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La Terra delle Sirene. Vol. 11/1995

1995

LA TERRA DELLE SIRENE Bollettino del Centro di studi e ricerche Bartolommeo Capasso Direttore Arturo Fratta Condirettore Enzo Puglia ricerche fotografiche di Antonino Fiorentino Sorrento giugno 1995 © Centro di Studi e Ricerche Bartolommeo Capasso. Autorizzazione del Tribunale di Napoli nr. 4369 dell'll-2-1993. Contributo del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio centrale per i Beni librari e gli Istituti Culturali. Fotocomposizione e stampa Tipolitografia Somma - Castellammare di Stabia. «La Terra delle Sirene» è reperibile a Sorrento nelle librerie "Nonsoloedicola", "La capsa" e "Tasso" e presso il fila­ telista A. Del Duca. SOMMARIO p. 7 Emanuele Greco Strabone e la penisola sorrentina p. 9 Enzo Puglia Marmi antichi della Campanella nel convento sorrentino di S. Vincenza p. 17 Francesco Durante La sintassi del Golfo. Sorrento e la letteratura p. 23 Federico Frascani Sorrento nell'opera di Corrado Alvaro p. 37 Francesca Aiello e Antonello Munzù Gli antichi villaggi fuori le mura della città di Sorrento p. 43 Palma Cappuro Memoria storica e memoria sentimentale p. 53 Arturo Fratta . L'arte della riggiola napoletana a Massa Lubrense p. 57 Giusy Gargiulo Ricordo di Enrico Gabelli p. 63 Le attività del Centro B. Capasso p. 67 Questo numero QUESTO NUMERO Questo numero, che appare a poco più di un anno dalla scomparsa di Georges Vallet, è idealmente dedicato a lui. Idealmente perché, con il contributo determinante di Angelo e Ruggero Rossi dell'Arte Tipografica, il Centro di studi e ricerche Bartolommeo Capasso più con­ cretamente pubblica allo stesso tempo un volume che raccoglie testimo­ nianze e ricordi sulla vita e l'opera del grande archeologo. Ma, come il Lettore vedrà a cominciare dal primo articolo, un illumi­ nante saggio di Emanuele Greco, anche questo fascicolo si apre nel segno di una continuità concordata con Georges Vallet fin dagli inizi del 1993, quando fu deciso che «La Terra delle Sirene» aprisse le sue pagine a una serie di studi sull'archeologia della penisola sorrentina, scritti che fossero insieme di ricerca e di promozione di indagini sul campo. Per questo, proprio nel giugno di quell'anno, demmo inizio alla· serie con una nota di Stefano De Caro, che fu letta come l'impegno dello studioso e del Soprintendente di programmare un sistematico piano di lavoro per l'archeologia sorrentina, di cui la mostra tuttora aperta a Villa Fiorentino doveva essere contemporaneamente punto di arrivo e punto di partenza. E da allora, mentre gli scavi archeologici si infittivano in città e in penisola, il nostro lavoro proseguiva di numero in numero, ospitando tra altri autorevoli scritti sull'archeologia sorrenti­ na un contributo di Georges Vallet. Fu un importante inizio, al quale riteniamo sia giusto continuare a ispirarci. Questa fedeltà alla memoria dell'archeologo scomparso, che seppe essere un grande amico di Sorrento, va letta anche nella decisione, adot­ tata di comune intesa dalla Città di Sorrento e dalla Soprintendenza 8 archeologica, di intitolare al suo nome il Museo di Villa Fiorentino. Una scelta che annunziamo con commozione. Anche Napoli lo ricorderà dedicandogli una strada proprio accanto all'isolotto di Megaride e al Borgo Marinari. Inoltre a tutti coloro che furono amici di Georges e agli studiosi si può infine anticipare la decisione della casa editrice "Electa" di pubblicare un suo libro inedito, "Passeggiate archeologiche in Campania", già in preparazione. In questo numero, un altro contributo originale agli studi relativi ai problemi del!'archeologia