I. In Onda
1.1 «Ti interessano le sirene, ragazzo?»
M. Bettini, L. Spina, Il mito delle Sirene. Immagini e raccanti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2007, p. 12.
Con Il racconto delle sirene, che introduce il saggio del grecista Luigi Spina Il mito delle sirene – Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Maurizio Bettini immagina un epilogo inedito per le vicende di Odisseo il quale, parlando in prima persona, si sofferma – e fa soffermare il lettore – su di una questione che mai si era posto, insolubile quanto affascinante.
Appena sbarcato a Itaca, Odisseo, irriconoscibile e vestito di stracci, sta parlando a un giovane sconosciuto armato di lancia dello strano incontro avuto a Bounina, dopo giorni di marcia solitaria tra le campagne. In una sperduta regione agricola dell’interno, gli si fa davanti un contadino che, incuriosito da quello che scambia per una pala da fieno, finisce con implorare Odisseo di spiegare cos’è il mare – a uno come lui, che del mare non ha mai neanche sentito parlare e che crede che un remo dal legno zuppo e slavato di salsedine sia uno strumento per la mietitura.
Cedendo ancora una volta alla tentazione di narrare di sé e delle proprie incredibili avventure, e servendosi Bettini della struttura a cornice propria già del poema omerico, Odisseo si siede con lui, e dall’odore salino che sprigiona dal remo, ultimo relitto dal valore quasi totemico che gli ha consentito di salvarsi dall’ennesimo naufragio, inizia a raccontare del suo nόstos, dei Lestrigoni, di Polifemo e dei Lotofagi, delle splendide Circe e Calipso.
Ma, soprattutto, delle Sirene.
Il contadino resta vivamente impressionato dal resoconto dell’episodio sirenico, e, finito di ascoltare, ha ancora una domanda: assilla l’eroe itacese chiedendogli di rivelargli che cosa cantassero le sirene mentre la nave passava dinanzi ad Anthemoessa, quando Odisseo non era quasi più in grado di sentirle. Solo lui, infatti, poteva saperlo, unico sopravvissuto e unico spettatore del canto fatale. Rispondere è più difficile del previsto. Anzi, è quasi impossibile anche per colui che ha avuto il privilegio di sentire la voce di miele delle due mostruose creature.
Che cosa cantavano le Sirene dopo aver allettato Odisseo con una promessa di infinita conoscenza, mentre egli si divincolava e implorava i compagni di lasciarlo libero di tuffarsi?
La domanda riecheggia una delle tante con cui l’imperatore Tiberio, vissuto tra il 42 a. C. e il 37 d. C., si divertiva a provocare i grammatici dei quali si circondava, apprezzandone particolarmente la compagnia, per intrattenersi con curiosità al limite del pedante e del ridicolo sugli episodi e i protagonisti della mitologia greca. Svetonio gli attribuisce infatti interrogativi sull’identità della madre di Ecuba, o sul nome di Achille «quando stava tra le fanciulle»; oppure: «Quid Sirenes cantare sint solitae?»
Svetonio, Vite dei Cesari: Tiberio - 70, trad. it. di F. Dessì, BUR Rizzoli, Milano 1982., e cioè: “che cosa cantavano di solito le Sirene?”.
Odisseo si siede, riflette, si guarda attorno. Finalmente, proprio quando l’uomo di Bounina sta perdendo la pazienza, l’eroe sembra trovare dentro di sé la risposta, e decide di confidare – per la prima volta in modo tanto sincero a un tale incrociato per caso – il significato più intimo che aveva avuto per lui quell’incontro con le sirene, mille altre volte narrato e rimaneggiato:
Le sirene non dicevano nulla […] Non sto cercando di farti credere che le sirene tacevano, anzi man mano che la nave oltrepassava il promontorio loro continuavano a cantare in un modo sempre più dolce […] Solo che non era importante quello che le Sirene dicevano, io non lo capivo neppure più cosa dicevano, erano sillabe delicate, morbide, mai udite, ma senza senso; era il suono delle loro voci che mi stregava, per questo gridavo ai miei compagni di liberarmi, e li scongiuravo in tutti i modi perché mi lasciassero andare fino a riva. Quelle voci, capisci? […] non erano più le voci delle sirene, ma quelle di tutte le donne che avevo amato. Erano voci che risuonavano ma anche occhi che cercavano, ciglia che si volevano, mani che accarezzavano, quei suoni che escono dalle labbra delle persone amate e che non vogliono dire nulla, se non che loro ti amano. Nella loro voce si sente l’amore, quello del passato e quello del futuro, se ancora te ne resta un po’ da vivere, la gioia tutta insieme, come se il tempo non esistesse più e la morte fosse stata cancellata.
M. Bettini, L. Spina, Il mito delle Sirene, cit., p. 20-21.
È questo che, in conclusione del breve racconto, Bettini decide di far ribattere a Odisseo per placare la curiosità dell’insistente contadino. Le voci che i naviganti odono, che paiono chiamarli per nome, uno per uno, dallo scoglio in mezzo al Mar Tirreno non sarebbero altro che le loro voci. «Escono dalle tue stesse midolla»
ibidem.. È innegabile l’ispirazione joyceana dell’espediente di Bettini. Nel capitolo dell’Ulysses ambientato all’Ormond Hotel di Dublino, le due bariste-sirene Mina e Lydia accostano alle orecchie degli avventori una grande conchiglia.
Il mare credono di sentire. Che canta. Un bombito. È il sangue. Flusso nelle orecchie qualche volta. Be’, è un mare. Isole Corpuscoli.
[…] George Lidwell ne tratteneva il mormorio, ascoltando: poi la scostò, pian piano. – Che cosa dicono le onde furiose? le chiese, sorrise. Incantevole, marsorridendo e non rispondendo Lydia a Lidwell sorrise
J. Joyce, Ulisse, trad. it. di Giulio de Angelis, Mondadori, Milano 1961, pp. 359-360..
Le due graziose tentatrici dell’Ormond Bar, Mina Kennedy la bionda e Lydia Douce la rossa, «oro presso pompa della birra, bronzo presso maraschino»
ibidem., mettono in contatto ciascuno dei clienti col proprio mare interno, un mare fatto di sangue che inarrestabile scorre e gorgoglia di desideri, passioni, ricordi
Cfr. L. De Fiore, Anche il mare sogna. Filosofie dei flutti, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, p. 79 ss..
Ovviamente, se il canto delle sirene possieda davvero questa capacità struggente e malinconica – quasi di proiettare cinematograficamente i ricordi, il film d’amore che ha per protagonista l’ascoltatore del canto –, stabilirlo con sicurezza non sarà mai possibile. D’altra parte, è lecito dubitare della veridicità delle parole dell’eroe; potrebbe trattarsi di una bella bugia che il multiforme ingegno ha confezionato apposta per rendere più dolce la rievocazione di un’esperienza in realtà terribile e oscura, e in tal modo sottrarsi all’incalzare del seccante contadino.
Quel che è certo, tralasciando le congetture, è che da sempre incontrare le Sirene è un’esperienza totalizzante, folgorante, inimmaginabile. In una parola, fatale.
È perciò che si è rivelata ancora più feconda come metafora dalle molteplici sfaccettature, utilizzata, a partire dal nucleo dell’epos, in qualsiasi ambito. Applicata alla letteratura, ad esempio, ha costituito una solida intelaiatura per le riflessioni di numerosi e tra i più grandi critici e scrittori.
Fra essi, il francese Maurice Blanchot. Il grande teorico novecentesco della letteratura, nella prima sezione della raccolta saggistica Le livre à venir, pubblicata nel 1959, si serve della similitudine sirenica per interrogarsi sul futuro dell’attività letteraria. Nella sezione che apre il libro, intitolata esplicitamente Il canto delle Sirene, il primo capitolo definisce questo canto misterioso come imperfetto, «un canto ancora a venire», che conduce verso la vera felicità del canto, senza arrivarci mai. Pone sulla giusta strada, senza percorrerla.
L’incontro con le Sirene è uno scontro metafisico con l’immaginario al quale nessun racconto può sfuggire senza lottare, una lotta oscura dalla quale ha origine il romanzo. Blanchot confronta il poema con un capolavoro della letteratura americana, costruendo una proporzione tra Ulisse, le Sirene e Omero e Achab, Moby Dick e Herman Melville.
Ciascuna di queste parti vuol essere tutto, vuol essere il mondo assoluto, rendendo impossibile il suo coesistere con l’altro mondo assoluto, mentre il più grande desiderio di ciascuno è proprio incontrarsi e coesistere. Riunire in un medesimo spazio Achab e la balena, le Sirene e Ulisse, ecco il voto segreto che fa di Ulisse Omero, di Achab Melville, e del mondo che ne risulta il più grande, il più terribile e il più bello dei mondi possibili, purtroppo un libro, nient’altro che un libro.
M. Blanchot, Il libro a venire, trad. it. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969, p. 17.
Odisseo, che dello spettacolo delle Sirene gode di «quel vile, mediocre e pacifico godimento, misurato come si addice a un Greco della decadenza che non meritò mai di essere l’eroe dell’Iliade», supera la prova e vince le Sirene, ma non se ne libera. Morendo, le Sirene condannano Ulisse, che apparentemente le ha sconfitte con la sua calcolante prudenza senza cogliere l’ineffabilità del loro canto, al racconto sul canto. Da cantanti divengono cantate e raccontate, alla mensa di Alcinoo, al pastore Eumeo, a Penelope sul talamo. Achab, al contrario, e con lui Melville, penetra e scompare nella metamorfosi che Odisseo ha rifiutato.
