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Maestri e Scuole di Architettura in Italia, Clean, Napoli 2011

L'attuale dibattito sulle tecnologie e sui materiali innovativi evidenzia la necessità di affrontare la progettazione in termini tecnologicamente consapevoli, in cui siano esplicitati, con chiarezza, il rapporto fra tecniche e progetto, il trasferimento delle informazioni fra gli operatori del processo edilizio, la finalizzazione delle risorse e le opportune garanzie per la qualità degli interventi. L'impiego di tecnologie innovative nel campo del recupero si confronta con la specificità degli interventi sull'esistente, in un delicato equilibrio fra le istanze della conservazione e quelle della riqualificazione appropriata, coerentemente con il valore culturale del patrimonio costruito. Da tempo si è sottolineato quanto i temi del recupero delle strutture in c.a. richiedano di essere affrontati secondo termini tesi a superare l'ambito legato prevalentemente a una risposta alla sicurezza strutturale, soddisfacendo, inoltre, le esigenze di salvaguardia di quei caratteri costruttivi e architettonici, che sono stati espressione di un modo di costruire e di concepire lo spazio, e le esigenze di benessere, fruibilità e risparmio di risorse. In tal senso l'impiego dei materiali compositi fibrorinforzati a fibra lunga è stato indagato mettendo in luce l'ambito di indagine dal quale emergono sia le specifiche modalità di lettura messe in campo per lo studio delle tecnologie ad alte prestazioni, sia le problematiche di carattere tecnico e culturale connesse alle azioni di ripristino e di retrofit per la funzionalità strutturale e per la salvaguardia dei valori della cultura tecnica delle costruzioni in calcestruzzo armato. Il testo propone soluzioni tecniche per gli interventi di confinamento e di placcaggio, istruzioni per la messa in opera e indicazioni operative per il controllo tecnico degli interventi, al fine di fornire un articolato quadro di strumenti di supporto al processo di progettazione e di realizzazione.

Theoria, Architettura, Città Maestri e Scuole di Architettura in Italia Un corso dibattito L’attuale ‘a creditisulle liberi’ tecnologie con il titolo e sui“Imateriali Maestri innovativi e le Scuoleevidenzia di Architettura la necessità in di affrontare progettazione in termini tecnologicamente consapevoli, in cui Italia” è statala l’occasione per mettere a punto, attraverso tre lectiones magistralis sianoorientata esplicitati, con chiarezza, rapportodell’architettura fra tecniche e progetto, trasferimento una ricostruzione delleil vicende italiana ildel Novecento, delle informazioni frache gli iloperatori processo edilizio, la finalizzazione delle a partire dall’ipotesi dibattitodel architettonico nel nostro Paese, soprattutto risorse e le opportune per la qualità degliininterventi. a cavallo della Secondagaranzie guerra mondiale, sia stato, larga misura, determinato L’impiego di propulsori tecnologie oinnovative da tre centri ‘Scuole’. nel campo del recupero si confronta con la specificità degli interventi sull’esistente, in un delicato equilibrio fra le istanze Tre - Milano, e Venezia e Roma - che ebbero in Ernesto Nathan Rogers, dellaScuole conservazione quelle della riqualificazione appropriata, coerentemente Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni le rispettive figure centrali di riferimento. con il valore culturale del patrimonio costruito. Il corso prima, e il libro oggi, partono dalladel volontà di inscriversi nella continuità Da tempo si è sottolineato quanto i temi recupero delle strutture in c.a. di quella ‘tradizione’, passando per una Teoria sulla architettura e la cittàlegato le cui richiedano di essere affrontati secondo termini tesi a superare l’ambito origini sono rintracciabili in quella stagione e che vuole oggi ancora costituire prevalentemente a una risposta alla sicurezza strutturale, soddisfacendo, inoltre, le unesigenze riferimento di salvaguardia in quelle e indi altre queiscuole, caratteri tra costruttivi cui quella napoletana e architettonici, in cui che il corso sono stati espressione ha avuto sede. di un modo di costruire e di concepire lo spazio, e le esigenze di fruibilità e risparmio risorse. In tal senso l’impiego materiali Lebenessere, Lezioni, affidate a illustri ‘eredi’didei Maestri - anch’essi divenutidei tali - sono compositi fibrorinforzati fibra lunga èsustato indagato mettendo in luce l’ambito Rogers, da Gianni Fabbri su Samonà, state tenute da AntonioaMonestiroli di indagine dal quale emergono siastate le specifiche modalità di lettura messe in da Franco Purini su Quaroni e sono introdotte da docenti - rispettivamente campo per lo studio delle tecnologie ad alte prestazioni, sia le problematiche Roberta Amirante, Fabrizio Spirito e Salvatore Bisogni - della Facoltà di di carattere tecnico e culturale connesse alle azioni di ripristino e di retrofit per Architettura di Napoli: nel loro complesso esse restituiscono un quadro la funzionalità strutturale e per la salvaguardia dei valori della cultura tecnica dell’apporto teorico metodologico, dei caratteri Scuole e dei modi delle costruzioni in calcestruzzo armato. Il testospecifici proponedelle soluzioni tecniche per -gli anche attraverso l’analisi delle opere paradigmatiche del ‘fare architettura’ interventi di confinamento e di placcaggio, istruzioni per la messa in opera diindicazioni alcuni dei più importanti italiana del secolo e operative per esponenti il controllodell’architettura tecnico degli interventi, al fine di scorso. fornire un articolato quadro di strumenti di supporto al processo di progettazione e di realizzazione. Mariangela Bellomo, architetto, ricercatore di Tecnologia dell’Architettura, svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Progettazione Urbana e di Urbanistica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sui processi di riqualificazione dell’edilizia residenziale con particolare riferimento agli interventi di retrofit tecnologico ed energetico. Valeria D’Ambrosio, architetto, dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura, svolge studi sulle tecnologie a basso impatto e sull’impiego di prodotti innovativi per il progetto architettonico presso il Dipartimento di Progettazione Urbana e di Urbanistica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dal 2002 svolge attività di ricerca nel campo delle tecnologie innovative dei materiali compositi fibrorinforzati per il recupero delle strutture portanti. euro 12,00 euro 13,00 TAC Maestri e Scuole di Architettura in Italia Copyright © 2012 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-213-2 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Colla n a Th e oria , Arch ite ttu ra , Città Una collana sulla Teoria dell’architettura fondata su basi razionali e non transitorie che riflette sui fondamenti della disciplina, sulle sue regole, sui suoi principî, sulla dialettica tradizione/ innovazione contenuta nell’insegnamento dei maestri in un rapporto ineludibile con le opere. Teoria intesa come “osservazione” e riflessione sui principia e sugli exempla , quali depositi di conoscenze e strumento di verifica e congiunzione tra theoria e praxis nel progetto dell’architettura e della città. Un punto di vista orientato e “realista” che, assumendola come dato di fatto, non registra o constata la realtà ma vuole produrre, criticamente, degli effetti su di essa, nel solco della scuola italiana che ha avuto in Aldo Rossi la sua guida e riferimento. Una ricognizione sui caratteri specifici dell’architettura intesa come “arte civile” volta alla costruzione e modificazione del reale, sedimentata nella più “alta costruzione umana” che è la città da contrapporre alla liquidità informe della infondata architettura dell’immagine e alla post-metropoli globalizzata di questi anni. Riflessioni e studi attorno all’architettura, capaci di rendersi intellegibili, di dichiarare con chiarezza i loro presupposti e di contribuire alla ricostruzione di un corpus non dogmatico ma continuamente alimentato dalla dialettica con l’”inerzia del reale”. Dire ttore Fritz Ne u m e ye r Indice 6 8 13 Professore ordinario di Teoria dell’architettura è direttore del Dipartimento di Storia e Teoria dell’Archiettura alla Technische Universität di Berlino. Com ita to Scie n tifico Gin o Ma la ca rn e Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana. È Preside della Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Da n ie le Vita le Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, ed è coordinatore del Dottorato in Composizione architettonica del Politecnico di Milano. Fra n ce s co Collotti Professore associato di Composizione Architettonica presso l’Università degli Studi di Firenze. È attualmente redattore di “Firenze Architettura”, membro del Comitato Scientifico di “Archi” e corrispondente dall’Italia di “Werk”. Ha insegnato al Politecnico Federale di Zurigo e presso la Facoltà di Architettura di Dortmund. An ton io Dia z De l Bo (Ton y Día z) Architetto, ha insegnato progettazione nella Facoltà di Architettura di Buenos Aires e nella Escuela Técnica Superior de Arquitectura de la Universidad Politécnica de Madrid. È stato inoltre visiting professor ad Harvard e in numerose università, anche italiane. La te oria 18 19 23 Erne s to Nathan Rog e rs e la Scuola di Milano In trod u zion e Roberta Amirante Le ctio Antonio Monestiroli 30 31 36 Gius e ppe Sam onà e la Scuola di Ve ne zia In trod u zion e Fabrizio Spirito Le ctio Gianni Fabbri 46 47 49 Ludovico Quaroni e la Scuola di Rom a In trod u zion e Salvatore Bisogni Le ctio Franco Purini 63 Le Ope re de i Mae s tri. Rog e rs / Sam onà / Quaroni Camillo Orfeo Coord in a m e n to s cie n