sorrentina porta la firma di Enzo Puglia: "Marmi antichi della Camp anella nel convento sorrentino di S. Vincenzo". Segue un saggio di Francesco Durante su "Sorrento e la let­ teratura", dotto excursus sulla sintassi del Golfo che siamo lieti di pub­ blicare per la sua vivace freschezza. Arricchisce il fascicolo una ricerca di Federico Frascani su "Sorrento nell'opera di Corrado Alvaro", nella quale ci sembra notevole, tra l'altro, una osservazione dello scrittore calabrese sulle particolarità significative della grafia di Torquato Tasso. Completano il fascicolo "Gli antichi villaggi fuori le mura della città di Sorrento" di Francesca Aiello e Antonello Munzù, "Memoria storica e memoria sentimentale", ricordo della scuola tenuta a Sorrento dalla fine degli Anni Venti dalle suore benedettine, di P alma Cappuro, "L'arte della riggiola napoletana a Massa Lubrense", recensione di un libro di Eduardo Alamaro, e un "Ricordo di Enrico Gabelli" di Giusy Gargiulo. A. F. STRABONE E LA PENISOLA SORRENTINA di Emanuele Greco a Bruno d'Agostino Le belle e molto lucide pagine che Bruno d'Agostino ha dedicato nel nr. 9 di questa elegante rivista al problema delle sirene sono il frutto del modo di ragionare tipico di questo grandissimo studioso (al quale dob­ biamo tutti, ed io in particolare, moltissimo): ammaliante (proprio come una sirena) ma forse anche un po' troppo "sistematico ed esclusivo", per riprendere una formula di Luigi Russo. Se intervengo sull'argomento (anche grazie al cortese invito di Arturo Fratta) non è certo per polemiz­ zare con Bruno d'Agostino, ma per continuare a "baccagliare" con lui sulle Sirene (esercizio nel quale siamo impegnati, ognuno con le sue testarde opinioni, da circa venti anni). Va detto subito che le argomentazioni del d'Agostino affondano le loro radici in un modo certamente esemplare di impostare il problema, perché abbracciano e soddisfano nello stesso tempo un vasto arco di esi­ genze: il quadro storico della navigazione antica, agli inizi della coloniz­ zazione greca in occidente, il 'punto di vista' greco-arcaico, considerato alla luce dell'epica omerica da un osservatorio dichiaratamente psicologi­ co-storico. Le Sirene equivalgono ai pericoli della navigazione, enfatizzati dalla misconoscenza dei luoghi nella fase più antica; va dunque bene se la lettura delle fonti letterarie indirizzi verso una ubicazione del santuario non lontano dalla Baia di Ieranto, sul Monte S. Costanzo, in posizione dominante. Il mio modo di vedere il problema, al confronto, rischia di apparire miseramente positivista, considerati i pochi dati (o meglio la mia inter­ pretazione di quei pochi dati) che sembrano contraddire un castello obiettivamente attraente. 10 EMANUELE GRECO Non a caso ho intitolato questo intervento Strabone e la penisola sorrentina, perché la principale materia del contendere è tutta nelle poche righe che il Geografo di età augustea ci ha tramandato su Sorrento ed i santuari situati nel territorio della città campana. Riepiloghiamo, perciò, la questione, cominciando dalle due testimo­ nianze dell'autore antico (Strabo, I 2,12 e V 4,8). Nella prima (il conte­ sto è la polemica con Eratostene, il quale negava che Omero potesse avere attendibilità geografica) Strabone scrive: «C'è chi le situa (intendi le Sirene) al Peloro, altri a più di duemila stadii, alle Sirenusse, che, dicono, sia uno scoglio a tre punte (trikorhyphos) che separa il golfo di Cuma da quello di Poseidonia»; e subito dopo «ma né lo scoglio è a tre punte, né si eleva verso l'alto, ma è una specie di sperone stretto e lungo che sporge dal territorio di Sorrento in direzione dello