Notazioni conclusive*
di Gennaro Ferraiuolo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Il presente questionario guardava alla data del 9 novembre come a quella di un passaggio
chiaro, in un senso o in un altro, nell’evoluzione delle vicende catalane. Attraverso un agile
strumento, si immaginava di offrire – quasi in presa diretta – una testimonianza di
osservatori privilegiati. È emersa una controindicazione di non poco conto: l’incessante
mutare dei dati – in parte normativi, in parte fattuali – che avrebbero dovuto costituire lo
sfondo, quando non direttamente l’oggetto, dell’analisi degli studiosi interpellati.
Di questo dobbiamo forse scusarci: con chi ci legge, che potrebbe trovarsi in presenza di
ricostruzioni che, in alcuni punti, potranno apparire già superate dal rapido fluire degli
eventi; con gli studiosi che con grande disponibilità hanno accettato di collaborare, posti
con ogni probabilità innanzi alla scelta tra il rispetto dei tempi indicati per la consegna delle
risposte e la tentazione di prendere tempo, al fine di rendere quanto più attuale possibile la
loro riflessione.
Dunque il seny (termine catalano di difficile traduzione che, tra le altre cose, indica «il rifiuto
di correre dietro alle novità») 1 avrebbe forse consigliato di attendere il decantare delle
vicende, di guardarle con maggiore distacco: il recente “processo partecipativo” – o
“consultazione illegale”, a seconda dei punti di vista – ha infatti rappresentato soltanto
l’ennesimo passaggio di un percorso con ancora molte incognite.
Nonostante ciò, oltre il fluire dei fatti, il succedersi delle leggi, dei decreti, delle
dichiarazioni e delle loro impugnazioni, le questioni di fondo del cd. procés sobiranista sono
*
Articolo sottoposto a referaggio.
1
R. HUGHES, Barcellona. Duemila anni di arte, cultura e autonomia, Milano, 2004, p. 27, che continua: «nella
concezione tradizionale catalana il seny si avvicina alla “saggezza naturale” ed è trattato quasi come una virtù
teologale. […] I catalani sostengono che il seny è la principale caratteristica nazionale. Rappresenta per loro ciò
che il duende (letteralmente “folletto”, e per traslato il senso della fatalità o della imprevedibilità tragica) è per
gli spagnoli del Sud. […] Nelle Forme della vita catalana (1944) Josep Ferrater Mora disquisisce a lungo sul seny.
“L’uomo dotato di seny è, anzi tutto, l’uomo equilibrato, colui che contempla le cose e le azioni umane con
una visione serena”».
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tutte chiaramente delineate nelle risposte degli interpellati. Delineate da punti di vista
diversi e in forma altamente problematica, come è normale che sia di fronte a un percorso
che, chiamando in causa la prospettiva di una rottura del principio unitario, difficilmente si
lascia racchiudere nel recinto del costituito.
Il questionario mette in luce, innanzitutto, le possibili risposte che, sul piano giuridico,
possono darsi al conflitto politico in atto. Sul punto le opinioni degli studiosi risultano
variegate. Provando a tirare le somme, le soluzioni cui si riconosce maggiore solidità sono
quelle che contemplano un’attivazione da parte del Governo statale (referendum ex art. 92
CE; delega della competenza a convocare un referendum ex art. 150.2 CE); meno consenso
suscitano gli strumenti disciplinati in ambito catalano e, in particolare, quello della cd.
consultazione non referendaria, non a caso l’ultimo, in ordine di tempo, cui ha fatto ricorso
la Generalitat. Forti dubbi sulla conformità a Costituzione dell’istituto sono espressi da
Ferreres, Arbós e Carrillo.
In tal modo si valorizza (forse da parte di qualcuno si auspica) la prospettiva del dialogo tra
istituzioni centrali e periferiche, e dunque la imprescindibilità delle negoziazioni (prima e
dopo l’ipotetico referendum). In parallelo, si registrano critiche, formulate con accenti
diversi, al modo in cui il Governo spagnolo ha sinora affrontato la questione, denunciando
«le posizioni immobiliste che pietrificano l’ordinamento» (Arbós) e quella che appare una
vera e propria «strategia del disprezzo» (Matas).
Non mancano richiami all’inquadramento delle vicende catalane all’interno delle dinamiche
dell’integrazione europea (Albertí, Abat, Matas, Ferreres). Si tratta di un aspetto molto
presente nel dibattito pubblico. Occorre infatti ricordare che la Catalogna, così come la
Scozia, mostra una spiccata vocazione europeista2; la prospettiva, per un ipotetico nuovo
Stato, di una estromissione dall’UE è percepita come uno dei fattori di maggiore criticità
dell’opzione indipendentista3: questa «perde molto sostegno se la secessione della Catalogna
2
Si tratta di un aspetto che emerge in maniera anche dalla Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de
Catalunya, approvata dal Parlament di Barcellona il 23 gennaio 2013 (risoluzione 5/X). Tra i principi in essa
enunciati figura, al punto n. 6, l’europeísmo: «si difenderanno e promuoveranno i principi fondamentali
dell’Unione europea, in particolar modo i diritti fondamentali dei cittadini, la democrazia, la garanzia dello
Stato sociale, la solidarietà tra i diversi popoli d’Europa e il sostegno al progresso economico, sociale e
culturale»
3 Sul punto cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión Europea: Cataluña en la encrucijada,
in Le istituzioni del federalismo, n. 1, 2013, p. 95 ss.; in riferimento al dibattito scozzese, v. J. CRAWFORD, A.
