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La cittadinanza incompiuta delle donne

2008, PASSATO E PRESENTE

Il libro curato da Nadia Filippini e Anna Scattigno 1 trae origine da un convegno organizzato a Venezia nel 2006 dalla Società Italiana delle Storiche per riflettere sul tema della cittadinanza delle donne a sessant'anni dal voto. L'intento, come viene chiarito nell'introduzione, non voleva essere celebrativo, bensì di cogliere l'occasione per una messa a punto dello stato della ricerca e per stimolare una riflessione che, sull'onda lunga del percorso accidentato della cittadinanza delle donne in Italia, contribuisse ad analizzare la situazione italiana contemporanea che, come sottolineano le due curatrici, si distingue per un panorama piuttosto desolante da più punti di vista. La sparuta presenza delle donne a livello parlamentare è, infatti, solo la punta dell'iceberg di un deficit di partecipazione femminile nei luoghi decisionali che, seppure con situazioni articolate, si ritrova anche in altri contesti, da quello sociale a quello economico e industriale.

La cittadinanza incompiuta delle donne Raffaella Baritono Il libro curato da Nadia Filippini e Anna Scattigno1 trae origine da un convegno organizzato a Venezia nel 2006 dalla Società Italiana delle Storiche per riflettere sul tema della cittadinanza delle donne a sessant’anni dal voto. L’intento, come viene chiarito nell’introduzione, non voleva essere celebrativo, bensì di cogliere l’occasione per una messa a punto dello stato della ricerca e per stimolare una riflessione che, sull’onda lunga del percorso accidentato della cittadinanza delle donne in Italia, contribuisse ad analizzare la situazione italiana contemporanea che, come sottolineano le due curatrici, si distingue per un panorama piuttosto desolante da più punti di vista. La sparuta presenza delle donne a livello parlamentare è, infatti, solo la punta dell’iceberg di un deficit di partecipazione femminile nei luoghi decisionali che, seppure con situazioni articolate, si ritrova anche in altri contesti, da quello sociale a quello economico e industriale. Da questo punto di vista si tratta di un’opera preziosa perché fornisce uno strumento importante per capire le ragioni profonde della “democrazia incompiuta”, utilizzando in maniera feconda un approccio interdisciplinare che, per quanto un elemento costitutivo dei gender studies, appare sul tema della cittadinanza delle donne, in particolare, fondamentale per dipanare i molteplici nodi. Il volume si divide in due parti: una più storica, la seconda, invece, interroga la realtà contemporanea sul difficile rapporto fra donne e sfera politica italiana, con un’appendice legislativa in cui vengono riprodotti i documenti giuridici e politici più significativi a partire dal Codice di Napoleone per il Regno d’Italia. I saggi raccolti nella prima parte – ad opera di Simonetta Soldani, Paola Gaiotti de Biase, Maria Casalini ed Emma Baeri – affrontano, in maniera problematica, il lungo percorso storico della cittadinanza delle donne in Ita1 N.M. Filippini-A. Scattigno (a cura di), Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia dall’Ottocento ai nostri giorni, FrancoAngeli, Milano 2007. «Passato e presente», a. XXVI (2008), n. 75 136 recensioni lia. In particolare, essi ci aiutano a capire gli intrecci fra cittadinanza, nazione, edificazione dello stato (Soldani) e strutturazione di identità politiche forti come quelle cattolica e comunista (Gaiotti e Casalini), che spiegano poi il momento di frattura, rappresentato dal movimento femminista degli anni ’70 (Baeri). Una frattura politica e teorica che mette allo scoperto la mistificazione intrinseca a un concetto neutro di cittadinanza che si fonda in realtà sull’individuo maschio assunto come individuo universale. Il femminismo degli anni ’70 avvia così una pratica e una riflessione politica ambiziosa, che vuole riplasmare il concetto stesso di politica, a partire dal riconoscimento della differenza sessuale e di una soggettività femminile che non può che pensarsi in relazione. Baeri lo spiega bene quando afferma che le donne sono «di-vidue», utilizzando un neologismo che indica la volontà, come sottolineano le due curatrici, di «scardinare l’idea stessa di individualità borghese, fondata sulla rappresentazione di un soggetto