Firenze, 30 aprile 2004
Le discipline storiche nelle Facoltà di architettura italiane: considerazioni e
prospettive a valle delle esperienze fiorentine e romane.
In una circostanza simile a questa Hobsbawn sosteneva che “gli storici sono la
banca nella quale è depositata la memoria dell’esperienza”; ma che, pur avendone
bisogno, tuttavia “usiamo la storia anche senza sapere perché”. Poi sottolineava
che “la storia come ispirazione e ideologia ha una tendenza intrinseca a diventare
mito che autogiustifica” e che “niente più di questa attitudine è un pericoloso
paraocchi”. E da queste premesse deduceva che “è compito degli storici rimuovere
questi paraocchi o almeno cercare ogni tanto di sollevarli almeno un po’[e che]
“per fortuna le università sono una parte del sistema educativo nella quale gli
storici sono invitati “a rimuovere quei paraocchi” in quanto le sedi universitarie
sono “luoghi in cui la storia critica può essere facilmente praticata”1. E’, questa,
una sollecitante e confortante conclusione per chi, come me e molti altri, di storia
(in questo caso storia dell’architettura) si è occupato per lunghi anni e continua
tuttora ad occuparsi (naturalmente nei limiti, forse ristretti, delle proprie capacità)
muovendosi proprio nel quadro delle riflessioni di Hobsbawn. Ma al tempo stesso,
a confronto con l’attuale situazione delle nostre facoltà di architettura, la
conclusione dello storico inglese potrebbe anche essere troppo ottimistica. Nelle
facoltà italiane di architettura sono presenti, da un certo numero di anni, evidenti
sintomi di sottile ma irritata insofferenza per la storia intesa, con Hobsbawn, sia
come autogiustificazione, sia come esercizio di rimozione dei paraocchi. In questo
contesto l’autogiustificazione si sta tramutando in autoreferenzialità, e la ricerca di
innovazione tende a tramutarsi nella narcisistica ricerca di una immagine; che,
però, appare essere piuttosto espressione di un'immaginario “virtuale” che tentativo
concettuale di oggettivare nuove complessità spaziali ed altrettanto nuove realtà
1
E. J. Hobsbawn, De Historia, Milano, 1997, passim, pp. 39-52.
1
funzionali. Queste mie riflessioni sono mirate al tentativo di fissare, nel ricordo, i
passaggi principali di un percorso accademico e didattico della durata di quasi
sessant'anni; di tracciare, cioé, sinteticamente ed avventurosamente una mia
personale “storia orale” (che però qui diventa "scritta"!) che si snoda nell’intreccio
delle mie esperienze nelle Facoltà di Architettura di Roma (qui prima studente poi
docente) e di Firenze (qui solo come docente). Premetto una breve notazione sulle
origini delle facoltà di architettura italiane, con particolare riferimento alle due
facoltà nelle quali mi sono formato ed ho svolto la mia attività. Tema, questo, che
meriterebbe (e richiederebbe) un ben più ampio ed approfondito riferimento alla
pluriennale serie cronologica lungo la quale in Italia sono sorte, e si sono poi
differentemente e peculiarmente qualificate, le varie Facoltà di Architettura
(Facoltà universitarie a statuto autonomo, o inserite nei Politecnici, oppure Istituti
Superiori Universitari) negli anni tra le due guerre del XX secolo e fino alla fine di
quel secolo, ed anche il loro ulteriore e più recente divenire, modificarsi, articolarsi
in "Corsi di laurea" di diversificati indirizzi e finalità. E' proprio questa serie
cronologica, ed il significato che essa assume nel più generale quadro della storia
italiana (istituzionale, politica, economica, sociale, culturale, tecnica) che potrebbe
infatti dar ragione dei peculiari caratteri che hanno conraddistinto, e continuano a
contraddistinguere, ciascuna di esse.
Diversamente da quanto accadeva nella maggior parte d’Europa, in Italia , dopo
la prima guerra mondiale, sono stati riproposti, ancor più decisamente di prima, i
dibattiti già avviati alla fine del secolo precedente o da Boito, o dalla “Associazione
Artistica fra i Cultori di Architettura”, (poi divenuta nel 1928 “Centro Nazionale di
Studi per la Storia dell’Architettura” e tuttora in essere), e da molti altri. Quasi
subito dopo la fine della prima guerra mondiale il problema di dar vita alle scuole
per “costruire” è stato poi impostato (tra i più attivi Giovannoni ma erano attive
anche molte altre importanti figure della cultura italiana) in vista dell'obbiettivo di
conciliare, o meglio correlare, la linea del "sapere artistico”, e della storia dell’arte,
con la linea del “sapere ingegneristico-tecnico” in senso "costruttivo". Ci si è dunque
posti (consapevolmente o inconsapevolmente) a valle, o a monte, del tema teorico
2
della possibilità, o meno, di mediare tra matrici culturali differenti e tra loro da
tempo divaricate : un tema, è bene sottolinearlo, che aveva dietro di sé più di un
secolo e mezzo di storia culturale, di tematiche di ordine filosofico, e
conseguentemente e non certo meno pervicacemente, di "steccati" disciplinari
didattico-accademici. Per quanto concerne l’architettura, almeno in Italia, quell' arduo
tentativo di mediazione era un’operazione cui non era facile sottrarsi: lo testimonia,
per assurdo, proprio la difficoltà che Croce dichiarava di incontrare nel catalogare
l’architettura tra le discipline genuinamente “artistiche”. Le componenti tecniche,
economiche, e sociali, che contraddistinguono lo specifico dell’architettura, ponevano
infatti al filosofo italiano il problema, irresolubile nel suo sistema di pensiero, di
collegare tra loro “categorie” appunto proposte come inconciliabili: quella
dell’artisticità e quella della pragmaticità. Ma poi lo stesso filosofo confessava che per
l’architettura (per il “costruire”) tale correlazione andava oggettivamente ricercata e
proposta: perché intrinseca al suo peculiare statuto disciplinare. Dunque, se quel
problema poteva rimanere irrisolto sul piano filosofico, invece sul piano istituzionale
ed accademico ciò non poteva darsi. Così, non risolta a livello teorico generale, la
correlazione tra forme e applicazioni del sapere umanistico ed artistico e del sapere
tecnico-scientifico, è stata invece tenacemente e pragmaticamente perseguita in Italia:
nel quadro, appunto, delle Facoltà universitarie di Architettura. Si è infatti deciso di
far nascere la nuova pianta accademica dalla simbiosi tra le diversificate radici delle
esistenti scuole di Ingegneria civile, delle scuole di Architettura (anche “Scuole
superiori”), dei corsi di Storia dell’arte delle Facoltà di Lettere; nonché, in parte, dalle
Accademie d'Arte. Infatti la nuova facoltà universitaria (la Facoltà di Architettura),
nel suo momento iniziale ed anche in seguito, si presentava come corso di studi nel
quale confluivano discipline modulate su parti di ciascuna delle componenti
didattiche peculiari delle diversificate matrici di partenza. E, altrettanto non
casualmente, era previsto che alle nuove Facoltà di Architettura potessero accedere i
diplomati dei tre licei del tempo: quello classico, quello scientifico, quello artistico.