tifico e d e d itoria le Fe d e rica Vis con ti Professore associato di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Re n a to Ca p ozzi Professore a contratto di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. in copertina BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers ), Torre Velasca, Milano, 1950/58 Nota de i curatori Pe rché in Archite ttura è ne ce s s ario s ce g lie rs i de i Mae s tri Renato Capozzi Rile g g e re og g i Rog e rs , Sam onà, Quaroni Federica Visconti 78 82 Ap p a ra ti Bibliografia di riferimento Indici 6 Nota d e i cu ra tori I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia Nota de i curatori Questa pubblicazione, che avrebbe anche potuto intitolarsi “La lezione dei Maestri”, raccoglie gli esiti del Corso a crediti liberi - tenutosi alla Facoltà di Architettura di Napoli nel 2009 - “I Maestri e le Scuole di Architettura in Italia”. L’iniziativa 1 tendeva a offrire, attraverso alcune lectiones magistralis , una orientata ricostruzione della vicenda dell’architettura italiana, a partire dall’ipotesi, qui completamente condivisa, - formulata dapprima da Massimo Scolari2 e avvalorata tra gli altri da Ignasi de Solà-Morales 3 - che il dibattito architettonico in Italia negli ultimi cinquant’anni sia stato, in larga misura, determinato da tre centri propulsori o ‘Scuole’. Tre Scuole - Milano, Venezia e Roma - che ebbero in Ernesto Nathan Rogers, Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni i rispettivi caposcuola. La terna dei tre maestri produrrà poi il terreno di coltura per la fondamentale sintesi operata da Aldo Rossi (in questa sede più volte evocato) che con la sua scuola, dopo tale generazione, ha, in maniera compiuta, precisato tali differenti ma complementari “tradizioni” attraverso la successione dei suoi scritti scientifici4 sino alla mostra “Architettura e Città” alla XV Triennale di Milano del 19735. Il corso ha inteso inoltre ricostruire l’apporto teorico metodologico, i caratteri specifici delle Scuole e i modi attraverso l’analisi delle loro opere paradigmatiche - del ‘fare architettura’ dei maestri affidandone il chiarimento a coloro i quali di quelle Scuole sono gli attuali, più illustri, esponenti ed eredi: Antonio Monestiroli, Gianni Fabbri e Franco Purini sempre introdotti da un docente napoletano (Amirante/Monestiroli; Spirito/Fabbri; Bisogni/Purini). Il libro contiene i testi delle lectiones , corredati da due saggi introduttivi nei quali si è provato a tematizzare alcune questioni di fondo emerse durante il corso e un approfondimento, in coda, sulle opere paradigmatiche dei maestri. Infine una ‘avvertenza’. Le immagini sono state inserite nei testi senza didascalie né commenti, come fotogrammi di un film: ‘racconto’ che accompagna la narrazione del testo. Molte di esse si riferiscono alle opere dei maestri, altre a specifici argomenti che i docenti invitati hanno trattato: le foto che ricordano momenti importanti di una storia o di una vita, le opere di ‘altri’ che con quelle dei maestri hanno una relazione evidente, le tante copertine di libri ‘importanti’ segnano, ancora una volta, l’architettura come racconto collettivo. 1. L’iniziativa ha poi avuto un seguito con inviti, nell’anno successivo, a giovani ricercatori italiani (I. Boniello, M. Caja, su Rogers e la Scuola di Milano introdotti da C. Piscopo; D. Nencini e F. Lambertucci su Quaroni e la Scuola di Roma introdotti da P. Scala; L. Amistadi su Samonà e la Scuola di Venezia introdotto da F. Visconti) per approfondire le opere dei Maestri e delle rispettive Scuole, con un’ultima lezione tenuta da P. Belfiore su Marcello Canino e Luigi Cosenza e la Scuola Napoletana introdotta da R. Capozzi e C. Orfeo. 2. M. Scolari, Avanguardia e nuova architettura , in AA.VV., Architettura Razionale , con saggi di E. Bonfanti, 3. I. de Solà-Morales Rubió, «Tendenza»: neorazionalismo e figurazione , in Id., Decifrare l’architettura. R. Bonicalzi, A. Rossi, M. Scolari, D. Vitale, FrancoAngeli, Milano 1973. 4. 5. «Inscripciones» del XX secolo, a cura di M. Bonino, Allemandi, Torino-Londra-Venezia 2001. Ci si riferisca tra gli altri a A. Rossi, L’architettura della città , Marsilio, Padova 1966; Id., Introduzione a E.L. Boullée, Saggio sull’arte [1780], Marsilio Padova, 1967 e Id., Scritti scelti sull’architettura e la città , a cura di R. Bonicalzi, Clup, Milano 1975. Sulla XV Triennale e la mostra “Architettura e Città” diretta da Aldo Rossi, oltre a AA.VV., op.cit., FrancoAngeli, Milano 1973, si segnala in questa stessa collana F. Visconti, R. Capozzi (a cura di), Architettura Razionale >1973_2008> , colloqui a cura di I. La Montagna, CLEAN, Napoli 2008. 7 8 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia Pe rché in Archite ttura è ne ce s s ario s ce g lie rs i de i Mae s tri Re n a to Ca p ozzi Inter cetera mala hoc quoque habet stultitia: semper incipit vivere Lucio Anneo Seneca 1 Il primo nodo problematico, oggetto di questo scritto, riguarda la risposta a una domanda apparentemente banale e retrò: «è necessario, in architettura, scegliersi dei maestri?» e soprattutto «perché?». Per rispondere a questi due interrogativi collegati forse basterebbe suggerire la lettura delle lezioni che seguono affidate ai ‘maestri recenti’ che, nel ricostruire il magistero dei loro rispettivi maestri, dimostrano in maniera eloquente l’asserto affermandone la validità non transeunte. Ma evidentemente è il caso di provare, anche in maniera didascalica e senza la pretesa di esaustività, a esplicitarne ancor di più le ragioni e il senso. Partiamo dal linguaggio, dai ‘termini’ che incorporano e dis-velano, come avverte Heidegger, nel loro significato2 la verità del proprio essere. Nelle ‘pratiche artistiche’3 come l'architettura, ma non solo in quelle, per ‘maestro’ si intende colui che a partire da un sapere, da una dottrina eminente, o da una acclarata abilità è in grado di trasmettere ad altri un patrimonio di conoscenze e di tecniche ad altri che, liberamente e volontariamente, vogliono apprendere. Nell’etimo magister, che rimanda a magis (più grande), si palesa ancor di più questa peculiarità del maestro di possedere in maniera più consistente, più rilevante e più consapevole di altri questo insieme di teorie e di tecniche - questo sguardo più profondo sul reale - che delineano un modus o meglio un metodo con cui operare criticamente nel mondo per trasformarlo in vista delle rinnovate umane necessità. Quindi nel significato originario si evidenzia come l’attività del professare, del docere , premette una relazione indissolubile tra maestro (scolarca) e allievo (scolaro) senza la quale non avrebbe senso alcun sistema di tradizioni e di esperienze da tramandare e trasmettere. Nietzsche nell’affermare che «chi è in tutto e per tutto un maestro prende sul serio tutte le cose soltanto in relazione ai suoi scolari persino se stesso» e che «la parte dell’umanità di un maestro è mettere in guardia i propri discepoli contro se stesso» sottolinea appunto tale stringente relazione non priva di conflitti, tradimenti e divaricazioni. Anche i tradimenti, le opposizioni, le trasgressioni - come ha chiarito Apollinaire 4 - sono impensabili senza una regola, senza una dottrina, senza un corpus disciplinare che solo un maestro può fondare e da cui poter progredire e avanzare. Ma se questi passaggi chiariscono sufficientemente sul piano generale la necessità stringente di avere dei maestri dicono ancora poco del perché in architettura - disciplina antica e nobile ma oggi troppo esposta all’ansia del nuovo e dell’inedito - tale scelta si renda più cogente e debba farsi prioritariamente 5 e continuamente. In un recente saggio6, inizialmente intitolato “Scegliersi dei maestri”, un altro ‘maestro recente’, Giorgio Grassi, ha risposto a questo interrogativo in maniera quanto mai chiara e convincente proprio ricorrendo al rimando a quegli Alte Meister, che il protagonista dell’omonimo romanzo di Bernhard osserva con l’ansia di “trovare l’errore”. Grassi opportunamente distingue due tipologie di maestri: quei maestri con cui abbiamo contratto un debito evidente per il nostro lavoro e il cui insegnamento «è tutto incluso nelle opere» e che sono da noi stati «riconosciuti facendo» e quei maestri il «cui insegnamento è difficile da definire» in cui «più che l’insegnamento [...] conta la posizione assunta, il confronto con gli altri [...] la scelta morale e poi certamente il Pe rch é in Arch ite ttu ra è n e ce s s a rio s ce g lie rs i d e i Ma e s tri punto di vista »7. I maestri del primo tipo sono riconosciuti per affinità e come fonte inesauribile di risposte che in fondo si sintetizzano in un patrimonio di esperienze e nello sforzo di costruire un linguaggio condiviso, quelli del secondo tipo sono scelti per la loro disciplina morale, per i valori che ostendono e per il particolare rigore del loro pensiero capace di definire un giudizio critico sul mondo. La ragione della scelta dei maestri è quindi innanzitutto l’ammirazione 8 del loro lavoro, della loro profonda riflessione sui fondamenti, da assumere come punto di riferimento in grado ogni volta di spiegare e orientare il nostro lavoro, per «aggiungervi elementi di certezza, cioè sicurezza»9. Tale impostazione rimanda a quella che Focillon chiamava famiglia spirituale in cui i maestri e la loro ricerca paziente si identificano con quelle «architetture di riferimento, quei punti fermi [...] che hanno per noi il carattere di risposte definitive e compiute nel campo delle forme architettoniche». Una scelta deliberata che «consente appunto a personaggi anche molto diversi e lontani nel tempo d’intendersi, di riconoscersi e di lavorare [...] fianco a fianco, uniti da obiettivi comuni e da una comune idea