STUDI STORICI
LUIGI SIMEONI
VOLUME LIX
(2009)
Estratto
VERONA
ISTITUTO PER GLI STUDI STORICI VERONESI
MARCELLA LORENZINI
‘‘DI SOLENNE E PRIVILEGIATISSIMO CREDITO’’ (1):
TECNICHE E STRATEGIE DI INVESTIMENTO FINANZIARIO
DEL CONVENTO DI SANTA ANASTASIA DI VERONA
(SECOLI XVII-XVIII)
Il marchese Scipione Maffei, nella Informazione indirizzata al Procuratore di
San Marco Simone Contarini, afferma: ‘‘C’è stato più d’uno ch’è andato a osservare
i pubblici registri del Monte di Verona, e vi ha trovato, come niuno vi ha dati, e dà
tanti danari ad interesse come i Padri Domenicani. Da pochi anni in qua sette
capitali in sette volte si sono investiti su questo Monte dal Convento di Verona, e
da alcun altro prossimo’’ (2).
Siamo nel 1746 e il convento domenicano di Santa Anastasia con i suoi quasi
14.000 ducati investiti in attività di prestito è uno dei protagonisti principali di
quella schiera del Clero, a cui si riferisce il Maffei e che costituisce la parte più
dinamica di quell’ordine, giocando un ruolo cruciale nelle economie di antico
regime (3). L’attività feneratizia di enti religiosi, confraternite laicali e luoghi pii,
afferma Giuseppe De Luca ‘‘svolse una funzione determinante nel mobilizzare il
crescente risparmio forzato (costituito dalle doti, dalle dotazioni dei luoghi pii,
degli enti assistenziali e delle confraternite), trasformandolo in investimenti diretti
principalmente verso il settore primario’’ (4).
Anche nella Repubblica Veneta del XVII-XVIII secolo, i maggiori prestatori
(1) Archivio di Stato di Verona (d’ora in poi A.S.VR.), Monasteri maschili di città,
Santa Anastasia, Instrumenti (1642-1652), reg. 14, c. 19 v.
(2) S. Maffei, Informazione da presentare all’eccellentissimo Procurator di S. Marco Simone Contarini Provveditore Generale in Terraferma, citato in L. Simeoni, La polemica maffeiana per l’‘‘Impiego del denaro’’, in Studi maffeiani, a cura di T. Ronconi, Torino, Fratelli
Bocca, 1909, p. 423.
(3) I 14.000 ducati sono stati calcolati sulla base dei dati forniti dalle polizze d’estimo
del 1724 e del 1763, A.S.VR., Antichi Estimi Provvisori (d’ora in poi A.E.P.), Santa Anastasia, Polizza d’estimo 1724, reg. 343, Polizza d’estimo 1763, reg. 349. Sulla gestione del patrimonio del Clero regolare in epoca preindustriale, cfr. F. Landi, Il paradiso dei monaci. Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma, La Nuova
Italia Scientifica 1996, in merito agli aspetti finanziari vedi in particolare pp. 185-197; sul
ruolo economico svolto dai regolari in Europa cfr. sempre dello stesso Autore, Id., Storia
economica del Clero in Europa (secolo XV-XIX), Roma, Carocci, 2005.
(4) G. De Luca – A. Moioli, Il potere del credito. Reti e istituzioni nell’Italia centrosettentrionale fra età moderna e decenni preunitari, in La Banca. Annali di Storia d’Italia 23, a
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di denaro erano rappresentati dagli istituti ecclesiastici, conventi e sopratutto monasteri femminili, i quali godevano di una abbondante liquidità proveniente dai
generosi gettiti dotali (5). Nei conventi maschili – sebbene le entrate maggiori
provenissero dai beni immobiliari, in particolare le terre – i frati non rinunciarono
ad impiegare il denaro, che affluiva regolarmente nelle loro casse sotto forma di
lasciti, legati e oblazioni varie, in una altrettanto ampia e ramificata attività feneratizia. Il fenomeno assunse dimensioni rilevanti nel periodo successivo ai provvedimenti emanati dal Senato veneziano in materia di donazioni ob piam causam. Nel
timore che il Clero, regolare e secolare, attraverso i costanti lasciti ampliasse il
proprio patrimonio immobiliare, il governo emanò una legge nel 1536, estesa nel
1605 a tutti i domini della Terraferma, che obbligava enti ecclesiastici e Cause pie a
vendere entro due anni i beni ricevuti sotto forma di donazione (6). Il provvedimento, recepito e attuato con tempistiche diverse nelle varie città venete, ebbe
come immediata conseguenza una nuova disponibilità di denaro ottenuto, non solo
dalla vendita forzata degli immobili, ma anche dai donativi che, da quel momento
in poi, sarebbero stati elargiti soprattutto in moneta. Prestare ad interesse non
rappresentava per gli enti religiosi una novità assoluta ma, in virtù delle leggi sulla
manomorta, la rendita creditizia divenne il naturale succedaneo di quella agraria e
immobiliare; ben presto l’attività di prestito venne ampliandosi ed istituzionalizzandosi, affiancando quella svolta fino ad allora nel territorio locale dal Santo
Monte di Pietà (7). L’investimento del denaro nelle operazioni di credito era inoltre
più conveniente del tradizionale investimento nella terra; se infatti le rendite fondiarie a metà Seicento si allineavano su valori che andavano dal 4 al 5%, da un
prestito si poteva ottenere un interesse del 6% (8).
Secondo i dati rilevati dall’estimo della città di Verona nel 1653, risulta che circa il 50% dell’offerta di denaro proveniva dagli enti ecclesiastici, tra
cui il convento domenicano di Santa Anastasia era tra i più operativi e dina-
cura di A. Cova, S. La Francesca, A. Moioli, C. Bermond, Torino, Einaudi, 2008,
p. 223.
(5) M. Pegrari, Prestiti e dinamiche sociali nella Brescia moderna: il caso del monastero
di San Francesco (secc. XVI-XVIII), in ‘‘Studi storici Luigi Simeoni’’, XXXIII, (1983), p. 185.