Con l’interessante risultato che proprio la compresenza di tali diversi ambiti,
formativi e culturali, sia pure seguendo un procedimento in fondo semplicistico e di
3
natura pratica, si è dimostrato essere il vero fattore culturalmente innovativo. Anche
se qualche decennio più tardi il filosofo anglosassone Edgar Snow sosterrà ancora una
volta la non conciliabilità tra “le due culture” (quella tecnica e quella umanisticoartistica), si deve invece concludere che la sommatoria dei singoli elementi
disciplinari, proposta nel corso di studi delle nuove Facoltà di Architettura italiane,
era di fatto pervenuta ad un nuovo ordine di studi (ed ad un conseguente nuovo
quadro professionale). Perché, così come (adottando concetti della matematica
differenziale) un “integrale” è differente dalla semplice sommatoria dei suoi valori,
anche il nuovo ordine di studi è risultato caratterizzato dal precisarsi di valori diversi
da quelli della semplice “somma algebrica” (l’accostamento di discipline diverse) dei
suoi singoli corsi disciplinari. Nel giro di pochi anni, e mediante un complesso
processo di interazione tra i principali ambiti statutari e disciplinari tradizionali, il
nuovo corso di laurea ha infatti determinato, in molti di essi, talune non secondarie
modifiche. In Italia, insomma, il non ben risolto problema teorico del rapporto da
istituirsi tra campi tecnico-scientifici e campi dell’artisticità, ha dato luogo ad una
soluzione pragmatica ma originale: destinata a durare nel tempo (quasi fino ai nostri
giorni). Non l’ultimo, questo, dei tanti aspetti delle numerose “diversità” del sistema
universitario italiano rispetto all’insieme degli analoghi sistemi adottati in ambito
europeo. Ancora oggi, al di fuori di quelle italiane, sono molto poche, infatti, in
Europa ma non solo, i corsi di studio a carattere ufficialmente universitario che
conducono, anche sotto il profilo della legalità ufficiale del titolo di laurea, alla
“professione” di architetto.
Gustavo Giovannoni, storico dell’architettura, ingegnere ed architetto, e certo il
principale tra i promotori della nuova Facoltà di Architettura, parlava della
necessità di dar luogo (il concetto è stato da lui ripetutamente espresso in molti
dei suoi scritti e conferenze) alla nuova figura di un “architetto integrale”.
Bisognava cioè che l’architetto fosse consapevole (più che esperto) di tematiche
sia storico-culturali, sia tecniche, sia, inoltre ed almeno in parte, di ordine
economico e giuridico (in questo caso sotto il profilo dell’estimo edilizio e del
diritto civile ed urbanistico). Giovannoni, insomma, si faceva strenuo sostenitore di
4
tesi già esposte da Vitruvio in età augustea e poi, circa quattordici secoli più tardi,
dai teorici del Rinascimento italiano: Alberti, Filarete, ecc. Per Giovannoni, e per
quanti tra gli “ingegneri-architetti” ne hanno affiancato lo sforzo di costruzione
della nuova Facoltà di Architettura, la figura dell’architetto doveva cioè assumere
connotazioni che aveva altre volte avuto nella storia. Buona parte delle quali erano
invece andate perdute già da vari secoli o per lo meno a partire dai primi anni del
XIX secolo quando la figura dell’architetto e quella dell’ingegnere avevano
ulteriormente accelerato, poi portandolo a compimento, il processo della loro
divaricazione professionale. Insomma, all’opposto di quanto si sosteneva dalle
avanguardie europee tra fine XIX ed inizio XX secolo che della storia volevano
annullata ogni diretta valenza ed influenza, (mi riferisco in particolare al Bauhaus),
secondo Giovannoni e secondo quanti a lui si sono affiancati, l’architetto, in Italia,
doveva fortemente radicarsi nella sua matrice storica; soprattutto a partire dalla
analisi diretta dei monumenti. Che dovevano essere considerati veri e propri
“documenti” fisici del loro durare e del loro palingenico e stratificato modificarsi
nel corso dei secoli, e dunque anche strumenti di trasmissione degli impulsi
motori propri della tradizione. E ciò proprio quando, a seguito delle teorie
ottocentesche (anche accolte dalla politica culturale proposta dal fascismo che
inneggiava al “piccone demolitore”) che volevano i monumenti “isolati” e
“liberati” nel e dal circostante tessuto cittadino, questi avevano proprio allora
finito per campeggiare nel vuoto circostante come elementi estranei e come
testimoni ormai muti del passato. Ai quali peraltro si continuava a voler affidare,
invece, il ruolo di parlanti ammonitori e suggeritori del presente. Come si vede si
trattava di un ossimoro! Per tornare a Giovannoni, il monumento, anche se ridotto
a rudere più o meno complesso, e proprio perché pensato come organismo che
testimoniava del suo divenire nel tempo, doveva invece sempre essere indagato ed
interrogato nella sua stratificata realtà ed unicità fisica: con particolare attenzione
alla sua evidenza corporea. Da ciò discendevano, sia un nuovo metodo di “lettura”
critica della realtà del monumento (quella lettura che permette di ricostruirne il
processo progettuale e costruttivo ed anche le fasi del suo successivo divenire), sia
5
altre sollecitazioni di vario ordine che proprio da quel monumento (cioè dal suo
essere sé stesso) potevano scaturire ed essere trasmesse nella prassi progettuale della
rinnovata figura dell’architetto. In tale contesto, nella nuova Facoltà di
Architettura, allo studio della storia venne assegnato, in questa fase originaria, un
ruolo fondamentalmente finalizzato all’atto del progettare. Tanto che, nel piano
degli studi, l’apposita disciplina istituzionale di base assunse la definizione di “storia
dell’arte e storia e stili dell’architettura”: con un implicito rinvio alle due matrici,
quella manualistico-pragmatica e quella umanistico-artistica, cui essa intendeva
simbioticamente agganciarsi. E tale disciplina trovava poi ulteriori risvolti
specialistici nell’insegnamento di “caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti”a