di lavoro e di ricerca nel campo delle forme»10. I maestri infatti da un lato hanno l’obbligo di fornirci una definizione dell’architettura, di scrivere un trattato teorico11, e dall’altro di far corrispondere a tale definizione una serie di conseguenze teoriche e pratiche che vanno sempre verificate, in primo luogo da loro stessi, nel loro fare, nelle opere. Architetture esemplari, non sempre dei capolavori perfetti, convocate ogni volta sincronicamente in una ‘teoria di esempi’ che destano la nostra ammirazione , per la costruzione di un insieme di soluzioni da cui muovere per la costruzione di un presente che non ha niente dell’inedito e dell’avanguardia, ma che si fonda sul riconoscimento del valore della tradizione e delle forme stabili che in essa si sono sedimentate. Le teoresi proposte e le corrispondenti “architetture certe/esatte”12 esemplificano assunzioni teoriche e pratiche , in una visione della teoria della progettazione che non è una astratta discussione su principî metafisici, quanto il riconoscimento di norme razionali del mestiere che partono dall’osservazione 13 delle opere, dal loro valore, dal loro significato essenziale e dalle risposte che esse hanno saputo dare a problemi concreti e immanenti dell’architettura e della città. Sin qui un ‘ragionamento a tesi’ che afferma la necessità ineludibile di riferirsi, nel nostro lavoro, a questo prezioso patrimonio di conoscenze da cui come dei «nani su spalle di giganti»14 ripartire ogni volta annullando in un certo modo la distanza del tempo che da loro ci allontana proprio perché la riflessione che essi ci donano, in quanto razionale e compiuta, si applica a problemi non transitori e a questioni decisive ancora per noi. Venendo allo specifico della ‘insolita vicenda’15 dell’architettura italiana proviamo in re a verificare la validità di tale posizione. Perché - soprattutto guardando alla attuale condizione globalizzata e liquida dell’architettura italiana ma non solo - parlare e approfondire figure (i tre ‘nuovi maestri’16) apparentemente così démodé ? Perché farlo convocando altrettanti maestri recenti? Perché l’invito è partito da giovani impegnati nell’università italiana a vario titolo? In fondo perché nel parlare di maestri, nello sceglierli o essere scelti da loro, partendo da una naturale e immediata affinità, si vuole innanzitutto ristabilire una tradizione e una identità cui sempre di più è necessario riconoscersi per arginare, per riscattare, la perdita di senso che avvolge il nostro operare e la nostra attuale condizione. Una condizione afflittiva in cui riferirsi a Palladio e Alberti, o a Terragni e Libera, o a Rogers, Quaroni e Samonà, per non dire a Rossi e alla sua opzione razionale, e quindi riflettere sulle loro opere assunte come exempla , sembra un «precario tentativo di attualizzazione»17 o peggio una nostalgica ripresa di stilemi o di teorie oramai ‘superate’. Ma proprio qui sta il punto: in architettura ha davvero senso parlare di ‘superamento’, di ‘inservibilità’ di riflessioni e di risposte così ampie e compiute forniteci da questi grandi maestri? Evidentemente no: il senso e il portato di questo patrimonio condiviso sta proprio nella possibilità di ristabilire un ‘patto’, ma anche un cimento con il 9 10 Pe rch é in Arch ite ttu ra è n e ce s s a rio s ce g lie rs i d e i Ma e s tri I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia passato. Una ‘sfida’ da mettere in opera soprattutto nella Scuola non in termini di insostenibili riproposizioni ma proprio recuperando quella tensione ideale che questi ‘punti di riferimento’ e queste concrete ‘lezioni di architettura’ ancora testimoniano, stimolando noi tutti a opporre alla inconsistenza e contraddittorietà del presente, un pensiero ancora ‘forte’18, una aspirazione alla generalità che possa costruire un futuro degno del nostro passato, del nostro retaggio. Come nella Matematica o nella Musica, allo stesso modo in Architettura il sapere si accumula e non smentisce quello precedente che diventa ‘leva’ per suoi ulteriori sviluppi e affinamenti continuamente da riferire, criticamente 19, alla condizione del presente. Tradizione, continuità e quindi identità, queste sono le chiavi di lettura di questo lavoro. In un recente film dei fratelli Taviani, Good morning Babilonia , i due protagonisti (scalpellini toscani eredi dei maestri comacini) agli inizi del Novecento emigrano in America per lavorare con il grande regista David Ll. Wark Griffith, tra i primi maestri dell’allora nascente settima arte. I due artigiani vengono più volte scherniti con luoghi comuni, offese e pregiudizi legati agli stereotipi che a quel tempo sovente etichettavano gli emigranti italiani. A un certo punto uno dei due fratelli, rivendicando la loro appartenenza a una cultura e una tradizione millenaria, afferma con fierezza e anche un po’ di retorica: «Siamo i figli dei figli di Michelangelo e Raffaello». Proprio in questo riscatto, ritrovando le loro radici, essi affermano la loro identità che è il presupposto per interpretare il nuovo mondo, la nuova arte e che li renderà in quella disciplina, ancora una volta, dei maestri. Un’analoga risposta, l’affermazione di una identità riconoscibile, riguarda noi che abbiamo promosso questa iniziativa, chi ha risposto al nostro invito ed ha riguardato i nostri recenti, nuovi e antichi maestri. L’orgoglio di rivendicare una costante primazia italiana nell’ambito della Teoria architettonica, in quella della composizione e della progettazione, è il presupposto che lega ‘generazioni e progetti culturali’20 anche molto distanti ma non per questo disgiunti. La ricerca di Ernesto Nathan Rogers non si spiega senza il rapporto con i Maestri del Movimento Moderno e con Gropius in particolare, o con le riflessioni filosofiche di Husserl o di Dewey, richiamato da Roberta Amirante, come allo stesso modo la ricerca di Antonio Monestiroli che riflette su Rogers, a sua volta, non si spiega senza il rimando a Mies e simmetricamente ad Antonio Banfi e Enzo Paci che in Italia, per primi, avevano tradotto e introdotto la lezione della fenomenologia. Ludovico Quaroni e il suo classicismo post-antico, allo stesso modo, non può essere compreso senza il riferimento al Barocco Romano, a Piranesi, come pure il suo allievo ‘mancato’ Franco Purini è debitore oltre che di Sacripanti (maestro del mestiere) e di Quaroni (maestro del pensiero), passando per Salvatore Bisogni, dello stesso Piranesi e delle sue intricate architetture d’invenzione. Giuseppe Samonà e la ‘sua’ Scuola di Venezia con la sua coraggiosa ‘apertura’ ai giovani migliori non si comprende se non riferendosi a certe opere di Perret e di Le Corbusier, come il lavoro dell’allora ‘giovane’ Gianni Fabbri, come del nostro Fabrizio Spirito, non è comprensibile senza la lezione di Samonà e senza la partecipazione al “Gruppo Architettura” guidato da Aymonino e Rossi che Samonà stesso aveva contribuito a fondare. La figura di Aldo Rossi, nella generazione successiva, in un certo senso, rappresenterà, coma sottolinea Tafuri21, un vero e proprio ‘caso’ nel senso che riassumerà e riformulerà in maniera ancor più forte e sistematica le ricerche dei tre maestri e delle tre scuole che essi avevano determinato e guidato. Rossi, infatti, come Kant risvegliato da un ‘sogno dogmatico’ da Hume, comporrà letteralmente i tre insegnamenti: il rapporto con la tradizione del moderno assieme a quello della “continuità” di Rogers esaltando la “tendenza” come tensione a un progetto unico nel trinomio coerenza-tendenza-stile; il nuovo modo di leggere la città e i fatti urbani che Samonà aveva inaugurato con L’urbanistica e l’avvenire delle città 22; la nuova incipiente dimensione multiscalare dei problemi della città contemporanea 23 e la nozione di progetto urbano - nettamente distinta dall’urbanistica - come emerge dalla 1a mozione al Seminario quaroniano di Arezzo. Rossi inoltre che, nella seconda metà del secolo scorso, ha ispirato e segnato fortemente il carattere e l’identità dell’architettura italiana proiettando la sua egemonia teorica sul piano internazionale è stato tra i maestri recenti quello che in maniera più problematica ha posto la questione del rapporto con gli allievi, spesso producendo più degli epigoni che dei continuatori. Del resto la sua riconosciuta autorità e influenza disciplinare non era scindibile, come pure egli stesso ha riconosciuto, da aspetti autobiografici e interpersonali. In tal senso mi piace ricordare una testimonianza di Gino Malacarne - che da vero allievo ha proseguito in termini non mimetici la lezione rossiana - il quale ricordando Rossi ha detto: «Aldo prima che l’architettura ci insegnava a stare al mondo». Forse proprio in questo vi è la necessità di scegliersi dei maestri, di studiarne le opere in quanto deposito di conoscenza, di usare la loro difficile e scomoda eredità 24 per comprendere e migliorare il mondo, il modus hodiernus in cui noi siamo. Proprio a partire da tale necessità noi, che maestri non siamo e forse mai lo saremo, abbiamo provato a ritessere quel fil rouge - da non recidere - quella linea che ci unisce alla nostra tradizione, a «quel che ci è stato tramandato ora»25, poiché come ci ricorda (rammentando a sua volta le parole del grande pittore Apelle) Plinio il Vecchio26 «Nulla dies sine linea ». Non un giorno senza tracciare una linea , usando ancora una volta la parole dei nostri maestri, non un giorno senza lavorare a quel «progetto unico»27 a quel «progetto [ancora] in corso»28. 