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La scienza degli Etruschi

Tirrenia è il paese, e Tirreni sono i cosidetti Etruschi. Un saggio scrisse presso di loro la storia, e disse che il demiurgo, il dio creatore di tutte le cose, concesse 12000 anni alle sue creature, e li distribuì in dodici sedi (oikoi). Nel primo millennio creò il cielo e la terra. Nel secondo creò questo firmamento visibile, chiamandolo cielo. Nel terzo il mare e tutte le acque della terra. Nel quarto tutte le grandi luci: il Sole, la Luna, le stelle. Nel quinto ogni essere vivente: gli uccelli, i rettili, i quadrupedi, nell'aria, sulla terra, nelle acque. Nel sesto creò l'uomo: all'uomo rimangono 6000 anni".

La scienza degli Etruschi Armando Cherici “Tirrenia è il paese, e Tirreni sono i cosidetti Etruschi. Un saggio scrisse presso di loro la storia, e disse che il demiurgo, il dio creatore di tutte le cose, concesse 12000 anni alle sue creature, e li distribuì in dodici sedi (oikoi). Nel primo millennio creò il cielo e la terra. Nel secondo creò questo firmamento visibile, chiamandolo cielo. Nel terzo il mare e tutte le acque della terra. Nel quarto tutte le grandi luci: il Sole, la Luna, le stelle. Nel quinto ogni essere vivente: gli uccelli, i rettili, i quadrupedi, nell’aria, sulla terra, nelle acque. Nel sesto creò l’uomo: all’uomo rimangono 6000 anni”. Sembra un brano del primo libro della Bibbia, in realtà si tratta della voce “Turrenìa” della Suda (Fr. 7, 706 J), un’enciclopedia del mondo antico compilata a Bisanzio tra i sec. X e XI sec. della nostra era. Se il dato non è interpolato, la cosmogonia etrusca avrebbe strette attinenze con quella attestata in ambiti sacerdotali a Gerusalemme intorno al VI sec. a.C. (Gen. 1, 1-2, 4), ivi compresa l’equiparazione 1 giorno divino = 1000 anni umani (Ps. 90,4; 2 Pt. 3,8). L’argomento è di notevole interesse: per il VII sec. a.C. sono ben documentate in Etruria importazioni dall’area feniciocipriota, e un contatto culturale per questo tramite può esser quindi plausibile ma - se il brano della Suda è degno di fede e se d'influenza allotria si tratta - l’Etruria avrebbe accettato un pensiero cosmogonico del tutto diverso da quello delle altre due culture “classiche” del Mediterraneo antico, la greca e la romana, culture contigue a quella etrusca, con le quali sostanzialmente condivide il pantheon. Il problema è aperto e necessita di uno specifico approfondimento, qui desidero soltanto far notare che quanto riassuntoci dalla Suda non è del tutto estraneo alla cultura etrusca, avendo anzi alcuni elementi a lei propri, percepibili anche in altre fonti: la dottrina di un tempo definito, concesso alla vita del singolo uomo come di una civiltà (CENS., De die nat. XIV 6); le 12 “oikoi”, che ricordano le 16 “sedes” in cui è diviso il templum etrusco (PL., N.h. II, 60, 143; MART. CAP. I 456)1. Ma entriamo nell’argomento del nostro capitolo. Cos’è una cosmogonia? E’ un primo tentativo dell’uomo di spiegare l'origine e la natura di se stesso, come dell’universo e del mondo in cui vive; un tentativo che, per la prima volta nella storia del pensiero, prende forma organizzata. In età così antica la risposta non può esser che religiosa, nondimeno le diverse cosmogonie possono darci indizi su un determinante aspetto "prescientifico" del pensiero: su come una cultura ha osservato il mondo circostante. E la cosmogonia etrusca tramandataci dalla Suda conferma una forma mentis e un modo di osservare - e di catalogare - che ritroveremo in altre manifestazioni di questa civiltà. L’Universo, la Terra, non sono visti e interpretati da un punto di vista spirituale, non vi compaiono le forze primordiali della teogonia greca; c’è un demiurgo, come in Platone, ma non il suo mondo delle idee: tutta l’attenzione è rivolta al mondo fisico. Dell’azione creatrice - data come certezza religiosa - si valuta e si classifica ciò che è fisicamente percepibile, identificando insiemi coerenti: il fuoco terreno è abbinato ai “grandi fuochi” celesti (similia similibus); gli animali sono