A una simile conclusione, nota Luciano De Fiore
Cfr. L. De Fiore, Sirene tra logos e desiderio, in La mente, il corpo e i loro enigmi. Saggi di filosofia, a cura di G. Coccoli, A. Ludovico, C. Marrone, Stamen, Roma 2007., era giunto, incorporando Blanchot, anche Italo Calvino. Nel saggio del 1978 I livelli di realtà in letteratura, Calvino sostiene che la letteratura si regga sulla distinzione di diversi livelli di realtà e sulla coscienza, da parte del lettore come dell’autore, di tale distinzione. «L’opera letteraria potrebbe essere definita come un’operazione nel linguaggio scritto che coinvolge contemporaneamente più livelli di realtà»
I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2002, p. 376.. Come in un gioco di scatole cinesi racchiuse una nell’altra, tra esempi che vanno dalla novellistica araba ai classici dell’Ottocento, Calvino si sofferma sulle molteplici cornici narrative che fanno da fondamento ciascuno a un diverso e più alto livello di realtà nell’Odissea, e si chiede:
Cosa cantano le sirene? Un’ipotesi possibile è che il loro canto non sia altro che l’Odissea. La tentazione del poema di inglobare se stesso, di riflettersi come in uno specchio si presenta varie volte nell’Odissea, specialmente nei banchetti dove cantano gli aedi; e chi meglio delle sirene potrebbe dare al proprio canto questa funzione di specchio magico?
ivi, p. 390.
L’enchâssement delle narrazioni odissiache nell’Odissea viene indagato da Calvino in un altro saggio, Sarà sempre Odissea, uscito in origine per La Repubblica nel 1981 e successivamente ripubblicato con il titolo Le Odissee nell’Odissea. Qui lo scrittore dimostra che nella trama principale si intrecciano i fili di ben dodici altre odissee implicite, come la Telemachia e il racconto di Ulisse-falso-cretese al pastore Eumeo. A metà di questa dozzina di narrazioni e narratori sovrapposti, si trova un’altra Odissea, cantata dalle Sirene come fosse l’Iliade. O, meglio, la sesta odissea nell’Odissea è quella che Ulisse, in un secondo momento, racconta di aver udito cantare dalle Sirene
Omero, Odissea, XII, vv. 166-200, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005. «Delle Sirene dal canto divino per prima cosa ordinava / che fuggissimo e voce e prato fiorito. / A me solo ordinava d’udire quel canto; ma voi con legami /strettissimi dovete legarmi, perché io resti, fermo, / in piedi sulla scarpa dell’albero: a questo le corde m'attacchino, / e se vi pregassi, se v’ordinassi di sciogliermi, / voi con nodi più numerosi stringetemi!” / Così, le cose a una a una / dicendo ai compagni, parlavo. / Intanto rapidamente giunse la nave ben fatta / all'isola delle Sirene, ché la spingeva buon vento. / Ed ecco a un tratto il vento cessò; e bonaccia / fu, senza fiati: / addormentò l'onde un dio. / Balzati in piedi i compagni la vela raccolsero, / e in fondo alla nave la posero; quindi agli scalmi / seduti, imbiancavano l’acqua con gli abeti politi. / Ma una gran ruota di cera col bronzo affilato / io tagliavo a pezzetti, li schiacciavo tra le mani gagliarde. / In fretta / s'ammorbidiva la cera, ché la premeva gran forza / e la vampa del sole, del sire Ipérione; / così, in fila gli orecchi a tutti i compagni turai. / Essi poi nella nave legarono me mani e piedi, / dritto sulla scarpa dell'albero, a questo le corde fissarono. / Quindi, seduti, battevano il mare schiumoso coi remi. / Ma come tanto fummo lontani, quanto s’arriva col grido, / correndo in fretta, alle Sirene non sfuggì l'agile nave / che s'accostava: e un armonioso canto intonarono. / “Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, / ferma la nave, la nostra voce a sentire. / Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, / se prima non sente suono di miele, dal labbro nostro la voce; / poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose. / Noi tutto sappiamo, quanto nell'ampia terra di Troia / Argivi e Teucri patirono per volere dei numi; / tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice.” / Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore / voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, / coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano. / E subito alzandosi Perimede ed Euriloco, / nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano. / Quando alla fine le sorpassarono, e ormai / né voce più di Sirene udivamo, né canto, / in fretta la cera si tolsero i miei fedeli compagni, / che negli orecchi avevo a loro pigiato, e dalle corde mi sciolsero».. Affiora con tutta evidenza una ripresa di sintagmi, moduli stilistici ed epitetici dell’Iliade nelle parole delle Sirene, ma ciò non significa che esse stiano tentando di reintrodurre Odisseo nell’altro poema eroico. Piuttosto, servendosi della formula con cui Agamennone omaggiava Odisseo nel saluto, le Sirene mostrano di avere memoria di fatti degni di essere ricordati, quei gloriosi giorni che avevano visto Ulisse protagonista da eroe guerriero, immortalato nella gioventù splendente dal canto degli aedi.
Jean-Paul Vernant
J.-P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 125. ha scritto che il canto delle Sirene è paragonabile a uno specchio, la cui funzione riflettente è però leggermente diversa da quella suggerita da Calvino. È uno specchio deformante, riflette l’immagine leggendaria di un passato lontano eternato nel futuro: il canto delle Sirene restituisce a un Odisseo stanco e invecchiato la migliore versione di sé stesso. Le creature dalla voce divina lo illudono di stargli accordando il privilegio di ascoltare, in anteprima, l’epica che lo esalterà in eterno nella memoria dei vivi, pur restando nella sua condizione mortale, «[…] come se si fossero aperte le frontiere che delimitano l’esistenza umana e si potesse varcarle senza cessare, al momento stesso, di esistere»
ibidem.. Dietro l’immagine di Odisseo eroe militare e la celebrazione di Odisseo «grande gloria degli Achei» c’è già il suo canto funebre. Cedere alla falsa promessa delle Sirene di farlo ripartire «sapendo più cose», bearsi dell’esaltazione delle proprie gesta così come verranno tramandate ai posteri, è in aperta contraddizione con il restare vivo, mortale, con ancora un destino da compiere. La morte è una soglia che è impossibile varcare restando vivi.
Il fascino delle Sirene è quello di un canto doppiamente menzognero; un canto che dice e predice l’azione eroica e immortale, ma, dicendola, la conclude e la fa scivolare nell’oblio di uomini e poeti, preludio della morte ignominiosa del cadavere dimenticato a imputridire all’aria, senza sepoltura né onori. Anche visivamente, le promesse di felice ritorno in patria sono smentite dal mucchio di ossa che circonda come un macabro fossato il leimōn anthemoeis. L’Odissea è il racconto di un viaggio di ritorno, e in apparenza lo è anche l’odissea cantata dalle Sirene: ma in questa si cela, invece, il pericolo di far dimenticare il nόstos, argomento sia della narrazione principale che di tutte le altre in essa racchiuse, prima che sia avvenuto. La minaccia della smemoratezza, che infatti si rinnova in più momenti nel corso dei libri IX-XII, dall’invito dei Lotofagi al canto delle Sirene, è la dimenticanza della rotta verso casa, che causerebbe un rovesciamento, uno snaturamento dell’Odissea stessa.
Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. […] Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l’Odissea
I. Calvino, Le Odissee nell’Odissea, in Perché leggere i classici, Einaudi, Milano 1991, p. 21..
Si allinea a questa interpretazione quella dello scrittore e studioso del pensiero greco Matteo Nucci, il quale sostiene che la terribilità del canto delle Sirene giaccia nel fatto che esso racconta la verità assoluta sul vissuto di ciascuno. Di un «passato che ci attanaglia e che non possiamo mai davvero conoscere, pena l’impossibilità di andare avanti»
M. Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi, Milano 2020, p. 188., prigionieri del languido piacere che «fa cadere in un gorgo abissale quando il passato torna davanti con la forza assoluta di ciò che è perduto»
ivi, p. 187, le vittime delle Sirene scordano l’obiettivo, distolgono gli occhi dal futuro e muoiono di struggimento perdendo il senso della propria identità. Odisseo, eroe del futuro incapace di misurarsi col proprio passato, corre il rischio e gode del piacere, seppur calcolato e mutilato, di soccombervi.
Alcuni studiosi hanno posto l’accento sull’importanza altamente seduttiva rivestita dall’appello nominale che apre il canto sirenico: «Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei/e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce
Omero, Odissea, XII, vv. 184-185, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005.». Dopo mesi trascorsi in mezzo al mare, infiacchito e sballottato tra mille avversità, Odisseo doveva ormai avere sentire vicinissima la peggiore morte pensabile per un greco: la morte ignota, nel fondo oscuro del mare, lontano dai cari, senza funerali. Persino il dono dell’immortalità che la ninfa Calipso offre a Odisseo, affinché le rimanga accanto, non può bilanciare la perdita che comporterebbe: perdita del genos, della moglie, del trono. Quasi un contrappasso dantesco a essere per sempre come egli stesso si era profeticamente presentato a Polifemo: Oûtis, Nessuno. Peggio della morte oscura è una vita immortale nell’anonimato. La civiltà omerica fondata sul kleos, la gloria che nasce dalle grandi imprese, prevedeva il riconoscimento da parte della comunità del valore personale del singolo eroe come condizione imprescindibile affinché questa gloria fosse imperitura. C’è bisogno di avere un nome per essere incensato dai poeti e consegnato a fama intramontabile nell’Olimpo degli eroi omerici. Non esiste cosa più attraente che sentirsi riconosciuti, chiamati per nome, inneggiati, per chi naviga sperduto in un mare di ostilità. Letteralmente e non solo. Mancini chiarisce le affinità delle condizioni emotive in chi subisce l’appello nominale presentate dal canto delle Sirene a Odisseo con un altro noto episodio del ciclo omerico.