non divisibile e indipendente, allusiva appunta della realtà corporea maschile è […] profondamente dissimile da quella femminile che può contenere e sdoppiarsi nella maternità» (p. 28). Non sono molti i contributi, in Italia, in grado di dare una panoramica di così ampio respiro e, allo stesso tempo, mettere di fronte a quanto ancora viene chiesto alla ricerca, quanti sono gli aspetti poco esplorati, i nessi da ricostruire, le figure del movimento delle donne che attendono di essere analizzate in modo non agiografico. Vuoti che attendono di essere colmati e che confermano una volta di più il fatto che la storia politica delle donne in Italia sia ancora una storia a “bassa intensità”, come è stato più volte sottolineato, a partire da un numero di «Memoria» del 1991, dedicato proprio alla storia politica2. Ma la dice lunga anche su una storiografia che ritiene che la storia politica delle donne sia un orticello che deve essere coltivato da poche adepte. Basti mettere a confronto le pagine dedicate in questo volume da Paola Gaiotti al ruolo fondamentale svolto dalle donne all’interno della Costituente e la loro totale rimozione che ad esempio contraddistingue i due ponderosi volumi curati da Giancarlo Monina, 1945-1946. Le origini della repubblica, pubblicati da Rubbettino nel 2007. La seconda parte del libro affronta invece di petto il problema della politica contemporanea con i saggi di Alessandra Pescarolo, Alisa Del Re, Adriana Castagnoli e Giovanna Vingelli che esplorano i diversi aspetti della rappresentanza femminile così come si articolano a livello nazionale, regionale e locale. E con saggi di Elisabetta Palici di Suni, Lorenza Carlassare, Bianca Beccalli e Maria Luisa Boccia che riflettono sul significato giuridico, politico e filosofico del concetto di rappresentanza e su quella che viene definita la democrazia diseguale. Il quadro che emerge è piuttosto variegato, con situazioni «meno infelici» (Pescarolo) per quel che riguarda la presenza delle don2 Cfr. S. Soldani, L’incerto profilo degli studi di storia contemporanea, in A. Rossi-Doria (a cura di), A che punto è la storia delle donne in Italia, Viella, Roma 2003, pp. 63-80; V. Fiorino, Introduzione a Una donna, un voto, a cura di V. Fiorino, «Genesis», 5 (2006), n. 2, pp. 5-20. la cittadinanza incompiuta delle donne 137 ne nelle istituzioni rappresentative, come nel caso della Toscana, o più problematiche e legate a una breve stagione (come quella delle sindache in Calabria negli anni ’90). Ciò che mi pare emergere come elementi costanti dei saggi è, da un lato, il difficile rapporto non tanto delle donne con la sfera politica, quanto con il sistema dei partiti così come si è configurato nella storia repubblicana recente, di cui le contraddizioni o gli ostacoli giuridico-costituzionali (messi in particolare in luce dai saggi di Palici di Suni e Carlassare) rappresentano più una conseguenza che non un punto di partenza. Dall’altro, l’ambigua nozione di una presunta estraneità delle donne alla politica che, come spesso richiamato (da Baeri a Pescarolo e Del Re a Beccalli e Boccia), è stata più o meno strumentalmente rafforzata anche da un uso distorto o “conservatore” di alcune riflessioni del pensiero della differenza. Da questo punto di vista un modo per dissolvere l’ambiguità potrebbe essere quella di affermare l’esistenza di una specifica cultura politica delle donne in Italia, come altrove, plurale e diversificata – che ha intrattenuto e intrattiene un rapporto dialettico con le altre culture politiche presenti nel contesto nazionale, elaborando una specifica e altrettanto plurale e diversificata accezione di “politica” (di cui la declinazione della tensione uguaglianza-differenza costituisce l’elemento principale). Una cultura “politica” delle donne, perché si fonda su una determinata analisi del potere, e che non è immediatamente riconducibile a un concetto spesso non precisato di “società civile”. Poiché non è possibile, nel breve spazio concesso a una recensione, dare conto di tutti i contributi presenti nel volume, vorrei soffermarmi solo su alcune questioni che, a mio avviso, emergono dall’organizzazione complessiva del volume stesso. La prima è quella che viene sollecitata dalle curatrici quando ci inducono a riflettere su ciò che definiscono come «anomalia italiana» (p. 16). I