stretto di Capri, che ha da un lato della montagna il santuario delle Sirene, dal1' altro verso il golfo di Poseidonia tre isolotti, che giacciono di fronte, deserti e rocciosi, che chiamano Sirene; in posizione dominante sullo stretto si trova l 'Athenaion, da cui prende il nome lo sperone stesso». Dunque, la fonte antica, da cui dipende Eratostene, chiama cumano il Golfo (e non ancora neapolitano) e conosce uno scoglio a tre punte che si eleva verso l'alto, ma i commentatori successivi a cominciare da Eratostene e fino a Strabone, quando trattano della penisola, non vi tro­ vano nessuno scoglio a tre punte, ma uno sperone roccioso, che prende il nome di Ateneo dal santuario di Atena che vi è edificato 'in posizione dominante' sulle Bocche di Capri. Ora, con buona pace dei nostri autori, noi sappiamo che lo scoglio invece esiste veramente, ha tre punte e si eleva ,verso l'alto: è lo scoglio delle Sirene, a tutti ben noto. Ora, una volta identificati i luoghi, dovremmo coerentemente conclu­ dere che ci troviamo di fronte ad una chiara stratificazione: in età più antica uno scoglio a tre punte è ben distinto dal Capo Ateneo-Punta della Campanella, in epoca più recente tutto viene assimilato al promontorio sorrentino, donde la confusione; ecco perché il santuario andrebbe cerca­ to, tenendo presente la prospettiva arcaica, sul fianco che guarda verso Napoli non del promontorio di Sorrento, ma dello scoglio delle Sirene. In realtà tutto dipende dal fatto che la fonte antica che Strabone non nomina e che viene da lui citata almeno di terza mano, se non di più, STRABONE E LA PENISOLA SORRENTINA 11 La Punta della Campanella vista da Capri. avrebbe definito lo scoglio delle Sirene il discrimine tra il Golfo di Poseidonia (Salerno) e quello di Cuma (Napoli). Se noi accettiamo la identificazione dello scoglio a tre punte con lo scoglio presso la Baia di Ieranto, dobbiamo concludere che anche in questo-caso c'è una discreta dose di confusione, perché a nessuno verrebbe mai in mente (nemmeno ai primitivi e spaventatissimi naviganti arcaici nel momento in cui stan­ no per attraversare "il mare infido delle bocche di Capri") che i due Golfi siano separati da altro che dal promontorio di Sorrento. Io credo che sia pericoloso sopravvalutare il dato letterario per trarne illazioni di ordine topografico, trattandosi di una ·citazione di una cita­ zione di qualcuno che avrebbe potuto anche dire che le Sirene stanno in un punto vicino a quello che segna il limite tra i due Golfi e mi pare, inoltre, che si debba operare una netta distinzione tra i luoghi mitici ed il santuario delle Sirene. Tanto per dire, in ogni caso, abbiamo gli iso­ lotti deserti che si chiamano Sirene (Li Galli), lo scoglio che si chiama 12 EMANUELE GRECO Sirenusse (scoglio delle Sirene) ed il santuario che sta, comunque, in un terzo luogo, sia pure questo il monte S. Costanzo. Ma passiamo alla seconda testimonianza straboniana: «sulla punta del promontorio si trova un santuario di Athena, fondato da Odisseo. La traversata da qui a Capri è breve. Chi doppia il capo trova isolotti deserti e rocciosi chiamati Le Sirene. Sul versante del promontorio dove si trova Sorrento viene mostrato un certo santuario (hier6n ti) e antiche offerte votive essendo il sito venerato dagli abitanti del luogo». Questa seconda parte del di scorso ha finito con l'ingenerare al tre confusioni, perché si è ritenuto che quel 'certo santuario' fosse un terzo luogo di culto; ma il confronto tra i due passi dovrebbe darci qualche conforto, anche se è difficile raggiungere la certezza assoluta; insomma se nel primo passo si dice che "da un Iato della montagna" si