1. «Lo stolto, tra i tanti difetti che ha, ha anche questo: che incomincia sempre a vivere» da L. Anneo Seneca, Epistulae morales ad Lucilium [I sec. d.C.], intr. di L. Canali, traduzione e note di G. Monti, cronologia a cura di E. Barelli, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1974, Libro II, Lettera 13, par 16. La citazione come è noto è ripresa da Aldo Rossi, nel seguente modo «Stolto è colui che comincia sempre punto e a capo e non svolge in modo continuo il filo della propria esperienza», in Id., Architettura per i musei [1966], in AA.VV., Teoria della progettazione architettonica , intr. di G. Samonà, Dedalo, Bari 1968. 2. È interessate notare come Confucio (Kǒngzǐ o Kǒng Fūzǐ) che letteralmente significa “Maestro Kong” abbia insistito molto nelle sue massime (Confucio, Massime , Newton Compton editori, Roma, 2005) sulla necessità - nel buon governo - di «ristabilire il significato autentico delle parole». Devo il ricordo di questa esigenza a Valeria Pezza che ringrazio. Cfr. V. Pezza, Scritti per l’architettura della città , a cura di C. Orfeo, FrancoAngeli, Milano 2011, p. 167. 3. Cfr. V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura , Einaudi, Torino 2008. 4. Guillaume Apollinaire infatti affermava che «per derogare si deve conoscere la regola» citato in C. de Seta, Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. 5. La scelta diventa prioritaria proprio come incipit al progetto nella Scuola. In tal senso si veda, ad esempio, il programma del Laboratorio di Progettazione Architettonica tenuto dall’amico Francesco Collotti e dal suo ‘Gruppo di Lavoro’ (http://fc-site.com/gruppolavoro.html) in cui, con piacere, si legge «Non crediamo nell’invenzione: con Loos ne abbiamo abbastanza del genio originale. L’allieva/o architetto deve scegliersi dei Maestri da cui imparare . Un’idea di costruzione non lontana dal concetto di ricostruzione . Per questa via impariamo a dichiarare fedeltà a un edificio o all’esperienza nel tempo della città senza per ciò stesso sentirci meno creativi. Architetti, rispettate i muri! (LC) resta ancora un buon motto per il nostro lavoro». Web site: http://www.progarch.unifi.it/upload/sub/COLLOTTI.rtf 6. G. Grassi, Antichi maestri_Old Masters , intervento al convegno internazionale “Leon Battista Alberti oggi: storia, conservazione, progetto”, Politecnico di Milano 19-20 maggio 1999, Unicopli, Milano 1999. 7. Id., op.cit., Milano 1999. 8. Valeria Pezza nel parlare dei suoi/nostri Maestri usa per questo l’espressione ‘esercizi di ammirazione’, cfr. Id., op.cit., FrancoAngeli, Milano 2011, p.299. 9. G. Grassi, op.cit., Milano 1999. 10. Id., “La questione della decorazione”, in Architettura e Razionalismo (1970), in Id., Scritti scelti. 1965-1999, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 63. 11. Non è un caso infatti che innanzitutto Rogers, Quaroni, Samonà, Aymonino e Rossi, ma poi anche Monestiroli, Fabbri, Purini, abbiano tutti adempiuto a quest’obbligo lasciandoci, ognuno a suo modo e in rapporto alle rispettive posizioni, delle chiare definizioni di architettura contenute in svariati scritti, spesso anche in forma di trattato teorico. 11 12 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia 12. Devo questa locuzione a Salvatore Bisogni, mio maestro, che ringrazio. 13 F.W. Otto, come ricorda Grassi, definisce appunto la Theoria , in accordo con l’etimo greco, come una «conoscenza superiore in cui comprendere e vedere sono la stessa cosa». 14. Bernardo di Chartres afferma: «Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti» citato in R. Riemen, Prologo a G. Steiner. Una certa idea di Europa (The idea of Europe), X Nexus Lecture, traduzione di Oliviero Ponte di Pino, prefazione di Mario Vargas Llosa, prologo di Rob Riemen, Garzanti, Milano, 2006, p. 23. 15. Cfr. F. Purini, La misura dell’architettura italiana , Laterza, Bari 2007 et AA.VV., Identità dell’architettura italiana , vol. 1 e vol. 2, Diabasis, Reggio Emilia, 2003-2004. 16. L’espressione ‘nuovi maestri’, qui usata estensivamente, già utilizzata da B. Zevi per la generazione dei vari Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Guido Canella, Roberto Gabetti, Vittorio Gregotti, Aimaro Isola, Luciano Semerani, (architetti accomunati dall’esperienza giovanile condotta nella redazione di “Casabella” e dalla volontà di mettere in crisi ogni dogmaticità del Movimento Moderno, dei suoi modelli formali come dei suoi presupposti etici) è ripresa nel titolo dello studio di G. Durbiano, I Nuovi Maestri. Architetti tra politica e cultura nel dopoguerra , Marsilio, Venezia, 2000. Si veda inoltre C. Quintelli (a cura di), Ritratti. Otto maestri dell'architettura italiana , CELID, Torino 2003. 17. Cfr. E. Vasumi Roveri, Aldo Rossi e «L'architettura della città». Genesi e fortuna di un testo, Allemandi, Torino 2010. 18. Sulla necessità di un ritorno al ‘pensiero forte’ si vedano gli articoli apparsi su “la Repubblica” nel mese di agosto del 2011 a firma di Maurizio Ferraris: Il ritorno al pensiero forte; Post moderni o neorealisti? L'addio al pensiero debole che divide i filosofi; A che punto è il pensiero debole, forte o esistenziale? Si veda inoltre sulla fine del postmoderno E. Docx, Addio postmoderno, ibidem , 3 settembre 2011. 19. Sull’opzione critica si veda V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma Bari 2004 et Th.W. Adorno, Parva Aesthetica , Feltrinelli, Milano 1979 ora a cura di R. Masiero, Mimesis, Milano 2011. 20. Cfr. F. Purini, Generazioni e progetti culturali. Atti della Giornata di studio (Facoltà di Architettura Valle Giulia, 6 dicembre 2005), a cura di D. Nencini, Gangemi, Roma 2007. 21. M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino 1986 (ed. ampliata del saggio omonimo in Storia dell’arte italiana. Il Novecento, Einaudi, Torino 1982). 22. G. Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città negli stati europei, Laterza, Bari 1959. 23. L. Quaroni, La Torre di Babele , intr. di A. Rossi, Marsilio, Padova 1967. 24. Sulla questione della/e eredità Derrida, su presupposti Benjaminiani, ha riflettuto con profondità in vari suoi scritti. In particolare nel libro dialogo con Elisabeth Roudinesco - intitolato, per l’appunto, Scegliere la propria eredità - si legge: «[…] occorre innanzitutto sapere e saper riaffermare ciò che viene prima di noi - e che dunque ci troviamo a ricevere prima di poterlo scegliere - ma anche riuscire a comportarci nei confronti di ciò in modo non condizionale […] Riaffermare - che cosa intendiamo con questo termine? Non soltanto accettare questa eredità ma darle un nuovo impulso mantenendola in vita […] un’eredità non si raccoglie mai, non forma mai un tutt’uno. La sua presunta unità, se ce n’è, non può consistere che nell’ingiunzione di riaffermare scegliendo» e ancora di come bisogna «riuscire a concepire la vita stessa a partire dall’idea di eredità» poiché «solo un essere finito può ereditare» (J. Derrida, E. Roudinesco, Quale domani? , Bollati Boringhieri, Milano 2004). Ritornando sul tema, Derrida afferma che «si eredita sempre a partire da un segreto» e che «bisogna assumere l’eredità del marxismo, assumere quel che è più vivo, cioè, paradossalmente, quel che continua a mettere ancora in cantiere la questione della vita, dello spirito e dello spettrale, la-vie-la-mort al di là dell’opposizione tra la vita e la morte. Bisogna riaffermare questa eredità, trasformandola anche radicalmente, se sarà necessario» (J. Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 73). 25. Si veda in tal senso G. Steiner, Lessons of the Masters , Charles Eliot Norton Lectures 2001-2002, trad. it. Id., La lezione dei maestri, Garzanti, Milano 2004, p. 10. 26. Gaius Plinius Secundus, Naturalis historia , 23-79 d.C. 27. Espressione usata da Aldo Rossi nella sua Introduzione , in AA.VV., Architettura Razionale , FrancoAngeli, Milano 1973, p. 13-22. 28. Analoga e ‘incoraggiante’ espressione - “descrizione di un progetto in corso” - è proposta da Antonio Monestiroli a commento della foto di gruppo scattata alla XV Triennale e riedita in esergo alla sua monografia: M. Ferrari (a cura di), Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura , Milano, Electa, 2001. Il riferimento a questa ‘felice promessa di futuro’ è contenuto nel breve saggio G. Durbiano, Il movimento della «Tendenza» e l’invenzione della autonomia disciplinare , in F.B. Filippi, L. Gibello, M. di Robilant (a cura di), 1970-2000. Episodi e Temi di Storia dell’Architettura , Celid, Torino 2006. Rile g g e re og g i Rog e rs , Sa m on à , Qu a ron i Rile g g e re og g i Rog e rs , Sam onà, Quaroni Fe d e rica Vis con ti […] riprendere alcuni punti fermi …] che non si riferiscono a valori di particolari momenti ma a quelli essenziali e persistenti che caratterizzano la continuità dell’architettura. Lodovico Belgiojoso1 Come - ma soprattutto perché - rileggere oggi l’insegnamento di quei maestri che hanno segnato una stagione ‘importante’ dell’architettura italiana? A questo interrogativo, come è ovvio, chi ha ideato e partecipato alla organizzazione del Corso “I Maestri e le Scuole di Architettura in Italia”2 i cui contenuti sono documentati in questo libro - è convinto esistano risposte certe e convincenti; nonostante ciò è probabilmente necessario e opportuno rendere esplicite le motivazioni sulla base delle quali il corso è stato programmato e costruito. Il Come . Lectiones magistralis , certamente, inserite però in un vero e proprio corso perché c’è qualcosa che ‘tiene insieme’ le lezioni su Ernesto Nathan Rogers, Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni. Dal punto di vista storico-critico il nesso che lega il pensiero e l’opera di questi maestri è stato ben messo in evidenza da Ignasi de Solà-Morales che, nel suo saggio Tendenza. Neorazionalismo e figurazione 3, ha sostanzialmente individuato nella Triennale di Milano del 1973 e nella figura di Aldo Rossi il punto di sintesi di un ragionamento teorico sulla