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Notazioni conclusive

2014, L. Cappuccio - G. Ferraiuolo (a cura di), Il futuro politico della Catalogna, in federalismi.it, n. 22, 2014

Il presente questionario guardava alla data del 9 novembre come a quella di un passaggio chiaro, in un senso o in un altro, nell'evoluzione delle vicende catalane. Attraverso un agile strumento, si immaginava di offrire -quasi in presa diretta -una testimonianza di osservatori privilegiati. È emersa una controindicazione di non poco conto: l'incessante mutare dei dati -in parte normativi, in parte fattuali -che avrebbero dovuto costituire lo sfondo, quando non direttamente l'oggetto, dell'analisi degli studiosi interpellati.

Notazioni conclusive* di Gennaro Ferraiuolo Professore associato di Diritto costituzionale Università di Napoli Federico II Il presente questionario guardava alla data del 9 novembre come a quella di un passaggio chiaro, in un senso o in un altro, nell’evoluzione delle vicende catalane. Attraverso un agile strumento, si immaginava di offrire – quasi in presa diretta – una testimonianza di osservatori privilegiati. È emersa una controindicazione di non poco conto: l’incessante mutare dei dati – in parte normativi, in parte fattuali – che avrebbero dovuto costituire lo sfondo, quando non direttamente l’oggetto, dell’analisi degli studiosi interpellati. Di questo dobbiamo forse scusarci: con chi ci legge, che potrebbe trovarsi in presenza di ricostruzioni che, in alcuni punti, potranno apparire già superate dal rapido fluire degli eventi; con gli studiosi che con grande disponibilità hanno accettato di collaborare, posti con ogni probabilità innanzi alla scelta tra il rispetto dei tempi indicati per la consegna delle risposte e la tentazione di prendere tempo, al fine di rendere quanto più attuale possibile la loro riflessione. Dunque il seny (termine catalano di difficile traduzione che, tra le altre cose, indica «il rifiuto di correre dietro alle novità») 1 avrebbe forse consigliato di attendere il decantare delle vicende, di guardarle con maggiore distacco: il recente “processo partecipativo” – o “consultazione illegale”, a seconda dei punti di vista – ha infatti rappresentato soltanto l’ennesimo passaggio di un percorso con ancora molte incognite. Nonostante ciò, oltre il fluire dei fatti, il succedersi delle leggi, dei decreti, delle dichiarazioni e delle loro impugnazioni, le questioni di fondo del cd. procés sobiranista sono * Articolo sottoposto a referaggio. 1 R. HUGHES, Barcellona. Duemila anni di arte, cultura e autonomia, Milano, 2004, p. 27, che continua: «nella concezione tradizionale catalana il seny si avvicina alla “saggezza naturale” ed è trattato quasi come una virtù teologale. […] I catalani sostengono che il seny è la principale caratteristica nazionale. Rappresenta per loro ciò che il duende (letteralmente “folletto”, e per traslato il senso della fatalità o della imprevedibilità tragica) è per gli spagnoli del Sud. […] Nelle Forme della vita catalana (1944) Josep Ferrater Mora disquisisce a lungo sul seny. “L’uomo dotato di seny è, anzi tutto, l’uomo equilibrato, colui che contempla le cose e le azioni umane con una visione serena”». 101 federalismi.it |n. 22/2014 tutte chiaramente delineate nelle risposte degli interpellati. Delineate da punti di vista diversi e in forma altamente problematica, come è normale che sia di fronte a un percorso che, chiamando in causa la prospettiva di una rottura del principio unitario, difficilmente si lascia racchiudere nel recinto del costituito. Il questionario mette in luce, innanzitutto, le possibili risposte che, sul piano giuridico, possono darsi al conflitto politico in atto. Sul punto le opinioni degli studiosi risultano variegate. Provando a tirare le somme, le soluzioni cui si riconosce maggiore solidità sono quelle che contemplano un’attivazione da parte del Governo statale (referendum ex art. 92 CE; delega della competenza a convocare un referendum ex art. 150.2 CE); meno consenso suscitano gli strumenti disciplinati in ambito catalano e, in particolare, quello della cd. consultazione non referendaria, non a caso l’ultimo, in ordine di tempo, cui ha fatto ricorso la Generalitat. Forti dubbi sulla conformità a Costituzione dell’istituto sono espressi da Ferreres, Arbós e Carrillo. In tal modo si valorizza (forse da parte di qualcuno si auspica) la prospettiva del dialogo tra istituzioni centrali e periferiche, e dunque la imprescindibilità delle negoziazioni (prima e dopo l’ipotetico referendum). In parallelo, si registrano critiche, formulate con accenti diversi, al modo in cui il Governo spagnolo ha sinora affrontato la questione, denunciando «le posizioni immobiliste che pietrificano l’ordinamento» (Arbós) e quella che appare una vera e propria «strategia del disprezzo» (Matas). Non mancano richiami all’inquadramento delle vicende catalane all’interno delle dinamiche dell’integrazione europea (Albertí, Abat, Matas, Ferreres). Si tratta di un aspetto molto presente nel dibattito pubblico. Occorre infatti ricordare che la Catalogna, così come la Scozia, mostra una spiccata vocazione europeista2; la prospettiva, per un ipotetico nuovo Stato, di una estromissione dall’UE è percepita come uno dei fattori di maggiore criticità dell’opzione indipendentista3: questa «perde molto sostegno se la secessione della Catalogna 2 Si tratta di un aspetto che emerge in maniera anche dalla Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de Catalunya, approvata dal Parlament di Barcellona il 23 gennaio 2013 (risoluzione 5/X). Tra i principi in essa enunciati figura, al punto n. 6, l’europeísmo: «si difenderanno e promuoveranno i principi fondamentali dell’Unione europea, in particolar modo i diritti fondamentali dei cittadini, la democrazia, la garanzia dello Stato sociale, la solidarietà tra i diversi popoli d’Europa e il sostegno al progresso economico, sociale e culturale» 3 Sul punto cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión Europea: Cataluña en la encrucijada, in Le istituzioni del federalismo, n. 1, 2013, p. 95 ss.; in riferimento al dibattito scozzese, v. J. CRAWFORD, A. BOYLE, Referendum on the Independence of Scotland – International Law Aspects, in Scotland analysis: Devolution and the implications of Scottish independece, www.official-documents.gov.uk, febbraio 2013, in particolare p. 92 ss.; J.O. FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2013, p. 442 ss. 102 federalismi.it |n. 22/2014 comporta la sua fuoriuscita dall'Unione europea, anche se solo per un periodo transitorio» (Ferreres). Albertí vede però nel ruolo dell’Europa anche un elemento, per cosi dire, di sdrammatizzazione delle tensioni in atto: la Catalogna «non mostra nessuna resistenza a cedere sovranità ad una entità superiore come la UE […], in seno alla quale rinuncia ad essere sovrana»4; così, l’azione di processi costituenti concentrici (prima che contraddittori) potrebbe risolversi in una «ridefinizione del ruolo degli Stati» (opportuna, ad avviso dello studioso, quantomeno per alcuni di essi). Nel suo contributo, Víctor Ferreres ridimensiona drasticamente la consistenza delle rivendicazioni in atto, criticandone, su base razionale, i contenuti; e, in ogni caso, ritenendone il percorso di maturazione non ancora giunto ad una fase tale da rivelarne l’effettivo radicamento nella società catalana: «dal ripristino della democrazia, si sono svolte in Catalogna decine di elezioni […]. Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato l’indipendenza nelle loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato minoritario». In modo coerente, anche tale autore riconosce esplicitamente le potenzialità di un’eventuale elezione autonomica in chiave plebiscitario-referendaria (su cui si tornerà infra): se i partiti che enunciano, in termini inequivoci, il sostegno alla indipendenza conseguissero la maggioranza dei voti, si aprirebbe «un nuovo tempo politico», che metterebbe la Generalitat, in questo caso sì, nelle condizioni di negoziare con lo Stato un referendum sulla questione5. Seguendo tale impostazione, potrebbero in futuro riemergere problematiche di grande complessità e delicatezza: in questo ipotetico tempo nuovo, sorgerebbe, in capo al Governo spagnolo, un obbligo a negoziare? Sulla base di quale fondamento normativo? Sarebbe giuridicamente azionabile (sul piano interno o sovranazionale) o occorrerebbe ragionare sulla base di puri rapporti di forza? È evidente che lo scivoloso crinale lungo il quale ci si muove si colloca sempre a ridosso della dimensione politica e di quella giuridica; e, forse, nessuno dei due punti di osservazione è rinunciabile ai fini dell’inquadramento delle vicende analizzate. Abat, da una prospettiva destinata senz’altro a far discutere, considera nettamente prevalente la concezione della Costituzione come processo politico su quella della Costituzione come norma giuridica; su tali basi (e attraverso una serie di esempi) rinnega 4 In tema possono richiamarsi le tesi di N. MACCORMICK, Questioning Sovereignity. Law, State, and Nation in the European Commonwealth, Oxford, 1999, trad. it. La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth» europeo, Bologna, 2003, in particolare p. 325 ss. 5 Nella medesima prospettiva si veda del medesimo autore, con Alejandro Saiz Arnaiz, Una gran conversación colectiva, in El País, 5 febbraio 2014. 