righe, le citazioni saranno riportate in corpo minore
rientrato, separatamente dal testo. In entrambi i casi, esse devono essere accompagnate da una nota con i riferimenti all’autore e
all’opera citati.
Nelle note i nomi degli autori vanno in maiuscoletto, prima il nome
e poi cognome (per esteso); le opere già citate vanno richiamate
con cit. I dati relativi all’edizione vanno posti nel seguente ordine: luogo, editore, anno, eventuale numero del volume. L’autore o
l’opera citati immediatamente prima si richiamano rispettivamente
con idem e con ibidem; la pagina e le pagine vanno rispettivamente
indicate con p. e pp.
Eventuali omissioni nei brani riportati, sia nel testo che nelle note,
vanno indicate con tre puntini tra parentesi quadre.
Le note devono essere tutte riportate a piè di pagina.
Il Terebinto Edizioni è una casa editrice indipendente fondata ad Avellino nel 2011 dal
desiderio di preservare e di dare nuovo slancio
alla ricerca storica, con particolare attenzione
alla storia meridionale.
Grazie ai molti lettori che hanno sostenuto
fin da subito, in edicola e in libreria, la nuova
iniziativa editoriale, il Terebinto ha sviluppato
negli anni la sua attività aprendo il catalogo
anche alla narrativa e alla poesia. A quest’ultima sono state dedicate diverse collane tra cui
“Carmina Moderna” che ha fatto da volano per
l’organizzazione dei concorsi nazionali “Riscontri Letterari” e “Riscontri Poetici”.
Per scoprire di più su di noi
visita il sito www.terebintoedizioni.it