Già un’altra celebre seduttrice aveva fatto ricorso all’arma dell’appello nominale: quando il cavallo di legno fu introdotto con l’inganno tra le mura di Troia, pieno di Greci armati, il piano per poco non andò a monte per l’astuzia di Elena che per tre volte gli girò intorno e, imitando le voci delle loro spose, chiamò per nome ciascuno dei guerrieri Achei (Od. IV, vv. 274 ss.). In questo caso era stato lo stesso Odisseo a trattenere i compagni, impedendo loro di svelarsi
L. Mancini, Sirene, tra il mito classico e l’immaginario occidentale, in «L'Anima dell'acqua», a cura di E. Fontanella, Catalogo mostra, pp. 214-227, L’Erma di Bretschneider, Roma 2008, p. 4..
Elena mente, le Sirene anche. Ma anche Odisseo è un mistificatore, e mente quasi più delle Sirene e di Elena. Non bisogna infatti dimenticare che il primo testo letterario sulle Sirene, la fonte primaria per qualsiasi studio o racconto che le riguardi, non è una descrizione oggettiva e indiretta che Omero – o per meglio dire quell’ignoto autore individuale o collettivo di cui si occupano gli studiosi della questione omerica – fa dei fatti, ma è un resoconto dell’avvenimento come Odisseo sceglie di raccontarlo alla corte dei Feaci.
Specularmente a quello delle Sirene, il canto le cui lusinghe seducono Odisseo è di argomento identico al primo: Demodoco, aedo cieco alla mensa di Alcinoo, intrattiene gli ospiti con i fatti di Troia e le prodezze del luminoso Odisseo. Sull’onda della commozione indotta in lui dal resoconto dell’inganno del cavallo di legno, Odisseo, in lacrime, si tradisce ed è costretto a rivelarsi. Così come le Sirene l’hanno obbligato a ripiegare sul racconto del canto, così anche il re Alcinoo, interrompendo la recitazione di Demodoco, impone al suo misterioso ospite, approdato a Scheria logoro e solo, di raccontare a sua volta; e di raccontarsi.
Dopo la risalita dal regno dei morti, il canto delle Sirene apre per Odisseo il tempo dell’esilio per mare, quello di Demodoco lo chiude: mediante la rivelazione della sua identità e il catalogo delle sue avventure, Odisseo si rimpadronisce del suo nome, è pronto a far ritorno ad Itaca
L. Mancini, art. cit., p. 5..
Si è provato a stabilire cosa le Sirene cantano durante il suo nόstos, ma non di solo Odisseo vivono le Sirene, tutt’altro. A incrociarle ed ascoltarle scampando alla morte per inedia sono, mitologicamente prima di Odisseo, gli Argonauti. L’anteriorità relativa della saga degli Argonauti tuttavia non riesce a spodestare la priorità letteraria dell’Odissea: l’erudito alessandrino Apollonio Rodio scrive le Argonautiche nel III secolo a. C., più di cinquecento anni dopo la composizione dell’Odissea, e così il poema epico resta la principale autorità da interrogare, la scaturigine di ogni indagine sulle Sirene.
È ancora Circe, mentre mette in guardia l’eroe, a fare cenno agli Argonauti, sancendo l’antichità della saga rispetto ai viaggi di Ulisse. Durante il catalogo delle prove da affrontare per rimettersi sulla rotta per Itaca, la maga avverte che, subito dopo le Sirene, Odisseo dovrà fronteggiare le rocce erranti:
Solo riuscì a passarvi una nave marina,
quell’Argo che tutti cantano, tornando dal regno d’Eeta:
e quella pure il flutto contro le immani rocce scagliava,
ma Era la spinse oltre, perché l’era caro Giasone
Omero, Odissea, XII, vv.69-72, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005..
Nel viaggio degli Argonauti il momento dell’incontro con le Sirene avviene nel quarto libro del poema, quando il vello d’oro è stato già recuperato da Giasone grazie all’aiuto di Medea che, innamoratasi dell’eroe, tradisce il padre Eeta, re della Colchide, e fugge alla volta di Iolco. Dopo l’omicidio di Apsirto, fratello di Medea lanciatosi all’inseguimento degli Argonauti, la donna e Giasone giungono supplici da Circe e vengono purificati. Il viaggio riprende e, poco dopo essere stati salvati dagli scogli erranti grazie alla protezione di Era, Teti predice a Peleo, suo sposo e membro dell’equipaggio della nave Argo, le altre peripezie alle quali dovranno scampare. Tra questi le Sirene, che uccidono i naviganti per l’effetto di lenta consunzione sortito dal loro dolce canto. Dopo una breve introduzione genealogica sulle Sirene, che Apollonio indica come figlie del fiume Acheloo e della musa Tersicore, e una descrizione fisica, del tutto assente in Omero, che le descrive come fanciulle virginali nel volto e uccelli dalla vita in giù
«Erano già in vista della bella Anthemoessa, / l’isola dove le melodiose Sirene, le Acheloidi, / ammaliavano con dolci canti / e uccidevano chiunque gettasse le gomene per approdare. / Le generò l’unione con Acheloo / della leggiadra Tersicore, una delle Muse. Della gloriosa figlia di Deo / una volta erano al servizio, quando ancora era vergine, / e insieme a lei cantavano: ora, invece, simili in parte ad uccelli / si mostravano, in parte a giovani vergini. / Stavano bene in vista, sempre di vedetta su un porto dal facile ormeggio, / e spesso sorprendevano molti durante il dolce ritorno; / li logoravano con una lenta consunzione./ Ora, senza indugi, anche per quelli, / per gli Argonauti, facevano uscire dalla bocca la loro limpida voce: / ed essi stavano già per gettare sulla spiaggia le gomene, / se Orfeo il tracio, il figlio di Eagro, / non avesse teso nelle sue mani le corde della cetra di Bistonia / e fatto risuonare la vorticosa armonia di un canto incalzante, / in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel suono: / così la cetra soverchiò la voce delle vergini. / Intanto portavano via la nave Zefiro e l’onda risuonante, / che spingeva da poppa. Le Sirene lanciavano ormai un suono indistinto». Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, vv. 891-919, trad. it. di G. Paduano, Rizzoli, Milano 1999., comincia l’azione: le Sirene sono entrate nel raggio uditivo degli Argonauti che, immancabilmente attratti dalle loro voci soavi, stanno già per gettare l’ancora e avventurarsi sull’isolotto. A salvarli, sarà la prontezza di riflessi di Orfeo. Prima di perdere per sempre l’amata Euridice e di finire sbranato dalla furia bacchica delle compagne dei Ciconi, il mitico cantore tracio aveva infatti preso parte alla spedizione di Giasone e i suoi su suggerimento del centauro Chirone, perché egli solo avrebbe potuto vincere le Sirene
Scolii ad Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 23-25a..
Pizzicando le corde della sua cetra, Orfeo sovrasta lo phthongos dei mostri teriomorfi e ne ostacola l’incantesimo.
Il pericolo sembra scongiurato, ma proprio mentre la nave si allontana sospita da vento propizio, l’equipaggio si accorge che manca all’appello un eroe. Bute, figlio di Teleonte, non è riuscito a distogliere l’orecchio dalla voce delle ammaliatrici, si è fiondato in acqua pronto a raggiungerle. Lo smacco finale alle Sirene lo infligge allora l’intervento di Afrodite, che provvede a Bute salvandolo dall’annegamento.
Più che un’astuzia o un atto di forza, il confronto tra Orfeo e le Sirene si gioca tutto sul campo della competizione musicale, e l’esito della sfida mortale è affidato al ritmo e alla melodia.
Il testo delle Argonautiche Orfiche riprende, nel V secolo d. C., la materia delle Argonautiche di Apollonio Rodio, ma narrata in prima persona dal punto di vista di Orfeo. Anche qui, come nel poema preso a modello, il pericolo attrae con maggior forza uno dell’equipaggio, Anceo, pronto a tuffarsi verso le rocce. Anche qui, interviene l’arte di Orfeo a salvare il compagno. L’aspetto della competizione musicale si fa più evidente in questo poema tardo, rimasto anonimo. Anche l’argomento del canto di Orfeo è dettagliatamente esposto, mentre nelle Argonautiche Apollonio Rodio si sofferma solo sul ritmo scorrevole e ben eseguito della musica orfica. Addirittura, qui il contenuto tematico del canto è così affascinante da stupire le Sirene che, attonite, abbandonano l’agone per la vergogna.
Quindi con le sue mani una gettò in mare i legni dell’aulo,
un’altra la lira. Gemevano in maniera disperata,
perché giungeva il giorno fatale della morte.
Dall’alto della loro roccia cava si lanciarono nell’abisso
e nel frastuono del mare, e trasformarono in rocce
i loro corpi e la tracotante bellezza
Argonautiche Orfiche, vv. 1264-90..
Le Sirene, suonatrici – e perciò già dotate di braccia umane al posto delle ali, sebbene l’ignoto autore si astenga dal tratteggiarne le caratteristiche fisiche – oltre che cantanti, sono soggiogate da Orfeo che, imbracciando la phorminx, racconta in musica il mito della creazione della Sardegna, Eubea e Cipro, e si suicidano.
La phorminx suonata da Orfeo è uno strumento a corda simile alla lira, donata al dio Apollo da Ermes e dunque attributo canonico delle Muse e delle divinità apollinee, e si contrappone all’aulo, una sorta di flauto creato da Atena per riprodurre il grido delle Gorgoni e relegato poi a ritmare ai balli invasati di Satiri e Coribanti. L’aulos accompagna le manifestazioni più istintive e incontrollate del canto: ritma le danze orgiastiche del corteo dionisiaco, o i pianti irrazionali del goos funebre, lo stesso proposito che ne guida l’invenzione, imitare lo strepito delle Gorgoni, lo lega alla dimensione preolimpica e mostruosa, ctonia, della mitologia greca. La versatilità dell’aulos, la deformazione dei tratti del volto causata dallo sforzo nel suonarlo, è vista come pericolosa e amorale. Platone
Platone, Repubblica, III, 399d, 411a. bandisce dalla polis ideale l’insegnamento dello strumento a fiato, poiché una scorretta esecuzione della sua musica produce un ronzio monotono e fastidioso
Aristofane, negli Acarnesi, definisce bombaulioi flautisti ronzanti i musicanti con scarsa esperienza nel maneggiare l’aulo. Cfr. L. Mancini, p. 41., che potrebbe indurre alternativamente a uno stato di febbrile esaltazione o eccessiva mollezza. Risulta chiaro allora il perché sia prerogativa delle Sirene padroneggiare lo strumento a fiato: il tono squillante e alto, il frastuono incessante e incalzante, monotono ma imprevedibile delle loro voci si fonde e sovrappone alla melodia soffiata dall’aulos.