(6) Sull’ingerenza del governo veneziano nella vita economica del Clero durante i secoli
di dominazione cfr., tra gli altri, G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica nella Repubblica di
Venezia, in Confische e sviluppo capitalistico. I grandi patrimoni del clero regolare in età moderna in Europa e nel Continente Americano, a cura di F. Landi, Milano, FrancoAngeli,
2004, pp. 55-73.
(7) G. Zalin, Denaro in entrata, denaro in uscita. L’attività creditizia dei ‘‘Paolotti’’ scaligeri nel Settecento, in Mercanti e vita economica nella Repubblica Veneta (secoli XIII-XVIII),
a cura di G. Borelli, Verona, Banca Popolare di Verona, 1985, p. 455.
(8) Cfr. D. Bolognesi, Attività di prestito e congiuntura. I ‘‘censi’’ in Romagna nei secoli XVII e XVIII, in Credito e sviluppo economico in Italia dal medioevo all’età contemporanea, Atti del primo convegno nazionale, 4-6 Giugno 1987, a cura della Società Italiana degli
storici dell’economia, Verona 1988, p. 290. Sui valori delle rendite fondiarie nelle campagne
veronesi cfr. G. Borelli, Un patriziato della Terraferma veneta tra XVII e XVIII secolo. Ricerche sulla nobiltà, Milano, Giuffré, 1974, p. 361. Entrambi gli Autori sottolineano come la
terra rimanesse, tuttavia, la forma di investimento prediletta.
‘‘DI SOLENNE E PRIVILEGIATISSIMO CREDITO’’: TECNICHE E STRATEGIE ...
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mici (9). Fondato nel 1260 il cenobio rimase in vita fino al 1805 quando, a
seguito delle politiche napoleoniche, venne soppresso insieme ad altri undici
conventi maschili ‘‘possidenti’’ della città scaligera (10). Nell’arco di oltre mezzo
millennio Santa Anastasia fu uno dei pochi monasteri veronesi che consolidò
sensibilmente il proprio patrimonio (vedi tab. 1).
Tabella 1 - Allibrazione del convento di Santa Anastasia secondo la lira d’estimo (11).
Anno
Rendita annua (in ducati)
Capitale (in ducati)
1479
960
19.200
Lira d’estimo
1659
2.030
33.840
7:1: 8
1680
2.140
35.685
7:4:11
1724
2.070:1
34.500
7:3
1763
2.794
46.600
9:13
6
Fonte: G. Borelli, Aspetti e forme della ricchezza negli enti ecclesiastici e monastici di Verona tra sec. XVI e
XVIII, in Chiese e monasteri a Verona cit., pp. 140-148.
Con questo studio ci si è posti l’obiettivo di analizzare la natura e la consistenza dei redditi da capitali, i circuiti del denaro, nonché la strategia e le tecniche
di investimento finanziario adottate dai religiosi: a questo scopo si sono prese in
esame le molteplici forme contrattuali – censi, livelli, legati ecc. – mediante le quali
il denaro entrava e usciva dalle casse del convento.
Le fonti da cui ha preso le mosse questa indagine sono state in primo luogo le
polizze d’estimo, nello specifico, per quel che riguarda il periodo analizzato, quelle
degli anni 1680, 1724 e 1763 (12). In questi documenti fiscali enti e cives della città
e del territorio erano tenuti a dichiarare i rispettivi patrimoni e le rendite che ne
derivavano, sulla base dei quali sarebbero stati successivamente allibrati secondo
(9) Cfr. V. Chilese, Una città nel Seicento veneto. Verona attraverso le fonti fiscali del
1653, Verona, Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, 2002, p. 333. Per un
quadro generale della vita economica del Clero veronese, cfr. Chiese e monasteri a Verona, a
cura di G. Borelli, Verona, Banca Popolare di Verona, 1980 e Id., Chiese e monasteri nel
territorio veronese, Verona, Banca Popolare di Verona, 1981.
(10) Cfr. R. Fasanari, Gli ordinamenti napoleonici in materia ecclesiastica nella loro
applicazione a Verona, in Atti dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, serie
6, vol. 13., Verona, 1961, pp. 7-8; vedi inoltre G. Zalin, L’economia veronese in età napoleonica. Forze di lavoro, dinamica fondiaria e attività agricolo-commerciali, Milano, Giuffré,
1973.
(11) Sugli articolati meccanismi di redazione dell’estimo del Clero cfr. G. Borelli,
Aspetti e forme della ricchezza negli enti ecclesiastici e monastici di Verona tra sec. XVI e
XVIII, in Chiese e monasteri a Verona cit., pp. 124-126; E. Rossini, La normativa sugli estimi
veronesi (Parte Prima), in ‘‘Studi Storici Luigi Simeoni’’, 1993, pp. 125-146 e Id., La normativa sugli estimi veronesi (Parte Seconda), in ‘‘Studi Storici Luigi Simeoni’’, 1994, pp. 63-90.
(12) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1680, reg. 334; Polizza 1724, reg. 343,
Polizza 1763, reg. 349.
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una cifra d’estimo che ne stabiliva la capacità contributiva. In secondo luogo, sono
stati esaminati i registri delle entrate e i libri instrumentorum del convento, ovvero i
registri sui quali venivano riportate le copie fedeli dei contratti rogati tramite un
notaio (13).
La fisionomia dei redditi registrati nelle polizze d’estimo appare vaga, poliforme, talvolta fuorviante; uno dei maggiori ostacoli è determinato dall’ambiguità
lessicale. I canoni percepiti venivano indistintamente chiamati – in territorio veneto
– livelli, censi o affitti. Il termine livello, in particolare, poteva riferirsi sia ad un
patto agrario sia ad un’operazione creditizia (14). Il motivo per cui nei registri
ufficiali non era specificata la natura del canone dipendeva in parte dal fatto che
ai fini fiscali ciò che importava era indicare i censi attivi, dall’altra parte che nuovi
istituti giuridici stavano prendendo forma sovrapponendosi e stratificandosi con le
tradizionali pratiche contrattuali.