103 federalismi.it |n. 22/2014 l’imparzialità – e di conseguenza la legittimazione nel sistema – del Tribunal constitucional (d’ora in avanti TC), principale interprete della Carta fondamentale. La generalità dei costituzionalisti interpellati si muove invece alla ricerca di un più solido punto di equilibrio tra le tradizionali categorie di analisi e l’esigenza di offrire risposte ai processi in atto. Non mancano così accenti critici su interventi specifici del TC: la pronuncia sullo Statuto (n. 31/2010; Carrillo, Albertí) – su cui si tornerà tra breve – e quella (n. 103/2008) che ha escluso la possibilità di inserire un referendum previo (per di più nel solo ambito di una Comunità autonoma) in un percorso destinato ad incanalarsi sui binari della revisione costituzionale. Questa impostazione andrebbe “flessibilizzata” con riferimento alla ipotesi particolare della secessione (Ferreres); un “cambio radical” rispetto ad essa è scorto peraltro nella decisione del TC n. 42/2014, dalla quale si desumerebbe «la possibilità di realizzare qualsiasi attività diretta a preparare l’esercizio del diritto a decidere» (Viver; in termini analoghi, Arbós e Albertí). Anche la concreta messa in opera dello Stato autonomico (non il modello astratto prefigurato dalla Costituzione) è oggetto di valutazioni a volte severe. Si contesta nella sostanza (Carrillo, Albertí) la nota tendenza del café para todos, «un processo di simmetrizzazione costante e crescente» dell’assetto autonomistico6 che viene letto come una forzatura della impostazione originaria alla base della Carta del 1978. Una prospettiva simmetrica – almeno potenzialmente – non è vista invece con particolare disfavore da Arbós, il quale però, in un’ottica de iure condendo, indica comunque, quale soluzione per disinnescare il conflitto territoriale, una riforma della Costituzione in senso pienamente federale, che operi sul versante delle competenze e del modello di finanziamento; solo subordinatamente a tali innovazioni potrebbe trovare spazio un esplicito riconoscimento, dalla valenza anche simbolica, della specificità catalana. Il tema della specificità catalana è analizzato approfonditamente in diversi interventi. Sul punto si sofferma ad esempio Marc Carrillo, che ricorda come il «secesionismo catalán no se fundamenta sólo en razones de orden económico, sino también históricas, políticas y culturales»; e, più in generale, che la «personalidad política» della Catalogna non nasce con la Costituzione del 1978. In riferimento ad essa si riscontrano «le condizioni per affermare C. VIVER I PI-SUNYER, El reconeixement de la plurinacionalitat de l’Estat en l’ordenament jurídic espanyol, in F. REQUEJO, A.G. GAGNON (a cura di), Nacions a la recerca de reconeixement: Catalunya i el Quebec davant el seu futur, Barcelona, 2010, p. 225. Per un generale inquadramento del tema, v. pure J. BURGUEÑO, Caffè per tutti: l’autonomia diffusa minaccia lo Stato, in Limes, n. 4, 2012, p. 125 ss. 6 104 federalismi.it |n. 22/2014 tanto l’esistenza di caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità politica specifica e distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di un’identità propria», manifestatasi costantemente nel corso dei secoli (Albertí). In Italia, da una prospettiva speculare, si è osservato invece che «l’identità delle […] regioni non è il risultato di un processo storico, esse non traggono origine da istituzioni a suo tempo fra loro indipendenti ed ancora sensibili a questa tradizione di autogoverno o di governo separato»7. La considerazione di tali aspetti potrebbe permettere di valorizzare quello che è stato definito «approccio istituzionale storicizzato»8. La valutazioni di dati extra giuridici non è d’altra parte estranea agli studi legati alla forma/tipo di Stato. Basti ricordare la risalente proposta di Smend rivolta al superamento delle costruzioni «meramente giuridiche dello Stato federale»9. In tempi recenti, si segnala nella dottrina italiana la posizione di chi, nel tentativo di rivitalizzare la distinzione tra modello regionale e federale, ritiene necessario attribuire rilievo a fattori quali la presenza «di un’opinione pubblica, di una società regionale», verificando «l’esistenza di strutture della società civile, culturale, economica aventi un fondamentale radicamento e collegamento regionale (partiti, giornali, associazionismo economico e imprenditoriale)»10. Seguendo tale impostazione è evidente come la Catalogna mostri un fortissimo radicamento territoriale delle proprie istituzioni (giuridiche, politiche, sociali, culturali). E, d’altra parte, per quanto l’assunto possa essere oggetto di discussione, sono numerose le ricostruzioni scientifiche che collocano l’ordinamento spagnolo (con riferimento alle realtà della Catalogna e dei Paesi Baschi) nella dimensione del federalismo plurinazionale11. S. BARTOLE, L’ordinamento regionale, in S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO, Le Regioni, II ed., Bologna, 1999, p. 44 e pp. 46-47 (mio il corsivo). Sul punto v. anche S. VENTURA, Asimmetrie, competizione partitica e dinamiche centrifughe nelle nuove forme di Stato decentrate, in S. VENTURA (a cura di), Da Stato unitario a Stato federale. Territorializzazione della politica, devoluzione e adattamento istituzionale in Europa, Bologna, 2008, pp. 203-204, che parla di un decentramento non «avvenuto in seguito alla politicizzazione di nazionalismi substatali», nel quale «il territorio fu comunque organizzato […] simmetricamente in venti regioni; dunque un disegno istituzionale omogeneo emerso all’interno del patto costituente tra forze politiche nazionali». 