lungo tenuto a Roma, da Guglielmo De Angelis d’Ossat. Gli sviluppi della tesi sul
ruolo da affidare alla storia dell’architettura nella formazione e nell’attività
dell’architetto, hanno seguito questa impostazione fino ai primi anni del secondo
dopoguerra del XX secolo. Anche se nella versione che ne dava Vincenzo Fasolo,
essa assumeva sfumature e percorsi interpretativi più semplificati. Invece, più avanti
nel tempo e cioè dopo gli anni cinquanta, parte di questo impianto venne variamente
messo in discussione dai contributi innovativi forniti da Zevi, Benevolo, e da quanti
a loro si sono allineati o che a loro hanno fatto seguito. Infatti, quasi
improvvisamente, in quegli anni il quadro cambia radicalmente alla luce della
comparsa sia delle nuove interpretazioni che venivano date delle posizioni
idealistiche crociane, sia dell’attiva opera di Argan e Lionello Venturi, sia, ed ancor
più incisivamente, per il contatto con referenti internazionali. Del nuovo clima sono
importanti aspetti la pubblicazione in lingua italiana delle opere di Pevsner, di
Giedion, e, su altro piano quelle di Mumford e più tardi di Wittkower. Inoltre, in
felice sintonia di tempi con il riaccendersi dell’interesse per l’architettura in larghi
strati dell’opinione pubblica, è stato fattore determinante di cambiamento anche
l’appassionata entrata in campo di Bruno Zevi: con accese polemiche contro quanto a
lui pareva l’accademismo e conservatorismo dei più anziani docenti della Facoltà di
Architettura romana. Alla fine degli anni quaranta compaiono infatti i suoi primi
scritti e poi, nel 1950, la sua importante “Storia dell’architettura moderna”. Nella
6
quale, anche sulla scia degli scritti di Pevsner e Giedion, egli valorizza soprattutto le
correnti americane cosiddette “organiche” connesse al “mito” di Wright, ed inoltre,
quasi messianicamente, preannuncia il definitivo successo dei nuovi orizzonti
culturali proposti dal Movimento Moderno in quanto conquista di libertà e di
moralità. L’opera e gli scritti di Zevi, ma anche sia pure più sfumatamente, le opere
degli storici e critici di architettura stranieri, non erano bene accetti alla più anziana
generazione dei docenti della Facoltà di Roma; ed erano invece accolti con grande
entusiasmo dagli studenti e dai giovani assistenti. Così, proprio a partire dalle
contrastanti posizioni degli uni e degli altri, leggibili anche in senso generazionale, si
è avviato un dibattito tutto incentrato sul rapporto tra architettura e città: nell’ottica
di ciò che viene connotato come Movimento Moderno. Le cui formulazioni e
proposte operative, almeno secondo Zevi avevano ormai soppiantato, vincendole
(ma era un'illusione!), le remore della cosiddetta ricerca di ambientamento; o di una
sia pur larvata imitazione del passato. E tanto più vivo ed acceso si rivelò quel
dibattito perché, e ciò va segnalato come essenziale dato di riferimento, esso avveniva
nel quadro della generale ricostruzione postbellica delle città italiane; cioè mentre era
in atto, ed in rigogliosa dinamica di sviluppo, quel fenomeno socioeconomico (fatto
di molte luci ma anche di non poche ombre: attentamente segnalate da sociologi
urbani e rappresentate dal cinema neoralista di Zavattini, di Visconti, di De Sica)
che verrà definito “il miracolo italiano”. Dieci anni dopo, cioè sul finire del
“miracolo italiano”, ed in presenza di un primo diffondersi anche in Italia del
modello di “società opulenta”, sarà Leonardo Benevolo a spostare ulteriormente
l’asse del dibattito: con la sua azione di diretto intervento nella politica urbanistica,
sull’onda istituzionale del rinnovato INU, nonché dell’associazione “Italia Nostra”;
ma con più incisività negli ambienti universitari con la “Storia dell’architettura
moderna” pubblicata nel 1960. Un’opera, la storia benevoliana, che sistematizzava i
suoi già avviati insegnamenti universitari ( a Roma), e che oltre a marcare il senso del
rapporto tra il farsi dell’architettura ed il divenire delle città, rifletteva anche la
nuova situazione del dibattito sul Movimento Moderno: quale esso si era andato
sviluppando in Italia. In particolare nel riferimento al mutuo incidere, appunto in
7
Italia, della città storica sulla città contemporanea e inversamente della seconda sulla
prima, in una fase di violento e disordinato urbanesimo e di altrettanto violenta
espansione urbana; sull’onda, anche, della attenta valutazione critica esercitata nel
maturo quadro culturale ormai raggiunto anche in Italia dal Movimento Moderno, e
delle conseguenze che ciò stava comportando. In particolare in tema di
conservazione dei tessuti urbani antichi e delle nuove scelte, tecniche, linguistiche
e tipologiche, che si andavano via via imponendo al variare della composizione e
caratterizzazione sociale delle città italiane. In questo senso la storia
dell’architettura e la storia delle città, percepite, (nell’ottica della definizione di
architettura proposta da William Morris), come variabili di un’unica riassuntiva
entità, assumevano il ruolo di sostegno dialettico e di impegno preliminare ad ogni
scelta e progetto di intervento nei tessuti cittadini. La storia dell’architettura (nel
senso allargato) era divenuta, cioè, il necessario antefatto alle attuali scelte di
intervento, o di non intervento, nel costruito del tessuto cittadino; e cessava,
dunque di essere considerata o repertorio obbligato o limite morfologico
dell’intervento stesso. La componente politica sociale ed etica, implicita nei dettati
del Movimento Moderno, si saldava così al senso della storia: finalisticamente
intesa come premessa e proposta per la nuova città. Era cioè possibile, è questo
l’assunto, (prima di Zevi poi, con qualche non lieve differenza, di Benevolo),
pensare l’architettura “moderna” in termini di diffondibilità metodologica: cioé di
disciplina dotata di un suo specifico statuto, a fondamento storico, inteso però a
confermare i valori dell’attualità.