classificati con una logica interna che funzionerà fino alla scienza moderna: quelli che volano, quelli che camminano o strisciano (quadrupedi e rettili), quelli che nuotano. Le acque sono distinte tra quelle del mare e quelle interne (quindi salate e dolci). Ci basiamo su di un brano di poche righe, sopravvissuto al naufragio di una grande cultura scritta, forse interpolato; con tutta la prudenza del caso possiamo supporre che queste parole, dettate da un sapiente, necessariamente pregnanti, confermino alcune caratteristiche della cultura etrusca, caratteristiche che ritroviamo in altre fonti e che possiamo senz'altro classificare come basi prescientifiche: l’osservazione diretta della natura, la classificazione dei suoi fenomeni, l'elaborazione di una casistica, la finale compilazione di corpora, prontuari che interpretano religiosamente ogni fenomeno del mondo visibile, dalla forma e direzione dei fulmini al volo degli 1 Sul quale: VAN DER MEER 1979; STEVENS 2009. uccelli all'aspetto delle viscere degli animali sacrificati. Certo gli esiti sono ben lontani da un risultato scientifico, i fenomeni naturali sono visti come segni divini, causati o generati da dei; ma l’intento del loro studiarli non è supinamente religioso, bensì magico-religioso, finalizzato a un vantaggio umano conseguibile con l'intepretazione e la successiva azione; della religione abbiamo l’evidenza dei riti e il loro riferirsi a paure e bisogni collettivi e contingenti, ma non troviamo devozione; della magia - e della scienza - abbiamo l'intento prima interpretativo e poi manipolatorio: il dio non viene indotto alla benevolenza con la pietas, con la preghiera, ma se ne determina la posizione rimuovendo un ostacolo, avverando o creando una condizione, forzando una situazione con il compiersi di un atto previsto dalla casistica di fenomeni osservati e classificati in uno specifico corpus2. Osservazione, catalogazione, registrazione, possibilità di utilizzo dei dati da parte di chiunque abbia accesso a essi, interpetazione, incanalamento a favore umano di forze o eventi: sono elementi costitutivi della scienza propriamente detta, anche se maturati e gestiti con stimoli e intenti magico-religiosi. E infatti, che gli Etruschi abbiano inconsapevolmente compiuto nelle loro osservazioni un completo percorso scientifico ce lo testimoniano le stesse fonti latine, non ultimo il brano di Seneca (Quaest. nat. II, 32, 2) preso invece a simbolo dell'esclusiva ossessione religiosa di quel popolo. Ma cominciamo con un brano in cui il valore scientifico di una disciplina tipicamente etrusca, l'aruspicina, ci viene esplicitamente dichiarato da un "tecnico": Vitruvio. L'architetto romano ricorda come venisse scelto il luogo per un nuovo insediamento umano: "Maiores enim pecoribus immolatis, quae pascebantur in îs locis, quibus aut oppida aut castra stativa constituebantur, inspiciebant iocinera, et si erant livida et vitiosa primo, alia immolabant dubitantes, utrum morbo an pabuli vitio laesa essent. Cum pluribus experti erant et probaverant integram et solidam naturam iocinerum ex aqua et pabulo, ibi constituebant munitiones; si autem vitiosa inveniebant, iudicio transferebant item humanis corporibus pestilentem futuram nascentem in his locis aquae cibique copiam, et ita transmigrabant et mutabant regiones quaerentes omnibus rebus salubritatem" (I 4, 9). La perizia conseguita dai maiores nell'osservazione delle viscere, in particolare del fegato, aveva portato a osservare le anomalie di quello che oggi definiremo un “indicatore biologico”, e a riferirle al rapporto tra l'ambiente e la salute degli animali: è un percorso proprio della scienza, come è proprio della scienza volgere l'esito di tale percorso a vantaggio dell'uomo. Si potrà obiettare che ci troviamo di fronte a un'interpretazione maturata da Vitruvio in merito a una prassi che gli Etruschi seguivano senza averne compreso il valore "scientifico"; è possibile, come è possibile che la formazione tecnico-empirica di Vitruvio gli abbia consentito di trasmetterci un dato