In origine il livello era un contratto agrario con cui si concedeva in usufrutto
un fondo per un periodo generalmente lungo di tempo; il più diffuso era quello dei
ventinove anni (15). Al livellario spettava il pagamento delle imposte e il versamento
di un canone annuo di modesta entità che serviva da memento al conduttore, cioè
per ricordare chi fosse il reale proprietario del terreno. Questo tipo di contratto,
oltre a permettere una modesta rendita fondiaria, era ‘‘un mezzo per stimolare lo
sfruttamento delle terre incolte durante la rinascita demografica dei secoli XIXIII’’ (16). A partire dall’età comunale il livello agrario subı̀ un lento ma inesorabile
mutamento; il segno tangibile di questa metamorfosi fu la progressiva riduzione
della durata dei contratti, il cui termine cominciò ad essere posto a dieci, nove e sei
anni, scendendo fino a tre anni; alla scadenza tuttavia il rapporto non si interrompeva ma veniva, il più delle volte, rinnovato.
Nel Cinquecento in Terraferma veneta il livello cominciò ad assumere le
forme di un vero e proprio strumento di credito. I contadini, che versavano in
condizioni precarie a causa di una serie di cattivi raccolti durante gli anni Venti,
furono spinti ad accendere debiti per soddisfare i bisogni di prima necessità (17). Il
(13) Sull’importante ruolo rivestito dalla figura del notaio in età preindustriale cfr. R.
Ago, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli 1998,
p. 75; per quanto concerne la funzione svolta dei notai nella realtà economica Milanese cfr.
G. De Luca, Tra reti e istituzioni. Per una lettura del sistema creditizio Milanese nei primi
decenni dell’Ottocento, ‘‘Storia in Lombardia’’, 28, 2007, p. 8; cfr. inoltre la rilevanza dei notai nello studio sul credito a Parigi di P.T. Hoffman, G. Postel-Vinay, J.L. Rosenthal,
Priceless Markets. The Political Economy of Credit in Paris, 1660-1870, Chicago and London,
The University of Chicago Press, 2000, p. 27 e segg.
(14) Sui livelli in territorio veneto cfr. G. Corazzol, Fitti e livelli a grano. Un aspetto
del credito rurale nel Veneto del ’500, Milano, Franco Angeli, 1979.
(15) A. Pertile, Storia del diritto italiano. Dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, Padova, Forni, 1873-1887, vol. V, pp. 303-354.
(16) G. Felloni (a cura di), Monete, credito e banche in Europa: un millennio di storia.
Dispense per il corso di Storia della moneta e della banca, Genova, Università degli Studi di
Genova, a.a. 1999-2000, p. 87.
(17) G. Corazzol, Fitti e livelli a grano cit., pp. 31-32.
‘‘DI SOLENNE E PRIVILEGIATISSIMO CREDITO’’: TECNICHE E STRATEGIE ...
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nuovo ‘‘livello affrancabile’’ era un contratto di prestito in cui il debitore, in cambio
della somma di denaro ricevuta, cedeva al creditore un suo bene sotto forma di
garanzia e si impegnava a pagare al creditore un affitto annuo. Alla scadenza il
debitore poteva riscattare il livello restituendo il capitale ricevuto e riappropriarsi
del bene immobile; in caso contrario il creditore poteva entrare in possesso del
bene ipotecato; ma questo avveniva raramente, soprattutto nel caso dei prestiti
erogati dagli enti religiosi, i quali erano più interessati a garantirsi una rendita
annua anziché incrementare il proprio patrimonio (18). I canoni potevano essere
in denaro o in natura; questi ultimi erano preferiti dal creditore poiché, rimanendo
neutri rispetto all’andamento dell’inflazione, non subivano svalutazioni nel tempo.
A partire dagli anni Quaranta l’impennata subita dai prezzi agricoli, spinse le masse
contadine a esercitare pressioni sulle autorità affinché i canoni in natura venissero
tramutati in moneta. Il Senato nel 1553 emanò dunque un provvedimento che
stabiliva che tutti i contratti di prestito stipulati dopo il 1520 avrebbero dovuto
essere versati in moneta; il limite dei tassi di interesse non fu omogeneo per tutte le
città della Terraferma; se a Vicenza, Bassano e Verona fu fissato al 6%, a Belluno e
a Feltre si praticarono legalmente tassi del 7% (19).
Anche al di fuori della Serenissima il fenomeno del prestito ad interesse si
estese in maniera altrettanto rapida e capillare, ponendo le autorità religiose davanti ad un bivio: da un lato le attività feneratizie sfidavano la tradizionale condanna dell’usura, dall’altro, anche negli ambienti ecclesiastici, era maturata la
coscienza dell’imprescindibilità della dimensione finanziaria. Nel 1569 il papa
Pio V, con l’emanazione della bolla Cum Onus optò per una regolamentazione
del censo, definendone forme e limiti. Il censo consegnativo – simile al livello
affrancabile veneto – venne eletto quale strumento creditizio legale, tantoché assunse anche la denominazione di censo bollare. Secondo i criteri imposti dalla
Chiesa il tasso di interesse non doveva superare il 7%, il bene su cui si fondava
il prestito doveva essere costituito da un immobile in grado di produrre una
rendita, infine al debitore veniva concessa la facoltà di riscattare il censo restituendo il capitale ricevuto (20). Il censo consegnativo, strumento creditizio ampiamente
diffuso nella penisola ed anche in alcune province della Repubblica marciana,
veniva dunque a distinguersi dal più antico censo riservativo, secondo il quale –
sottolinea Alonzi – ‘‘si cedeva un bene immobile riservandosi il diritto alla percezione di una rendita annua’’ (21); quest’ultimo si rifaceva ‘‘ad altre funzioni socio-
(18) P. Lanaro Sartori, Reddito agrario e controllo fiscale nel Cinquecento: la Valpolicella e Verona, in La Valpolicella nella prima età moderna (1500 c.-1630) a cura di G.M.
Varanini, Verona, Centro di documentazione per la storia della Valpolicella, 1987, p. 210.
(19) G. Corazzol, Fitti e livelli a grano cit., pp. 70-71.