E’ in questo clima che, dopo un primo breve periodo di “assistente volontario”
di Benevolo nella facoltà di Architettura di Roma, proprio al seguito di Benevolo,
che l’allora preside Fagnoni aveva voluto a Firenze, sono approdato alla Facoltà di
Architettura di Firenze. Una città, Firenze, che conoscevo per lunga frequentazione
familiare e nella quale mi ero formato negli anni ginnasiali e liceali. Ed in cui
avevo vissuto sia gli ultimi anni della guerra, sia i successivi cupi eventi
dell’occupazione tedesca, sia, infine, i primi momenti, esaltanti anche se duri, della
vita e della società della nuova Italia repubblicana. Nella facoltà fiorentina, dove,
8
scalando i vari gradini della carriera universitaria, sarei rimasto sino al 1990 (sarò
però sempre considerato “romano”), spiccavano allora varie personalità: di diversa
formazione e di altrettanto differente generazione. Oltre al preside Fagnoni, della
generazione più anziana restava in pratica soltanto Sanpaolesi. Mentre del gruppo
più recente, eterogeneo ma fiorentinamente unitario, facevano parte Italo
Gamberini, l’irruento Ricci, il più compassato Detti (poi anche assessore
all’urbanistica ed ideatore del piano regolatore) e Leonardo Savioli; inoltre Pier
Luigi Spadolini, e Gianni Klaus Koenig che aveva ripreso a Firenze la sua
spumeggiante attività per un breve precedente periodo svolta anche a Venezia.
Erano poi presenti, ed attivamente seguiti, Ludovico Quaroni e, per un breve
perido, Adalberto Libera. Qualche anno più tardi (nel frattempo Libera, Quaroni e
Benevolo avevano lasciato Firenze) entrerà a far parte del corpo docente il
"romano" Luigi Vagnetti, che darà luogo ad una sua “scuola romano-fiorentina". In
seguito giungerà alla Facoltà di Firenze l’altrettanto romano Caniggia: che a sua
volta diverrà capofila di una corrente (direi post-muratoriana) tuttora leggibile nel
gruppo docente fiorentino. Il corpo studentesco, allora di provenienza solo liceale
(dei tre "licei": classico, scientifico, artistico), si articolava, sostanzialmente, in due
gruppi principali (di quasi equivalente consistenza numerica): quello fiorentinotoscano e quello bolognese-emiliano-romagnolo. Cui si aggiungevano sporadiche
presenze di altri studenti italiani provenienti dall’area adriatica centrale e da quella
meridionale.
Al mio giungere, il clima ed il contesto formativo della Facoltà di Architettura
di Firenze erano, e mi apparivano, molto diversi da quelli della Facoltà di
Architettura di Roma: nella quale mi ero formato e laureato (nel 1954) ed in cui
avevo fatto i miei primi passi di avvio alla docenza. Percepivo l’ambiente
universitario fiorentino ad un tempo più agile ed attualizzante, e più radicato in una
concezione
del
costruire
tagliata
in
senso
sperimentalistico:
come
metabolizzazione tecnico-moderna della più tradizionale cultura dell'artigianato
colto. E diversissimi da quelli della facoltà di Architettura di Roma erano sia il
quadro cittadino sia la storia recente che stavano alle spalle della facoltà di
9
Architettura di Firenze: anche per il modo con il quale la guerra e l’occupazione
tedesca avevano inciso sul tessuto cittadino. Ma vi erano altri fattori di diversità
più specificamente legati al mondo dell’architettura. La figura immanente di
Michelucci e della sua scuola (anche se Michelucci allora insegnava a Bologna e
non a Firenze); la presenza altrettanto immanente e, starei per dire, emblematica
delle sue opere (basti citare la ormai celebre vicenda della realizzazione della
stazione ferroviaria, la nuova sede della Cassa di Risparmio, ecc.); la vivacissima
polemica che era stata a base della ricostruzione delle due aree sulla riva sinistra e
destra del Ponte Vecchio 2. Erano, tutti questi, punti di riferimento per una lettura
locale della cultura del movimento moderno possibile nel cuore stesso del centro
cittadino3. A Firenze vi erano solo echi indiretti (prima di tutto nella pubblicistica,
ma anche in alcuni racconti episodici) dell’attivismo culturale di Zevi, di Argan, di
Muratori, ecc. Figura di riferimento a Firenze era invece Ragghianti (“Ringhianti”
per i fiorentini). E se a Roma, nelle discipline storiche (ed in quelle parallele del
restauro) si guardava ad una tradizione che si collegava al mondo antico con il
tramite del Cinquecento romano, a Firenze si diffondevano invece gli studi di
Sanpaolesi sulla cupola brunelleschiana. Quali le maggiori differenze che ho
potuto rilevare?