Lo strumento a corda è normativo, su di esso si fonda l’armonia del sistema musicale dei Greci: il suo suono modulato ristabilisce l’ordine e la supremazia apollinee sul canto istintivo e arcaico che viene fuori dalle bocche delle Sirene. Il divario tra strumento a fiato e strumento a corda ha delle implicazioni intrinseche sia culturali che etiche.
Resa nota anche la tematica del canto di Orfeo, nessuna delle due versioni delle avventure di Giasone riesce però a rispondere alla boutade dell’imperatore Tiberio, e a far luce su cosa dicessero le Sirene nei loro canti. Anzi, le due Argonautiche sembrano piuttosto inaugurare la tendenza all’interno della letteratura greca ellenistica e latina investire di poteri magici la pura vocalità della Sirena, trascurandone il contenuto.
Dopotutto, per tutti i poeti venuti dopo Omero, sembra non essere poi così importante sapere cosa solessero cantare le Sirene.
1.2 Orizzonti etimologici
Σειρήν. Sirena. La prima volta che il termine riferito alle creature mitologiche appare scritto in questo modo, e dal quale derivano l’italiano sirena, il francese sirène, il tedesco Sirene, l’inglese siren, il portoghese sereia, è nel più antico e importante documento a loro riguardo: il libro XII dell’Odissea di Omero, dove è più volte declinato al duale.
L’attestazione davvero più remota del termine greco seirēn sarebbe, in effetti, da rintracciare nella forma più arcaica della parola se-re-mo-ka-ra-o-re
H. Mühlestein, Sirenen in Pylos, in «Glotta», 36, 1957, pp. 152-166; H-G. Bucholz, Bemerkungen zum Stand der Homerarchäologie, in «La transizione dal Miceneo all’Alta Arcaismo. Dal palazzo alla città. Atti del Convegno Internazionale, Roma 14 maggio 1988», 1991, p. 79 ss., incisa sulle tavolette micenee.
Cfr. L. Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di Sirene antiche, Il Mulino, Bologna 2005, p. 232; E.Risch, Mykenisch SEREMOKARAOI oder SEREMOKARAORE?, «SMEA» 1, 1966, pp. 53-66.
Ulisse e i suoi, di ritorno dal viaggio nell’Ade, prima di riprendere la rotta sostano sull’isola di Eea, presso la maga Circe, la quale li aveva già ospitati per un intero anno. Appena giorno, mentre si celebra il funerale del compagno Elpenore, Circe raggiunge l’equipaggio e lo rifocilla con le libagioni offerte dal suo seguito di ancelle, decretando che
[…] all’apparire dell’alba
riprenderete il mare: e vi dirò il viaggio e di tutto
vi darò i segni, che per maligne inestricabili trame
o in mare o in terra non soffriate dolori
Omero, Odissea, XII, vv. 24-27, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005..
Circe e Odisseo trascorrono la loro ultima notte insieme: lei lo prende da parte e, dopo essersi fatta riferire quanto accaduto il giorno prima durante la breve visita nell’Ade, lo istruisce dettagliatamente sui rimedi e le soluzioni da attuare per non incorrere nelle macchinazioni kakorraphíe, intessute di dolore, che lo attendono una volta salpato.
Il primo esiziale pericolo consiste nel costeggiare con la nave un isolotto, coperto da un tappeto di fiori colorati, dal quale proviene un richiamo fatale e irresistibile. È la voce delle Sirene, le due creature ornitomorfe che torreggiano sullo scoglio, sedute sul prato profumato accanto a una putrescente catasta di resti umani, luccicante del bianco delle ossa scarnificate. Lo sprovveduto che si fermi ad ascoltarle «mai più la sposa e i piccoli figli, tornato a casa, festosi l’attorniano», ma, stregato da un canto che inebria fino a far dimenticare anche il cibo e il sonno, andrà ad accrescere la raccapricciante torre di vittime marcescenti, lugubre trofeo delle Sirene. È Circe a suggerire l’unica possibile via di scampo: turare le orecchie con la cera ai propri compagni; ed è sempre la maga a far balenare la possibilità irripetibile per Odisseo, e solo per lui, di ascoltare il canto meraviglioso restando legato saldamente all’albero della nave
Omero, Odissea, XII, vv. 37-54, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005. «“Così tutto questo è compiuto; ma ora tu ascolta / come io ti parlo: te lo rammenterà ancora il dio. / Alle Sirene prima verrai, che gli uomini / stregano tutti, chi le avvicina. / Chi ignaro approda e ascolta la voce / delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, / tornato a casa, festosi l’attorniano, / ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, / sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri / umani marcenti; sull’ossa le carni si disano. / Ma fuggi e tura gli orecchi ai compagni, / cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro / le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare, / fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani / ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino, / sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene. / Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti, / essi con nodi più numerosi ti stringano»..
Un’assonanza con il termine Sirena, suggerita come probabile etimologia, è già contenuta in filigrana nell’episodio omerico. Seirà è la fune, dal verbo seirào che significa legare: la sirena sarebbe perciò “colei che avvince”, “colei che tende lacci”
F. Zwicker, Sirenen, in «RE», s. II, vol. V. 1., col. 288-308, 1927, p. 289.. Odisseo, accolto il consiglio di Circe, riesce a divincolarsi dai “lacci” tesi dalla trappola musicale delle Sirene solo grazie alle corde, queste ben tangibili, che lo tengono stretto all’albero maestro.
Ancora, a esprimere la virulenza panica che caratterizza il canto indisciplinato della sirena e manifesta il suo legame con le divinità del corteo dionisiaco è un’altra etimologia, proposta da diversi studiosi: syrizein
ibidem., “fischiare”, “zufolare”, collega la sirena a uno degli strumenti musicali coi quali è più frequentemente rappresentata nelle ceramiche vascolari e nell’arte funebre, ossia la syrinx, l’odierno flauto di Pan. È indirizzato a Pan l’inno, inciso su una stele di Epidauro dove il dio è raffigurato mentre danza e suona la syrinx, nel quale si legge: «egli, vanto dell’armoniosa syrinx, possa riversare la sirena dell’ispirazione divina (…)»
IG, vol. IV. I, nr. 130, vv.5-6.. In questa occorrenza, il termine seirēn, sirena, è generico e indica il principio musicale al quale Pan, il dio che è «sostegno di tutto»
ibidem., deve attingere affinché la forza vivificante del canto possa dispiegarsi sulla terra e nell’assemblea divina dallo strumento del dio Pan, riempiendo l’universo della sua charis, la spinta al piacere che mette in movimento la vita.
È chiaro allora che «astraendo dal significato più comune e più immediato del termine, sirena può dunque predicarsi dell’anima stessa della musica, l’impulso divino da cui essa nasce […] L’uso metaforico della Sirena in contesti in cui la danza, la musica e il canto giochino un ruolo importante è molto antico»
L. Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di sirene antiche, cit., p. 33.. Quest’uso è attestato soprattutto in vasi corinzi del VIII secolo a. C., dove la presenza di Sirene musicanti in scene simposiache non è reale ma simbolica, utile a dare visibilità grafica all’enthousiasmos che ispira il canto.
Lo stesso Platone sembra intendere così le Sirene, come personificazioni simboliche della seirēn, l’astratto principio musicale. Diversamente da come accade in altri luoghi dei suoi dialoghi
Cfr. Platone, Fedro, 259 a-b; Platone, Simposio, 216a., per il filosofo ateniese le Sirene sono qui funzionali a descrivere, inserite nella più ampia e potente immagine poetica dell’armonia celeste delle sfere, come funziona il mondo.
Il riferimento alle Sirene, considerate vere e proprie divinità musicali, si incastona nel mito escatologico raccontato da Er di Armenio, morto e ritornato in vita per raccontare di ciò che ha visto nell’aldilà, nel decimo e ultimo libro della Repubblica. Dopo aver descritto il funzionamento del sistema delle pene e delle ricompense riservate alle anime dei defunti, Er prosegue il suo resoconto riferendo di aver camminato per quattro giorni, fino a giungere in vista di una «luce diritta come una colonna, simile a un arcobaleno»
Platone, Repubblica, 617a. a un capo della quale pendeva il fuso cosmico, posato tra le ginocchia della dea Ananke, la Necessità. Al fuso faceva da contrappeso un sistema di otto vasi concentrici rotanti, collocati uno dentro l'altro, e
in alto sopra ognuno dei suoi cerchi stava ben salda una Sirena, trasportata nel loro moto circolare, che emetteva un solo suono, una sola nota: e tutte, otto com’erano, si fondevano in un’unica armonia
Platone, Repubblica, X, 617b..