(20) Cfr. D. Bolognesi, Attività di prestito e congiuntura. I ‘‘censi’’ in Romagna nei
secoli XVII e XVIII cit., p. 285. Su questa tematica cfr. anche M. Fornasari, Finanza d’impresa e sistemi finanziari. Un profilo storico, Torino, Giappichelli, 2006. Sul tema dell’usura
nei secoli cfr. P. Vismara, Oltre l’usura. La chiesa moderna e il prestito ad interesse, Soveria
Mannelli, Rubettino, 2004.
(21) L. Alonzi, I censi consegnativi nel XVI e XVII secolo tra ‘‘finzione’’ e ‘‘realtà’’,
‘‘L’Acropoli’’, VI, 1, 2005, p. 88.
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economiche, più assimilabili ai livelli, alla colonia parziaria, alle enfiteusi’’ (22), in
cui non c’era l’orizzonte della restituibilità del capitale. Il censo consegnativo, sul
piano formale, si configurava come un’obbligazione fondiaria mediante la quale il
debitore concedeva una quota annua (sovente monetizzata) dei frutti o della rendita del fondo censito, fino al termine del contratto per il quale era prevista la
restituzione del capitale ricevuto in prestito o, nel caso di censi perpetui, fino a
quando il debitore non avesse desiderato affrancarsi.
Il prestito ad interesse per mezzo del livello affrancabile si formulava attraverso un contratto di emptio cum locatione, ovvero una sorta di compravendita
fittizia (23). L’atto si divideva in due parti. Nella prima si istituiva una emptio,
ovvero il venditore/debitore alienava un bene di sua proprietà (per lo più terre
o altri beni immobili) ad un determinato prezzo (che era la somma di denaro
richiesta dal debitore). Nella seconda veniva stipulata la locatio, in cui il nuovo
proprietario/creditore dava in conduzione al debitore quello stesso immobile in
cambio di una rendita annua, il livello annuo giustappunto, che non era altro che il
tasso di interesse sulla somma prestata. L’atto si concludeva con la possibilità per il
livellario di potersi affrancare dal canone quandocumque. Al creditore, d’altro
canto, veniva lasciato il diritto di stabilire la scadenza entro cui il livellario non
avrebbe potuto affrancarsi.
La emptio cum locatione che i frati Predicatori rogarono in data 28 novembre
1648 è emblematica: Lorenzo Zanini q. Cristoforo vendette a Padre Domenico
Nolfi, sindaco e procuratore del convento, un pezzo di terra ‘‘con vigne e altri
arbori’’ (24) della quantità di otto campi per il prezzo di ‘‘ducati dosento da grossi
trenta uno cadauno de danari veronesi i quali esso P. F. Domenico per nome del
monastero ha ivi numerati a detto Zanini ricevendoli in oro e pocho argento’’ (25).
L’atto di emptio è seguito subito dopo dalla locatio, secondo cui Zanini diventava
locatore del terreno che aveva testé venduto ed era obbligato a pagare ogni anno al
convento ‘‘l’affitto de denari in ragion del 6% [12 ducati] principiando a pagar il
primo intiero affitto di un anno e cosı̀ successivamente libero da dadie de villa’’ (26). Il contratto, di durata triennale, si concluse con il ‘‘patto perpetuo e senza
alcuna preffinition di tempo riservato a detto Zanini e piezo eredi e successori loro
(22) Ibidem, p. 92. È nota l’importanza del censo consegnativo quale strumento creditizio per finanziare gli elevati costi d’impianto delle attività estrattive e siderurgiche nel milanese sul finire del XVI secolo, cfr. G. De Luca, Commercio del denaro e crescita economica
a Milano tra Cinque e Seicento, Milano, Mediocredito Lombardo 1996, pp. 110-111. Cfr.
inoltre sull’importanza del censo bollare nell’economia emiliana di Cinque e Seicento, M.
Cattini, Dalla rendita all’interesse: il prestito tra privati nell’Emilia del Seicento, in Credito
e sviluppo economico in Italia dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Zalin, Atti
del primo convegno nazionale cit., pp. 255-265.
(23) G. Corazzol, Livelli stipulati a Venezia nel 1591. Studio storico, Pisa, Giardini,
1986, p. 13.
(24) A.S.VR., Monasteri maschili di città, Santa Anastasia, Instrumenti, (1642-1652),
reg. 14, c. 23 v.
(25) Ibidem.
(26) Ibidem c. 24 r.
‘‘DI SOLENNE E PRIVILEGIATISSIMO CREDITO’’: TECNICHE E STRATEGIE ...
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de potersi affrancar da detto affitto quando le parerà e piacerà con l’esborso de
ducati dosento de capitale con gli residui e rata in codesta forma danari contadi e
buona valuta’’ (27). E ancora fu stabilito che ‘‘nonostante non vengano esse parti
per patto espresso che passati anni tre prossimi venturi e detta affrancation non
fatta in tal caso sii lecito a detto Monastero e successori de poter ad ogni suo piacer
astringere tanto detto Zanini [...] eredi e successori loro unitamente e separatamente a far detta affrancatione con detti ducati dosento et accessori’’ (28). Il convento, allo scadere dei tre anni, poteva dunque costringere Zanini a restituire la
somma ed estinguere il debito.
L’affrancabilità distingueva il livello appunto ‘‘affrancabile’’ da quello ‘‘perpetuo’’. I due tipi di livelli non erano tuttavia cosı̀ rigidamente definiti; poteva
succedere, infatti, che un livello da affrancabile diventasse perpetuo, come ad
esempio nel caso di Domenico Nezzi che nella polizza del 1680 di Santa Anastasia
pagava un livello affrancabile di 5 lire e 8 soldi mentre nella polizza del 1724
Andrea Nezzi (probabilmente il figlio erede) veniva a pagare il medesimo canone
in qualità di livello perpetuo. Viceversa poteva accadere che un livello da perpetuo
passasse ad affrancabile, come avvenne per Ippolito Malaspina che nel 1724 pagava un livello perpetuo di 6 lire e 13 soldi e nel 1763 Alberico Malaspina (anche in
questo caso probabilmente l’erede, suo figlio) pagava la stessa cifra sotto forma di
livello affrancabile.