BOYLE, Referendum on the Independence of Scotland – International Law Aspects, in Scotland analysis: Devolution and the
implications of Scottish independece, www.official-documents.gov.uk, febbraio 2013, in particolare p. 92 ss.; J.O.
FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2013, p. 442 ss.
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comporta la sua fuoriuscita dall'Unione europea, anche se solo per un periodo transitorio»
(Ferreres). Albertí vede però nel ruolo dell’Europa anche un elemento, per cosi dire, di
sdrammatizzazione delle tensioni in atto: la Catalogna «non mostra nessuna resistenza a
cedere sovranità ad una entità superiore come la UE […], in seno alla quale rinuncia ad
essere sovrana»4; così, l’azione di processi costituenti concentrici (prima che contraddittori)
potrebbe risolversi in una «ridefinizione del ruolo degli Stati» (opportuna, ad avviso dello
studioso, quantomeno per alcuni di essi).
Nel suo contributo, Víctor Ferreres ridimensiona drasticamente la consistenza delle
rivendicazioni in atto, criticandone, su base razionale, i contenuti; e, in ogni caso,
ritenendone il percorso di maturazione non ancora giunto ad una fase tale da rivelarne
l’effettivo radicamento nella società catalana: «dal ripristino della democrazia, si sono svolte
in Catalogna decine di elezioni […]. Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato
l’indipendenza nelle loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato
minoritario». In modo coerente, anche tale autore riconosce esplicitamente le potenzialità
di un’eventuale elezione autonomica in chiave plebiscitario-referendaria (su cui si tornerà
infra): se i partiti che enunciano, in termini inequivoci, il sostegno alla indipendenza
conseguissero la maggioranza dei voti, si aprirebbe «un nuovo tempo politico», che
metterebbe la Generalitat, in questo caso sì, nelle condizioni di negoziare con lo Stato un
referendum sulla questione5. Seguendo tale impostazione, potrebbero in futuro riemergere
problematiche di grande complessità e delicatezza: in questo ipotetico tempo nuovo,
sorgerebbe, in capo al Governo spagnolo, un obbligo a negoziare? Sulla base di quale
fondamento normativo? Sarebbe giuridicamente azionabile (sul piano interno o
sovranazionale) o occorrerebbe ragionare sulla base di puri rapporti di forza?
È evidente che lo scivoloso crinale lungo il quale ci si muove si colloca sempre a ridosso
della dimensione politica e di quella giuridica; e, forse, nessuno dei due punti di
osservazione è rinunciabile ai fini dell’inquadramento delle vicende analizzate.
Abat, da una prospettiva destinata senz’altro a far discutere, considera nettamente
prevalente la concezione della Costituzione come processo politico su quella della
Costituzione come norma giuridica; su tali basi (e attraverso una serie di esempi) rinnega
4
In tema possono richiamarsi le tesi di N. MACCORMICK, Questioning Sovereignity. Law, State, and Nation in the
European Commonwealth, Oxford, 1999, trad. it. La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth»
europeo, Bologna, 2003, in particolare p. 325 ss.
5 Nella medesima prospettiva si veda del medesimo autore, con Alejandro Saiz Arnaiz, Una gran conversación
colectiva, in El País, 5 febbraio 2014.
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l’imparzialità – e di conseguenza la legittimazione nel sistema – del Tribunal constitucional
(d’ora in avanti TC), principale interprete della Carta fondamentale. La generalità dei
costituzionalisti interpellati si muove invece alla ricerca di un più solido punto di equilibrio
tra le tradizionali categorie di analisi e l’esigenza di offrire risposte ai processi in atto.
Non mancano così accenti critici su interventi specifici del TC: la pronuncia sullo Statuto
(n. 31/2010; Carrillo, Albertí) – su cui si tornerà tra breve – e quella (n. 103/2008) che ha
escluso la possibilità di inserire un referendum previo (per di più nel solo ambito di una
Comunità autonoma) in un percorso destinato ad incanalarsi sui binari della revisione
costituzionale. Questa impostazione andrebbe “flessibilizzata” con riferimento alla ipotesi
particolare della secessione (Ferreres); un “cambio radical” rispetto ad essa è scorto peraltro
nella decisione del TC n. 42/2014, dalla quale si desumerebbe «la possibilità di realizzare
qualsiasi attività diretta a preparare l’esercizio del diritto a decidere» (Viver; in termini
analoghi, Arbós e Albertí).