8 R. SEGATORI, Le debolezze identitarie del regionalismo italiano, in Le istituzioni del federalismo, n. 5/6, 2010, p. 438 ss., che si richiama in particolare agli studi di D. ZIBLATT, Structuring the State. The formation of Italy and Germany and the Puzzle of Federalism, Princeton, 2006. 9 R. SMEND, Verfassung und Verfassungrech, München-Leipzig, 1928, ed. it. Costituzione e Diritto costituzionale, Milano, 1988, p. 186 ss. 10 B. CARAVITA DI TORITTO, Stato federale, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di Diritto pubblico, vol. III, Milano, 2006, pp. 5737-5738. 11 V. F. REQUEJO – M. CAMINAL (a cura di), Federalisme i plurinacionalitat. Teoria i anàlisi de casos, Barcelona, 2009; A. G. GAGNON, Més enllà de la nació unificadora: al·legat en favor del federalisme multinalcional, Barcelona, 7 105 federalismi.it |n. 22/2014 Al di là della utilità a fini classificatori, non è affatto scontato se (e quali) conseguenze giuridiche possano scaturire da un siffatto inquadramento; e, tuttavia, sembra indubbio che esso offra chiavi di lettura fondamentali per comprendere e valutare le tensioni che attraversano gli ordinamenti statuali. Così è, ad esempio, per le tormentate vicende dello Statuto catalano del 2006, culminate nella sentenza del TC 31/2010: in questa pronuncia Carrillo vede il fallimento di «un nuovo patto politico con la Spagna democratica» e il punto d’inizio delle attuali tensioni (nello stesso senso Albertí e Matas). Lo studioso non si sofferma su specifici problemi di costituzionalità di singole disposizioni, ma guarda piuttosto ad una serie di complesse questioni di sistema che denotano, per il modo in cui sono state affrontate, l’idea di una «giurisdizione costituzionale che opera come delegato del potere costituente» e non come potere costituito, chiamato ad attenersi «al blocco di costituzionalità integrato dal binomio Costituzione-Statuto»12. Sempre in riferimento alla riflessione sulla specificità catalana, anche in termini di comparazione con le vicende italiane, si segnalano alcuni passaggi offerti da Abat. L’autore, da una parte, sottolinea le differenze (culturali, storiche, politiche) tra la realtà catalana e quella veneta; dall’altra ritiene però che il “popolo veneto” debba vedersi legittimamente riconosciuto il diritto a pronunciarsi sul proprio futuro politico: si critica, dunque, la scelta del Governo italiano di impugnare, innanzi alla Corte costituzionale, la legge regionale n. 16 del 2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto”) 13 per 2008; ID., L’Âge des incertitudes: essais sur le fédéralisme et la diversité nationale, Québec, 2011, ed. it. L’età delle incertezze. Saggio sul federalismo e la diversità nazionale, Padova, 2013. 12 In senso analogo v. J. PÉREZ ROYO, La STC 31/2010 i la contribució de la jurisprudència constitucional a la configuració d’un Estat compost a Espanya: elements de continuïtat i ruptura, i incidència en les perspectives d’evolució de l’Estat autonòmic, in Revista catalana de dret públic, n. 43, 2011 (www.rcdp.cat): la sentenza sullo Statuto catalano avrebbe «provocato una rottura del patto costituente in un elemento essenziale: quello concernente il rinnovamento dell’unità della Spagna mediante l’esercizio del diritto all’autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono. […] La Costituzione della STC 31/2010 è una Costituzione mutilata, in cui è assente tutto ciò che il Costituente ha previsto per la costruzione dello Stato autonomico e per il suo successivo rinnovamento attraverso la disciplina giuridica di un processo di negoziazione politica in cui si concretizzi il compromesso tra il principio di unità politica dello Stato e l’esercizio del diritto all’autonomia». Pure in questo caso la tesi viene supportata attraverso un peculiare inquadramento dello Statuto di autonomia nel sistema delle fonti (anche in forza del pronunciamento popolare – previo all’eventuale controllo di costituzionalità - che si ha sullo stesso). Inquadramento verso cui è critico, ad esempio, E. FOSSAS ESPADALER, El control de constitucionalitat dels estatuts d’autonomia, in Revista catalana de dret públic (www.rcdp.cat), n. 43, 2011, p. 21 ss., che riconosce però il carattere fortemente problematico della questione, per la particolare forza che assume, in ragione della conformazione del procedimento statutario, la cd. obiezione democratica. 