dati riportati – l’Italia è al 59° posto della classifica mondiale per la presenza delle donne in Parlamento, dopo paesi come Mozambico, Ruanda, Costa Rica, Argentina – illustrano bene una situazione che è di vero e proprio deficit democratico, non solo per la carenza della presenza femminile nelle istituzioni rappresentative, ma perché, come dimostra bene Pescarolo, gli anni ’90 hanno rappresentato un regresso delle presenze (salvo il biennio 1994-95 legato alla normative sulle quote). Per Beccalli quella italiana è una «democrazia del gambero», una «sindrome dei paesi dell’est» (p. 298), perché i paesi ex socialisti sono stati gli unici ad aver sperimentato un tracollo della presenza politica femminile. I risultati delle recenti elezioni dell’aprile 2008 (21,1% alla Camera e 17,4% al Senato) e, soprattutto, la composizione del IV governo Berlusconi, hanno confermato una sostanziale marginalità della presenza delle donne in Parlamento e nell’esecutivo. Tuttavia, i dati sono sconfortanti, ma non tanto dissimili da quelli che emergono da un’analisi globale della presenza delle donne nei luoghi della politica. Gli studi ci dicono che, per quel che riguarda i paesi che l’organizzazione Freedom House considera «democratici», e sono dati del 2005, le donne sono il 10,8% nei parlamenti che adottano un sistema maggioritario, il 138 recensioni 17,7% in quelli basati su un sistema misto, il 21,1% in quelli basati su un sistema proporzionale3. Anche la definizione di «democrazia del gambero» fa riferimento in realtà a una tendenza condivisa da altri contesti nazionali e che viene spiegato con quello che si definisce come un «contrattacco» contro i movimenti femministi, in seguito all’emergere dei vari fondamentalismi e neoconservatorismi, come Beccalli non manca di far notare. Perché parlare allora di un’anomalia italiana, cosa rende la situazione italiana eccezionale rispetto ad altri contesti occidentali? Le spiegazioni possibili possono essere rintracciate solo in un’ottica di lungo periodo, come fanno i saggi storici presenti nella prima parte del libro. Un dato su cui riflettere si fonda su un aspetto comune a tutto il mondo occidentale perché, come più volte richiamato dai vari saggi (Boccia in particolare), è alla radice del modo in cui si è strutturato l’ordine politico in Occidente, vale a dire quella divisione fra sfera pubblica e sfera privata che ha relegato le donne all’interno di una dimensione privata, per cui la loro inclusione nella sfera pubblica e politica non poteva che passare per la mediazione maschile, o – nel caso di riconoscimento della cittadinanza politica – in termini di omologazione all’individuo-cittadino maschio, bianco e proprietario. La stessa costruzione della nazione passa, fra le altre, attraverso una trama discorsiva e di potere centrata sul corpo delle donne, considerate come guardiane simboliche dei confini della nazione e incarnazione della comunità stessa in quanto principali riproduttrici della sua identità biologica e culturale4. Soldani ricostruisce finemente il «viaggio a ritroso» che serve a «esplorare il retroterra del “grande evento” rappresentato dal voto che le donne furono chiamate ad esprimere quel 2 giugno 1946» (p. 41). Un viaggio che deve affrontare «territori spesso poco esplorati e peggio illuminati», ma che riporta al cuore del difficile processo di costruzione dello stato e della nazione. Soldani individua il punto di inizio nel periodo successivo alla seconda metà del XVIII secolo, quando il processo di rinnovamento trasforma la famiglia da simbolo della corruzione a strumento di rinascita morale (p. 42). Le donne quindi sono al centro di un riscatto etico e civile e al «risorgimento della nazione» si accompagna la necessità di un «risorgimento delle donne», proprio in quanto riproduttrici della nazione stessa. L’inclusione delle donne nella nazione – ma l’esclusione dall’ordine politico – avviene in Italia, così come in altri contesti della modernità politica 3 Cfr. M. Tremblay, The Substantive Representation of Women and Pr: Some Reflections on the Role of Surrogate Representation and Critical Mass, «Politics & Gender», 2 (2006), n. 4, p. 504. 4 N. Yuval-Davis, Gender and Nation, Sage, London 1997; cfr. anche I. Blom-K. Hagemann-C. Hall (eds.), Gendered Nations:Nationalisms and Gender Order in the Long Nineteenth century, Berg, Oxford-New York 2000; I. Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento (2002), ora in Ead. (a cura di), Famiglia e nazione nel lungo Ottocento italiano: modelli, strategie, reti di relazioni, Viella, Roma 2006. la cittadinanza incompiuta delle donne 139 (Francia, Stati Uniti), attraverso la figura archetipica della “madre repubblicana”, perché è la maternità che si struttura come il veicolo attraverso il quale si definisce il rapporto ambivalente delle donne con la nazione stessa. Se la “madre repubblicana” è presente in tutti i contesti discorsivo-simbolici nazionali, la domanda che potrebbe essere sollevata riguarda il perché in alcuni contesti, come ad esempio negli Stati Uniti, il concetto di madre repubblicana divenne, nel corso dell’800, pur all’interno di un’accettazione del modello delle sfere separate, un potente grimaldello di affermazione femminile nella sfera pubblica, mentre in altri contesti, come quello italiano, invece finì per riaffermare una subalternità femminile e ostacolare una efficace e massiccia presenza pubblica e politica delle donne. In Italia, afferma Soldani, anche se si usa il linguaggio e il vocabolario politico dell’individualismo liberale, in realtà il processo di costruzione esalta la nazione come “entità collettiva” e la sacra triade – libertà, uguaglianza, fraternità – assume e non scardina «gerarchie e configurazioni di potere proprie della famiglia di antico regime» (p. 43). La cittadina-madre utilizza non tanto il linguaggio dei diritti, ma dei doveri e si identifica molto di più con la madre sacrificale, con colei che si immola alla triade “Dio, Patria, Famiglia”. Nel corso dell’800, la scelta “maternalista” del suffragismo italiano finisce per legittimare un impegno al servizio della famiglia, della patria, della nazione piuttosto che non l’affermazione di un sé individuale. La Chiesa cattolica, al contrario di quello che avviene negli Stati Uniti con il revivalismo evangelico protestante che esalta la centralità dell’individuo, gioca, poi, un ruolo fondamentale nella strutturazione della “apoliticità” della figura della cittadina-madre. Appare quindi un elemento di debolezza la strategia messa in atto dal movimento suffragista tra ’800 e ’900 che ha cercato di rivendicare la cittadinanza politica a partire dalla funzione materna e che ha avuto effetti di lunga durata sull’inclusione imperfetta delle donne nella sfera pubblica e politica perché sia la cultura cattolica sia quella comunista, entrambe culture di “individualismo debole”, hanno finito ulteriormente per rafforzare, come i saggi di Gaiotti de Biase e Casalini mostrano. Il che niente toglie al movimento femminile cattolico e a organizzazioni come l’Udi rispetto al contributo che hanno dato all’affermazione della cittadinanza delle donne, oppure al tentativo della rivista «Noi Donne» di avviare una guerra ai pregiudizi per contribuire al processo di laicizzazione della società italiana. Tuttavia, almeno fino alla svolta degli anni ’70, questo è avvenuto all’interno di una ambivalente accettazione del ruolo materno e familiare che ha reso difficile considerare come “intrinsecamente politico” l’attivismo delle donne in ambiti come quelli assistenziali o di volontariato o per i diritti di cittadinanza sociale. Il nodo è comunque quello del maternalismo, dei molteplici significati che questo termine assume e in particolare il modo in cui diventa una pratica potenzialmente politica di cittadinanza femminile. O meglio quando il maternalismo diventa pratica politica, affermazione di una peculiare modalità dell’a- 140 recensioni gire politico femminile e quando invece ne costituisce una debolezza? A mio parere, l’assunzione da parte dei movimenti delle donne di pratiche e linguaggi che apparentemente non mettono in discussione la separazione delle sfere politica e privata, ha costituito un trampolino di lancio, se così si può dire, laddove la società civile e la sfera pubblica sono forti, costituiscono un polo dialettico nei riguardi dello stato, come è stato appunto il caso degli Stati Uniti. In Italia, ci si potrebbe chiedere, il maternalismo appare una strategia debole del suffragismo perché si inserisce all’interno di una sfera pubblica altrettanto “debole” o perché si struttura all’interno di un contesto giuridico