Anche la concreta messa in opera dello Stato autonomico (non il modello astratto
prefigurato dalla Costituzione) è oggetto di valutazioni a volte severe. Si contesta nella
sostanza (Carrillo, Albertí) la nota tendenza del café para todos, «un processo di
simmetrizzazione costante e crescente» dell’assetto autonomistico6 che viene letto come una
forzatura della impostazione originaria alla base della Carta del 1978.
Una prospettiva simmetrica – almeno potenzialmente – non è vista invece con particolare
disfavore da Arbós, il quale però, in un’ottica de iure condendo, indica comunque, quale
soluzione per disinnescare il conflitto territoriale, una riforma della Costituzione in senso
pienamente federale, che operi sul versante delle competenze e del modello di
finanziamento; solo subordinatamente a tali innovazioni potrebbe trovare spazio un
esplicito riconoscimento, dalla valenza anche simbolica, della specificità catalana.
Il tema della specificità catalana è analizzato approfonditamente in diversi interventi. Sul
punto si sofferma ad esempio Marc Carrillo, che ricorda come il «secesionismo catalán no
se fundamenta sólo en razones de orden económico, sino también históricas, políticas y
culturales»; e, più in generale, che la «personalidad política» della Catalogna non nasce con
la Costituzione del 1978. In riferimento ad essa si riscontrano «le condizioni per affermare
C. VIVER I PI-SUNYER, El reconeixement de la plurinacionalitat de l’Estat en l’ordenament jurídic espanyol, in F.
REQUEJO, A.G. GAGNON (a cura di), Nacions a la recerca de reconeixement: Catalunya i el Quebec davant el seu
futur, Barcelona, 2010, p. 225. Per un generale inquadramento del tema, v. pure J. BURGUEÑO, Caffè per tutti:
l’autonomia diffusa minaccia lo Stato, in Limes, n. 4, 2012, p. 125 ss.
6
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tanto l’esistenza di caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità
politica specifica e distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di
un’identità propria», manifestatasi costantemente nel corso dei secoli (Albertí). In Italia, da
una prospettiva speculare, si è osservato invece che «l’identità delle […] regioni non è il
risultato di un processo storico, esse non traggono origine da istituzioni a suo tempo fra
loro indipendenti ed ancora sensibili a questa tradizione di autogoverno o di governo
separato»7.
La considerazione di tali aspetti potrebbe permettere di valorizzare quello che è stato
definito «approccio istituzionale storicizzato»8. La valutazioni di dati extra giuridici non è
d’altra parte estranea agli studi legati alla forma/tipo di Stato. Basti ricordare la risalente
proposta di Smend rivolta al superamento delle costruzioni «meramente giuridiche dello
Stato federale»9. In tempi recenti, si segnala nella dottrina italiana la posizione di chi, nel
tentativo di rivitalizzare la distinzione tra modello regionale e federale, ritiene necessario
attribuire rilievo a fattori quali la presenza «di un’opinione pubblica, di una società
regionale», verificando «l’esistenza di strutture della società civile, culturale, economica
aventi un fondamentale radicamento e collegamento regionale (partiti, giornali,
associazionismo economico e imprenditoriale)»10. Seguendo tale impostazione è evidente
come la Catalogna mostri un fortissimo radicamento territoriale delle proprie istituzioni
(giuridiche, politiche, sociali, culturali). E, d’altra parte, per quanto l’assunto possa essere
oggetto di discussione, sono numerose le ricostruzioni scientifiche che collocano
l’ordinamento spagnolo (con riferimento alle realtà della Catalogna e dei Paesi Baschi) nella
dimensione del federalismo plurinazionale11.
S. BARTOLE, L’ordinamento regionale, in S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO, Le Regioni, II ed.,
Bologna, 1999, p. 44 e pp. 46-47 (mio il corsivo). Sul punto v. anche S. VENTURA, Asimmetrie, competizione
partitica e dinamiche centrifughe nelle nuove forme di Stato decentrate, in S. VENTURA (a cura di), Da Stato unitario a
Stato federale. Territorializzazione della politica, devoluzione e adattamento istituzionale in Europa, Bologna, 2008, pp.
203-204, che parla di un decentramento non «avvenuto in seguito alla politicizzazione di nazionalismi substatali», nel quale «il territorio fu comunque organizzato […] simmetricamente in venti regioni; dunque un
disegno istituzionale omogeneo emerso all’interno del patto costituente tra forze politiche nazionali».
8 R. SEGATORI, Le debolezze identitarie del regionalismo italiano, in Le istituzioni del federalismo, n. 5/6, 2010, p. 438
ss., che si richiama in particolare agli studi di D. ZIBLATT, Structuring the State. The formation of Italy and
Germany and the Puzzle of Federalism, Princeton, 2006.