Nella polizza d’estimo del 1680 i redditi da capitale venivano classificati in
due categorie principali: i ‘‘livelli e legati affrancabili’’ e i ‘‘livelli in natura’’ (29). Il
numero delle operazioni erano 172, di cui 154 erano livelli affrancabili corrisposti
in moneta e 18 i livelli in natura. Poteva accadere che uno stesso livellario pagasse
più canoni, come ad esempio nel caso di Giovanni e fratelli Cavalli che versavano
ben cinque livelli annui, rispettivamente di 6 lire 13 soldi e 4 denari, 37 lire e 4
soldi, 186 lire, 74 lire e 62 lire (30). Anche per quanto concerne i livelli in natura si
trovavano livellari che ne pagavano più di uno, come quello del conte Matteo
Verità che versava ogni anno ai Domenicani un livello di 3 minali di frumento e
di 23 brenti di vino (31); non mancavano neppure le quote miste, ovvero quelle
costituite parte in moneta e parte in natura. Le derrate maggiormente usate erano
frumento, vino, uva, olio, capponi e talvolta anche cera; tra questi tuttavia il grano
(27) A.S.VR., Monasteri maschili di città, Santa Anastasia, Instrumenti (1642-1652), reg.
14, c. 24 r.
(28) Ibidem.
(29) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1680, reg. 334, cc. 5-9.
(30) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1680, reg. 334, cc. 7-9. La lira veneta,
detta altrimenti trono, era suddivisa in soldi e denari, quindi 1 lira era pari a 20 soldi, 1 soldo
era pari a 12 denari, quindi 1 lira equivaleva a 240 denari.
(31) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1680, reg. 334. Il minale, unità di misura
usata per gli aridi, era pari a lt. 38,2. Il brento, unità di misura per i liquidi, equivaleva a circa
70,5 litri, cfr. A. Martini, Manuale di metrologia, Roma 1976, ristampa anastatica dell’edizione originale, Torino 1883. Un minale di frumento corrispondeva a circa kg. 28,2, cfr. G.
Borelli, Città e campagna in età preindustriale. XVI-XVIII secolo, Verona, Libreria Editrice
Universitaria, 1986, p. 179.
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rappresentava il prodotto prediletto. L’entità dei livelli variava da un minimo di 2
lire e 4 soldi ad un massimo di 297 lire e 2 soldi per una media di circa 47 lire,
quindi importi piuttosto bassi. In totale il gettito delle entrate derivante dai livelli
risultava, per l’anno 1680, pari a 6.768 lire 13 soldi e 8 denari (32).
Al momento delle affrancazioni – quando i debitori provvedevano ad estinguere i rispettivi debiti – il denaro poteva essere usato per pagare le spese, quelle
quotidiane di mantenimento dei frati, quelle eccezionali per le ristrutturazioni degli
immobili o di costruzioni nuove (come il dormitorio nel 1736), per saldare debiti,
o, nella maggior parte dei casi, veniva temporaneamente depositato al Santo Monte
di Pietà per essere alla prima occasione reinvestito in una nuova operazione di
prestito. Poteva accadere che tra un’affrancazione e un nuovo prestito passassero
solo pochi giorni di distanza (33). Secondo una politica di gestione contraria alla
mera tesaurizzazione del denaro, i Domenicani si adoperavano affinché questo
venisse investito in tempi rapidi e al meglio come riportato dal documento stesso
secondo cui i ‘‘livelli e legati affrancabili [...] in caso di affrancatione devono essere
di novo investiti’’. L’esempio del contratto stipulato in data 26 settembre 1642, ne
costituisce un’ulteriore conferma. Padre Francesco Marcegaglia, a nome del convento, diede alla nobile Lucrezia Moncelere Zocha, moglie del ‘‘dottor di medicina’’ Bonaventura Zocha, 500 ducati. La nobile in cambio cedette ‘‘tanta parte [50
campi] che ben vaglia ducati 500 dal grosso 31 per ducato della possessione arativa
e prativa con vigne e altri arbori e con case da patron e da lavorente’’ (34), che le
spettavano ‘‘in virtù di donazione irrevocabile’’ da parte del fratello Oratio Moncelere (35). La somma fu prestata ad un tasso del 6%, quando depositata sul Santo
Monte di Pietà ‘‘s’attrova ad utile del 3%’’ (36). I frati dunque, attraverso una
semplice mossa speculativa, riuscirono a guadagnare tre punti di rateo in più sulla
medesima somma di denaro (37).
A distanza di poco più di quarant’anni – nella polizza d’estimo del 1724 (38) – le
(32) Nella polizza del 1680 vengono indicati i prezzi unitari delle derrate prodotte nelle
proprietà, più precisamente, il frumento era valutato 15 lire venete il sacco, la granà 10 lire il
sacco, la segale 9 lire il sacco, il miglio 8 lire il sacco, l’uva 50 lire la botte, le fave 8-9 lire il
sacco, la seta 10 lire la libbra (libbra leggera), A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1680,
reg. 334.
(33) Afferma Renata Ago che ‘‘la modalità di pagamento più in voga [era] costituita
dalla compensazione tra debiti e crediti [...] è raro che nelle transazioni il denaro contante
svolga il ruolo prominente’’, R. Ago, Economia barocca cit., it. p. 59.
(34) A.S.VR., Monasteri maschili di città Santa Anastasia, Liber instrumentorum, reg.
15, c. 31 v.
(35) Ibidem, c. 31 r.
(36) Ibidem, c. 31 v.
(37) Questo impiego razionale del denaro era il riflesso di una visione finanziaria secondo cui il denaro, appunto, non doveva rimanere ‘‘otioso’’, cfr. G. De Luca, «Come i fiumi
che entrano nel mare e che poi escono e ad esso ritornano». Il pensiero sul commercio del denaro nella Milano borromaica», in Il Seicento allo specchio. Le forme del potere nell’Italia spagnola: uomini, libri strutture, Atti del Convegno omonimo, Somma Lombardo (VA), Castello
dei Visconti di San Vito, 6-8 settembre 2007, in corso di stampa.
(38) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1724, reg. 343.
‘‘DI SOLENNE E PRIVILEGIATISSIMO CREDITO’’: TECNICHE E STRATEGIE ...