in cui il concetto di pubblico, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni, è tale solo in virtù di ciò che lo stato definisce come tale? O è una combinazione di questi due aspetti? La “debolezza” della società civile italiana, il suo strutturarsi attorno a reti familiari e parentali e il persistere nel lungo periodo di questa caratteristica è sottolineato proprio da Alessandra Pescarolo quando mette in evidenza quella che definisce una torsione familista del processo di modernizzazione in Italia. Ciò che bisognerebbe ulteriormente approfondire è l’intreccio fra suffragismo italiano prima e femminismo degli anni ’70 poi, familismo e presenza in Italia di uno statuto debole del liberalismo e del linguaggio dei diritti. Non c’è dubbio che questo intreccio apre a una analisi complessa sia sui molteplici significati degli stessi termini «liberalismo» e «individualismo», sia sul problematico rapporto che ha contraddistinto fin dalle origini il nesso femminismo-liberalismo, a partire dall’articolazione della dialettica uguaglianzadifferenza. Non vi è spazio qui per affrontare in maniera distesa questa discussione, della cui complessità e difficoltà analitica sono totalmente consapevole. E non posso che rimandare, sul nesso femminismo-liberalismo, ai lavori di Anna Rossi-Doria, alcuni dei quali sono stati recentemente raccolti in volume. Proprio in conclusione della sua introduzione, Rossi-Doria scrive: «quella che appare come una vera e propria tradizione secolare di pensiero politico femminile – sia pure frammentata, carsica, sempre interrotta – si rivela come la ricerca di un nesso tra universalità e particolarità in cui questa non sia il contrario della prima, ma la forma stessa che l’universalità assume»5. È, quindi, per tornare ad anni recenti, è all’interno di questa “tradizione secolare di pensiero politico femminile” che si devono inserire quei movimenti femministi, sia quello emancipazionista (e per certi versi anche socialista) sia il femminismo radicale degli anni ’70, che si sono nutriti e allo stesso tempo hanno sfidato l’individualismo liberale. Si sono fondati e legittimati assumendo i principi liberali di uguaglianza e di libertà e allo stesso tempo ne hanno svelato le contraddizioni e le aporie interne. Il femminismo radicale ha poi assorbito tali principi per andare oltre, assumendo il concetto di differenza 5 A. Rossi Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma 2007, p. XIX. la cittadinanza incompiuta delle donne 141 sessuale prima e di differenze poi, come elementi cruciali per la costruzione delle soggettività individuali. Ora a me pare che in Italia, la debolezza del liberalismo come cultura politica dell’individualità abbia finito per sottrarre al movimento femminista italiano un interlocutore e anche un avversario importante. Nel senso che il movimento femminista degli anni ’70, stretto fra le culture politiche comunista e cattolica, ha dovuto addossarsi il fardello di una rivoluzione liberale – affermando in maniera forte i concetti di libertà e autonomia femminile, di autodeterminazione – e allo stesso tempo abbia dovuto combattere una battaglia contro le mistificazioni del liberalismo stesso. Ha contribuito cioè a fare entrare prepotentemente nel dibattito pubblico italiano, forse per la prima volta in maniera così efficace, il linguaggio dei diritti, ma allo stesso tempo ha dovuto sottoporlo a critica e superarlo per dare spazio a una pratica e a una riflessione centrata sul soggetto sessuato femminile. Il che, probabilmente, induce a situare meglio il fatto che il femminismo italiano degli anni ’70, a differenza di quello che accade in altri paesi, si affermi come un femminismo “senza storia”: non perché non ci fosse un percorso precedente o perché questo era emancipazionista – ha ragione Emma Baeri quando parla di una «coralità femminista impensabile senza emancipazione» (p. 172) –, ma perché il percorso emancipazionista, o maternalista o interno alla tradizione socialista e comunista (come ci illustra bene Maria Casalini), non serviva perché usava un linguaggio debole dei diritti. Ha tutto ciò provocato una sorta di “corto circuito” teorico e politico? Risiede forse qui l’anomalia italiana? Non potrei affermarlo con certezza, anche se mi pare che questo sia un nodo su cui vale la pena di soffermarsi.