9 R. SMEND, Verfassung und Verfassungrech, München-Leipzig, 1928, ed. it. Costituzione e Diritto costituzionale,
Milano, 1988, p. 186 ss.
10 B. CARAVITA DI TORITTO, Stato federale, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di Diritto pubblico, vol. III,
Milano, 2006, pp. 5737-5738.
11 V. F. REQUEJO – M. CAMINAL (a cura di), Federalisme i plurinacionalitat. Teoria i anàlisi de casos, Barcelona,
2009; A. G. GAGNON, Més enllà de la nació unificadora: al·legat en favor del federalisme multinalcional, Barcelona,
7
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Al di là della utilità a fini classificatori, non è affatto scontato se (e quali) conseguenze
giuridiche possano scaturire da un siffatto inquadramento; e, tuttavia, sembra indubbio che
esso offra chiavi di lettura fondamentali per comprendere e valutare le tensioni che
attraversano gli ordinamenti statuali.
Così è, ad esempio, per le tormentate vicende dello Statuto catalano del 2006, culminate
nella sentenza del TC 31/2010: in questa pronuncia Carrillo vede il fallimento di «un nuovo
patto politico con la Spagna democratica» e il punto d’inizio delle attuali tensioni (nello
stesso senso Albertí e Matas). Lo studioso non si sofferma su specifici problemi di
costituzionalità di singole disposizioni, ma guarda piuttosto ad una serie di complesse
questioni di sistema che denotano, per il modo in cui sono state affrontate, l’idea di una
«giurisdizione costituzionale che opera come delegato del potere costituente» e non come
potere costituito, chiamato ad attenersi «al blocco di costituzionalità integrato dal binomio
Costituzione-Statuto»12.
Sempre in riferimento alla riflessione sulla specificità catalana, anche in termini di
comparazione con le vicende italiane, si segnalano alcuni passaggi offerti da Abat. L’autore,
da una parte, sottolinea le differenze (culturali, storiche, politiche) tra la realtà catalana e
quella veneta; dall’altra ritiene però che il “popolo veneto” debba vedersi legittimamente
riconosciuto il diritto a pronunciarsi sul proprio futuro politico: si critica, dunque, la scelta
del Governo italiano di impugnare, innanzi alla Corte costituzionale, la legge regionale n. 16
del 2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto”) 13 per
2008; ID., L’Âge des incertitudes: essais sur le fédéralisme et la diversité nationale, Québec, 2011, ed. it. L’età delle
incertezze. Saggio sul federalismo e la diversità nazionale, Padova, 2013.
12 In senso analogo v. J. PÉREZ ROYO, La STC 31/2010 i la contribució de la jurisprudència constitucional a la
configuració d’un Estat compost a Espanya: elements de continuïtat i ruptura, i incidència en les perspectives d’evolució de l’Estat
autonòmic, in Revista catalana de dret públic, n. 43, 2011 (www.rcdp.cat): la sentenza sullo Statuto catalano avrebbe
«provocato una rottura del patto costituente in un elemento essenziale: quello concernente il rinnovamento
dell’unità della Spagna mediante l’esercizio del diritto all’autonomia delle nazionalità e regioni che la
compongono. […] La Costituzione della STC 31/2010 è una Costituzione mutilata, in cui è assente tutto ciò
che il Costituente ha previsto per la costruzione dello Stato autonomico e per il suo successivo rinnovamento
attraverso la disciplina giuridica di un processo di negoziazione politica in cui si concretizzi il compromesso
tra il principio di unità politica dello Stato e l’esercizio del diritto all’autonomia». Pure in questo caso la tesi
viene supportata attraverso un peculiare inquadramento dello Statuto di autonomia nel sistema delle fonti
(anche in forza del pronunciamento popolare – previo all’eventuale controllo di costituzionalità - che si ha
sullo stesso). Inquadramento verso cui è critico, ad esempio, E. FOSSAS ESPADALER, El control de
constitucionalitat dels estatuts d’autonomia, in Revista catalana de dret públic (www.rcdp.cat), n. 43, 2011, p. 21 ss., che
riconosce però il carattere fortemente problematico della questione, per la particolare forza che assume, in
ragione della conformazione del procedimento statutario, la cd. obiezione democratica.
13 In merito v. D. TRABUCCO, La Regione del Veneto tra referendum per l’indipendenza e richiesta di maggiori forme di
autonomia, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014; F. CLEMENTI, Quel filo di Scozia nel vestito della
democrazia europea, in www.confronticostituzionali.eu, 1 ottobre 2014. Sia consentito anche un rinvio al mio Due
referendum non comparabili, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2014, p. 703 ss.