13 In merito v. D. TRABUCCO, La Regione del Veneto tra referendum per l’indipendenza e richiesta di maggiori forme di autonomia, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014; F. CLEMENTI, Quel filo di Scozia nel vestito della democrazia europea, in www.confronticostituzionali.eu, 1 ottobre 2014. Sia consentito anche un rinvio al mio Due referendum non comparabili, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2014, p. 703 ss. 106 federalismi.it |n. 22/2014 «mettere a tacere una parte della sua popolazione». Non mancano, invero, dati di sistema che potrebbero far dubitare di una piena sovrapponibilità, sul piano considerato, delle due vicende: si pensi alla carica di problematicità che, nell’ordinamento italiano, si riconnette all’idea di un “popolo regionale”14, laddove invece è la stessa Costituzione spagnola che si riferisce, esplicitamente, ai “popoli della Spagna” (preambolo) e al concetto di “nazionalità storiche” (art. 2). E, d’altra parte, se è indubbio che a quest’ultima nozione sia senz’altro riconducibile la realtà catalana (in termini fattuali e giuridici), va segnalato che per la regione italiana il nostro Costituente non ha neanche ravvisato specificità territoriali tali da rendere opportuno un regime speciale di autonomia. Per Abat, la differente posizione della regione italiana e della Comunità autonoma non si lega al diverso sostrato che sorregge le rivendicazioni territoriali (una componente oggettiva che dovrebbe affiancare quella soggettiva, per seguire la ricostruzione di Albertí); sostrato che, dunque, almeno nella prospettiva considerata, è ritenuto privo di ricadute sull’inquadramento giuridico dei fenomeni in atto. Ad avviso dell’autore rileva, piuttosto, un profilo definito “procedurale”: il Veneto non avrebbe compiuto tutta una serie di passaggi (negoziazioni con lo Stato italiano; approvazione di atti, per lo più politici, a sostegno dell’autodeterminazione) da intendersi preliminari alla convocazione unilaterale del referendum. Si tratta di argomenti che, probabilmente, chiamano in causa le varie teorie politico-filosofiche sulla secessione e il differente peso che, in ciascuna di esse, è riconosciuto alla componente volontaristica e a quella identitaria (in merito interessanti spunti critici, da punti di vista diversi, si ritrovano nei contributi di Ferreres e Albertí). Si può qui ricordare come, in passato, parte della dottrina italiana non abbia condiviso le argomentazioni della Corte costituzionale tese a precludere la celebrazione di referendum consultivi regionali, previ alla presentazione di disegni di legge di revisione. Nella pronuncia n. 496 del 2000 si ritiene che una siffatta consultazione regionale alteri la tipicità del procedimento di revisione, innestandovi un passaggio destinato a produrre forti vincoli alle decisioni degli organi rappresentativi. Le principali critiche a questa decisione si sono appuntate sul fatto che essa rinneghi, nella sostanza, la portata consultiva del referendum, risolvendo sul piano giuridico un conflitto che avrebbe dovuto trovare risposte nella dimensione politico-rappresentativa: per riprendere le parole di Arbós, «esprimere un’opinione politica non equivale a decidere». Gli studiosi italiani che ragionano in questi 14 Cfr., in tema, A. MORRONE, Avanti popolo… regionale!, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2012, pp. 615 ss. 107 federalismi.it |n. 22/2014 termini ritengono, allo stesso tempo, che la Corte avrebbe potuto risolvere la questione spostando la propria argomentazione su un terreno diverso, sebbene comunque accidentato: quello relativo alla distinzione tra referendum e plebiscito, essendo quest’ultimo precluso nel nostro ordinamento15. Si tratta di un profilo che acquisisce senz’altro rilievo in riferimento alle vicende catalane: che il prossimo passaggio della questione catalana sarà quello di elezioni autonomiche qualificate, appunto, “plebiscitarie” – con formula poco felice (Abat) 16 – è ipotesi, allo stato, tutt’altro che remota. Anche da questo punto vista lo sforzo di contestualizzazione (e in tal senso aiutano i dati forniti da Matas) diviene imprescindibile, se è vero che «sono il clima e l’ambiente politico […] che fanno la differenza […] determinando il […] destino più o meno plebiscitario» di un referendum17. La richiesta di un voto popolare sull’indipendenza proviene da gran parte dei partiti e dei cittadini catalani: le elezioni del 25 novembre del 2012 sono state precedute da una campagna elettorale incentrata su questo specifico punto, sul quale i partiti hanno dovuto assumere un chiaro posizionamento. All’esito di quelle consultazioni, le forze politiche sostenitrici del cd. dret a decidir hanno ottenuto 87 dei 135 seggi del Parlament de Catalunya (quasi il 65%). Così, già quelle elezioni potrebbero considerarsi (nel senso in cui tale formula è utilizzata nel dibattito catalano) “plebiscitarie”: non rispetto all’indipendenza ma alla convocazione di un referendum sulla stesso. In merito due precisazioni paiono opportune. La prima: il richiamo al fronte del dret a decidir include quei partiti disposti a sostenere tale rivendicazione anche oltre un punto di rottura dei rapporti con le istituzioni statali (come accaduto lo scorso 9 novembre). A questi partiti andrebbe aggiunto il PSC (forte di 20 diputats), dichiaratosi in più occasioni favorevole ad una