Consistente in un’armonia perfetta regolata da principi matematici, la concezione di una musica cosmica, non udibile per l’orecchio umano, prodotta dai rapporti armonici fra i moti astrali è tipicamente pitagorica. In testimonianze tarde essa viene connessa proprio alle figure mitologiche delle Sirene
«Che cos’è il santuario di Delfi? la tetractys [la tetrade], che è l’armonia delle Sirene» scrive Giamblico di Calcide, riportando i detti dei pitagorici nella Summa Pitagorica., che, è evidente, qui sono molto lontane dalle temibili incantatrici omeriche. Compagne delle tre figlie di Ananke, le Moire Cloto, il presente, Lachesi, il passato, e Atropo, il futuro, le Sirene cosmologiche sono puro suono, prive di caratteristiche fisiche e del tutto slegate da qualsiasi rapporto possibile con Odisseo. La Sirena platonica è «la proiezione estrema della figura mitologica, fissata una volta per tutte attraverso la pregnanza di un’essenza canora»
M. Bettini, L. Spina, Il mito delle sirene, p. 108.. Nella sua esegesi alla Repubblica, Proclo, neoplatonico del V secolo d. C., le chiamerà Sirene ouranías, celesti, per non creare confusione con le Sirene del divenire, génos genesiourgós, presenti invece nel Fedro. Le prime, apollinee e diurne, dipendono da Zeus; le seconde, poiché immagine del divenire è il mare, sono sotto il dominio di Poseidone, un gradino più in basso nella scala dell’Essere. Secondo Proclo si evincerebbe chiaramente dal Cratilo l’esistenza anche di un terzo tipo di Sirene, quelle ctonie o kathartikón, purificatorie, che dipendono da Plutone. A ben guardare, però, nel passo di riferimento
Platone, Cratilo, 403d. «Per questo diciamo, o Ermogene, che nessuno di quelli di là se ne vuole tornare qua, neppure le stesse Sirene, ma si sentono esse stesse ammaliate come anche tutti gli altri. Così belli, pare, sono i discorsi che Ade sa dire; e così da questo discorso ne viene che egli è un perfetto sofista e un grande benefattore di quelli che sono insieme a lui, egli che così tanti beni riesce a dispensare anche a quelli di qua»., all’interno di una lunga trattazione sull’etimo del nome del dio Ade/Plutone, le Sirene vengono utilizzate da Socrate per costruire una sorta di ossimoro
L. Spina, «Leggendo il Cratilo, tra Sirene e Tucidide», in G. Casertano, Il Cratilo di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, coll. «Skepsis», Napoli 2005, p. 9-16.: le incantatrici vengono ammaliate dalle doti di Ade, il quale, grazie a una straordinaria abilità retorica, riesce a trattenere presso di sé le anime dei defunti, instillando in tutte, facendo presa persino sulle ingannevoli tentatrici per eccellenza, il desiderio fatale di restare nel regno infero.
La distinzione introdotta dal filosofo neoplatonico è arbitraria e quasi certamente estranea a Platone, e identifica le Sirene della Repubblica con le Muse, e non con le creature omeriche. Più avanti ci si soffermerà sulla questione.
Relativamente all’ora dell’epifania delle Sirene, dunque non direttamente desumibile dai versi di Omero, vi è la derivazione proposta da numerosi studiosi. Il filologo classico tedesco Kurt Latte è stato il primo a far risalire l’origine terminologica all’aggettivo Séirios, Sirio, letteralmente “incandescente”
K. Latte, Die Sirenen, in Kleine Schriften zu Religion, Recht, Literatur und Sprache der Griechen und Römer, a cura di O. Gigon, W. Buchwald, Beck, München 1968, pp. 106-111., che designa la stella più brillante della costellazione del Cane, visibile al culmine della stagione calda. Secondo il sociologo francese Roger Caillois questa sarebbe la derivazione più significativa, il cui coefficiente di probabilità consente di sbaragliare tutte le altre etimologie proposte. Spiegherebbe, infatti, la collocazione tassonomica di quest’essere teriomorfo che dimora in mezzo al mare: le Sirene sarebbero da annoverare, secondo Caillois, nella schiera dei demoni di mezzogiorno, insieme a Ninfe e Lotofagi. Inoltre, esse condividerebbero così la violenza distruttrice del mezzogiorno, «l’ora delle esalazioni pestilenziali»
R. Caillois, I demoni meridiani, trad. it. di A. Pellissero, a cura di C. Ossola, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 27., con Sirio, astro la cui influenza trascina dietro di sé un’atmosfera perniciosa che corrompe la carne ancora attaccata alle ossa e fa marcire queste ultime nella terra nera
Cfr. Esiodo, Lo scudo di Ercole, vv. 152 ss.. La relazione tra la stella e le Sirene ha anche diversi riscontri nell’iconografia: sia il cane, simbolo di Sirio, che la Sirena sono raffigurati con la testa raggiata.
R. Caillois, I demoni meridiani, cit., p. 28. Interessante l’assonanza tra Sirio, dell’interpretazione definita naturalista o atmosferica, propugnata da Caillois e Siria, la dea orientale cui studi attuali attribuiscono una fusione con la figura mitologica della sirena, e del quale si dirà nel prossimo capitolo, relativo alla metamorfosi fisica della mostruosa creatura
Cfr. E. Moro, Sirene. La seduzione dall’antichità a oggi, Il Mulino, Bologna 2019..
Più recentemente, il classicista Malcolm Davies ha ripreso l’ipotesi di Caillois, confrontando in un breve articolo
M. Davies, The Sirens and the Mid-day, in «Prometheus», 31, pp. 225-28, 2005. gli indizi sull’ambientazione climatica e stagionale disseminati nel testo omerico con quelli presenti in una fiaba del folklore norvegese. In entrambe le fonti determinate parole sembrano sufficienti per consentire di decretare che l’azione si svolga col sole allo zenit, e che i personaggi siano oppressi dalla calura. Come è noto, nell’episodio del libro XII dell’Odissea il caldo deve essere tale da consentire alla cera di sciogliersi tra le dita dell’eroe che con essa va a turare le orecchie dei compagni; la bonaccia, che cala non appena la nave achea entra nel campo visivo – o sarebbe il caso di dire uditivo? – delle Sirene, oltre a essere forse l’effetto riconducibile a un potere sui venti detenuto dalle Sirene stesse e parte integrante della loro malia, può esser ricondotta a una giornata estiva, priva di correnti che ne rinfreschino l’aria torrida. Come fa notare già Caillois, non è strano che per un popolo di navigatori come quello greco l’assenza di vento fosse attribuita a una magia demoniaca, segno foriero di avvenimenti nefasti.
La fiaba norvegese, invece, sviluppa lo schema narrativo tipico di tre fratelli che concorrono per il medesimo scopo – nel caso in esame, riferire cosa abbiano bevuto e mangiato mentre badavano ai puledri del re –, sulla strada per raggiungere il quale i primi due falliscono, lasciando il ruolo di protagonista positivo al fratello minore. A un tratto, da una fenditura tra le montagne, compare una strega nell’atto di filare – proprio come, insiste l’autore, la ninfa Calipso o Circe
ivi, p. 227. –, la quale irretisce i tre giovani con le lusinghe del proprio canto. Lo stato emotivo e fisico dei fratelli al momento dell’apparizione misteriosa, grondanti di sudore e affaticati, permette a Davies di inferire che la scena si collochi a mezzogiorno, instaurando così un parallelo tra le Sirene e la megera norvegese, analogamente classificabili tra i demoni meridiani.
Ancora una volta, è nascosta nella narrazione omerica un’altra plausibile etimologia. La cera spalmata sugli orecchi dei compagni di sventura da Odisseo conduce a un’omonimia: quella tra la sirena e l’ape seirén, una specie particolare di produttrice di cera. Ape, genericamente, si dice mélissa, “produttrice di miele”, che richiama nell’immediato la caratteristica conferita nei versi omerici dalle Sirene stesse alla loro meligērys ops, voce di miele, appunto:
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente suono di miele, dal labbro nostro la voce.
Omero, Odissea, libro XII, vv. 187-188, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005.
Tornando alle api, Aristotele ne distingue ben sei diversi tipi in base alle abitudini di vita nel trattato di Historia Animalium del 343 a.C.: la seirén piccola e bianca, il bombylios, la seirén nera sono le tre che conducono una vita monadiká, solitaria.
Per restare in ambito zoologico, va segnalato che sirena è anche il soprannome di una specie di uccello, il verzellino. Secondo Claudio Eliano, il quale si serve in svariate occasioni del mito per esemplificare i comportamenti in natura di certe specie animali, la sirena rivaleggia con la circe
Cfr. Eliano, La natura degli animali, IV 5, 6; XVII 22, 23., una sorta di sparviero. Piuttosto suggestivi questi due nomi parlanti, che richiamano inevitabilmente alla mente del lettore – o ascoltatore – dell’Odissea i passi in cui Circe mette in guardia Odisseo dal potere distruttivo delle cantanti ammaliatrici, suggerendogli lo stratagemma dei tappi di cera per mettere al sicuro l’equipaggio. È però chiaro che non ci troviamo più nel campo dell’etimologia, ma è invece più probabile che i nomi dei due volatili siano stati loro affibbiati per omaggiare volutamente la rivalità tra incantatrici, sebbene indiretta, che vede contrapposte Circe e le Sirene.
A ben vedere, tutte queste ipotesi formulate per chiarire l’etimologia, o le possibili etimologie, del termine “sirena” sembrano contaminarsi, accordarsi insieme per riconsegnare l’immagine-madre dell’incontro con le Sirene descritto dai versi di Omero. Sono parole che conducono a un univoco orizzonte di riferimento, descrivono il paesaggio visivo, acustico, naturale in cui la Sirena fa la sua comparsa: un quadro di opprimente caligine, di un abbandono quasi lascivo sulla roccia arsa dal sole a picco.
La Sirena è la personificazione di tutte le suggestioni che investono l’uomo – ed è qui necessario specificare che per uomo va inteso sempre l’individuo come sessualmente connotato, in quanto la segregazione culturale alla quale erano sottoposte le donne in Grecia, condizione esacerbatasi a partire dall’età classica, impediva loro di intraprendere un proprio cammino di avventure ed entrare in contatto con tali creature semidivine che abitavano luoghi estremi e selvaggi: se il mostro è anche e soprattutto femmina, l’eroe o il malcapitato è sempre e solo maschio
Cfr. C. Mainoldi, Mostri al femminile, in Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma», a cura di R. Raffaelli. Atti del convegno (Pesaro 1994-95), Ancona 1995. – gravato dalla calura del mezzogiorno mediterraneo.