genuinamente etrusco, senza il filtro filosofico con cui il suo contemporaneo Seneca contrappone la religiosità etrusca al razionalismo greco e romano, filtro che forse continua a influenzare anche il nostro modo di vedere quella civiltà. Rileggiamo il noto brano di Seneca: "Hoc inter nos et Tuscos [...] interest: nos putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti, ipsi existimant nubes collidi, ut fulmina emittantur, nam, cum omnia ad deum referant, in ea opinione sunt, tamquam non, quia facta sunt, significent, sed quia significatura sunt, fiant". Faccio notare che anche qui affiorano le tappe di un percorso scientifico: gli Etruschi vedono in un dio la causa del movimento delle nubi - e questo è un fatto religioso - ma hanno comunque stabilito un nesso di causa/effetto tra nuvole che si scontrano e generazione del fulmine, e questa è una acquisizione scientifica, provocata da una serie di osservazioni di un preciso fenomeno naturale, che viene catalogato nelle sue diverse manifestazioni in un corpus (i Libri Fulgurales) che metterà in grado tutti gli specialisti a riconoscerne elementi - forma, direzione etc. - ritenuti 2 Significativo l’episodio delle viscere rapite a Veio (LIV. V 21,8): non è la devozione che influisce sull'esito del sacrificio, ma chi materialmente compie un determinato atto; cfr. anche quello del Caput Oli (SERV., ad Aen. VIII 345). significativi, da cui trarre univoci responsi. Sicuramente il pensiero romano è più razionale, ma Seneca parla nel I sec. d.C., quando la cultura latina si è ormai laicizzata, mentre la tradizione sapienzale etrusca cui egli fa riferimento è di secoli più antica: è ormai fissata da tempo su testi scritti, ma il suo primo formarsi è antecedente alla scrittura, visto che ancora in età pienamente storica la sua trasmissione è affidata alla tecnica mnemonica ancestrale del canto 3. L’Etruria assillata dalla religione è quindi - almeno in parte - uno stereotipo dovuto al giudizio che in età romana imperiale si è dato di una cultura di secoli prima. Cultura che molto si fondava su quelle osservazioni che, gradualmente, porteranno al concetto di "filosofia naturale" formulato da Newton, e di lì alla scienza moderna. Certamente queste osservazioni non sono mai maturate in una vera scienza, semmai hanno consolidato una empiria consapevole di tutta una serie di rapporti di causa e di effetto. Perché una effettiva evoluzione scientifica non ci sia stata è difficile dire. Forse per il progressivo marginalizzarsi dell'Etruria rispetto a quel mondo di contatti e di scambi che daranno vita alla filosofia ionica, come poi alla scienza ellenistica. Forse perché un importante strumento scientifico precocemente e sistematicamente utilizzato dagli Etruschi, quello della tesaurizzazione sapienzale nelle pagine di un testo scritto, ha provocato non il successivo superamento d'una dottrina o d'una osservazione, ma il suo cristallizzarsi, il suo fermarsi al dato scritto; dato scritto che escludeva la necessità di proseguire quella osservazione diretta del fenomeno naturale che aveva costituito la base del libro stesso. Libro che, quale ulteriore elemento di cristallizzazione, era riferito a sapienti semidivini - Tages, la ninfa Vegoia, il "saggio" del brano della Suda, forse anche Pitagora 4 - ritenuti non superabili, come i loro scritti. Questo fossilizzarsi sul dato scritto è del resto cosa ricorrente nella storia della scienza, basti pensare al contrapporsi dello sperimentalismo di Galilei agli aristotelici che, fermandosi ai testi e al peso di un tale autore, negavano l'utilità di un'ulteriore osservazione diretta della natura. Ma, nel caso etrusco, l’osservazione della natura c’era stata, e si era tradotta in una cultura magico-empirica che non è scienza perché, almeno per quanto ne sappiamo, non ha generato leggi che la spiegano, ma della scienza è l'anticamera, e della scienza ha talvolta gli esiti, soprattutto in campo pratico. La metodicità scientifica di successive osservazioni empiriche ci è assicurata da uno dei simboli della