Architettura svolto in tre Scuole - Milano, Venezia e Roma - cui corrispondono altrettante figure di riferimento: Rogers, Samonà e Quaroni appunto. Una tesi cui si sente di poter dare piena adesione nella convinzione che esista un sistema di nessi che tiene insieme alcune vicende - pur prossime nel tempo anche se geograficamente distanti - ma soprattutto che questo legame possa essere intessuto ancora sino all’attualità e oltre. Il Perché . Occorre, sul punto, una considerazione preliminare. L’idea del Corso è nata internamente alla disciplina della Composizione Architettonica e Urbana: la convinzione è che la ‘lezione’ dei maestri possa costituire un imprescindibile contributo alla pratica, nell’oggi, del progetto di architettura e, parimenti, al suo insegnamento. Per tale motivo sono stati invitati a parlare dei loro maestri-architetti altrettanti docenti4 che praticano il progetto di architettura, nelle Scuole e nel mestiere, rivolgendo lo sguardo non al passato ma al presente e «…a un presente cui bisogna tornare a guardare non come un momento autonomo, staccato dall’evoluzione, bensì come parte integrante di una tradizione da riscoprire e di cui riappropriarsi».5 Ecco dunque che gli interrogativi sul Come e sul Perché trovano sintesi nell’unico obiettivo - del Corso e delle nostre ricerche - indirizzato a ragionare sulla attualità dell’insegnamento dei nostri maestri ricordando - tra le altre - proprio la considerazione di Aldo Rossi per il quale «L’architettura razionale non è una visione estetica o morale, un modo di vivere, ma l’unica risposta sistematica ai problemi posti dalla realtà».6 Così, nello spirito di ‘adesione’ e di ‘attenzione’ alla realtà, si è guardato all’insegnamento di Rogers, Samonà e Quaroni, all’interno del Corso, soprattutto per riflettere sullo stato presente dell’architettura. Un’architettura - e parlo non di quella che molti di noi provano a portare all’interno delle Scuole ma soprattutto di quella che oggi, in buona parte, costruisce concretamente le nostre città - che è forse oggi molto più ‘spettacolare’ che non nel passato, ma che appare come un “arco costruito senza centina”7, cioè sostanzialmente un’architettura senza Teoria: senza che ci sia, a supporto della sua ‘necessità’ e della sua ‘durata’, una idea di architettura condivisa. Proprio a partire da tale considerazione, è apparso utile ri-portare all’interno della Scuola l’insegnamento di chi ha invece realmente lavorato sulla ri-fondazione di uno statuto disciplinare dell’architettura e sull’architettura come pensiero trasmissibile. 13 14 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia Centrale nel pensiero di Rogers è la questione della esperienza, il legame tra le forme e la vita che gli deriva dallo studio e dalla condivisione del pensiero di Kubler, Focillon, Husserl. Ancora: la questione del metodo, nel legame elettivo di Rogers, tra i Maestri del Movimento Moderno, in particolare con Walter Gropius, e, naturalmente, il concetto di continuità e tradizione. È in quest’ultimo che si materializza la questione di un rapporto con la storia essenziale per il progettista: Rogers insegnava, all’inizio della sua esperienza al Politecnico di Milano, Caratteri Stilistici e Costruttivi dei Monumenti e lo faceva chiedendo ai suoi studenti il ridisegno dei monumenti di tutte le epoche non come riporto meccanico ma come “comprensione analitica e cosciente”. «…particolarmente per l’architettura il penetrare le strutture, il possederle, il variarle, è già fare, sicché esaminare un monumento […] conduce ben al di là di una constatazione metrica spazio-temporale perché conduce chi compie tale esperienza alle soglie della creazione compositiva»8 - ha scritto Rogers - sottolineando il valore dinamico ed evolutivo della Tradizione e come questa possa e debba essere ‘materiale per il progetto’: come egli stesso ha dimostrato, dalla teoria alla pratica, nel progetto per la Torre Velasca. A tal proposito non posso non pensare, tendenziosamente ma fondatamente, che l’aforisma per il quale il progetto della Torre Velasca sarebbe derivato dalla suggestione ottenuta dalla vista della ‘apertura delle braccia verso il cielo’9 di Peressutti possa, al più, corrispondere alla prima ipotesi di progetto della Velasca mentre la versione realizzata non può non farsi discendere da un lavoro - attento, difficile e quindi ‘lento’ di interpretazione dei caratteri propri della architettura lombarda che ha il suo fondamento nella teoresi sviluppata da Rogers su continuità e tradizione. A proposito dei nessi e dei legami, talvolta a distanza, tra le elaborazioni di Rogers, Samonà e Quaroni, è interessante notare la prossimità tra quanto appena detto a proposito del modo di Rogers di guardare alla storia dell’architettura e quello che Egle Trincanato scrive sull’insegnamento di Giuseppe Samonà allo IUAV ricordando che «Samonà incominciò a rivoluzionare questo metodo accademico, facendo lezioni ex cathedra su qualcosa che non era però affatto la storia dell’arte ma la storia dell’oggetto architettonico, un insegnamento della storia dell’architettura toccata con mano, oggetto per oggetto. Si facevano rilievi diretti mentre si dimostrava, attraverso le lezioni, quale valore avesse l’unità dell’edificio dal punto di vista della scena urbana. Non era assolutamente storia dell’arte era proprio uno studio dell’organismo architettonico».10 Si tratta cioè di un uso della storia come materiale per la conoscenza della città e quindi per il progetto, si tratta di uno studio strutturalista e non cronologico della storia, che può apparire oggi forse scontato ma che era certo rivoluzionario per l’epoca all’interno del percorso di rifondazione disciplinare che i ‘nostri’ portavano avanti con forza e decisione. Ciò che, dal mio punto di vista, è particolarmente importante sottolineare è che, nella elaborazione teorica di Samonà che conduce alla unità architettura-urbanistica, è l’architettura che progressivamente guadagna terreno e spazi via via più ampi: l’architettura diventa, nel filone degli studi urbani, lo strumento di conoscenza della città mentre il progetto di architettura si impadronisce della grande scala e diventa strumento di controllo del territorio. Questo, di fatto, significa dire che esiste una sola disciplina - che si chiama Architettura - e che i suoi strumenti si applicano a tutte le scale di intervento: concetto peraltro, anche in questo caso, che ‘vive’ sin dall’albertiano testo per il quale «…la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città…».11 Poi, certo, in quella che fu una stagione di grandi concorsi legati proprio al tema della ‘grande dimensione’, in cui per la prima volta forse la città italiana compatta si confrontava con il problema della espansione delle realtà urbane nel territorio, la sperimentazione di Samonà ebbe il merito di riflettere, attraverso il progetto a un livello teorico, sulle problematiche connesse alle nuove istanze poste dalla contemporaneità anche se, talvolta, forse il ‘limite’ di ‘rinunciare’ ad approdare alla definizione del carattere architettonico, aprendo la strada a quello che considero uno degli ‘equivoci’, delle negative derive, del ragionamento sul progetto urbano: e cioè che esso sia un passaggio intermedio Rile g g e re og g i Rog e rs , Sa m on à , Qu a ron i tra l’urbanistica e l’architettura. Tornano le medesime riflessioni: un’unica architettura fatta di più case diceva Samonà essere la città - la rossiana città come opera d’arte collettiva in buona sostanza - e parlava pure di un rapporto con la storia per il progettista da costruire attraverso l’appropriazione delle opere del passato, in vista di un progresso, ma anche, nel caso di Samonà, di una verifica e di un avanzamento lento e consapevole della teoria. Pur nella minore ‘limpidezza’ delle sue elaborazioni, le tematiche tornano anche nel pensiero e nelle opere di Ludovico Quaroni. Di Ludovico Quaroni si è sempre infatti parlato come di una personalità complessa e della sua vita, professionale e accademica, come di una vicenda caratterizzata da indecisioni e ripensamenti. Tuttavia, anche nel caso di Quaroni, la città della storia è ancora una lezione (come lo è la sua città natale di Immagine di Roma 12 appunto) che ci insegna che «La progettazione di un edificio come di una città non soltanto teneva conto degli aspetti funzionali, tecnologici ed estetici delle singole parti e dell’insieme, ma componeva tali aspetti in modo da realizzare un immediato, diretto, pregnante rapporto fra loro […] Forma, mezzi e contenuti non erano cose lontane l’una dall’altra, quasi nemiche; erano, insieme, l’invenzione architettonica e lo “specifico” architettonico»13 e determinavano la ‘bellezza’ della città e dell’architettura che Quaroni non ritrova più nella città contemporanea che su questo rapporto ha smesso di lavorare. Di questa lezione Quaroni si fa invece interprete e, senza indugi, utilizza la storia dell’architettura come ‘materiale’ per il progetto, ad esempio, nell’edificio-servizi dell’Opera di Roma: disegnando una pianta ipostila e conducendo, anche attraverso le varie versioni del progetto, un colto lavoro di rielaborazione - studio, analisi e progetto - sugli ordini architettonici. La sintesi rossiana che, come detto, è stata proposta tra gli altri, da Solà Morales 14 è quindi un possibile punto di ‘chiusura’ di una stagione e segna la messa a punto, se non definitiva quanto meno stabile, di una Teoria sull’architettura e sulla città fondata sulla necessità di un processo di rifondazione disciplinare che ponga grande attenzione alla storia dell’architettura; su una concezione strutturalista applicata allo studio dell’architettura a partire dalle caratteristiche fisiche e