consultazione sull’indipendenza se concordata con il Governo statale. L’oscillazione dei socialisti catalani (su cui si sofferma l’analisi di Matas) emerge, in effetti, in diverse vicende: la fuoriuscita di esponenti del partito in dissenso con la linea moderata sul punto; il sostegno, nel Parlamento autonomico 15 Cfr. M. LUCIANI, I referendum regionali (a proposito della giurisprudenza costituzionale dell'ultimo lustro), in Le Regioni, n 6, 2002, p. 1381 ss.; L. PEGORARO, Il referendum consultivo del Veneto: illegittimo o inopportuno?, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2001, p. 126 ss. 16 In tal senso cfr. anche M. DELLA MORTE, Derecho a decidir, representación política, participacíon ciudadana: un enfoque constitucional, in L. CAPPUCCIO – M. CORRETJA (a cura di), El derecho a decidir. Un diálogo italo-catalán, Barcelona, 2014, p. 27 ss. 17 M. LUCIANI, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, tomo I,2, Bologna-Roma, 2005, p. 138. 108 federalismi.it |n. 22/2014 e in quello statale, ad alcune iniziative collocabili nell’orizzonte della consultazione 18 ; l’appoggio alla votazione illegale/processo partecipativo del 9 novembre, manifestato, con un voto in taluni casi decisivo, negli organismi comunali. Può dunque affermarsi che, dei 135 componenti del Parlament, quelli del tutto contrari al referendum siano, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, soltanto 28 (19 del PP e 9 di Ciutadans: il 20% circa dell’assemblea). Seconda precisazione (su cui si sofferma Viver): il fronte del diritto a decidere non coincide con quello indipendentista. Al largo favore della società catalana verso il primo non può dirsi che, allo stato, corrisponda un equivalente appoggio alla secessione. La radicalizzazione dello scontro è apparsa a lungo legata (difficile dire se lo sia tuttora) alla rivendicazione, mediante il referendum, di una soggettività politica della Catalogna. Soggettività politica non destinata necessariamente ad orientarsi verso l’indipendenza ma, quantomeno, nella direzione di un rinnovamento del patto costituente sul versante autonomistico19. In questo scenario, non è affatto semplice collocare una consultazione popolare (o la sua trasfigurazione nel momento elettorale) nella dimensione del referendum o del plebiscito. Alla difficoltà di distinguere, sul piano teorico, i due piani si aggiunge quella dell’inquadramento dei fenomeni concreti all’interno delle categorie prefigurate in astratto20. 18 Già con la Resolució 5/X del Parlament de Catalunya, per la qual s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir del Poble de Catalunya, approvata il 23 gennaio 2013, si registra la mancata partecipazione alla voto di cinque deputati socialisti (su un totale di 20) in segno di protesta rispetto alla linea (voto contrario) decisa dal partito. Nella sessione del 13 marzo 2013, il Parlament ha approvato, con 104 voti a favore, una risoluzione (la n. 17/X) presentata proprio dal gruppo socialista, con cui si chiede al Governo della Generalitat di «iniziare un dialogo con il Governo statale per rendere possibile la celebrazione di una consultazione attraverso cui i cittadini della Catalogna possano decidere il loro futuro» (Resolució 17/X del Parlament de Catalunya, sobre la iniciació d’un diàleg amb el Govern de l’Estat per a fer possible la celebració d’una consulta sobre el futur de Catalunya). Tale risoluzione faceva seguito a una iniziativa di analogo tenore sostenuta dai partiti catalani al Congreso de los Diputados, nell’ambito del Debate sobre el estado de la Nación. Il 26 febbraio la proposta era stata respinta (60 voti a favore, 270 contrari) facendo però registrare una storica rottura della disciplina di voto all’interno del gruppo socialista: 13 deputati (su 14) del PSC si erano infatti dissociati dalla linea del PSOE. Successivamente (8 maggio), il Parlament ha approvato la risoluzione 125/X, istitutiva di una Comissió d’Estudi del Dret a decidir, preposta a «studiare e dare impulso a tutte le iniziative politiche e legislative che il Parlamento è chiamato ad adottare in relazione al diritto a decidere, e ad analizzare tutte le alternative per poterlo rendere effettivo» (Resolució 125/X del Parlament de Catalunya de creació de la Comissió d’Estudi del Dret a decidir). Anche quest’atto è stato approvato a larghissima maggioranza (106 voti a favore) con il sostegno del PSC. 19 Il catalanismo politico mostra, sin dalle sue origini, una chiara propensione a conciliare «il diritto a decidere in modo libero e sovrano il destino della nazione catalana» e l’esercizio «di questo diritto in una direzione unitarista, regionalista o federale. Il fatto di affermare i diritti nazionali della Catalogna non comportava il fatto di essere partitari della separazione o della indipendenza» (M. CAMINAL, Nacionalisme i partits nacionals a Catalunya, Barcelona, 1998, p. 90). 