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«mettere a tacere una parte della sua popolazione». Non mancano, invero, dati di sistema
che potrebbero far dubitare di una piena sovrapponibilità, sul piano considerato, delle due
vicende: si pensi alla carica di problematicità che, nell’ordinamento italiano, si riconnette
all’idea di un “popolo regionale”14, laddove invece è la stessa Costituzione spagnola che si
riferisce, esplicitamente, ai “popoli della Spagna” (preambolo) e al concetto di “nazionalità
storiche” (art. 2). E, d’altra parte, se è indubbio che a quest’ultima nozione sia senz’altro
riconducibile la realtà catalana (in termini fattuali e giuridici), va segnalato che per la regione
italiana il nostro Costituente non ha neanche ravvisato specificità territoriali tali da rendere
opportuno un regime speciale di autonomia.
Per Abat, la differente posizione della regione italiana e della Comunità autonoma non si
lega al diverso sostrato che sorregge le rivendicazioni territoriali (una componente oggettiva
che dovrebbe affiancare quella soggettiva, per seguire la ricostruzione di Albertí); sostrato
che, dunque, almeno nella prospettiva considerata, è ritenuto privo di ricadute
sull’inquadramento giuridico dei fenomeni in atto. Ad avviso dell’autore rileva, piuttosto,
un profilo definito “procedurale”: il Veneto non avrebbe compiuto tutta una serie di
passaggi (negoziazioni con lo Stato italiano; approvazione di atti, per lo più politici, a
sostegno dell’autodeterminazione) da intendersi preliminari alla convocazione unilaterale
del referendum. Si tratta di argomenti che, probabilmente, chiamano in causa le varie teorie
politico-filosofiche sulla secessione e il differente peso che, in ciascuna di esse, è
riconosciuto alla componente volontaristica e a quella identitaria (in merito interessanti
spunti critici, da punti di vista diversi, si ritrovano nei contributi di Ferreres e Albertí).
Si può qui ricordare come, in passato, parte della dottrina italiana non abbia condiviso le
argomentazioni della Corte costituzionale tese a precludere la celebrazione di referendum
consultivi regionali, previ alla presentazione di disegni di legge di revisione. Nella pronuncia
n. 496 del 2000 si ritiene che una siffatta consultazione regionale alteri la tipicità del
procedimento di revisione, innestandovi un passaggio destinato a produrre forti vincoli alle
decisioni degli organi rappresentativi. Le principali critiche a questa decisione si sono
appuntate sul fatto che essa rinneghi, nella sostanza, la portata consultiva del referendum,
risolvendo sul piano giuridico un conflitto che avrebbe dovuto trovare risposte nella
dimensione politico-rappresentativa: per riprendere le parole di Arbós, «esprimere
un’opinione politica non equivale a decidere». Gli studiosi italiani che ragionano in questi
14
Cfr., in tema, A. MORRONE, Avanti popolo… regionale!, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2012, pp. 615 ss.
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termini ritengono, allo stesso tempo, che la Corte avrebbe potuto risolvere la questione
spostando la propria argomentazione su un terreno diverso, sebbene comunque
accidentato: quello relativo alla distinzione tra referendum e plebiscito, essendo
quest’ultimo precluso nel nostro ordinamento15.
Si tratta di un profilo che acquisisce senz’altro rilievo in riferimento alle vicende catalane:
che il prossimo passaggio della questione catalana sarà quello di elezioni autonomiche
qualificate, appunto, “plebiscitarie” – con formula poco felice (Abat) 16 – è ipotesi, allo
stato, tutt’altro che remota.
Anche da questo punto vista lo sforzo di contestualizzazione (e in tal senso aiutano i dati
forniti da Matas) diviene imprescindibile, se è vero che «sono il clima e l’ambiente politico
[…] che fanno la differenza […] determinando il […] destino più o meno plebiscitario» di
un referendum17. La richiesta di un voto popolare sull’indipendenza proviene da gran parte
dei partiti e dei cittadini catalani: le elezioni del 25 novembre del 2012 sono state precedute
da una campagna elettorale incentrata su questo specifico punto, sul quale i partiti hanno
dovuto assumere un chiaro posizionamento. All’esito di quelle consultazioni, le forze
politiche sostenitrici del cd. dret a decidir hanno ottenuto 87 dei 135 seggi del Parlament de
Catalunya (quasi il 65%).
Così, già quelle elezioni potrebbero considerarsi (nel senso in cui tale formula è utilizzata
nel dibattito catalano) “plebiscitarie”: non rispetto all’indipendenza ma alla convocazione di
un referendum sulla stesso. In merito due precisazioni paiono opportune.
La prima: il richiamo al fronte del dret a decidir include quei partiti disposti a sostenere tale
rivendicazione anche oltre un punto di rottura dei rapporti con le istituzioni statali (come
accaduto lo scorso 9 novembre). A questi partiti andrebbe aggiunto il PSC (forte di 20
diputats), dichiaratosi in più occasioni favorevole ad una consultazione sull’indipendenza se
concordata con il Governo statale. L’oscillazione dei socialisti catalani (su cui si sofferma
l’analisi di Matas) emerge, in effetti, in diverse vicende: la fuoriuscita di esponenti del
partito in dissenso con la linea moderata sul punto; il sostegno, nel Parlamento autonomico
15
Cfr. M. LUCIANI, I referendum regionali (a proposito della giurisprudenza costituzionale dell'ultimo lustro), in Le
Regioni, n 6, 2002, p. 1381 ss.; L. PEGORARO, Il referendum consultivo del Veneto: illegittimo o inopportuno?, in
Quaderni costituzionali, n. 1, 2001, p. 126 ss.