Nella facoltà di Roma mi ero formato in un clima nel quale convivevano
conflittualmente più linee e concezioni. Da un lato vi erano i collegamenti,
inconsciamente introiettati, con la matrice fondativa dovuta al pensiero di
Giovannoni (di cui ho già detto): la storia dell’architettura in rapporto ad una
progettualità che in sostanza guardava al “costruito” antico (i resti testimoniali
della romanità imperiale) però guardati a partire da Bramante per poi riferirsi al
Sangallo, a Michelangelo, a Bernini e (arditamente!?) a Borromini; e che, per i
2
Vivevo a Firenze durante la tragica notte delle demolizioni ed avevo visto il quadro urbano, desolante ma anche
tragicamente evocativo e “nuovo”, che ne era conseguito: dunque quella ricostruzione mi spingeva al confronto
con le impressioni suscitate dalle immagini del paesaggio urbano di rovine che avevo visto quasi vent’anni prima.
3
Cui, a Roma, facevano invece da contrappunto la vicenda del bombardamento del quartiere S.Lorenzo e la
conseguente molto propagandata visita del papa Pio XII e, anni più tardi, i nuovi quartieri Tuscolano, Tiburtino,
Valco San Paolo. Che però nulla intaccavano od aggettivavano del tessuto del centro cittadino sul quale, invece si
stava esercitando una fortissima pressione di mutamenti do ordine sociale e, conseguentemente, anche di natura
tipologico-edilizia. Fenomeno, questo, che allora interessava più città italiane e che sollecitava un ampio dibattito
sulla tematica della conservazione dei cosiddetti “centri storici”.
10
tempi moderni, si esprimeva in un linguaggio metamorficamente evocativo di
morfemi di un classicismo “stilisticamente semplificato” (gli ordini architettonici
della trattatistica cinquecentesca “semplificati” secondo lo schema delle cosiddette
“nove righe”). Condizione concettuale ed operativa, questa, da noi studenti allora
subita forzosamente, ma respinta come accademica, retorica, retrograda: ne erano
esponenti Del Debbio (che però si era scelto giovani assistenti di diversa
formazione) e soprattutto Piacentini. Condizione che, inoltre, compariva nelle
funamboliche esercitazioni grafico-didattiche del già ricordato Vincenzo Fasolo e
che si coniugava con il tradizionale professionismo borghese romano: anche questo
considerato “non moderno”. E che, per quanto attiene alle discipline storiche,
quindi nella scia di Giovannoni, si fondava sui corsi di base (Storia dell’arte e
storia e stili dell’architettura) e sul loro successivo sviluppo nel corso di Caratteri
stilistici e costruttivi dei monumenti retto da De Angelis d’Ossat; mentre iniziava a
delinearsi la figura, in parte autonoma, di Renato Bonelli. Il tutto in un implicito e
diretto collegamento con le tematiche del restauro architettonico proposte in un
corso specialistico allora tenuto da Apollonj Ghetti. Dall’altro lato vi era però
anche il “moderno”, sostenuto dall’impulso dei più giovani docenti (per noi i
referenti erano soprattutto Benevolo e Quaroni, ma anche i loro assistenti e quelli
delle discipline compositive); il che ci confermava nella nostra coscienza di vivere
tempi nuovi e nella convinta certezza/speranza dell’affermarsi di una nuova
architettura. Inoltre eravamo fortemente attratti dall’insegnamento di Pier Luigi
Nervi4. Sull’intero panorama della “ricostruzione” edilizia aleggiava, e ciò nella
Facoltà di Roma assumeva aspetti particolari, la figura di Arnaldo Foschini:
docente delle discipline progettuali, preside e, soprattutto, “Grand Commis”
dell’Ina Casa; cioè insostituibile elargitore di importanti incarichi professionali per
vecchi e giovani architetti. E, con i più giovani docenti “moderni”, guardavamo e
dialogavamo con il vivo ambiente esterno alla facoltà nel quale, a Roma, ci
sembrava punto di riferimento professionale soprattutto Ridolfi.
4
Da notare, però, che non divenne mai professore ordinario!
11
Invece, la Facoltà di Firenze, mi è sembrata, al mio giungervi, l’emanazione di
una linea che si radicava in una tradizione sostanzialmente rinascimentale (ma in
senso fiorentino). Una tradizione, cioè, che procedendo da Brunelleschi, si
oggettivava nella corporeità (ligneamente ossificata, ma fatta anche di nervi e
muscoli) di Donatello e poi di Andrea del Castagno; non meno che nella tradizione
dei “mestieri” di un colto e raffinato artigianato. E i cui esiti, traslati e
metamorfizzati in chiave moderna, percepivo essenzialmente nell’opera di
Michelucci; ma che mi apparivano leggibili, seppure in misura meno evidente,
come effetto indotto della precedente innovativa presenza di Wright in Firenze.
Della sostanziale esattezza di questa, allora un po’ confusa ma sottile mia
impressione, ho poi avuto piacevole conferma nel saggio di Koenig sulla Facoltà di
Architettura di Firenze5.
Nell’ambito del restauro architettonico Firenze aveva alle spalle le polemiche
suscitate dalla ricostruzione di Ponte Santa Trìnita (cui avevano partecipato
esponenti del gruppo fondativo della facoltà fiorentina), e gli interessanti e
criticamente sollecitanti interventi di Sanpaolesi relativi al completamento del
loggiato di Santa Maria Nova (tra l’altro in fisica contiguità con la Cassa di
Risparmio di Michelucci!) ed alla liberazione della Loggia Rucellai. Sanpaolesi
era, a Firenze, il corrispettivo, ma non l’omologo, di De Angelis d’Ossat a Roma6.
Le differenze tra i due mi sembrano emblematiche. Quanto De Angelis d’Ossat era
profondamente radicato nel contesto “romano”, altrettanto Sanpaolesi spaziava dal
contesto fiorentino a quello di altri sistemi culturali: era infatti anche un importante
studioso e restauratore di architetture islamico-persiane.