20 Cfr., sul punto, le osservazioni di M. LUCIANI, Art. 75, op. cit., p. 133 ss., cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia citata. 109 federalismi.it |n. 22/2014 Difficoltà che emergono, ad esempio, nelle ricostruzioni che provano a conciliare una connotazione negativa del plebiscito e la sua qualificazione sulla base di elementi giuridicoformali (più o meno definiti) da un lato, con, dall’altro, il carattere non plebiscitario predicato in rapporto al referendum istituzionale del 2 giugno 194621. Così, più coerente appare la ricostruzione di chi, distinguendo tra plebisciti e democrazia plebiscitaria, fa rientrare tra i primi sia il referendum del 1946 sia quello sull’indipendenza del Québec; casi nei quali il «termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum»22. Seguendo allora una lettura che fa leva, ai fini della distinzione in parola, sul rilievo del concreto contesto politico, e che configura il plebiscito come rivolto alla legittimazione di una persona o, al limite, di un partito politico o di un organo costituzionale23, le ipotetiche elezioni plebiscitarie catalane sembrano sfuggire all’inquadramento in questo schema. La richiesta del referendum è sostenuta, come visto, da un blocco esteso e ideologicamente trasversale di forze politiche. Per di più, quando con le elezioni anticipate del 2012 Artur Mas ha provato, in qualche modo, a personalizzare il processo, ne è uscito significativamente ridimensionato. Al rafforzamento del blocco favorevole al referendum si è accompagnata una importante perdita di seggi (12) del suo partito: legittimazione personale (o partitica) e legittimazione del processo si sono pertanto, in quella occasione, chiaramente divaricate. Anche recenti sondaggi mostrano che «la maggioranza degli indipendentisti catalani (quasi i due terzi) non vota CiU» (Matas). È pur vero che, proprio mentre si scrivono queste pagine, Artur Mas ha lanciato (25 novembre) una proposta di lista unica con cui correre in elezioni anticipate (a questo punto imminenti: si parla di inizio 2015); qualche attento analista aveva riferito, già nelle scorse settimane, di manovre politiche tese alla creazione di un Partito del Presidente 24 . L’indisponibilità manifestata su tale versante, sino ad oggi, da ERC potrebbe far sì che si conservi un’offerta partitica (pro indipendenza) variegata, che limiterebbe i rischi di personalizzazione. Ad ogni modo, per valutare la connotazione in senso personalepresidenziale di una eventuale lista unitaria, occorrerà analizzarla nella sua concreta strutturazione: modalità di scelta dei candidati, loro ordine di collocazione, contenuti 21 Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., in particolare pp. 135-136, dove si parla, a tal proposito, di «una vera e propria acrobazia logica». 22 P. PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, (versione online http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali). 23 Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., pp. 138-140. 24 Ci si riferisce all’articolo di Enric Juliana Empapelando, in La Vanguardia del 13 novembre 2014. 110 federalismi.it |n. 22/2014 programmatici (che dovrebbero definire i passaggi che questo soggetto politico intende compiere, in caso di esito elettorale favorevole, nella direzione dell’indipendenza). In relazione alle questioni sin qui evocate occorre considerare, accanto al ruolo dei partiti, quello della società civile. La mobilitazione in atto si è costruita, infatti, anche attraverso la partecipazione di una larga fetta di cittadinanza. Lo stesso voto del 9 novembre si è mosso sulla linea di confine che corre tra un referendum “encubierto” (Carrillo), smascherabile in virtù del sostanziale appoggio ricevuto dalle istituzioni catalane (da qui la seconda sospensione del TC, disattesa dalla cittadinanza e forse - in una misura che potrebbe essere accertata giudiziariamente - dal Governo della Generalitat), e una manifestazione dimostrativa (una sorta di rappresentazione simbolica del gesto – negato – di votare) amministrata, per ciò che attiene alle operazioni elettorali, integralmente da volontari (oltre 40.000). Indicativo in tal senso il fatto che la Generalitat non abbia preteso di attribuire alcuna rilevanza formale alla votazione (proprio in quanto priva delle necessarie garanzie e controlli) ma semplicemente di considerare i dati sulla partecipazione come (ulteriore) base politica per rinnovare la richiesta di un referendum consultivo in piena regola, concordato con i poteri statali. Questa interazione tra cittadini, partiti e istituzioni – sebbene abbia assunto, in questa fase di inedita tensione territoriale, una portata peculiare – può considerarsi anch’essa espressione, per alcuni versi, di un tratto tipico di una società caratterizzata da un fittissimo tessuto associativo, che «nessun politico può permettersi di ignorare, perché […] alla base della catalanità»25. Va evidenziato, in questa cornice, il ruolo di due organizzazioni: Òmnium cultural e Assemblea Nacional