16 In tal senso cfr. anche M. DELLA MORTE, Derecho a decidir, representación política, participacíon ciudadana: un
enfoque constitucional, in L. CAPPUCCIO – M. CORRETJA (a cura di), El derecho a decidir. Un diálogo italo-catalán,
Barcelona, 2014, p. 27 ss.
17 M. LUCIANI, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, tomo
I,2, Bologna-Roma, 2005, p. 138.
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e in quello statale, ad alcune iniziative collocabili nell’orizzonte della consultazione 18 ;
l’appoggio alla votazione illegale/processo partecipativo del 9 novembre, manifestato, con
un voto in taluni casi decisivo, negli organismi comunali. Può dunque affermarsi che, dei
135 componenti del Parlament, quelli del tutto contrari al referendum siano, sulla base dei
risultati delle ultime elezioni, soltanto 28 (19 del PP e 9 di Ciutadans: il 20% circa
dell’assemblea).
Seconda precisazione (su cui si sofferma Viver): il fronte del diritto a decidere non coincide
con quello indipendentista. Al largo favore della società catalana verso il primo non può
dirsi che, allo stato, corrisponda un equivalente appoggio alla secessione. La
radicalizzazione dello scontro è apparsa a lungo legata (difficile dire se lo sia tuttora) alla
rivendicazione, mediante il referendum, di una soggettività politica della Catalogna.
Soggettività politica non destinata necessariamente ad orientarsi verso l’indipendenza ma,
quantomeno, nella direzione di un rinnovamento del patto costituente sul versante
autonomistico19.
In questo scenario, non è affatto semplice collocare una consultazione popolare (o la sua
trasfigurazione nel momento elettorale) nella dimensione del referendum o del plebiscito.
Alla difficoltà di distinguere, sul piano teorico, i due piani si aggiunge quella
dell’inquadramento dei fenomeni concreti all’interno delle categorie prefigurate in astratto20.
18 Già con la Resolució 5/X del Parlament de Catalunya, per la qual s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir
del Poble de Catalunya, approvata il 23 gennaio 2013, si registra la mancata partecipazione alla voto di cinque
deputati socialisti (su un totale di 20) in segno di protesta rispetto alla linea (voto contrario) decisa dal partito.
Nella sessione del 13 marzo 2013, il Parlament ha approvato, con 104 voti a favore, una risoluzione (la n.
17/X) presentata proprio dal gruppo socialista, con cui si chiede al Governo della Generalitat di «iniziare un
dialogo con il Governo statale per rendere possibile la celebrazione di una consultazione attraverso cui i
cittadini della Catalogna possano decidere il loro futuro» (Resolució 17/X del Parlament de Catalunya, sobre la
iniciació d’un diàleg amb el Govern de l’Estat per a fer possible la celebració d’una consulta sobre el futur de Catalunya). Tale
risoluzione faceva seguito a una iniziativa di analogo tenore sostenuta dai partiti catalani al Congreso de los
Diputados, nell’ambito del Debate sobre el estado de la Nación. Il 26 febbraio la proposta era stata respinta (60 voti
a favore, 270 contrari) facendo però registrare una storica rottura della disciplina di voto all’interno del
gruppo socialista: 13 deputati (su 14) del PSC si erano infatti dissociati dalla linea del PSOE. Successivamente
(8 maggio), il Parlament ha approvato la risoluzione 125/X, istitutiva di una Comissió d’Estudi del Dret a decidir,
preposta a «studiare e dare impulso a tutte le iniziative politiche e legislative che il Parlamento è chiamato ad
adottare in relazione al diritto a decidere, e ad analizzare tutte le alternative per poterlo rendere effettivo»
(Resolució 125/X del Parlament de Catalunya de creació de la Comissió d’Estudi del Dret a decidir). Anche quest’atto è
stato approvato a larghissima maggioranza (106 voti a favore) con il sostegno del PSC.
19 Il catalanismo politico mostra, sin dalle sue origini, una chiara propensione a conciliare «il diritto a decidere
in modo libero e sovrano il destino della nazione catalana» e l’esercizio «di questo diritto in una direzione
unitarista, regionalista o federale. Il fatto di affermare i diritti nazionali della Catalogna non comportava il
fatto di essere partitari della separazione o della indipendenza» (M. CAMINAL, Nacionalisme i partits nacionals a
Catalunya, Barcelona, 1998, p. 90).