materiali della città; sulla fede nel valore dell’esperienza e quindi nel rapporto con la realtà; su una definizione di progetto urbano che non è semplicemente una scala intermedia tra l’urbanistica e l’architettura ma un modo differente di guardare al progetto come sistema di nessi, interni e con l’esterno, attraverso lo spazio e, analogicamente, attraverso il tempo; sull’idea della città, infine, come opera d’arte collettiva. E tutto questo si ritrova ‘fissato’ nei testi fondamentali di Teoria di Aldo Rossi, tutti editi nell’arco di due anni: L’architettura della città 15, Architettura per i Musei 16 e Introduzione 17 a Architettura. Saggio sull’arte di Étienne-Louis Boullée. L’argomento Rossi richiederebbe un approfondimento complesso da trattare e che esula dagli interessi di questo testo, dedicato ai maestri di una generazione immediatamente precedente, tuttavia si è ritenuto necessario introdurlo, seppure sinteticamente, perché è proprio attraverso il pensiero teorico di Rossi che appare plausibile ipotizzare di individuare il portato di una esperienza tanto vasta e ricca nella attualità. Si potrebbe forse ricorrere ad alcune ‘parole-chiave’ che tornano insistentemente nei ragionamenti sin qui condotti sui nostri maestri e che sono invece oggi forse - e purtroppo - diventate ‘fuori moda’. Architettura - Storia - Progetto: ci sono ancora oggi queste componenti, e in quale senso, nelle operazioni di trasformazione urbana? Se il concetto di Storia si lega a quello della specificità delle città bisogna in tal senso constatare una crisi: le città del mondo tendono sempre più ad assomigliarsi tutte. Non c’è quindi Progetto, qualora a questa parola si attribuisca il significato di una operazione strategica che contiene in sé una predisposizione alla lettura e alla modificazione di un sistema di relazioni esistenti in un luogo. Quindi, in questo quadro, l’Architettura non può che essere autoreferente e proporre oggetti che non riescono a ‘costruire’ città e città che appaiono 15 16 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia come deregolate sommatorie di oggetti architettonici. Come ri-semantizzare invece, all’interno di una linea di pensiero - quella che è stata analizzata - i tre termini - Architettura, Storia, Progetto in vista della costruzione di strumenti e metodi per la trasformazione urbana, oggi e al positivo? L’Architettura deve tornare a farsi esperienza ‘civile’ richiamando immediatamente in causa il rapporto con la città che è il luogo e la rappresentazione, ricordando Heidegger18, del senso dell’abitare collettivamente l’uomo la nostra terra. La Storia deve essere intesa non in senso cronologico ma rappresentare, per l’architetto, l’insieme delle forme che hanno assunto il carattere della certezza e della permanenza e quindi, nella città, essa è lo scenario vivente e critico che serve perché l’Architettura sia espressione del suo tempo ma anche continuità dialettica con il passato. Il Progetto è l’azione che fa i conti con tutto ciò e che, come la stessa etimologia ci ricorda, proietta in avanti qualcosa ma questo qualcosa, nel nostro caso, vuole essere legato a quanto elaborato da una cultura italiana - quella alla quale è stato dedicato il Corso I Maestri e le Scuole di Architettura in Italia - che ha ragionato, in termini compositivi, sulla possibilità di coniugare la razionalità architettonica - e quindi la trasmissibilità della disciplina - con l’espressività delle forme e, in termini urbani, sulla città come condizione della architettura nella quale la storia assolve al compito di sviluppare il tema della continuità dialettica con tutto ciò che è alle nostre spalle e costituisce la nostra tradizione. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. Così, in occasione della prima pubblicazione di Gli elementi del fenomeno architettonico, L. Belgiojoso, Testimonianza su Ernesto Rogers , in E.N. Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, a cura di Cesare de Seta, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006. I Maestri e le Scuole di Architettura in Italia , Corso a crediti Liberi promosso da Renato Capozzi, Camillo Orfeo e Federica Visconti nell’anno accademico 2008-2009, nella Facoltà di Architettura della Università degli Studi di Napoli Federico II (corso di Laurea in Architettura Magistrale 5UE - Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura - Dottorato di Ricerca in Progettazione Urbana). I. de Solà Morales, Tendenza. Neorazionalismo e figurazione, in Id., Decifrare l’architettura. «Inscriptiones» del XX secolo, Allemandi, Torino 2001. Le lezioni del corso sono state tenute da Antonio Monestiroli (su Ernesto N. Rogers), da Gianni Fabbri (su Giuseppe Samonà) e da Franco Purini (su Ludovico Quaroni) rispettivamente introdotti da Roberta Amirante, Fabrizio Spirito e Salvatore Bisogni. V. Magnago Lampugnani, Modernità e durata . Proposte per una teoria del progetto, Skira, Milano 1999. A. Rossi, Introduzione , in H. Schmidt, Contributi all’architettura 1924-1964, a cura di Aldo Rossi, FrancoAngeli, Milano 1974. C. Martí Arís, La cèntina e l’arco, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2007. E.N. Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, a cura di Cesare de Seta, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006. «Come è nata l’idea della Velasca? Forse da un gesto di Peressutti, che un giorno ha aperto le braccia verso il cielo» è il testo dell’aforisma attribuito a Rogers in G. Longobardi, L’architettura non è un Martini. Aforismi del moderno, Mancosu, Roma 2009. E.R. Trincanato, Giuseppe Samonà e l’Istituto di Architettura di Venezia , sta in trascrizione dell’intervento alla Fondazione Scientifica Querini Stampalia del 1 novembre 1989. L.B. Alberti, De Re Aedificatoria , a cura di P. Portoghesi, Il Polifilo, Milano 1996; traduzione del testo latino di G. Orlandi. L. Quaroni, Immagine di Roma , Laterza, Roma-Bari 1975. L. Quaroni, La torre di Babele , Marsilio, Padova 1967. I. de Solà Morales, op.cit., Allemandi, Torino 2001. A. Rossi, L’architettura della città , Marsilio, Padova 1966. A. Rossi, Architettura per i musei, in G. Canella, M. Coppa, V. Gregotti, A. Rossi, A. Samonà, G. Samonà, L. Semerani, G. Scimemi, M. Tafuri, Teoria della progettazione architettonica , Dedalo, Bari 1968. A. Rossi, Introduzione , in E.L. Boullée, Architettura. Saggio sull’arte , Marsilio, Padova 1967. M. Heidegger, Costruire abitare pensare , in Id., Saggi e discorsi (a cura di G. Vattimo), Mursia, Milano 1976. Ern e s to Na th a n Rog e rs e la Scu ola d i Mila n o La te oria 17 18 Ern e s to Na th a n Rog e rs e la Scu ola d i Mila n o Erne s to Nathan Rog e rs e la Scuola di Milano Introduzione Rob e rta Am ira n te La lezione che Antonio Monestiroli ha dedicato alla figura di Rogers è stata frutto di un lavoro ‘intenso’: senza questo lavoro - mi ha confessato - non gli sarebbe stato facile parlare di Rogers, di cui pure molti hanno parlato negli anni sentendosene discepoli, e dalla cui presunta ‘eredità’ non pochi si sono detti distanti in anni recenti. Di Rogers in questo anno in cui se ne discute molto - il centesimo dalla sua nascita - dunque certamente Monestiroli parla con cura : la mia ‘nota introduttiva’ alla sua lezione si limita a spiegare con quale particolare attenzione lo ho ascoltato. Ho partecipato a questa iniziativa in una duplice veste: non solo come docente del Corso di Composizione Architettonica integrato con quello di Teorie della ricerca architettonica contemporanea (ai cui docenti si deve la costruzione del ciclo di lezioni sui ‘maestri’ e sulle scuole di architettura) nel Laboratorio del primo anno ma anche come Presidente di un Corso di Laurea magistrale in Architettura. Sottolineo questa seconda veste istituzionale perché il mio interesse per Rogers oggi è legato soprattutto al suo ruolo, decisamente indiretto ma non per questo meno significativo, di ‘costruttore di scuole di architettura’. Di qui il mio plauso particolare alla iniziativa, che mette al centro appunto la questione delle Scuole; e di qui anche la piena condivisione della scelta di Monestiroli - e non di altri che di Rogers sono stati allievi, in un certo senso, più diretti come commentatore di Rogers. Monestiroli può parlare di Rogers cogliendone la maestria da una prospettiva meno egocentrica, più ampia, capace di rintracciare e mettere in luce relazioni più complesse e più reticolari: le sole, io credo, che possano dar conto della capacità di Rogers di costruire una scuola. Sulla natura e sulle connotazioni di questa sua capacità proverò a dire qualcosa, con una tonalità leggermente imprudente , che muove da una sorta di implicita consonanza degli intenti più che da una conoscenza approfondita dei fatti. Rogers nasce a Trieste nel 1909 e muore a Trieste dopo soli sessanta anni segnati da una malattia che gli procurava una sorta di invecchiamento precoce e progressivo. Rogers nasce e muore dunque nella stessa città e si fa seppellire lì, disegnandosi da solo un sepolcro che somiglia a un tavolo da disegno con una strana inclinazione e riconoscendo dunque, fino alla fine, la sua ‘triestinità’. Eppure pochi potevano dirsi, più di lui, ‘cittadini del mondo’. Ernesto Nathan è ebreo, figlio di un inglese e di una semi-tedesca, ha studiato in Svizzera, è stato deportato in Francia parlava quattro o cinque lingue correntemente - e, certamente non per caso, decide di radicare il suo operare a Milano, la più europea delle città italiane. Lavora lì come architetto, come 19 20 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia pubblicista, come critico e, seppure dopo molte difficoltà e per un tempo relativamente breve, come professore al Politecnico; dentro quella ‘scuola di