L’isola di Anthemoessa è, dal nome con cui già Esiodo presenta lo scoglio delle Sirene, un prato cosparso di fiori: avrà allora che fare con le api, le seirēn, e la produzione del miele. Il loro ipnotico ronzio, il frinire degli insetti diventa una voce dalla provenienza indistinguibile, simile alla musica forsennata del flauto a due canne, strumento sacro a Dioniso e al suo corteo, sotto la cui giurisdizione ricadono le stesse Sirene, demoni ibridi che con il loro lamento ipnotico inducono a un torpore che sfocia nella consunzione, nella dimenticanza di sé, nella morte per inedia. Sirio, la stella di fuoco, che brucia la pelle esposta alla luce accecante, corrobora quest’effetto di stordimento funesto.
L’effetto anchilosante e pericoloso che ha la calura sull’incolumità fisica e psichica potrebbe essere anche il motivo alla base dell’associazione mentale che ha portato Platone a nominare le Sirene nel Fedro, in un paragone solo apparentemente azzardato con le cicale.
Secondo il mito, riportato dallo stesso Platone, le cicale altro non sarebbero state, un tempo, che melomani tanto appassionati da lasciarsi morire di inedia pur di continuare a cantare senza sosta. Il motivo della morte per abbandono al piacere musicale ricorda la morte cui vanno incontro le vittime delle Sirene. Tuttavia, esiste una fondamentale differenza che non consente al parallelismo di reggere: è cantando, e non sentendo cantare, come succede, al contrario, per i naviganti che abbiano la sfortuna di incontrare le Sirene, che gli uomini-cicala andrebbero incontro alla morte. Inoltre, per il mito delle cicale così come ce lo racconta Platone per bocca di Socrate, che sembra essere l’adattamento filosofico di un tema ispirato dalla tradizione popolare, parlare di morte e rovina è decisamente inopportuno: la metamorfosi in cicale è un privilegio concesso dalle Muse per ricompensare l’amore tenace dichiarato da questi uomini alla musica, la morte è solo un passaggio verso la metamorfosi, quasi una rinascita in senso orfico. Una volta trasformati in insetti, questi sono stati incaricati del compito di osservare gli uomini per conto delle Muse. Ad Urania e Calliope, che «sopra tutte le altre Muse presiedono alle cose celesti ed occupandosi dei discorsi divini ed umani, sanno il canto più soave»
Platone, Fedro, 259., le cicale riferiscono che alcuni uomini trascorrono la loro vita filosofando. È qui che si chiarisce l’intento di Platone, che rimaneggia il tema della favola popolare indirizzandola verso un significato sapienziale: gli uomini che praticano la filosofia sono i più cari alle Muse, poiché filosofare è la forma più nobile ed elevata dell'arte musicale. Acquista così un significato proverbiale il passo del Fedro riportato di seguito:
…mi sembra pure che, come conviene nel pieno dell’afa, le cicale sopra il nostro capo, cantando e conversando tra loro, non mancano di osservarci. Se poi vedessero noi due fare come quelli del volgo sotto il mezzogiorno, non ragionare ma starsene a bocca chiusa e sonnecchianti, ammaliati da loro con le menti in ozio, avrebbero ragione di deriderci (…). Ma se ci vedono conversare e continuare la nostra rotta, insensibili al loro incanto di Sirene, forse ammirate ci procurerebbero il dono che gli dei hanno loro concesso di distribuire agli uomini
Platone, Fedro, 259a-b..
Le Sirene del Fedro sono ancora quelle omeriche. Analogamente al letargo cerebrale cui inducono l’ora calda e il cicaleccio cullante, le Sirene col loro canto obliante sono una minaccia per il controllo di sé. Sul filo di questa analogia, Socrate costruisce un parallelo puramente esemplificativo, più che identificativo, tra gli insetti e i mostri omerici: esorta a non cedere alle lusinghe delle cicale, che sono un ostacolo da superare proprio come lo sono state per Odisseo le Sirene. Platone usa qui l’epos in funzione paradigmatica, come un proverbio.
Nella Repubblica si è visto, al contrario, che le Sirene erano state «depurate da ogni complicazione mitografica, isolandole unicamente come armoniosa colonna sonora del cosmo»
M. Bettini, L. Spina, Il mito delle Sirene, cit., p. 110..
Più distante nel tempo e nello spazio da questo gruppo di possibili etimi, è la provenienza del termine greco, solitamente non menzionata nei dizionari etimologici, dal radicale semitico sir, che sta per “incantamento”
M.L. West, The East Face of Helicon. West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Calrendon Press, Oxford 1997, p. 428., e dal composto sir hen, il cui significato letterale è “canto magico” e traduzione precisa dell’espressione greca charíessa aoidé
K. Marót, The Sirens, in «Acta ethnographica Academiae Scientiarum Hungaricae», 7, pp. 1-59., “canto aggraziato”.
Posto a fondamento della sua Scienza Nuova che la storia sia la scienza delle cose fatte dall'uomo, Giambattista Vico si interrogò a lungo sulla storia della parola, principale “invenzione” dell’uomo. Secondo il filosofo, l’indagine conduce inevitabilmente a far risalire al canto la manifestazione primigenia del linguaggio. A questo proposito, l’intellettuale e giurista napoletano già nel 1730 aveva fatto cenno alla derivazione orientale della parola “sirena”:
Gli Egizi scrivevano le memorie de’ lor difonti nelle siringi, o colonne, in verso, dette da «sir», che vuol dire «canzona»; onde vien detta «Sirena», deità senza dubbio celebre per lo canto; nel qual Ovidio dice esser egualmente stata celebre che ‘n bellezza la Ninfa detta «Siringa»; per la qual origine si deve lo stesso dire, ch’avessero dapprima parlato in versi i siri e gli assiri
G. Vico, La Scienza Nuova, in Opere, a cura di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1959..
Questa spiegazione confermerebbe l’ipotesi della preesistenza del tema folclorico delle Sirene rispetto alla data di composizione dell’Odissea, e una sua circolazione attraverso le rotte dei marinai fenici.
È bene a questo punto mettersi sulle tracce delle sparute connessioni tra le Sirene e il mondo semitico, e sulla loro presenza nell’immaginario biblico. Le Sirene fanno il loro ingresso nella cultura giudaico-cristiana, alla quale erano completamente sconosciute, in alcuni passi della cosiddetta Bibbia dei Settanta, redatta ad Alessandria d’Egitto tra il III e il II secolo prima di Cristo.
Nel Libro di Isaia, una scorretta traduzione dall’aramaico al greco tramutava in sirene i tannim, plurale di tan, animali misteriosi che emettono versi acuti e lugubri. L’antropologa del mondo antico Loredana Mancini scrive a proposito dell’aspetto dei tannim che «la maggior parte dei lessici e delle traduzioni li identifica con un tipo di sciacalli, altri con una sorta di civetta o ancora con dei serpenti»
L. Mancini, Sirene del deserto. Animali mitici al crocevia delle culture, in Per un atlante antropologico della mitologia greca e romana, in «I quaderni del Ramo d’oro online», numero speciale, 2012, pp. 151-176.. La Sirena entra a far parte di una schiera di ingannevoli animali del deserto. In effetti, nella Bibbia non sono narrate grandi avventure marine, per gli Ebrei il mare e il deserto sono entità simbolicamente identiche sebbene di segno opposto. E come potrebbe essere diversamente, se “mare” deriva dalla radice della parola sanscrita maru, “deserto”, “sterilità”.
«Nel mare gli orientali non vedono che il baratro amaro, la notte dell’abisso»
J. Michelet, Il Mare, Il Melangolo, Genova 1992, p. 15., ha scritto Jean Michelet. Non fanno eccezione gli Ebrei: per un popolo di pastori non possono esserci aspetti positivi da cogliere nella grande distesa equorea che inghiotte e nasconde, ma solo naufragi, diluvi, tempeste e mostri serpentiformi. «Nella Bibbia è scritto di un mare visto dalla riva, infido, totalmente altro rispetto alla quotidianità e alla vita»
L. De Fiore, Anche il mare sogna. Filosofie dei flutti, cit., p. 46..
Dopo aver debuttato in un contesto apocalittico e profetico, nei luoghi desertici, abbandonati da Dio e infestati di bestie inquietanti e pericolose, sullo sfondo di Edom in fiamme, o tra le rovine della città maledetta di Babilonia dove «i demoni e le sirene e i ricci danzeranno»
Isaia, I, 40-45., per le Sirene sarà impossibile lavare via lo stigma negativo cui le condanna, presso la cultura prima ebraica e poi cristiana, questa forzatura nella resa di un termine intraducibile, trattandosi infatti il tan di una creatura, come accade per moltissimi altri animali biblici, della quale è difficile stabilire l’appartenenza alla zoologia reale o fantastica.
Se il mosaico di etimologie del termine generico “sirena” restituisce un accurato disegno dell’ambiente e delle condizioni propizie affinché le Sirene si manifestino, i nomi propri che in epoche più tarde verranno loro assegnati le definiscono singolarmente come individui distinti. Sono anch’essi nomi parlanti e aggiungono ulteriori specificazioni del mostro Sirena, annullandone contemporaneamente la natura collettiva ed anonima.