Pur rimanendo entro limiti sintetici, a questo quadro vanno aggiunte alcune altre
importanti componenti: tanto internazionali, quanto peculiarmente italiane. Gli
anni sessanta, quando sono entrato nella facoltà fiorentina, erano infatti sia gli anni
successivi alle stravolgenti novità linguistiche, sintattiche, spaziali, introdotte nella
loro stessa opera dai principali maestri del movimento moderno (da Le Corbusier,
5
G.K. Koenig, “La Facoltà di Architettura negli anni delle grandi speranze (1944-1950)”; in: Storia dell’ateneo
fiorentino. Contributi di studio (2 vol) Firenze, 1986, vol 1 pp.543-555.
6
Entrambi erano alti esponenti delle amministrazioni pubbliche di tutela ma insegnavano discipline differenti ed
avevano esperienze professionali altrettanto distinti.
12
a Gropius, etc), sia gli anni del grande sviluppo e successo dell’industrial design
italiano e della “via italiana” all’architettura moderna, sia, anche, quelli dei grandi
successi a scala mondiale degli strutturisti italiani: da Nervi a Morandi ecc.. E,
parallelamente, erano anche gli anni dell’interesse per le componenti della cultura
semiologica (meglio dire “semiologicheggiante”) e della psicologia della visione;
cui, ma forse non del tutto logicamente, si aggiungeranno anche quelle della
iconologia: con forti riflessi e notevole incidenza nelle discipline storiche7. Inoltre,
fattore di assoluto rilievo, nella facoltà fiorentina aveva fatto il suo ingresso (la sua
presenza sarà però di breve durata) anche Umberto Eco. In questo clima
l’insegnamento delle discipline storiche, così come impostato da Benevolo, il cui
già richiamato libro sulla storia dell’architettura moderna (che avrebbe poi avuto
un duraturo successo di livello anche internazionale) proponeva l’architettura in
rapporto alla città e come strumento di crescita civile, appariva organicamente
inserito nella nuova realtà sociale e culturale italiana: anche se non vi trovavano
posto le sempre più diffuse e seguite componenti iconologiche e semiologiche8. A
Firenze l’insegnamento di Storia dell’architettura era allora scisso nei due corsi di
primo e secondo anno. A tenere il corso del primo anno era Giuseppe Marchini:
uno storico dell’arte che aveva immesso come suo assistente Alessandro Gambuti.
A tenere il secondo anno fu appunto chiamato Benevolo; e, dopo il suo
trasferimento a Venezia, Koenig. Più avanti, in esito al nuovo assetto statutario
fissato dalla legge, in tutte le facoltà di architettura italiane, quindi anche a Firenze,
le discipline storiche, che allora stavano incontrando successi e condivisioni,
avevano iniziato ad articolarsi in più linee: secondo corsi disciplinari notevolmente
differenziati, sia quanto all’impianto culturale, sia anche quanto alla loro
titolazione accademica. In particolare, sulla scorta delle tesi di Zevi, la storia
dell’architettura, prima a Roma e poi anche in altre sedi, aveva anche in parte
7
A Napoli della componente semiologica era capofila De Fusco; a Firenze era ascoltato esponente Koenig.
Dunque il mio ruolo di giovane assistente “benevoliano” incontrava echi e condivisioni anche nel corpo
studentesco: per lo meno per un certo tempo anche quando Benevolo si era trasferito a Venezia ed al suo posto era
subentrato Koenig.
8
13
accolto la declinazione di “critica operativa”9. La fine degli anni sessanta e le
prime contestazioni studentesche hanno dato un’ulteriore accelerazione al processo
di cambiamento che si era lentamente avviato, ma non senza resistenze, nella
facoltà fiorentina. In conseguenza della liberalizzazione degli accessi all’università
italiana secondo i dettati della legge Codignola, ed in rapporto ad altre situazioni
socioeconomiche nazionali ed internazionali, il quadro studentesco cambia ora
radicalmente i suoi connotati. Perché oltre all’immissione di studenti italiani di
formazione non liceale, sarebbero infatti arrivati, poco dopo, anche foltissimi
gruppi di studenti stranieri, soprattutto persiani e greci, ovviamente formatisi
secondo percorsi e sistemi didattici molto diversi da quelli italiani. Tutti gli anni
settanta (che poi saranno definiti gli “anni di piombo”) verranno marcati, come è
noto, da drammatici, avvenimenti: con fiammate estese all’intera società italiana10.
Nella Facoltà di Architettura di Firenze si sono così create sia divisioni nel corpo
docente in rapporto ai differenti schieramenti culturali e politici, sia l’accelerazione
dei processi di cambiamento ed innovazione nel campo degli insegnamenti. Sulla
spinta delle nuove realtà e degli stimoli indotti da alcune più responsabili
componenti del movimento degli studenti, anche le discipline storiche
registreranno dunque il nuovo clima culturale; mentre, ad arricchirne il quadro
docente, nei primi anni settanta nella Facoltà fiorentina erano ufficialmente entrati
(in vari momenti) Franco Borsi, Eugenio Battisti, Marcello Fagiolo, Cimbolli
Spagnesi, Simoncini poi Cresti e Fanelli; così come altri docenti di differenti
settori disciplinari. Tra i quali, dopo Lusanna, nel campo della scienza delle
costruzioni anche pensata in chiave storica, assumerà un ruolo decisivo Di
Pasquale, che proveniva da Napoli. Inoltre iniziavano la loro carriera di docenza
(in qualità di assistenti dei vari docenti titolari) gli esponenti delle nuove
9
Anche la pubblicistica, periodica o d’occasione sia nazionale che locale, ne aveva assunto le diverse angolazioni
dando vita a brillanti “testate” editoriali di lunga od anche effimera durata: a Firenze ne sosteneva i principi
l’allora giovane Dezzi Bardeschi.
10
Con punte, spesso drammaticamente avvertite nle cuore stesso delle varie città così come nei loro indotti a scala
regionale, che sono anche partite da varie sedi universitarie italiane: soprattutto, per quanto concerne le facoltà di
Architettura, quelle di Roma, di Milano e di Firenze. Ne hanno subito le conseguenze più pesanti Zevi, contestato
anche sul piano familiare, Portoghesi, nella sua funzione di preside a Milano, Koenig a Firenze. Gli esiti positivi
hanno prodotto interessanti mutamenti di clima nelle sedi universitarie italiana; ma vi sono stati anche molti esiti
negativi di degrado che sono apparsi pochini dopo. E’ quanto Benevolo ha condensato nel suo “La laurea
dell’obbligo”: un“pamphlet” fortemente accusatorio che motiva il suo deluso abbandono dell’università.