civiltà etrusca: il bucchero. Una produzione che imita - e talvolta supera - il pregio del vasellame metallico: nella forma, negli spessori, nella leggerezza, nel colore, nella superficie, addirittura nella sonorità. C'è voluta la scienza moderna per capire il grado di assoluta specializzazione di questa ceramica, realizzata in particolari forni che "consumavano" l'ossigeno contenuto nell'argilla5: sicuramente gli Etruschi non erano giunti a determinare i meccanismi chimico-fisici che producevano tale risultato, ma con l'osservazione, con una infinita serie di prove, con la capacità di registrarne gli esiti, avevano infine identificato i componenti e realizzato i forni per ottenere un prodotto di altissima specializzazione. Questa è scienza empirica, o empiria scientifica. Analogo percorso fu compiuto nell'oreficeria, sviluppando tecniche ineguagliate quali la granulazione, il pulviscolo, la filigrana. Anche qui non c'è la consapevolezza dei meccanismi chimico-fisici che permettevano all'orafo di produrre e saldare in un disegno minuscole sfere o filamenti aurei, senza che tutto si fondesse. La tecnica che gli artefici etruschi di età orientalizzante mostrano di possedere come conoscenza durevole e ripetibile è però senz'altro frutto di una lunga fase sperimentale resa possibile da una società particolarmente ricca e stabile, in grado di accogliere, formare, mantenere artigiani che non soltanto lavorano materia prima di assoluto valore intrinseco, ma necessitano anche di tempo, protezione, sicurezza, che li ponga in grado di evolvere e trasmettere conoscenze. Lo scomparire nell'arcaismo del bucchero sottile, come delle tecniche 3 LIV. V 15,4; LUCR. VI 381; CENS., de die nat. IV 13. 4 CHERICI 2006, p. 11 ss. 5 CUOMO DI CAPRIO 2007, p. 438 ss. orafe più raffinate è probabilmente dovuto al venir meno delle condizioni economiche che permettessero il progredire di tali ricerche e la trasmissione delle competenze acquisite. Per la ceramica e l'oreficeria fanno testo i reperti archeologici, per altri settori in cui la scienza empirica etrusca ha conseguito durevoli risultati, almeno in parte trasmessi alle altre culture, dobbiamo tornare alle labili tracce delle fonti letterarie. Più di un autore accenna alla farmacopea etrusca (AISCHYL., El. Fragm. 2, Bergk. II 571; THEOPHR., Hist. plant. IX 15,1; MART. CAP. VI 637), e Dioscoride ricorda ben tredici essenze vegetali cui gli Etruschi riconoscevano virtù officinali tutt'oggi accettate6: la loro identificazione rientra senz'altro in quella capacità scientifica di osservazione, catalogazione e registrazione di dati che abbiamo proposto d'individuare come caratteristica della cultura etrusca; qui abbiamo traccia della trasmissione degli esiti di esperienze svolte sull'utilizzo di una specifica essenza vegetale, che è stata per tempo identificata e distinta con un proprio nome: un compiuto percorso scientifico. La perizia idraulica degli Etruschi, riconosciuta dalle fonti antiche e testimoniataci da alcune evidenze archeologiche di non facile datazione7, appartiene soprattutto all'ambito tecnico-pratico e organizzativo-gestionale: imponente doveva esser la forza-lavoro impiegata, e notevole doveva esser poi la cura per il mantenimento di opere complesse, fuoriterra o sotterranee, come i sistemi di drenaggio del delta padano, il cunicolo formellese a Veio (di oltre mezzo chilometro) o la Cloaca Massima a Roma (con un percorso stimabile in poco meno di un chilometro). Ma se l'esperienza di cantiere e la disponibilità di manodopera schiavile possono spiegare opere di tale estensione, alcune loro caratteristiche implicano comunque una elaborazione scientifico-empirica: per cunicoli dal tracciato sotterraneo che non poteva esser guidato dalla superficie possiamo immaginare che si fossero sviluppate specifiche tecniche geodetiche basate sulla capacità di traguardare, stendere allineamenti, misurare angoli, capacità teorizzate del resto nella dottrina sui limites, sulla fondazione di città, sulla consacrazione di templi ed altari, e racchiuse nelle