Seguendo lo schema tracciato da Peter von Blanckenhagen, che suddivide i mostri del mondo antico in particolari, unici, creature solitarie e membri di un gruppo, le Sirene apparterrebbero al primo tipo. Come Medusa per Perseo o le Furie per Oreste, le Sirene sono mostri la cui stessa esistenza sembra acquistare senso solo in relazione a Odisseo; la loro funzione preminente potrebbe essere quella di comparire come controparte negativa dell’eroe in un singolo episodio mitico, per «offrire l’occasione di metterne alla prova la tempra eroica»
P.H. von Blackenhagen, Easy Monsters, in A.E. Farkas, P.O. Harper e E.B. Harrison (a cura di), Monsters and Demons in the Ancient and Medieval Worlds, Von Zabern, Mainz on Rhine 1987, pp. 85 e ss.. Da mostri particolari, legati ad un contesto che rappresenta un unicum nella mitologia, le Sirene, inserite nella tradizione teogonica greca in epoca tarda rispetto al loro primo ruolo nel poema omerico, quando assumono nomi propri si specializzano e le loro sfere di competenza di allargano, si sovrappongono e si predicano di tanti mitemi quanti sono i nomi assegnati loro dallo scoliasta o dallo storico di turno, così da meritare di essere riassegnate nella categoria Blanckenhageniana di “membri di un gruppo”.
Gli antichi studiosi del mito battezzano le Sirene in svariati modi, e ne incrementano il numero: da due, e anonime, come paiono essere nell’ambiguo testo omerico, le Sirene passano a essere descritte e raffigurate come un gruppo di tre o addirittura quattro musicanti. Questo è dovuto al fatto che l’epoca nella quale scrivono gli scoliasti, tra il III secolo a. C. e il III d. C., conosce una ricchezza di testimonianze e immagini sulle Sirene, presentate la maggior parte delle volte come più di due, che ha ampiamente superato l’Odissea. Thelxiope, «dalla voce che incanta», Peisinoe, «quella che persuade la mente», Aglaope, «dalla splendida voce»: senza contare alcune impercettibili varianti, questi sono i tre nomi, piuttosto tautologici, che la suddetta tradizione di commentatori omerici conferisce alle figure mitologiche.
La triade però più famosa, dalla quale si dipartono numerose altre storie mitologiche che costituiscono un filone occidentale parallelo a quello epico e radicato alla geografia delle coste tirreniche, è quella riportata da Licofrone, erudito alessandrino del IV secolo a. C. e autore del poemetto Alessandra. Tra le funeste profezie che Cassandra, figlia di Priamo, annuncia alla vigilia della distruzione di Troia, ve n’è una che riguarda le fanciulle alate. Con un sofisticato espediente narrativo, Licofrone affida a un messaggero il compito di riferire il lungo vaticinio al re di Ilio.
[Odisseo] ucciderà poi le tre figlie del figlio di Teti,
che improntavano il loro canto alla voce melodiosa della madre:
verranno giù dall’alto scolio con un salto suicida
e con le ali s’immergeranno nel mare Tirreno,
dove le trascinerà l’amaro filare del fato
Licofrone, Alessandra, vv. 712-716..
Basandosi sull’opera dello storico Timeo di Taormina, nei versi successivi il mitografo fissa lo scenario dell’episodio nel tratto di mare tra la Campania e la Sicilia. Partenope, «la voce verginale», Ligeia «la squillante», Leucosia, «la dea bianca» sono le tre Sirene che, come nella variante mitica descritta da Apollonio Rodio, non sopportano lo scacco subito da Odisseo e si suicidano buttandosi in mare. Nelle Argonautiche, però, le tre fanciulle alate si tramutavano in scogli; le Sirene di Licofrone non sanno nuotare, e scelgono la morte per annegamento.
Il tuffo suicida, il katapontismos
Nel mondo greco il katapontismos, l’annegamento rituale di persone o cose, viene impiegato per infliggere punizioni e in caso di rituali ordalici. Il mare, luogo prediletto per simboleggiare il mutevole e fluido tra la terra dei vivi e la dimora infera dei defunti, costituisce il mezzo attraverso cui l’impurità morale, soprattutto delle donne, è punita e lavata via. Numerosi gli esempi mitici, tra cui Danae e Semele. Il gettarsi volontariamente da una rupe dalle rocce bianche conosce una lunga tradizione nel mondo greco: una celebre leggenda vede in Saffo la prima a tuffarsi per darsi la morte dalle rocce di Leucade, a causa dei sentimenti non corrisposti per Faone. Sull’azione coadiuvante del sale sulle virtù purificanti dell’acqua nei rituali dell’antichità classica, cfr. C. Zaccagnino, Acqua di mare e sale nei riti purificatori greci, in Hagnos, miasma e katharsis. Viaggio tra le categorie del puro e dell’impuro nell’immaginario del mondo antico, a cura di M. Giuman, M.P. Castiglioni, R. Carboni, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Simonetta Angiolillo (Cagliari, 4-6 maggio 2016), settembre 2017.
Lo stamnos attico a figure rosse, opera del cosiddetto Pittore delle Sirene, rinvenuto a Vulci e databile al 480-470 a. C., e oggi conservato presso il Birtish Museum di Londra, è il più antico manufatto archeologico a raccontare il suicidio delle Sirene: sul registro superiore stanno tre uccelli dal volto femminile. Due di queste Sirene, specularmente appollaiate su speroni rocciosi, cantano senza accompagnamento strumentale verso la nave sottostante, raffigurata in modo inedito al centro della scena, sul ponte della quale si riconosce Odisseo legato all’albero; la terza è dipinta nell’atto di precipitare in mare, ad occhi chiusi.
Sul lato opposto del vaso, tre Eroti volano a pelo d’acqua: il primo è contrassegnato dalla scritta Himeros, “desiderio d’amore”, in corrispondenza alla Sirena di sinistra era sormontata dalla parola Himeropa, “voce che suscita desiderio”. È il caso della prima attestazione del legame concettuale tra la forza trascinante dell’amore e della morte., conclude una fase del mito e ne apre un’altra, dalle coloriture eziologiche e fortemente locali. L’approdo dei corpi esanimi delle Sirene in tre diverse località delle coste tirreniche segue le direttrici della grande colonizzazione greca di età arcaica. Partenope darà il nome all’antica città dei cumani fondata nel golfo da Falero – uno degli Argonauti – , il corpo di Leucosia tocca le rive di Poseidonia, l’antica Paestum, e Ligeia viene pietosamente raccolta e seppellita dagli abitanti di Terina, in Calabria: le tre sedi coincidono con gli estremi capi della rotta dei coloni eubei nel Tirreno meridionale, lo stretto di Messina e il golfo di Napoli.
Presso le popolazioni magnogreche si insedia, e si salda alle celebrazioni dei miti coloniali di fondazione, la devozione alle Sirene, venerate, presso santuari appositamente innalzati alle “dee-uccello”, come divinità protettrici con competenze territoriali e municipali. Corpose tracce del culto sirenico in Italia meridionale sono riscontrabili nella stessa geografia e toponomastica dei luoghi: ancora agli inizi del Novecento, il tratto di costa tra Napoli e la penisola sorrentina era noto ai viaggiatori come la “Terra delle Sirene”, titolo di una pittoresca guida alla costa campana dello scrittore britannico Norman Douglas.
Avanzando di pari passo con la colonizzazione che da Oriente si estende sempre più a Occidente, il mitema delle tre Sirene post-mortem incide una spaccatura tra Magna Grecia e madrepatria anche nella funzione e nell’uso delle Sirene e nelle tradizioni che le riguardano, con importanti conseguenze sulla conformazione fisica del mostro teriomorfo.
Da questo momento in poi, vengono a contrapporsi la maliarda e grave Sirena lamentatrice, espressione del lutto, d’Oriente e la dolce Sirena dei culti costieri d’Occidente, fondatrice di città e omaggiata con lampadodromie e santuari.
1.3 All’ascolto
Le plausibili etimologie della parola che nell’antichità ha designato un mostro dal volto femminile e il corpo ornitomorfo e che ai più evoca, oggigiorno, l’immagine di bellissime donne-pesce dai grandi occhi blu, sono per lo più connesse alla qualità che Loredana Mancini ha individuato come caratterizzante la Sirena greca rispetto a tutte le altre figure di donna alate o con zampe di rapace della mitologia: la vocalità. E, più precisamente, la potenza prelogica, incontrollabile e mantica espressa da questa vocalità.
Passando dunque in rassegna gli etimi e, per completezza, alcuni tra i miti eziologici, per naturale prosecuzione dell’argomento si giunge a un’ulteriore sfumatura della questione di Tiberio, o della domanda del contadino di Bounina. Da cosa cantano le sirene, si passa a interrogarsi sulla qualità del canto di queste creature. Come cantano le sirene?
Il filosofo Peter Sloterdijk ha scritto che, all’orecchio dell’ascoltatore contemporaneo, un concerto di sirene suonerebbe non tanto come il soave gorgheggio di un coro femminile, ma piuttosto come «le lamentele delle piangenti, organizzate in onde, perpetuate fino ai nostri giorni in alcune nicchie culturali del mondo del Mediterraneo orientale»
P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 458., tipici di certe manifestazioni rituali del folclore funerario.
Phthongos, la parola che usa Circe per esprimere la vocalità delle Sirene quando istruisce Odisseo sui pericoli cui andrà incontro proseguendo il suo viaggio, sta a indicare l’emissione di voce inarticolata, non modulata ed incessante. Riferito per lo più a mostri come le Sirene o Polifemo, phthongos può caratterizzare anche la voce umana, ma solo quando si tratta di grida sconnesse, di terrore o di guerra.
Più che un canto, dunque, le Sirene effondono un lamento monotono e stridente, forse davvero analogo a quelli delle prefiche durante i funerali.