architettura’ di cui, poi, sarà riconosciuto tra i fondatori. Non sarò io a raccontarvi perché, è compito di Monestiroli: a me piace di più provare a rintracciare l’eredità che Rogers ha lasciato a chiunque voglia o debba occuparsi di ‘una’ scuola di architettura (nella forma più o meno canonica - senza lettere maiuscole - che questo termine assume nel tempo) per costruirla, ricostruirla o soltanto per non lasciarla morire. Un pezzo di questa eredità è legato al suo rapporto con Gropius, il suo preferito tra i ‘pionieri’ del Movimento Moderno (del resto è un fatto reciproco: anche Rogers sarà tra i preferiti di Gropius quando dovrà segnalare i tre possibili prosecutori della sua attività ad Harvard). Gropius è il fondatore della Bauhaus, e la Bauhaus non è solo un esempio di scuola democratica - che traduce in materia concreta (anche attraverso le forme e i metodi dell’insegnamento) quella idea di crogiuolo di democrazia di cui parlava Eliot - ma è anche un luogo in cui la disciplina viene pensata come ‘integrale’ e non come ‘sommatoria’ di conoscenze: «la nostra mira più alta è quella di produrre uomini capaci di concepire una totalità, anziché lasciarsi troppo presto assorbire nei canali angustissimi della specializzazione, il nostro secolo ha prodotto il ‘tipo’ dell’esperto in milioni di esemplari, facciamo posto, ora, agli uomini di ampia visione». Fabrizio Spirito ha scelto questa frase come “epigrafe” della declaratoria del corso di laurea quinquennale napoletano di cui è stato il principale fondatore. Edgar Morin, a proposito dei modelli formativi, scrive cose non molto diverse nel suo saggio La testa ben fatta 1 il cui titolo riprende un’espressione di Montaigne …Corsi e ricorsi di vichiana memoria? Beh, non proprio: perché allora si parlava di totalità e oggi, invece, di complessità…(e, per esempio, non è ininfluente che oggi, anche a Napoli, la laurea generalista conviva con corsi che lavorano invece alla formazione di specialismi diversi. Probabilmente la vera essenza della post-modernità sta nel tenere insieme cose che la modernità considerava incompatibili: ceci ne tuera pas cela , si potrebbe dire, a dispetto di Victor Hugo e delle sue drammatiche previsioni). Ma torniamo a Rogers e alla sua eredità. E questa volta pensiamo ai suoi scritti, a quelli più noti (ma attenzione: a proposito di scuola, quanto noti alle generazioni più giovani?…). Se penso a quegli scritti mi vengono in mente tre espressioni: responsabilità verso la tradizione; rispetto delle preesistenze ambientali; esperienza dell’architettura. Le prime due locuzioni sono, potremmo dire, degli slogan , la terza è il titolo di un libro importante in cui Rogers raccoglie i suoi editoriali di Casabella. Tre frasi che potrebbero anche essere riguardate come tre aspetti di un modo di pensare la scuola. E così la questione della “responsabilità verso la tradizione” diventa l‘idea della costruzione di una struttura disciplinare comprensibile, in cui il tema della continuità non si contrappone ma anzi è condizione delle possibilità di innovazione. La questione del “rispetto delle preesistenze ambientali” si traduce nell’idea che ogni ‘scuola’ possa e debba avere una sorta di tonalità e che questa tonalità possa essere connessa alle caratteristiche del luogo nel quale la scuola si muove. Ern e s to Na th a n Rog e rs e la Scu ola d i Mila n o L’“esperienza dell’architettura” diventa proprio il senso (nella doppia accezione di significato e di direzione di un percorso) della costruzione di una scuola. Rogers usa questa parola al singolare: esperienza e non esperienze. E questa scelta forse non è casuale, anche se dovuta a una tipica lost in translation . Per Rogers, che parla correntemente il tedesco, la parola esperienza traduce in italiano due termini diversi, con due diversi significati: uno è l’Erlebnis , l’esperienza fulminea legata a un ‘vivere’ come atto immediato, fulmineo, sintetico, che non ha passato e non ha futuro; l’altro invece - l’Erfahrung - è legato all’idea dell’attraversamento, del passaggio, del movimento continuo2. La prima parola può essere plurale, si tratta proprio di ‘esperienze’; la seconda no, e forse è a quella che Rogers pensa quando sceglie come titolo del suo libro Esperienza dell’architettura. Questo secondo tipo di esperienza, che si può rappresentare come un percorso, è molto legato alla questione del metodo (µέθοδος, metà -odòs , e odòs significa percorso); ma qui Rogers si stacca da Gropius, perché la sua idea di metodo è legata a un’idea di percorso da costruire in maniera complessa; molto diversa da quella tecnica e perfino talvolta meccanica del suo pioniere preferito. Questo diverso modo di pensare il metodo si sposa con un modo di pensare la didattica, di pensare la formazione, ancora di grande attualità. Per chiudere, tanto per non smentire il valore della circolarità ermeneutica, torno all’inizio e alla idea della scuola come crogiuolo di democrazia. Ogni volta che parlo della scuola mi trovo a ragionare sulla questione della democrazia. Non c’è nessuna originalità in questo: credo che la scuola, in tutte le sue fasi, in tutte le sue forme, sia l’unica garanzia della possibilità di muovere verso un modello di democrazia avanzata. Perché la democrazia, se non si vuole confondere con l’esasperazione di un individualismo sempre gretto, e spesso stupido e becero, non può che essere prodotta da un aumento del livello di consapevolezza e da un’estensione delle forme di comunicazione: e questo riguarda qualsiasi tipo di struttura disciplinare. Qualche giorno fa, non per caso, leggevo un libro di Gustavo Zagrebelsky che si chiama Imparare democrazia 3, i cui contenuti si legano ai temi intorno ai quali si sta svolgendo, proprio in questi giorni, la discussione a Torino nella Prima biennale della democrazia . Zagrebelsky ha scritto una specie di ‘manifesto’ in dieci punti. In realtà tutti potrebbero essere considerati ‘costitutivi’ e ‘basilari’ della costruzione di una scuola: io ne voglio segnalare tre che mi sembrano particolarmente significativi rispetto a quello che forse, su questo tema, ha saputo dirci Rogers. Il primo è la cura della personalità individuale (nessuno può pensare che il semplice fatto di avere a che fare con un numero consistente di studenti possa portare a trascurarla). «Non conosco ancor oggi miglior metodo della maieutica socratica, che è di portare alla luce qualità esistenti ma recondite: né peggior metodo di quello che presuma di sostituirsi a una realtà potenziale con l’obbligare chi la detiene ad esprimersi entro argini precostituiti da altri, sicché raggiunga un termine già fissato. Chi facesse così, violenterebbe il principio della libertà individuale sul quale si fonda l’evoluzione della storia (almeno per chi la intende democraticamente)» 4, scrive Rogers dichiarando così la sua attenzione per la formazione di una personalità individuale legata all’idea 21 22 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia goethiana di una individualità non piena di Ego, ma capace di stabilire connessioni. Poi, l’atteggiamento sperimentale . Denunciando apertamente la sua “propensione all’insegnamento concepito come libero confronto tra docente e discente” 5, Rogers diceva che «il compito del pedagogo deve essere quello di individuare i vasti orizzonti e di mostrare le molte strade possibili, non in senso agnostico, ma secondo la responsabilità di una libera scelta congeniale a ciascuno»6; un messaggio desunto da Dewey che Rogers porta avanti in molti modi. Infine il punto che forse mi piace di più: la cura delle parole . È necessario avere un vocabolario ampio, quanto più ampio possibile, perché la riduzione a ‘poche parole’ corre il rischio di diventare riduzione a SI o NO: che è la fine della democrazia, e la fine della cultura, potremmo aggiungere. Nello stesso tempo, però, cura delle parole significa anche capacità di parlar chiaro 7, di non essere ingannatori, di essere espliciti, di non chiudersi in specialismi che diventano incomprensibili e di usare la parola per ‘comunicare’ quanto più possibile e per rendere gli altri quanto più possibile consapevoli di quello che stanno ascoltando o di quello che stanno apprendendo. Chi parla male pensa male: lo diceva Nanni Moretti, in una celebre battuta di Palommella rossa . Ma un po’ prima di lui lo aveva detto Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito». Ancora a Socrate, maestro di maieutica, pensava dunque Rogers quando curava le sue parole parlate o scritte per comunicare “il più democraticamente possibile” con i suoi allievi o con i suoi lettori. La sua “(apparente) dimessa politezza discorsiva”8 è perfettamente aderente alla lezione di Dewey: a un’idea di scuola in cui si convince e non si vince. Un’idea di scuola immer wieder, sempre di nuovo, profondamente attuale. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. E. Morin, La tête bien faite , Seuil 1999, trad.it. Milano 2000. Cfr. Paolo Jedlovsky, Storie comuni. La narrazione della vita quotidiana , Bruno Mondadori, Milano 2000. «Ho parlato di opinione pubblica consapevole, perché la sua funzione è essenziale. A differenza di tutte le altre forme di governo, le quali non possono ma devono farne a meno, in democrazia essa è una conditio sine qua non […]. Il problema dell’insegnamento della democrazia è […] nell’identificazione e nella specificazione dell’ethos che le corrisponde. Esso deve essere diffuso tra tutti, conformemente all’ideale democratico di una comunità di individui politicamente attivi.» G. Zagrebelsky, Imparare democrazia , Einaudi, Torino 2007, p. 13. E.N. Rogers (1960), Gli elementi del fenomeno architettonico, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006, p. 29. N. Delledonne, “Tradizione e talento individuale. La formazione dell’architetto secondo Rogers”, in Ernesto Nathan Rogers e la costruzione dell’architettura , a cura di Aldo De Poli e Chiara Visentin, Mup, Parma 2009, p. 72. E ancora: «Docenti e discenti sono attori di un medesimo dramma […] la comune vocazione di chi insegna e di chi apprende dev’essere di perfezionarsi. Né credo che uno possa pretendere di insegnare se non è ancora sempre disposto a imparare». E.N. Rogers, op.cit., 2006, p. 27. E.N. Rogers, op.cit., p. 21. «Diffido di quei maestri che non possono essere tali per la scuola primaria. Per me sono come quegli strani poeti incapaci di scrivere come gli altri. Accetto che siano strani; però mi piacerebbe che mi dimostrassero di esserlo perché sono superiori alla norma e non perché incapaci di essere normali.» Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine , Milano 2006, p. 182. C. de Seta, “Introduzione” a E.N. Rogers, op.cit., 2006, p. 9. Ern e s to Na th a n Rog e rs e la Scu ola d i Mila n o Le ctio An ton io Mon e s tiroli Fin dall’inizio del suo lavoro Rogers si è messo alla ricerca delle forme del suo tempo, da architetto, esponendo i suoi problemi, le sue difficoltà, dichiarando i suoi riferimenti, spiegando le sue mosse, insomma lavorando, parlando e scrivendo, come il maestro di una grande bottega, che a sua volta ha dei maestri e degli allievi ai quali si rivolge per affrontare il problema che ha di fronte in quel momento storico. Rogers non lavorava mai da solo. Il suo pensiero era sempre legato a chi era venuto prima di lui e a chi avrebbe continuato dopo di lui. Quando ha iniziato la professione con Gian Luigi Banfi, Lodovico Belgiojoso ed Enrico Peressutti, in quel gruppo BBPR in cui lui svolgeva un particolare lavoro critico, il problema era già dichiarato apertamente da Giuseppe Pagano e da Edoardo Persico: era necessario, per gli architetti italiani, risolvere la loro coscienza civile in uno stile . Un obiettivo alto in un momento di grandi difficoltà politiche. Se ci pensiamo bene un obiettivo forse irraggiungibile, anche se in Italia in quel periodo vi era una straordinaria convergenza di idee sull’architettura. Se confrontiamo i progetti del periodo fascista: il concorso per il Palazzo del Littorio del 1934, il Piano regolatore di Aosta del 1936, il concorso per il Palazzo della Civiltà Romana all’E42 del 1937, il concorso per il monumento alla Vittoria in piazza Fiume a Milano del 1937, il Palazzo delle Poste all’Esposizione Universale a Roma del 1940, fatti da un nutrito gruppo di architetti italiani allora appena trentenni, vediamo una forte convergenza di forme, la ricerca di un linguaggio comune. Forse non si trattava di uno stile ma è certo che il Razionalismo Italiano, in quel periodo, ha costituito una tendenza forte e chiara come raramente accade nella storia. Alcuni progetti possono essere attribuiti ad autori diversi, come capita nei momenti di maturità di un linguaggio. È il risultato di quella ricerca dell’essenziale di cui sempre parlava Rogers, di quella volontà di rifondazione delle forme, di ricominciamento, che è propria di tutti i momenti della storia in cui si va alla ricerca di una propria identità. Il rapporto con i maestri europei, invocato da Persico, era importante per tutti e metteva davanti agli occhi un repertorio di forme profondamente diverso da quello dell’eclettismo ottocentesco. Ma questo non bastava. Non c’era nessuna architettura italiana di allora che provenisse direttamente da un maestro europeo. Era necessario qualcosa di più autentico, 23 24 I Ma e s tri e le Scu ole d i Arch ite ttu ra in Ita lia un’esperienza che venisse dall’interno della condizione di questo gruppo di giovani che lavoravano prevalentemente tra Milano e Roma. Questo qualcosa penso che fosse quell’opposizione al formalismo che li obbligava a trovare la ragione delle forme, la loro ragione propria. Quella ragione scaturita da quella che Rogers chiamava la natura degli edifici. E già qui si riconosce la ricerca di un metodo, di un modo di procedere che consentisse a tutti di dare il proprio contributo in una direzione indicata, di procedere insieme verso un obiettivo condiviso, di costruire, insomma, una tendenza . «Coerenza, tendenza, stile» dice Rogers «come tre momenti del processo storico nel quale si determina il fenomeno artistico»1. Se si analizzano i progetti di allora, si vede come ognuno è fatto guardando gli altri con occhio critico, giudicando, a volte disapprovando, ma in grande misura condividendo il lavoro degli altri, determinando una tendenza , quella dell’architettura razionale in Italia. Subito dopo tutto viene travolto dalla tragedia della guerra. E la guerra, insieme alle straordinarie città storiche europee, ha distrutto anche questa prima, sperimentale, unità del linguaggio razionale. Come altre volte accade, una catastrofe provoca la disgiunzione di quel che si era unito, l’interruzione della ricerca di un modo italiano di fare architettura. Dopo la guerra ognuno dei sopravvissuti ha continuato da solo, riprendendo da capo la ricerca sulla forma, senza però perdere di vista né l’obiettivo, quello della lotta contro ogni formalismo, né il metodo della razionalità delle scelte, indicati da Persico e da Pagano. Il metodo della razionalità delle scelte, dell’architettura razionale, in verità non coincide con quella architettura europea chiamata architettura razionalista. Questa, in tutta l’Europa, si è consumata fino a diventare architettura manierista. Ma i suoi maestri, quelli che in Italia in Europa e anche in America l’hanno costruita prima della guerra, hanno continuato la ricerca di un’architettura della ragione andando oltre le forme, ormai convenzionali, dell’architettura razionalista. Rogers ha capito perfettamente, e prima di altri, questa contraddizione tra razionalismo come scelta linguistica e architettura razionale. Addirittura non accetta la divisione e la contrapposizione tra architettura razionale e architettura organica, considerando l’architettura organica parte dell’architettura razionale in quanto impegnata a interpretare le forme della nostra vita e quindi non separabile da una ricerca razionale delle forme dell’architettura. D’altronde non sarebbe possibile capire il pensiero di Rogers tenendo separati ragione e sentimento, o pensiero e esperienza, tutto fluisce nella ricerca dell’autenticità delle forme, della natura di quelle forme che sono espressive della nostra vita. Non di una sua parte, ma della sua interezza. Questo è il pensiero che ci aiuta a capire come fosse possibile parlare allo stesso modo, Ern e s to Na th a n Rog e rs e la Scu ola d i Mila n o con la stessa appassionata partecipazione, di Henry van de Velde, di Adolf Loos, di Frank Lloyd Wright, di Ludwig Mies van der Rohe, di Auguste Perret, di Le Corbusier, architetti dall’esito formale così diverso eppure accomunati da Rogers per le loro intenzioni. Quel che unisce questo formidabile sestetto a cui si aggiungerà Alvar Aalto, è l’idea dell’architettura come fenomeno, come risultato di un processo di conoscenza di una realtà in continuo divenire, come manifestazione della nostra vita. Architetti diversi con storie personali diverse, impegnati in paesi diversi, anche di due generazioni diverse, che tuttavia intendono l’architettura come una forma del nostro rapporto con la natura, con la tecnica, con la storia. Tutti e sei sanno che quel che conta è lo scopo per il quale un edificio è costruito, il modo in cui viene interpretato il tema a cui appartiene: la casa come luogo in cui si svolge la nostra vita, l’edificio pubblico che dà forma riconoscibile alle nostre istituzioni civili. È certo che Mies ha imparato da Wright il modo di ricondurre lo spazio a unità e di stabilire il suo rapporto con il paesaggio, che Le Corbusier ha imparato da Perret il modo della costruzione come matrice della forma degli edifici, che tutti, tranne l’irriducibile Loos, hanno condiviso “l’addestramento all’invenzione” di van de Velde, mentre proprio tutti avrebbero sottoscritto la straordinaria definizione di Architettura di Loos, quel farsi seri davanti al tumulo incontrato nel bosco. È una ricerca comune sulla vita delle forme, contro ogni formalismo, contro gli stili per uno stile , una ricerca della forma capace di rendere riconoscibili non le funzioni della nostra vita ma il valore che storicamente attribuiamo loro. Poi ognuno di questi maestri ha esercitato il suo talento in modo diverso: chi si è appassionato alle forme naturali cercando di conoscerne il segreto, chi alle forme storiche cercando di riprodurne la magnificenza, chi alle forme tecniche ritrovando in queste la struttura di tutte le forme possibili. Ma tra loro c’è anche chi, come Le Corbusier, ha saputo tenere insieme forme tecniche e forme organiche, struttura e forme libere. La struttura detta le regole, le forme che contiene seguono liberamente i movimenti del nostro abitare. Penso alla Villa Savoye, all’Unitè di Marsiglia, al Convento de la Tourette: le forme sono libere di adeguarsi di volta in volta a ciò che devono rappresentare. Fino a Ronchamp. Rogers ha capito e spiegato Ronchamp meglio di chiunque altro. Ha capito che a Ronchamp Le Corbusier “non cambia metodo”, al contrario impegna il suo modo di conoscere la realtà di un tema che si risolve tutto nella definizione della sacralità di un luogo. È l’idea di sacro che si rappresenta a Ronchamp, come, in forme diverse, nella chiesa de La Tourette, un’idea difficile da rappresentare e che là è intensamente rappresentata. Il nostro è il gusto del metodo, diceva Rogers 2. I suoi maestri avevano innanzitutto un metodo. E il più ammirato di loro, colui che proprio del metodo si occupava, era Walter 25