procedure dei Libri Rituales (FEST. 358L). Anche qui siamo fortemente penalizzati dal possedere, di tale patrimonio sapienzale, solo minuscoli frammenti che continuiamo a collocare nel mondo - forse deformato dalla prospettiva storica - dell'ossessione religiosa etrusca. E' ancora Festo (351L) che ci aiuta a capire come un rito religioso, quello augurale, rendesse di fatto l'edificio un caposaldo geodetico, cioè un punto di riferimento per la lettura del paesaggio (e del cielo): "stellam significare ait Ateius Capito [...] auctoritatem secutus P. Servilii auguris, stellam quae ex lamella aerea adsimilis stellae locis inauguratis infigatur". Negli altari e templi consacrati secondo il rito augurale era fissata una "stella" bronzea8, cioè i due regoli incrociati della groma9, lo strumento che consentirà ai romani di pianificare l'utilizzo del territorio in tutte le sue forme, dal tracciato delle strade, alla pendenza degli acquedotti, alla centuriazione dei campi. Che in età etrusca esistesse già una consapevolezza catastale legata alla terminatio, al disegno di confini artificiali, ci è testimoniato dal rinvenimento di cippi iscritti e da una notizia ancora relativa al sapere tramandato da figure semidivine: la profezia di Vegoia. Anche qui è forse possibile superare un'esclusiva interpretazione religiosa: i termini appartengono certo all'ambito del sacro, ma questo è vero anche per Roma, dove sono tutelati da Terminus e sono celebrati nei Terminalia; se della cultura romana ci fossero rimaste solo queste ultime informazioni, avremmo considerato i termini romani solo da un punto di vista religioso (come siamo portati a fare per gli Etruschi), mentre sappiamo che essi erano le basi concrete di una scienza agrimensoria che si fondava su notevoli capacità di astrazione e applicazione geometrica, 6 CHERICI 2006, p. 10 s.; JOHNSON 2006; SCARBOROUGH 2006; HARRISON - BARTELS 2006; HARRISON TURFA 2010. 7 BERGAMINI 1991. 8 CHERICI 2006, p. 22 ss. Una stella è tracciata sulla piattaforma dell'altare rupestre "Sasso del Predicatore" presso Bomarzo (STEINGRÄBER-PRAYON 2011, p. 35 ss.). 9 DAREMBERG-SAGLIO, s.v. Stella. abilità che nella dottrina etrusca fanno capo al sacerdote, nel suo disegnare un templum in cui osservare e riconoscere i fenomeni. Posidonio di Apamea, che vive tra II e I sec. a.C., quando ancora della cultura etrusca si potevano avere informazioni dirette, c'informa come vi fossero curate le lettere, la scienza della natura, la teologia (in DIOD. V 40,2): è senz'altro possibile che tali ambiti si confondessero - anche se la nostra fonte li distingue - e che taluni argomenti fossero tramandati in forma dogmatica, come peraltro nella scuola pitagorica; del resto, come in qualunque cultura antica, è possibile immaginare che sapere religioso e sapere scientifico si confondessero e convergessero in una stessa persona: il sacerdote o il re (che è in origine anche sacerdote, come testimoniato a Roma dal sopravvivere del rex sacrorum). L'aruspice veiente che interpreta l'esondazione del Lago di Albano, indica poi come realizzarvi una derivazione (Liv. V 15,12): tecnica e religione si confondono. Plinio, nella sua Naturalis historia (II 140) ricorda come Porsenna debelli - evocando un fulmine – il mostro Olta, che minacciava la città di Volsinii avendone devastate le campagne: il passo è complesso, anche perché Porsenna è noto come re di Chiusi. Il mito che Plinio tramanda sembrerebbe parlare di uno dei tanti mostri ammorbanti le campagne con cui il mondo antico interpretava la malaria, l'incerta vita intorno alle paludi; e la cosa è possibile, visto che tra Chiusi e Orvieto si trova il margine meridionale della palude della Chiana, sinonimo nel medioevo di un ambiente ostile e malsano10: una terra destinata all'impaludamento, a meno che opere di regimentazione idrica non permettessero il deflusso delle acque verso il Tevere; e Plinio colloca qui un fiume – il Clanis - regolato da chiuse (III 53). Non è impossibile vedere dietro il mito l'esito di una lunga opera idraulica che, nella