20 Cfr., sul punto, le osservazioni di M. LUCIANI, Art. 75, op. cit., p. 133 ss., cui si rinvia anche per l’ampia
bibliografia citata.
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Difficoltà che emergono, ad esempio, nelle ricostruzioni che provano a conciliare una
connotazione negativa del plebiscito e la sua qualificazione sulla base di elementi giuridicoformali (più o meno definiti) da un lato, con, dall’altro, il carattere non plebiscitario
predicato in rapporto al referendum istituzionale del 2 giugno 194621. Così, più coerente
appare la ricostruzione di chi, distinguendo tra plebisciti e democrazia plebiscitaria, fa rientrare
tra i primi sia il referendum del 1946 sia quello sull’indipendenza del Québec; casi nei quali
il «termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum»22.
Seguendo allora una lettura che fa leva, ai fini della distinzione in parola, sul rilievo del
concreto contesto politico, e che configura il plebiscito come rivolto alla legittimazione di una
persona o, al limite, di un partito politico o di un organo costituzionale23, le ipotetiche elezioni
plebiscitarie catalane sembrano sfuggire all’inquadramento in questo schema. La richiesta
del referendum è sostenuta, come visto, da un blocco esteso e ideologicamente trasversale
di forze politiche. Per di più, quando con le elezioni anticipate del 2012 Artur Mas ha
provato, in qualche modo, a personalizzare il processo, ne è uscito significativamente
ridimensionato. Al rafforzamento del blocco favorevole al referendum si è accompagnata
una importante perdita di seggi (12) del suo partito: legittimazione personale (o partitica) e
legittimazione del processo si sono pertanto, in quella occasione, chiaramente divaricate.
Anche recenti sondaggi mostrano che «la maggioranza degli indipendentisti catalani (quasi i
due terzi) non vota CiU» (Matas).
È pur vero che, proprio mentre si scrivono queste pagine, Artur Mas ha lanciato (25
novembre) una proposta di lista unica con cui correre in elezioni anticipate (a questo punto
imminenti: si parla di inizio 2015); qualche attento analista aveva riferito, già nelle scorse
settimane, di manovre politiche tese alla creazione di un Partito del Presidente
24
.
L’indisponibilità manifestata su tale versante, sino ad oggi, da ERC potrebbe far sì che si
conservi un’offerta partitica (pro indipendenza) variegata, che limiterebbe i rischi di
personalizzazione. Ad ogni modo, per valutare la connotazione in senso personalepresidenziale di una eventuale lista unitaria, occorrerà analizzarla nella sua concreta
strutturazione: modalità di scelta dei candidati, loro ordine di collocazione, contenuti
21
Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., in particolare pp. 135-136, dove si parla, a tal proposito, di «una vera
e propria acrobazia logica».
22 P.
PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, (versione online
http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali).
23 Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., pp. 138-140.
24 Ci si riferisce all’articolo di Enric Juliana Empapelando, in La Vanguardia del 13 novembre 2014.
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programmatici (che dovrebbero definire i passaggi che questo soggetto politico intende
compiere, in caso di esito elettorale favorevole, nella direzione dell’indipendenza).
In relazione alle questioni sin qui evocate occorre considerare, accanto al ruolo dei partiti,
quello della società civile. La mobilitazione in atto si è costruita, infatti, anche attraverso la
partecipazione di una larga fetta di cittadinanza. Lo stesso voto del 9 novembre si è mosso
sulla linea di confine che corre tra un referendum “encubierto” (Carrillo), smascherabile in
virtù del sostanziale appoggio ricevuto dalle istituzioni catalane (da qui la seconda
sospensione del TC, disattesa dalla cittadinanza e forse - in una misura che potrebbe essere
accertata giudiziariamente - dal Governo della Generalitat), e una manifestazione
dimostrativa (una sorta di rappresentazione simbolica del gesto – negato – di votare)
amministrata, per ciò che attiene alle operazioni elettorali, integralmente da volontari (oltre
40.000). Indicativo in tal senso il fatto che la Generalitat non abbia preteso di attribuire
alcuna rilevanza formale alla votazione (proprio in quanto priva delle necessarie garanzie e
controlli) ma semplicemente di considerare i dati sulla partecipazione come (ulteriore) base
politica per rinnovare la richiesta di un referendum consultivo in piena regola, concordato
con i poteri statali.
Questa interazione tra cittadini, partiti e istituzioni – sebbene abbia assunto, in questa fase
di inedita tensione territoriale, una portata peculiare – può considerarsi anch’essa
espressione, per alcuni versi, di un tratto tipico di una società caratterizzata da un fittissimo
tessuto associativo, che «nessun politico può permettersi di ignorare, perché […] alla base
della catalanità»25.
Va evidenziato, in questa cornice, il ruolo di due organizzazioni: Òmnium cultural e Assemblea
Nacional Catalana, che – da una certa fase in poi – hanno operato in strettissima sinergia,
condizionando spesso le condotte dei soggetti partitici e istituzionali (in tal senso Matas).