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tipologie dei livelli aumentarono, quantomeno se si considerano tutte le accezioni
contrattuali del termine. Venne cosı̀ dispiegandosi, almeno dal punto di vista formale, una più articolata tassonomia le cui voci erano: i ‘‘livelli perpetui de denari’’, i
‘‘livelli e legati affrancabili’’, i livelli in natura e infine i livelli ‘‘inesigibili’’. I livelli
perpetui in denaro rappresentavano la categoria con il maggior numero di operazioni (48) però di modesta entità (in media 9 lire venete a livello), da cui i frati
percepirono complessivamente 437 lire e 1 soldo. Un secondo gruppo di cespiti era
costituito dai livelli e legati affrancabili a ragion del 6%, per i quali veniva indicato
chiaramente nella polizza, che, in caso di affrancazione avrebbero dovuto essere
reinvestiti. Contrariamente a quanto si verificava nella categoria dei livelli perpetui,
il gruppo dei livelli affrancabili al 6% vedeva tra i sottoscrittori numerosi esponenti
del patriziato veronese, come i marchesi Marc’Antonio Sparavieri, i marchesi Gio.
Carlo e fratelli Malaspina, la marchesa Lucrezia Zocca, il conte Tommaso Nichesola,
Nicola Pellegrini, Federico e Giuseppe Mandelli, i Serego, il conte Girolamo Giusti,
ecc. Un terzo gruppo era costituito dagli ‘‘affitti affrancabili’’ dai quali ‘‘si cavano’’ il
4 o 5% e che erano esenti da gravezze (39). Accanto al canone annuo veniva registrato anche il capitale erogato in ducati e la data dell’instrumento, ovvero dell’atto.
Più della metà di queste operazioni si fondavano su atti rogati nei primi decenni del
Settecento; il valore delle somme prestate risultava piuttosto elevato, coprendo una
gamma che andava da un minimo di 50 ducati prestati a tal Christian Cumerlo in
loco di Matteo Verità, ad un massimo di 3.166,5 ducati prestati al 4% al dottor
Giobatta Custoza (40). Alcuni di questi livelli derivavano da patti molto antichi come
quello di tal Moscaglia che nel 1724 pagava al convento un livello di 33 lire e 6 soldi
per un prestito di 100 chiesti nel 1543 (41). C’erano infine i livelli riscossi in natura
(complessivamente: 7,5 bacede di olio, 2 brenti di uva, 13 minali e 1 quarta di
frumento) e i livelli ‘‘inesigibili’’, ovvero quelli che, a causa di litigi, ‘‘lentezza di
garanzia’’ o altro ancora non si sarebbero più potuti incassare. Si trattava nello
specifico di 17 operazioni per un valore globale di 569 lire e 17 soldi (quasi il
10% del totale) che vedevano coinvolti diversi individui della nobiltà veronese,
tra cui, per citarne alcuni, i conti Marc’Antonio e fratelli Verità, Orazio Acquistapace, Leonel Sagramoso, i Giusti, il patrizio veneto Andrea Zalier e Giacinto Spolverini. In totale i redditi da capitale nel 1724 ammontavano a 6.296 lire e 17 soldi,
un valore leggermente inferiore alle 6.768 lire del 1680; allo stesso modo diminuiva
anche il numero delle operazioni finanziarie che passava da 172 a 131.
Nella polizza d’estimo del 1763 la classificazione delle entrate si articolava e
diversificava in modo ancora più dettagliato. Censi, livelli, legati e affitti venivano
suddivisi in base alla tipologia del canone riscosso, in denaro oppure in natura, ma
(39) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia Polizza 1724, reg. 343, c. 11 r. Il termine ‘‘affitto’’
veniva spesso usato come sinonimo di ‘‘livello’’. Esenti da decima erano ‘‘quei livelli stipulati
dagli ecclesiastici tra essi loro e con qualunque altra persona, sempre che sia allibrata a fuochi veneti, come prescriveva la Parte del Collegio dei Dieci Savi, 7 Maggio 1661’’; cfr.,
A.S.VR., Antico Archivio del Comune, b. 41, Regole per le reinvestite et affrancationi de’ capitali ad Pias Causas della città di Verona, f. 20 v.
(40) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia Polizza 1724, reg. 343, c. 12 r.
(41) Ibidem, c. 14 r.
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anche in base al tasso di interesse applicato. Sebbene tra la polizza del 1724 e
quella del 1763 intercorressero poco meno di quarant’anni, alcuni avvenimenti
importanti segnarono dei veri turning points con il passato. La città scaligera si
trovò al centro dell’annoso dibattito sull’usura che da questione locale divenne
ben presto un problema a dimensione europea. Oggetto dello scontro fu la pubblicazione nel 1744 del volume Dell’impiego del denaro di Scipione Maffei riguardante la liceità del prestito ad interesse (42). Si trattava di un tema spinoso che
tormentava la Chiesa già dai tempi medievali e che finı̀ per creare due principali
correnti di pensiero al suo interno: da una parte si schierarono i rigoristi e dall’altra i probabilisti (43). Durante l’età moderna il filone rigorista prevalse sul
secondo; in linea con il pensiero tomistico, di derivazione aristotelica, secondo
cui ‘‘nummus non parit nummos’’, il denaro era considerato sterile e la richiesta di
una somma anche poco superiore rispetto al capitale prestato, era considerato un
atto di latrocinio, nonché usura. La società, tuttavia, ai tempi del Maffei aveva
subito importanti trasformazioni e il marchese, uomo di profonda cultura e ampie
vedute, sapeva bene che la circolazione del denaro era fondamentale per la crescita economica di un paese; egli affermava dunque che ‘‘in un popolo il denaro
deve circolare per essere utile e non stare sepolto e questo si può solo ottenere col
prestito a tenue fitto’’ (44). Nel Settecento non si trattava più, come nell’antichità,
di anticipare denaro agli indigenti, che si trovavano cosı̀ esposti ai soprusi e alle
vessazioni dei ricchi, bensı̀ di scambi di denaro tra facoltosi, per lo più principi e
mercanti che dal commercio del denaro, ‘‘utilità ne ricavano molto maggiore’’ (45).