memoria, finì per esser attribuita a una figura di spicco quale Porsenna, nei panni di un potente resacerdote11: religione, abilità tecniche, storia e mito, in epoche così antiche si confondono, ma la moderna ricerca può forse ancora isolare i singoli elementi, con grande prudenza e nella consapevolezza di agire in un terreno “paludoso”. Alcuni aspetti del mondo etrusco - come del mondo antico - ci sfuggono per una ancora imperfetta sinergia tra discipline "umanistiche" e "scientifiche" che stentano a colloquiare. Nelle pubblicazioni archeologiche l'orientamento di templi, altari e tombe, è sempre riferito al Nord magnetico e affidato a un simbolo grafico troppo piccolo, che non permette di valutare i gradi: rende un'idea dell'orientamento, ma non basta a interpretarlo. I nostri punti cardinali non sono poi quelli prevalenti nella geografia mentale antica e, almeno nel mondo romano, un'eventuale cartina aveva in alto il nostro Est, come indica la Tabula Peutingeriana e come testimonia il nome dell'Adriatico (Mare Superum) e del Tirreno (Mare Inferum). Visto che il templum etrusco si basava su punti determinati dal sorgere e tramontare del Sole (aequinoctialem exortum, aequinoctialem occasum: PL., N.h. II 143), per documentare correttamente, e poter quindi interpretare, l'orientamento di una struttura occorrerebbe rilevare il punto in cui, dalla struttura medesima, è percepibile il sorgere e il tramontare del Sole in tali date, come in quelle dei solstizi. Tali punti devono esser infatti riferiti all'orizzonte visibile, non a quello astronomico: se ad Est ci sono ci sono montagne vicine, il Sole apparirà in ritardo, e quindi spostato verso Sud in inverno, verso Nord in estate; il contrario avviene se il tempio è sull'alto di un colle. Inoltre, alle latitudini dell'Etruria, nei sei mesi tra i due equinozi il punto in cui sorge il Sole si sposta ogni giorno verso Sud o verso Nord: tra i due solstizi i punti di nascita e di tramonto descrivono un arco di circa 66 gradi! Ciò significa che la facciata o i traguardi ottici laterali di un tempio etrusco non possono esser compresi con la semplice indicazione in pianta di un piccolo segno per il Nord. Nel tempio C e nell'altare A di Marzabotto, orientati N/S, chi si poneva sulla soglia e faceva correre l'occhio sul filo esterno della parete, poteva identificare l'esatta data dei due solstizi, giorni nei quali il Sole sorgeva e calava esattamente sulla proiezione della parete alla 10 DANTE, Inf. XXIX 46 s.; FAZIO XXIII 41. 11 CHERICI 1994. DEGLI UBERTI, Dittamondo III 10, 22 ss.; L. PULCI, Morgante sinistra o alla destra dell'osservatore; se poi il tempio C avesse avuto (come possibile) le colonne disposte come nel tempio tuscanico descrittoci da Vitruvio, l'osservatore avrebbe potuto traguardare dietro le colonne alla sua sinistra e alla sua destra, l'alba e il tramondo del solstizio d'inverno. Nel tempio del Belvedere a Orvieto, e forse nel tempio di Giove Capitolino a Roma, la proiezione sulla sinistra sembrerebbe corrispondere all'alba del solstizio d'estate, quella sulla destra al tramonto del solstizio d'inverno, l’opposto per il tempio di Punta della Vipera a Santa Marinella e per le Stimmate di Velletri: il traguardo ottico sulla sinistra collimerebbe con l’alba del solstizio d’inverno, sulla destra con il tramonto del solstizio d’estate, ancora due date precise per scandire l'anno. I due templi di Pyrgi sembrano aver invece la facciata orientata sul tramonto del solstizio d’inverno. In ambito funerario, il lungo dromos del tumulo della Montagnola ad Artimino parrebbe orientato verso l'alba del solstizio d'inverno: può esser un caso, ma tale alba corrisponde al giorno in cui le giornate cominciano ad allungarsi, in cui "rinasce" il Sole, come ricorda ancor oggi il rito del nostro Natale. A Cerveteri il lunghissimo dromos della tomba più antica del Tumulo del Colonnello è orientato invece verso il tramonto del solstizio d'estate, il momento cioè in cui il Sole comincia a “morire”. La scalinata monumentale del tumulo del Sodo a Cortona