La prima, fondata nel 1961, conta oggi oltre 44.000 iscritti; costretta ad operare in
clandestinità negli anni del franchismo, si dedica per statuto alla promozione e alla
normalizzazione dell’identità nazionale della Catalogna. Dal 2010 – quando ha promosso
una manifestazione di protesta contro la sentenza del Tribunal constitucional sullo Statuto – la
sua connotazione politica (apartitica) si è chiaramente accentuata.
La seconda, dopo una gestazione collocabile tra il 2009 e il 2011 (quando si svolgono una
serie di consultazioni non ufficiali sull’indipendenza in numerosi comuni catalani), si
25
R. HUGHES, Barcellona, op. cit., p. 23 ss.
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costituisce formalmente nel 2012. Oggi conta circa 80.000 iscritti (tra “aderenti” e
“simpatizzanti”) e si regge su di una struttura capillare, formata da “assemblee territoriali”
(575, di ambito comunale o, per i municipi più piccoli, sovracomunale), “assemblee
settoriali” (41: “Bibliotecari e documentalisti per l’indipendenza”, “Immigrazione per
l’indipendenza”, “Gay e lesbiche per l’indipendenza”, “Economia sociale e solidale per
l’indipendenza”, solo per citarne alcune) e “assemblee estere” (37, che raccolgono i cittadini
catalani residenti in altri Paesi: per questi, il 9 novembre, sono stati predisposti nel mondo
17 punti di votazione)26.
A ciò si aggiunga la partecipazione attivatasi, istituzionalmente, a livello comunale: il 4
ottobre, 920 sindaci (su 947 municipi catalani: oltre il 97%) hanno consegnato al Presidente
della Generalitat le mozioni adottate dagli organismi comunali (in molti casi, come segnalato,
con l’appoggio di esponenti del PSC) a sostegno della consultazione del 9 novembre,
attestando – nonostante la (prima) sospensione del TC – la disponibilità ad offrire il
supporto logistico-organizzativo necessario per la votazione. La Associació de Municipis per la
Independència (AMI) riunisce 706 comuni (quasi il 75% del totale): si tenga conto che, ai fini
dell’adesione a questa associazione, è richiesta una deliberazione a maggioranza assoluta
dell’organo rappresentativo (Ple del Ajuntament) dell’ente locale.
Emerge, dunque, uno scenario di grande complessità, che richiederebbe un’analisi
approfondita e di taglio multidisciplinare: se esso assume rilievo, principalmente, sul piano
politico-sociologico, non può non riflettersi anche sulle dinamiche della rappresentanza e
della partecipazione, sul rapporto tra le due dimensioni e su quello tra partiti, cittadini e
istituzioni.
Qualunque sia la valutazione che si intenda dare dei fenomeni cui si è accennato, la loro
considerazione appare indispensabile per il compiuto inquadramento delle vicende in atto.
Non mancano, nel dibattito spagnolo, opinioni tese a ridimensionare drasticamente la
portata delle istanze di partecipazione e di rivendicazione sociale - oltre che nazionale - che
queste realtà ritengono di esprimere. A tal fine si evoca spesso la formula indistinta del
populismo; dimenticando, forse, che questo può rappresentare al limite una
«manifestazione – la “febbre” – della malattia che colpisce la democrazia, cioè la carenza
26
La mobilitazione civica, parallela o sovrapposta a quella dei partiti nazionalisti (anche nelle fasi storiche in
cui viene ancora definendosi la loro precisa fisionomia) è un altro fenomeno piuttosto ricorrente nella storia
del catalanismo, soprattutto nelle fasi in cui ritiene minacciato il sentimento nazionale. Si consideri, in tal
senso, l’esperienza del Centre Català (1882), di fondamentale impulso per lo sviluppo del movimento
catalanista, e di Solidaritat Catalana (1906). Sul punto cfr. M. CAMINAL, Nacionalisme, op. cit., p. 85 ss.
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della presenza popolare in quello che dovrebbe essere il suo habitat naturale»27; e che «gli
argomenti del populismo […] non possono rimanere senza risposta. […] La febbre
populista è probabilmente un indicatore di una democrazia sofferente»28. Se ciò è vero, può
rivelarsi miope una strategia che continui a reprimere il sintomo senza interrogarsi e agire
sulla causa del male.
Si ritorna, così, ad una delle questioni chiave evidenziate, lucidamente, da alcuni degli
interpellati (Albertì e Viver): «se lo Stato di diritto si difenda più efficacemente incanalando
questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti, interpretandoli, fin dove possibile, in
maniera conforme alle esigenze che discendono dai principi democratici; o se sia preferibile
utilizzare il diritto come muro di contenimento di tali rivendicazioni» (Viver).
Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, pour le peuple, Paris, 2000, ed. it. Populismo e democrazia, Bologna, 2004,
p. 26.
28 Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, op. cit., p. 60.
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