14
generazioni: che, in seguito, sarebbero diventati a loro volta i più significativi
esponenti della Facoltà fiorentina di Architettura. Tra i nuovi insegnamenti, oltre a
quelli tradizionali (Storia dell’architettura, Caratteri Stilistici e costruttivi dei
monumenti), cominciano così ad apparire altre discipline: Indirizzi dell’architettura
moderna (corso che mi verrà affidato e che poi diverrà Storia dell’architettura
contemporanea), Storia dell’urbanistica, e, parallelamente e lentamente, ma non
senza contrasti, anche “Storia della città e del territorio” (di cui, ancora più tardi,
diventerò titolare). Insomma, nelle facoltà italiane di architettura l’ambito delle
discipline storiche aveva assunto confini mobili che si intersecavano con quelli di
altri ambiti (nel frattempo sviluppatisi ed anch’essi articolati in più insegnamenti
disciplinari): in particolare con le tematiche urbanistiche e territoriali intese nella
loro accezione di storia e significati del costruito urbano o paraurbano. E, dunque,
era logico e necessario (soprattutto a me stesso) ricercare le connessioni con ambiti
scientifici presenti in altre facoltà universitarie ed in altre istituzioni scientifiche:
storia della mentalità (nella scia delle “Annales”), storia della cultura, storia delle
società, storia sociale e demica (in seguito la storia dell’architettura con questa
accentuazione
verrà
negativamente
bollata
per
eccessivo
ed
improprio
“sociologismo”), storia economica ecc.11 Ambiti storiografici che le Facoltà di
Architettura italiane, così come esse erano state inizialmente concepite ed
impiantate, non avevano invece contemplato.
Un elemento importante è che, dopo gli anni Settanta, nelle Facoltà di
architettura era anche subentrata, almeno in parte, una sottile e diffusa sfiducia nel
ruolo della progettualità architettonica quale strumento di qualificazione urbana,
territoriale, e sociale: come, invece, essa era stata intesa dalla fine degli anni
11
Per quanto mi riguarda a Firenze mi attirava soprattutto la cosiddetta “medievistica” di ambito tardomedievale,
dunque estesa a comprendere il primo rinascimento fiorentino. . E’ importante segnalare che l’ambiente degli
storici fiorentini di queste varie declinazione disciplinari era allora assai stimolante: erano all’opera Rubinstein,
Garin, Luporini, Saalman, Giorgio Spini, Elio Conti, Vasoli, Carlo Cipolla, ed altri. Si andava inoltre affermando il
nucleo dei più giovani Cherubini, Cardini, Sergio Bertelli; mentre, contemporaneamente, si delineava la nuova
disciplina dell’archeologia medievale. Gli altri docenti avevano invece scelto linee storiografiche diverse: talvolta
inserite in questi stessi ambiti, Borsi interessato alla storia della cultura rinascimentale fiorentina ed alla
produzione architettonica “ufficiale” dell’Italia postunitaria, alla cultura del Liberty cui si rivolgeva anche Cresti,
ed anche ad aspetti “creativi” della contemporaneità; talaltra più interessate ai filoni iconologici su cui erano
impegnat, in particolarei Fagiolo, Battisti.
15
quaranta in avanti12. Fenomeno nuovo; a sua volta motore di importanti
cambiamenti. Perché, da un lato alcuni gruppi più radicali avevano addirittura
teorizzato la necessità di non procedere, nel percorso progettuale, oltre una
cosiddetta pre-progettualità (fermarsi ad un progetto privo di effettive connotazioni
oggettivanti e qualificanti). E perché, dall’altro lato, proprio per tentare una
palingenesi del ruolo e della figura dell’architetto “progettista”, Aldo Rossi
sosteneva la necessità di un ritorno alla ricerca di archetipi formali e costruttivi (o,
sostanzialmente su base “culturalmente” trilitica anche riferibile agli elementi dei
“giochi frobeliani”!). Mentre a Roma aveva preso piede la linea dei giovani della
cosiddetta “tendenza”. Questo scarto tra diverse e contraddittorie concezioni si è
riflessa nell’insegnamento delle discipline storiche nelle Facoltà di Architettura.
Anche, forse, per effetto della nuova figura di docente disegnata dalla legge
universitaria del 198013: che indicava la preferenza per la linea del distacco tra
docenza e professionalità attiva. Da questa nuova situazione discenderanno
importanti conseguenze. In primo luogo un accrescersi di contenuti scientifici nelle
attività di ricerca storiografica svolte nelle apposite istituzioni (ora dipartimenti)
delle Facoltà di architettura. E, conseguentemente, sia la formazione di studiosi
specialistici, sia la creazione di testate editoriali disciplinarmente molto definite;
sia, infine, il delinearsi di “scuole” di storia dell’architettura localmente
riconoscibili. Ciascuna, delle quali, in genere, si è infatti sostanzialmente dedicata
a studi connessi con gli aspetti di uno o più immaginari culturali assunti come
“ideologicamente connotativi” della propria città (cioè, a seconda delle sedi, la
romanità, il medioevo, il primo e secondo rinascimento, il barocco e così via). In
secondo luogo un progressivo distacco tra gli esiti didattici conseguenti a queste
linee di ricerca e la spesso troppo riduttiva domanda di “informazione attualizzante
e finalizzata” che proveniva dagli ambiti della rinata progettualità urbanistica ed
architettonica. Il che, oltre ad altri effetti di ordine accademico, ha spesso prodotto
12
Insomma la figura dell’architetto andava progressivamente perdendo la centralità che aveva avuto precedenza;
cioè prima negli anni della ricostruzione postbellica, poi nel periodo del cosiddetto “boom” economico vale a dire
nella fase affluente della società italiana e delle corrispettive spinte espansive verso altri continenti (mediorientali,
africani, americani).