Non è un caso che Euripide, nella prima parodo dell’Elena, inscenata nel 412 a. C., faccia chiamare all’eroina tragica l’aiuto delle Sirene in un passaggio fondamentale non solo per lo svolgimento della tragedia, ma anche per la ricostruzione del valore culturale della Sirena e del suo legame con la morte e la ritualità funeraria. La regina spartana, che ha vissuto per diciassette anni in Egitto, lontana e ignara della guerra spietata che ha visto contrapposti Achei e Troiani, viene a sapere casualmente delle disgrazie causate agli Achei dall’eidolon, in tutto e per tutto identico a lei, condotto a Troia al suo posto. Per ottenere dal sovrano egizio, che ha avanzato pretese matrimoniali sulla bellissima protagonista, la possibilità di tornare in Grecia, smascherare l’impostora e riabilitare così la propria reputazione, Elena finge di aver avuto la notizia della morte di Agamennone e, mettendo ritualmente in scena il proprio cordoglio, strappandosi i capelli e graffiandosi le guance invoca le Sirene con solennità:
Fanciulle alate, vergini figlie della Terra, o Sirene, venite, accompagnate il mio lamento con il flauto di Libia o le canne di Pan, fate eco al mio grido, date lacrime al mio pianto, al dolore unite il dolore ed il canto al mio canto
Euripide, Elena, vv. 169-175..
Compagne tradizionali del lamento funebre, le Sirene compaiono già dal IV secolo a. C. nell’arte funeraria dei popoli di cultura greca dell’Asia Minore, sia come statue a tutto tondo innalzate su pilastri e colonne, sia incise sulle stele. In Attica, l’uso della Sirena funeraria si esaurisce alla fine dell’età classica per effetto dell’emissioni di decreti restrittivi contro il lusso, ma prosegue fiorente per tutto l’ellenismo in Egitto e in Asia Minore
L. Mancini, Il rovinoso incanto, cit., p. 27..
Nel Partenio 2 di Pindaro, il canto della Sirena è definito kompos, “strepito”, da una giovane coreuta. L’occasione è una fase della Dafneforia, festa celebrata in Beozia e finalizzata a ingraziarsi la protezione del dio Apollo contro i fenomeni che potevano danneggiare il raccolto. La cerimonia è rituale ma non funeraria, e infatti l’appello non è orientato a invocare l’accompagnamento della Sirena lamentatrice, o a richiedere un intervento diretto della creatura sovrumana, ma serve a richiamare in funzione mimetica l’efficacia meteorologica che il canto della Sirena possiede sugli elementi e sui venti. L’auspicio della coreuta è di farsi vettore dei poteri della Sirena:
al suono dell’auliskos di legno di loto imiterò con il canto lo strepito della Sirena, quello che fa tacere i soffi veloci di Zefiro e quando il fremente Borea infuria con la violenza della tempesta e eccita l’impeto veloce del mare
Pindaro, Partenii, 2, frg. 94 b, vv. 11-20..
La sirena viene chiamata in causa ogni qualvolta ci sia la necessità di compiere un rito, come si è visto spesso ma non necessariamente funebre, in cui il canto abbia un ruolo importante per la riuscita del rito stesso.
Sirena lalē, “garrula”, è poi l’epiteto spregiativo usato per designare il poeta Simonide in un epigramma confluito nell’Antologia Palatina
Antologia Palatina, 9, 184.. È un parlare a vuoto, assimilato a suoni naturali e privi di concetto come lo scorrere dell’acqua. Ligys, similmente, sta per voce acuta, sibilante, da cui ha origine il nome Ligea. Ligyros, nella poesia arcaica e omerica, è aggettivo tanto della voce squillante e significante dell’araldo quanto dei versi degli uccelli o dei sibili del vento
Cfr. L. Mancini, op. cit., p. 37..
Dunque, che si voglia definirlo strepito o grido, o accostarlo a ciangottii privi di senso, le gole delle Sirene lanciano senza dubbio un suono penetrante, reiterato e selvatico, inumano, che produce condizioni ipnotiche. Eppure, nell’Odissea questo phthongos non è descritto indirettamente; le Sirene hanno parola e anche piuttosto eloquente: l’innegabile validità semantica del loro canto sembra negare quanto detto in precedenza sulla voce priva di contenuto, sul bombito ronzante come quello del sangue che scorre nell’orecchio di Lidwell quando Lydia gli poggia la conchiglia al timpano, o sulle dolci sillabe senza senso che stordiscono Odisseo.
Per di più, le loro parole sono accattivanti ed efficaci, tanto che i significati astratti di peithō e seirēn possono essere quasi assimilati. Peithō, la persuasione, agisce nella Sirena attraverso l’attrazione soprannaturale esercitata dalla voce, piegando la volontà di chi ascolta. Il sofista Gorgia nell’Encomio di Elena, apparente divertissement retorico col pretesto di sovvertire il topos di Elena ammaliatrice spietata presentandola con solide argomentazioni come la vittima plagiata dal logos ingannevole di Paride, ha il reale scopo di soffermarsi sul legame tra logos e peithō, riformulandolo. Se, infatti, nella concezione dei tragici era la persuasione a servirsi del discorso per tessere le sue sciagurate trame, in Gorgia il logos possiede un’agentività del tutto nuova, scegliendo quando usare la peithō e verso quali scopi indirizzarla. Umanizzandolo per renderlo meno intangibile e definirlo con chiarezza, Gorgia scrive che «il discorso è un signore potente, che con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile le azioni più divine porta a compimento»
Gorgia, Encomio di Elena, 8, trad. it. di R. Ioli, Mimesis Edizioni, Milano 2013., e unito all’invincibile forza di peithō, la persuasione, il logos modella l’anima a suo piacimento.
Per le Sirene è allora indispensabile rivolgersi a Odisseo servendosi del logos, il suo linguaggio, sebbene esse stesse siano l’incarnazione del mythos e del canto prelogico. Il loro canto, che dice della guerra di Troia e del valore degli Achei, nella sua preponderante vocalità non annulla la parola: affinché Odisseo desideri lanciarsi dentro quel canto, le Sirene devono fare in modo che non sia solo la voce a ipnotizzarlo, ma anche le parole. Tuttavia, Odisseo non sembra rendersene pienamente conto.
A nόstos realizzato, Odisseo e Penelope si sono finalmente ritrovati, si rifugiano nella dolcezza del talamo e si raccontano reciprocamente quei dieci anni che li hanno visti divisi. Entrambi gli sposi sono piuttosto concisi: Omero interviene in prima persona e sintetizza, in due brevi discorsi indiretti, anni e anni di tribolazioni, inganni, attese, naufragi, uccisioni, vittorie e sconfitte. Stupisce che Odisseo risponda con soli trentadue versi alla moglie che gli chiede di quelle avventure che per oltre quattro libri hanno tenuto inchiodati i Feaci – e, naturalmente, generazioni intere di Greci che ascoltavano gli aedi.
Ancor più strano è che il re di Itaca, a un tratto del suo breve catalogo di avventure, ricordi solo di aver ascoltato il suono della voce continua, incessante delle Sirene armoniose
Omero, Odissea, XXIII, v. 326, a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005: «E come delle Sirene armoniose ascoltava la voce» «ἠδ' ὡς Σειρήνων ἁδινάων φθόγγον ἄκουσεν»., liquidandolo senza fare menzione del pericolo che questa voce recava con sé, né l’astuzia adottata per sfuggirgli.
Passa totalmente in secondo piano il valore semantico del racconto cantato delle Sirene, e tutti gli aggettivi riferiti ad esso evocano niente altro che una pura voce, irresistibile e potente, un richiamo letale che sconfina nel verso animale.
Il thelgousin aoidè delle Sirene, incoerentemente tramandato nella storia occidentale come puro suono, indistinto e possente, che provoca godimento fino a morirne, è in realtà intriso di un’oralità narrante: Omero vuole onniscienti le sue Sirene, duplicandole sullo stampo delle Muse che gli hanno ispirato il poema.
Adriana Cavarero
A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, pp. 120 ss. scioglie la contraddizione, da thespesiaon, divino, il canto diventa solo modulazione della voce femminile, un gradino sotto la phoné semantiké. La ricezione del mito in Occidente ha semplicemente deciso di non tenere conto della sensatezza delle parole, mendaci o meno, recitate dalle incantatrici omeriche. Questo perché, spiega Cavarero, le Sirene, con la loro onniscienza, usurpano al sistema androcentrico la specialità maschile del logos. Pur non essendo un logos filosofico, ma poetico e musicale, il canto delle Sirene unisce la sonorità alla dimensione semantica del mettere in parole un sapere. Unione, questa, che sancisce il potere sovrano dell’epica ponendola al centro della cultura orale che l’ha prodotta.
Quando questa cultura orale è ormai tramontata, le vicende della tradizione che tolgono la parola alle sirene, lasciando loro soltanto la voce, compiono dunque un gesto simbolico decisivo. L’antica figura rubata cambia radicalmente di segno: le sirene sopravvivono nell’immaginario, ma non sono più quelle di Omero. Esaltata da una voce che è pura voce, la loro corporeità invade ormai una scena dove nessuna forma di logos viene più a disturbare lo stereotipo del femminile
ivi, p. 120..
Consegnata e svenduta nel corso dei secoli alla voce senza parola perché il contrasto divenisse più netto con l’umanizzato logos filosofico, non è difficile capire il motivo per il quale sirena è il nome comune di quegli strumenti in grado di generare suoni a una frequenza determinata e regolabile. Precursore dei moderni sistemi di allarme, il dispositivo inventato nel 1820 dall’ingegnere e fisico Charles Cagniard de Latour è il primo a essere battezzato come la figura mitologica, per la capacità di produrre suono anche quando immerso in acqua.
Sloterdjik individua, però, una ragione acustica e più profonda nella catacresi sottesa alla denominazione degli allarmi antiaerei e dei richiami sonori delle fabbriche. Con un certo cinismo, si deforma con «bassa ironia» l’allusione alle pulsioni arcaiche innescate dal canto delle Sirene negli ascoltatori.
Lo phthongos divino e insistente scade nell’allarme ossessivo e rintronante. Le Sirene del mito sono strumentalizzate «a profitto dei più brutali segnali di massa, […] campane dell’epoca delle industrie e delle guerre mondiali. […] A tutte le orecchie cui possono arrivare, il loro rumore porta con sé un consenso circa il fatto che tutto è disperato e pericoloso»
P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, cit., p. 462..
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