Maffei sosteneva, in particolare, che il contratto di mutuo ad un tasso di interesse
moderato non costituisse usura, soprattutto se tale denaro veniva scambiato tra
individui che possedevano beni (46). La linea rigorista trionfò e Maffei fu costretto
al silenzio e all’esilio forzato nella sua proprietà di Cavalcaselle, fuori le mura della
città (47). Tra i suoi più acerrimi oppositori figuravano alcuni dei frati domenicani (48). Nel 1745 con la pubblicazione dell’enciclica Vix pervenit di papa Benedetto XIV anche la Chiesa iniziò a stemperare i toni più estremisti e a riconoscere
la liceità del prestito entro limiti definiti; in quegli anni ebbe termine il periodo
‘‘rigorista’’ (49).
(42) Cfr. G. Borelli, Teoria e prassi dell’attività di prestito nei domini della Repubblica
Veneta al cadere del Settecento, in Studi in onore di Antonio Petino, vol. I, Momenti e problemi di storia economica, Catania, Università degli Studi di Catania, 1986, p. 337.
(43) P. Vismara, Oltre l’usura cit., p. 21.
(44) Citato in L. Simeoni, La polemica maffeiana cit., p. 373.
(45) Citato in G. Borelli, Teoria e prassi cit., p. 339.
(46) La posizione di Maffei riprendeva e ribadiva quanto espresso un anno prima della
pubblicazione del suo trattato dal giansenista Nicolaus Broedersen il quale aveva scritto,
‘‘non costituisce peccato né contro la carità né contro la giustizia prestare ai ricchi ad un tasso di interesse fissato dalla legge e dai consumi’’, B. Nelson, Usura e Cristianesimo. Per una
storia della genesi dell’etica moderna, Firenze, Sansoni 1967, p. 138.
(47) Cfr. G. Borelli, Teoria e prassi cit., p. 337.
(48) Cfr. L. Simeoni, La polemica maffeiana cit., p. 413.
(49) Cfr. P. Vismara, Oltre l’usura cit., p. 253.
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La complessità e la progressiva specializzazione che stava interessando il
mondo del credito emerse visibilmente anche dalla classificazione con cui furono
registrati i ‘‘frutti’’ da capitale nel documento fiscale del 1763 (50). La più precisa
definizione delle categorie dei redditi sembrava ricalcare il progressivo articolarsi e
stratificarsi di un sistema creditizio che, in età preindustriale, fondava la sua funzionalità ed efficienza sul ruolo catalizzatore di conventi, luoghi pii e confraternite
laicali, in grado di convogliare a sé uomini e capitali. Nella polizza del 1763 le
entrate si trovavano suddivise in due classi principali: i livelli in natura e i livelli in
denaro; questi ultimi vennero a loro volta ripartiti in sotto-categorie. I livelli perpetui in denaro erano complessivamente 20 per un importo totale di 180 lire
venete e 8 denari. I livelli, gli affitti e i censi affrancabili al tasso del 5 e 6%
riguardavano parimenti importi bassi (in media 20 lire venete); a questa categoria
appartenevano individui per lo più non titolati. Per quanto concerne la serie dei
censi al 4,5% vengono indicate a fianco le date di redazione degli atti da cui si può
rilevare il progressivo calo del rateo che dal 6% si porta su valori intorno al
4% (51). Le somme erogate in questi contratti erano piuttosto elevate ed interessavano somme che andavano da un minimo di 50 ducati prestati ai Picenini, fino ai
1.600 ducati dati in prestito alla Comunità di Tregnago o ancora ai 2.000 ducati
prestati ad Antonio e fratelli Ottolini Campioni. La provenienza dei capitali impiegati nell’attività di prestito era molto varia e si costituiva per lo più di affrancazioni precedenti, ma anche di legati e lasciti, in moneta o in immobili. Il 20
febbraio del 1745, ad esempio, i rettori del convento rogarono un instrumento
con il quale prestarono a Paolo e Valentino Pasquali 460 ducati – che rendevano
un affitto annuo di 128 lire e 7 soldi – di cui 380 derivavano dalla vendita di una
casa ‘‘pervenuta al convento’’, mentre 80 ducati dall’affrancazione di tal Giacomo
Tirabosco (52).
Diciannove erano i debitori che pagavano canoni in derrate, in particolare
frumento, olio, uva, capponi e cera, per un ammontare complessivo di circa 212
lire venete (pari a circa il 4% del totale). Per il grano il rapporto interesse/capitale
era normalmente 1 quarta di grano ogni 5 ducati.
In conclusione, dai livelli, censi, affitti, ecc. i frati percepirono nel 1763
un’entrata pari a 5.700 lire venete spalmate su 111 debitori. Emerge dunque che
ad una progressiva specializzazione delle operazioni di credito non corrispose un
relativo aumento delle entrate che, dalle 6.768 lire venete della polizza del 1680,
passarono alle 5.700 lire venete del 1763. Se diminuirono i livelli affrancabili non si
ridussero invece i livelli in natura e i livelli inesigibili. Questi ultimi al contrario
subirono un incremento, passando dalle 569 lire venete del 1724 a circa 960 lire
(50) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1763, reg. 349.
(51) G. Zalin, Denaro in entrata, denaro in uscita. L’attività creditizia dei «Paolotti»
scaligeri nel Settecento, cit., p. 474. Si confrontino inoltre questi dati con quelli rilevati da
Giorgio Borelli in Analisi della struttura patrimoniale di un monastero in età preindustriale,
in ‘‘Economia e Storia’’, 2, 1983, p. 225; vedi anche lo studio di M. Misté, L’attività finanziaria del convento di S. Domenico di Vicenza tra il 1750 e le soppressioni napoleoniche, in
‘‘Studi storici Luigi Simeoni’’, XLIV, 1994, pp. 9-21.
(52) A.S.VR., A.E.P., Santa Anastasia, Polizza 1763, reg. 349, c.nn.
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venete del 1763, quindi da una incidenza di quasi il 10% al 17% delle entrate
complessive in denaro del convento.