sembrerebbe invece guardare l'alba dell'equinozio d’inverno: la leggera declinazione rispetto all’Est potrebbe esser dovuta al ritardato apparire del Sole, dietro la montagna che sovrasta il sito. Tali evidenze - se non sono casuali - non devono stupirci: secoli prima edifici sacri sardi quali il pozzo di Santa Cristina a Paulilatino (OR) facevano penetrare i raggi del Sole agli equinozi, secoli dopo l'occhio della cupola del Pantheon li proietterà sulla soglia al mezzogiorno del solstizio d'estate; e nell'XI sec. un foro sulla cupola del battistero di Firenze seguiva il moto annuale del Sole, come ancora due secoli dopo osserva Giovanni Villani (I 61). Sottolineo che quanto sopra tratteggiato ha solo il valore di una proposta: la documentazione disponibile per i monumenti etruschi non consente una sicura valutazione dell'orientamento rispetto al moto apparente del Sole sull'orizzonte visibile. E sottolineo come, specie su questo campo, sarebbe necessaria una collaborazione tra più discipline scientifiche. I grandi edifici religiosi sono stati a lungo, nella storia dell'uomo, luoghi di osservazione celeste, per tutta una complessa serie di motivi: le loro dimensioni garantivano letture più accurate, il loro disporsi nell'ambiente poteva sfuggire alle esigenze della vita quotidiana che condizionavano gli edifici civili, solo i sacerdoti disponevano del tempo – e delle conoscenze - per effettuare tutta una serie di osservazioni, solo i sacerdoti avevano la possibilità di trasmetterne i risultati per consolidare gli esiti di tale ricerca, e nella capacità di scandire l'anno, essenziale in una economia agricola, i sacerdoti riponevano il loro potere: a Roma il calendario era regolato dal Pontefice Massimo, ed è appunto quando nel 46 a.C. Giulio Cesare riveste tale carica che abbiamo la sua prima riforma, con il calendario giuliano rimasto valido fino al 1582, quando è ancora un Pontefice a riformarlo, Gregorio XIII. Analizzando le fonti letterarie sembra comunque altamente probabile che gli Etruschi avessero sviluppato una propria ricerca e una propria tecnica sul modo di seguire e scandire l'anno solare. Giovanni Lido (de Mag. I, 1W) c'informa di aver a lungo parlato di loro nel suo libro de mensibus: una parte purtroppo perduta, ma il grande spazio dedicato all'argomento testimonia che la cultura etrusca aveva affrontato il tema con elementi originali e sostanziali, tanto da fornire abbondante materiale ancora nella Bisanzio del V-VI sec. d.C. E infatti sappiamo da Servio che il nuovo giorno iniziava, in Etruria, con l'alba (ad Aen. V 738, VI 535); da Varrone e da Macrobio che le idi romane - giorno mobile che divideva il mese - sarebbero state ideate dagli Etruschi (l.l. VI 28; Sat. I 15); e il giurista Antistio Labeone affermava che sarebbe stata loro l'idea della riduzione dei giorni del febbraio (in LYD., de mens. III 10). Se a quest'ultime due informazioni aggiungiamo quella in merito al rito del clavus annalis celebrato a Volsinii (LIV. VII 3; FEST. s.v.), possiamo ragionavolmente sospettare che gli Etruschi avessero dedicato molta attenzione ai problemi della esatta scansione dell'anno solare. Il rito del chiodo sancisce un prima e un dopo cronologico puntuale, la mobilità delle idi e soprattutto l'accorciamento del febbraio consentono di adattare la divisione mensile dell'anno, forse raccordandolo con quello lunisolare, che iniziava dopo febbraio con la lunazione di primavera: calendario questo più antico, pastorale, più semplice da seguire ma non sufficentemente preciso per le tassative esigenze di un'agricoltura evoluta. Scegliere di dare una lunghezza minore e variabile al febbraio, che si configurava quindi come mese ultimo e di raccordo, significava anche incidere minimamente su ogni attività organizzata: in febbraio sono fermi i campi, i commerci, la guerra12; una valutazione anche di ordine socio-economico dunque, perché l'esigenza di raccordare la lunghezza dei mesi e dell'anno al corso del Sole, aveva soprattutto valenze di tale ordine. E qui, ancora una