Catalana, che – da una certa fase in poi – hanno operato in strettissima sinergia, condizionando spesso le condotte dei soggetti partitici e istituzionali (in tal senso Matas). La prima, fondata nel 1961, conta oggi oltre 44.000 iscritti; costretta ad operare in clandestinità negli anni del franchismo, si dedica per statuto alla promozione e alla normalizzazione dell’identità nazionale della Catalogna. Dal 2010 – quando ha promosso una manifestazione di protesta contro la sentenza del Tribunal constitucional sullo Statuto – la sua connotazione politica (apartitica) si è chiaramente accentuata. La seconda, dopo una gestazione collocabile tra il 2009 e il 2011 (quando si svolgono una serie di consultazioni non ufficiali sull’indipendenza in numerosi comuni catalani), si 25 R. HUGHES, Barcellona, op. cit., p. 23 ss. 111 federalismi.it |n. 22/2014 costituisce formalmente nel 2012. Oggi conta circa 80.000 iscritti (tra “aderenti” e “simpatizzanti”) e si regge su di una struttura capillare, formata da “assemblee territoriali” (575, di ambito comunale o, per i municipi più piccoli, sovracomunale), “assemblee settoriali” (41: “Bibliotecari e documentalisti per l’indipendenza”, “Immigrazione per l’indipendenza”, “Gay e lesbiche per l’indipendenza”, “Economia sociale e solidale per l’indipendenza”, solo per citarne alcune) e “assemblee estere” (37, che raccolgono i cittadini catalani residenti in altri Paesi: per questi, il 9 novembre, sono stati predisposti nel mondo 17 punti di votazione)26. A ciò si aggiunga la partecipazione attivatasi, istituzionalmente, a livello comunale: il 4 ottobre, 920 sindaci (su 947 municipi catalani: oltre il 97%) hanno consegnato al Presidente della Generalitat le mozioni adottate dagli organismi comunali (in molti casi, come segnalato, con l’appoggio di esponenti del PSC) a sostegno della consultazione del 9 novembre, attestando – nonostante la (prima) sospensione del TC – la disponibilità ad offrire il supporto logistico-organizzativo necessario per la votazione. La Associació de Municipis per la Independència (AMI) riunisce 706 comuni (quasi il 75% del totale): si tenga conto che, ai fini dell’adesione a questa associazione, è richiesta una deliberazione a maggioranza assoluta dell’organo rappresentativo (Ple del Ajuntament) dell’ente locale. Emerge, dunque, uno scenario di grande complessità, che richiederebbe un’analisi approfondita e di taglio multidisciplinare: se esso assume rilievo, principalmente, sul piano politico-sociologico, non può non riflettersi anche sulle dinamiche della rappresentanza e della partecipazione, sul rapporto tra le due dimensioni e su quello tra partiti, cittadini e istituzioni. Qualunque sia la valutazione che si intenda dare dei fenomeni cui si è accennato, la loro considerazione appare indispensabile per il compiuto inquadramento delle vicende in atto. Non mancano, nel dibattito spagnolo, opinioni tese a ridimensionare drasticamente la portata delle istanze di partecipazione e di rivendicazione sociale - oltre che nazionale - che queste realtà ritengono di esprimere. A tal fine si evoca spesso la formula indistinta del populismo; dimenticando, forse, che questo può rappresentare al limite una «manifestazione – la “febbre” – della malattia che colpisce la democrazia, cioè la carenza 26 La mobilitazione civica, parallela o sovrapposta a quella dei partiti nazionalisti (anche nelle fasi storiche in cui viene ancora definendosi la loro precisa fisionomia) è un altro fenomeno piuttosto ricorrente nella storia del catalanismo, soprattutto nelle fasi in cui ritiene minacciato il sentimento nazionale. Si consideri, in tal senso, l’esperienza del Centre Català (1882), di fondamentale impulso per lo sviluppo del movimento catalanista, e di Solidaritat Catalana (1906). Sul punto cfr. M. CAMINAL, Nacionalisme, op. cit., p. 85 ss. 112 federalismi.it |n. 22/2014 della presenza popolare in quello che dovrebbe essere il suo habitat naturale»27; e che «gli argomenti del populismo […] non possono rimanere senza risposta. […] La febbre populista è probabilmente un indicatore di una democrazia sofferente»28. Se ciò è vero, può rivelarsi miope una strategia che continui a reprimere il sintomo senza interrogarsi e agire sulla causa del male. Si ritorna, così, ad una delle questioni chiave evidenziate, lucidamente, da alcuni degli interpellati (Albertì e Viver): «se lo Stato di diritto si difenda più efficacemente incanalando questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti, interpretandoli, fin dove possibile, in maniera conforme alle esigenze che discendono dai principi democratici; o se sia preferibile utilizzare il diritto come muro di contenimento di tali rivendicazioni» (Viver). Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, pour le peuple, Paris, 2000, ed. it. Populismo e democrazia, Bologna, 2004, p. 26. 28 Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, op. cit., p. 60. 27 113 federalismi.it |n. 22/2014