La fisionomia che caratterizzava la schiera dei debitori era molto eterogenea e
comprendeva al suo interno membri provenienti da diversi ceti sociali. Si trovavano gli umili, tra cui i contadini, che si rivolgevano ai frati per piccole somme che
servivano a comprare beni di prima necessità come sementi, oggetti per la casa,
utensili da lavoro, o ancora, per la creazione di doti; c’erano poi gli artigiani, i
commercianti e i mercanti-imprenditori i quali chiedevano aiuti finanziari per
l’acquisto di macchinari o materie prime costose (53). Ma soprattutto erano gli
esponenti dell’alto patriziato veronese a rivolgersi al convento domenicano per
ricevere denaro in prestito. Dall’esame delle polizze è emerso che i nobili costituivano dal 20 al 30% dei debitori, e che ad essi i frati prestavano circa il 50% del
denaro complessivamente erogato dal convento (54). Nel 1724 dall’aristocrazia veronese i frati percepirono circa 3.225 lire venete, le quali capitalizzate a valori che
andavano dal 5,5% al 6% danno un capitale erogato pari a 10.500 ducati. Secondo
quanto rilevato dal documento del 1763 risulta che i nobili versavano annualmente
circa 2.733 e 15 soldi che su un’entrata complessiva di capitali di 5.700 lire (pari a
9.351 ducati di capitale) corrispondevano, anche in questo caso, a poco più della
metà dell’intero gettito monetario.
I motivi per cui le famiglie del patriziato veneto stipulavano patti creditizi con
gli ecclesiastici sono diversi. Oltre ai tassi di interesse praticati, molto più convenienti di quelli applicati normalmente da prestatori privati o banchi ebraici, vi
erano altri fattori specifici ad allettare la nobiltà locale, tra cui la libertà di estinguere il debito ‘‘quando gli parerà e piacerà’’ (55). La formula secondo cui il
mutuante poteva redimersi dal debito ‘‘senza alcuna preffinizione di tempo’’ invogliava i nobili a preferire gli istituti religiosi rispetto ai privati o ad altri enti. In
realtà, la scelta di non esercitare pressioni sulla scadenza dei pagamenti andava
incontro anche alle necessità dei religiosi stessi che, come detto sopra, preferivano
assicurarsi una rendita annua piuttosto che accumulare patrimonio (56). Non erano
rari i casi di affrancazioni avvenute a distanza di secoli, con la restituzione della
(53) V. Chilese, Una città nel Seicento veneto cit., p. 328.
(54) Più precisamente i Domenicani ricevettero da membri titolati nel 1680 lire venete
2.065 su una somma complessiva di lire 6.768 (31%); nel 1724 lire venete 3.310 su un totale
di lire venete 6.296 (53%) e infine nel 1763 lire venete 2670 su una cifra globale di lire venete 5.700 (47%).
(55) Nel suo studio sugli istituti assistenziali trentini Marina Garbellotti rileva analogamente che ‘‘al contrario i prestatori privati preferivano entrare in possesso dei capitali a scadenze piuttosto ravvicinate e anche il Monte di Pietà di Trento, almeno fino al Settecento,
concedeva al debitore solo sei mesi per riscattare il proprio pegno ed in seguito dilazionò il
periodo a due anni’’, M. Garbellotti, Il patrimonio dei poveri. Aspetti economici degli istituti assistenziali a Trento nei secoli XVII-XVIII, in L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura di A. Pastore e
M. Garbellotti, Bologna, Il Mulino 2001, p. 211.
(56) P. Lanaro Sartori, Reddito agrario e controllo fiscale nel Cinquecento: la Valpolicella e Verona cit., p. 210.
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stessa somma di capitale ricevuta in origine allo stesso tasso di interesse per tutta la
durata del contratto (57). Infine il patto creditizio tra il convento e il patriziato
sigillava un rapporto di fatto già esistente tra i due gruppi sociali. È nota l’usanza
da parte delle famiglie titolate di mandare il proprio figlio cadetto o la propria figlia
in un convento o in un monastero; una strategia, sottolinea Pegrari, volta ad
‘‘ampliare la base della ricchezza di una famiglia nobiliare, per la quale collocare
un familiare in un monastero o in un convento può significare la gestione, nelle
forme più varie, del patrimonio ecclesiastico sia immobiliare che mobiliare’’ (58).
I dati rilevati, sebbene si riferiscano ad anni specifici e siano stati ricavati da
documenti per lo più di natura fiscale che, com’è noto, erano soggetti a possibili
manipolazioni, mostrano nel loro insieme il dinamismo e il profondo coinvolgimento nel mondo del credito del convento di Santa Anastasia. Da un lato, essi
rivelano la crescente partecipazione, tra Sei e Settecento, degli enti religiosi al
mercato del denaro urbano; dall’altro – con i circa 33.000 ducati prestati alla
nobiltà tra il 1680 e il 1763 – denotano la preminenza del patriziato veronese nelle
operazioni finanziarie dei cenobi, testimoniando ancora una volta il legame forte ed
inestricabile che univa i due corpi sociali, per cui il denaro sotto forma di livelli,
censi, affitti e legati fluiva all’interno di un circuito ben definito, che dal convento
lo trasferiva al palazzo e dal palazzo lo riportava nuovamente al convento.
(57) L’estinzione dei prestiti dopo periodi molto lunghi non era un fenomeno cosı̀ raro;
oltre al caso di tal Moscaglia visto sopra, si veda anche l’esempio rilevato da Giovanni Zalin
in cui i ‘‘Paolotti’’ di Verona, ossia i minimi di S. Francesco di Paola, fecero un prestito alla
famiglia Zanfretti di 100 ducati al 6% nel 1682 che furono restituiti solo nel 1780 senza variazioni del tasso e con la restituzione della stessa somma richiesta il secolo prima; G. Zalin,
Denaro in entrata, denaro in uscita, cit., pp. 469-470.
(58) M. Pegrari, La finanza e la fede. Le attività creditizie degli enti religiosi e laici nella Terraferma veneta. Il caso di Brescia (XVIII secolo), in Confische e sviluppo capitalistico, cit.,
p. 221.