13
Così Tafuri, a Venezia, sosterrà, e porrà in essere, la scissione tra ricerca storica e progettualità: ma il processo
era già in atto anche in altre sedi universitarie italiane.
16
sia una sorta di presunta “supplenza” informativa da parte di non specialisti della
storia dell’architettura, sia, anche, un diffuso disinteresse per la storia
dell’architettura di una gran parte dei nuovi studenti: salvo i pochi che, invece,
decideranno di dedicarvisi in modo specifico e specialistico.
Inoltre, dato significativo, l’impianto concettuale originario delle facoltà italiane
ha determinato l’accorpamento (non proprio la fusione) dipartimentale dei settori
disciplinari storici con quelli delle discipline restaurative: in una dialetticamente
sofferta ma presunta contiguità concettuale. Infatti fin dall’inizio non mancavano, e
non mancheranno, convivenze forzate da “separati in casa”: talvolta risoltesi in
veri e propri divorzi.
Questo, direi, era il quadro d’insieme che si stava delineando in varie sedi
italiane quando, nel ‘90, sono stato chiamato a Roma e sono entrato nel
Dipartimento di Storia dell’Architettura, Conservazione e Restauro dei Beni
Architettonici. Dove più che altrove, oltre al principio dell’originalità e specificità
dei metodi di ricerca della storia dell’architettura intesa quale autonoma disciplina
storiografica, si sostenevano anche con convinzione i metodi di una cosiddetta
“scuola romana” di storia dell’architettura (la definizione, sulla quale molto
insistono Arnaldo Bruschi ed anche altri “romani”, è attribuibile ad un
estemporaneo giudizio di Chastel). Metodi che hanno trovato, ma dialetticamente,
influente sponda nell’attività di ricerca storiografica di Frommel: per molti anni
direttore della Biblioteca Hertziana di Roma. Ma a Roma coesistevano linee
differenti: quella degli allievi di Bonelli, interessati all’età medievale e
problematicamente in rapporto con la formazione crociana del loro maestro (a sua
volta in sottile parallelismo, talvolta conflittuale, con la Romanini); quella degli
allievi di De Angelis d’Ossat, ora proiettati all’età tardo-cinquecentesca, al
Seicento ed al Settecento; quella di Bruschi e dei suoi allievi, sostanzialmente
dediti al Cinquecento romano ed ai suoi indotti14. Era inoltre attivamente presente
una componente che risaliva a Zander (morto poco prima e diretto allievo di
14
Schematicamente la situazione può così essere riassunta. Allievi principali di Bonellli: Bozzoni, Gianni
Carbonara e Villetti. Principali seguaci di De Angelis d’Ossat: Benedetti, Spagnesi, Tiberi,Miarelli-Mariani. Allievi
di Bruschi: Fiore, Zampa, e, con qualche differenza Curti. A questo elenco vanno peri aggiunti altri nomi: quelli dei
loro più giovani collaboratori che successivamente hanno assunto incarichi di docenza.
17
Giovannoni) ed un’altra, espressa da Paolo Cuneo, incentrata sulla cultura urbana
ed architettonica di ambito islamico (specialmente nella declinazione anatolica).
Inoltre vi era Mario Manieri Elia, divergente rispetto alle linee della cosiddetta
“scuola romana” (sarebbe poi andato nella Terza Università di Roma). Con me era
rientrato a Roma anche Simoncini. Su altro versante vi erano anche taluni rapporti
con la Scuola Archeologica di Atene. Mentre nelle leve più giovani coesistevano
anche gli allievi (si segnalerà in particolare la Muntoni) della linea di ricerca
sostenuta da Zevi, e da lui stesso denominata “critica operativa”. In un diverso
ambito dipartimentale erano poi presenti Portoghesi (che era rientrato da Milano) e
Guidoni: l’uno proiettato alle vicende delle avanguardie, l’altro sostenitore di
proprie teorie in tema di storia dell’urbanistica medievale. Più tardi il quadro
cambia ancora una volta. In genere sul crinale tra XX e XXI secolo, proprio per il
progressivo spostarsi della ricerca storiografica anche verso gli ambiti sia dell’età
moderna (tra fine Cinquecento e XVIII secolo), sia contemporanea (tra fine XVIII
secolo ed anni Quaranta-Cinquanta), sia della più recente attualità (confine finale
evidentemente mobile), nuove leve entreranno nel quadro docente. Come stava e
sta avvenendo in tutte le sedi italiane. Così la “lettura” critica delle vicende
architettoniche ed urbane degli anni compresi tra fine XIX secolo e tutto il XX
secolo, va ora sempre più acquisendo un significato ed un ruolo molto più ampio e
promettente di quello che con azione di “supplenza”, avevano sino ad allora
proposto docenti di formazione più “progettuale” che storica. Mentre riappaiono
taluni segnali, però ancora timidi e confusi, di un possibile ritorno di collegamenti
tra ricerca storiografica (nei suoi vari ambiti tematici e nelle sue diverse
declinazioni critiche e di metodo) e formazione alla progettualità. Ma si tratta di un
quadro in evoluzione. La recentissima riforma degli studi universitari sta infatti
ulteriormente modificando tutto l’impianto delle facoltà di Architettura: quindi, sia
il divenire della formazione e della figura dei docenti (“Specialisti” dei vari settori?
O quale altro loro ruolo nella scuola e nella società?), sia l’intero l’assetto
dell’insegnamento delle discipline storiche: con esiti per ora non valutabili perché
“i lavori sono in corso”.
18
Concludo con un auspicio, o con un timore: che l’ipotetico cartello “lavori in
corso”, posto a segnalare i “cantieri” di tutti gli insegnamenti delle facoltà di
Architettura, e dunque anche di quelli delle discipline storiche, non produca, al
futuro delle nostre università pubbliche, gli stessi disagi che simili cartelli ci
procurano quando li incontriamo nei nostri percorsi cittadini: pedonali e
motorizzati.
19