volta, empiria, scienza, economia e religione si confondono, visto che la maestria etrusca di proiettare una raggiera di traguardi fissi in un “territorio” che ne è privo – l'orizzonte e la volta celeste – è rappresentata dal templum, basato sui punti equinoziali. Il templum poteva avvalersi dei traguardi offerti dalla stella bronzea che abbiamo incontrato sopra, ma anche la stessa struttura del tempio tuscanico poteva forse assolvere a tale funzione. Vitruvio, descrivendone la pianta in un notissimo brano (IV 7), adotta solo per esso un sistema di riferimento del tutto particolare, basato su misurazioni proporzionali facilmente realizzabili in cantiere con un sistema di corde e picchetti. Tale procedimento empirico permette di realizzare, senza ricorrere a calcoli algebrici, un edificio con due caratteristiche geometriche che credo interessanti. 1) La pars antica e la pars postica hanno ambedue la dimensione del rettangolo aureo: un rapporto che sembra presente in molti monumenti etruschi, argomento su cui occorrerebbe uno specifico approfondimento interdisciplinare13. 2) Chi si fosse posto con le spalle all'ingresso della cella centrale, avrebbe potuto vedere la pars antica del templum, divisa nei suoi otto spicchi dal traguardo delle 6 colonne visibili, perché la vista delle due colonne angolari è coperta dalle due colonne interne14. Questa è un'evidenza facilmente riscontrabile sulla carta, credo che la cosa non sia casuale ma non posso andare oltre: da un lato dobbiamo rassegnarci all'assoluta mancanza di fonti, dall'altra occorrerebbe ro documentazione più accurate e analisi interdisciplinari che collocassero il tempio nel paesaggio diurno, come in quello notturno: l'archeologia ha completamente dimenticato il mondo delle costellazioni in cui pure era proiettata gran parte della mitologia antica, cioè – come abbiamo detto in apertura – il modo prescientifico di spiegare la natura delle cose, de rerum natura. La svastica, elemento che compare nei millenni sul nascere di ogni cultura agricola, dalla Cina all'Etruria, potrebbe nascere dalle posizioni stagionali dell'Orsa Maggiore, che i Greci chiamavano helix, spirale: e la svastica è una spirale15. Campi d'indagine affascinanti, che sarà possibile esplorare, almeno in parte, solo con un approccio interdisciplinare16, o almeno non esclusivamente storico-artistico. Scopriamo così che la dinamica dei fluidi era conosciuta non solo per quel che riguardava le grandi opere idrauliche sopracitate, ma anche nei comportamenti dell'acqua condotta in pressione: tutta una serie di vasi con diaframmi interni o con fori di sfiato erano destinati a versare liquidi selettivamente, o impedendone il gorgogliamento; coppe in bucchero con tubicini interni 17 consentivano di suggere il liquido creando con la bocca una depressione, o di farlo colare con il principio dei vasi comunicanti; principio che consentiva di far sgorgare acqua in fontane monumentali fuoriterra, isolate 18. Ex voto anatomici tardoetruschi documentano una notevole conoscenza degli organi interni, accessibili solo con tecniche chirugiche19. Siamo alle soglie della scienza, nella fase conoscitiva ed empirica, ma la cultura etrusca mostra sempre una spiccata capacità di astrarre e insieme render concrete, e utili, tali 12 CHERICI 2006, p. 16 ss. 13 CHERICI 2007; IDEM 2012. 14 CHERICI 2007, figg. 1, 2. 15 CHERICI 2006, p. 24. 16 Cfr. TURFA 2007. 17 CRISTOFANI 1985, nr. 5.2; cfr. PERUZZI 1998, p. 43. 18 MAGGIANI 2011. 19 BAGGIERI - RINALDI VELOCCIA 1996. osservazioni: dalla pratica del commercio nasce in Etruria il concetto economico di “tara” (FEST. 129; TLE 844), tutt'oggi essenziale nella scienza mercantile. BAGGIERI G. - RINALDI VELOCCIA M.L., (edd) 1996, Speranza e sofferenza nei votivi anatomici dell’antichità, Roma. BERGAMINI M., (ed.) 1991, Gli Etruschi maestri d'idraulica, Perugia. CHERICI A., 2006, Per una scienza etrusca, in Science and Technology for cultural Eritage 15, p. 9 ss. CHERICI A., 2007, Per una scienza etrusca. 2. 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