trova il santuario e dall'altro, verso il golfo di Poseidonia, gli isolotti delle Sirene, e nel secondo si ripropone una opposizione analoga tra Le Sirene ed il versante del promontorio in cui si trova Sorrento, il santua­ rio anonimo citato da questa parte dovrebbe essere quello delle Sirene, per cui, con l'aiuto della seconda testimonianza, recuperiamo la notizia che il sito era venerato dalla gente del luogo e che vi si mostravano "antiche offerte votive"; queste non erano, dunque, fatte di materiale deperibile e, soprattutto, anche ammettendo che il santuario non esiste­ va più (ciò che pone soprattutto il problema del rapporto tra Strabone ed i suoi lettori, ai quali il Geografo dice che il luogo di culto c'è ancora: deiknytai) la notizia deve essere valida comunque per l'epoca della fonte di Strabone (Artemidoro di Efeso? geografo del II-I sec. a. C.); ciò a me sembra provare che palaia anathemata, antiche offerte votive, non equivale necessariamente a votivi arcaici, ma a votivi che sono antichi rispetto ad un osservatore del I secolo a. C. (dunque anche del V e del IV secolo a.C.) senza dover per forza immaginare che il santuario delle Sirene sia il recupero della memoria di un livello arcaicissimo; questo sarà possibile, in linea di principio, ma la difficoltà consiste nell'ammet­ tere che il santuario abbia esaurito la sua funzione con il passaggio dalla navigazione della prima fase all'ordine, al kosmos dei Campi Flegrei dopo la fondazione di Cuma, cioè prima che si sviluppi la pratica di deporre offerte votive nei santuari. STRABONE E LA PENISOLA SORRENTINA Il promontorio Ateneo con le Bocche di Capri. 13 14 EMANUELE GRECO Si ripropone, in qualche misura, la tendenza a vedere nelle navigazioni più antiche i traffici emporici euboici (insomma Pithekoussai) e dunque le Sirene, funzione (precoloniale?) che si esaurirebbe nella fase seguente con la fondazione di Cuma. A me pare difficile che il sistema di riferimento sia cambiato dall'età arcaica all'ellenistica, per cui dovremmo scegliere lo scoglio delle Sirene come discrimine arcaico per ubicare il santuario. La lettura che propongo (indubbiamente facilior) è che lo sperone roccioso sia il promontorio di Sorrento e che il santuario delle Sirene si trovi dalla parte del golfo di Napoli, più o meno simmetricamente agli isolotti delle Sirene che sono dalla parte del Golfo di Poseidonia, ferma restando la identificazione delle Sirene, isole deserte, con i Galli e dello scoglio a tre punte con lo scoglio delle Sirene. È quest'ultimo, non il santuario, ad essere in seguito assimilato al Capo di Sorrento che sarà chiamato Capo Ateneo _ed anche promontorio delle Sirenusse. Quella che si propone è una topografia rovesciata; il tragitto non sarebbe fun­ zionale a chi veniva da sud: difficoltà della navigazione (lo scoglio, la secca), il santuario come punto di riferimento, illusorio, per chi prove­ nendo da mezzogiorno deve ancora affrontare altri pericoli, massimo della perfidia, ma il contrario, che è poi quello del percorso odissiaco (Ulisse viene da nord e trova le Sirene appollaiate sui cumuli di ossa umane che gli segnalano il pericolo). Ci sarebbe a questo punto da domandarsi se nell'Odissea il riferi­ mento mitologico che indubbiamente presuppone le navigazioni dei primi coloni euboici sia compatibile con la notizia dell'esistenza del santuario; viene da osservare che è molto improbabile che gli abitanti della penisola abbiano eretto un santuario delle Sirene nel secolo VIII a.C., indipendentemente dal fatto che stesse sul monte S. Costanzo o altrove. Ecco dunque riproporsi, con la tormentata topografia, uno svi­ luppo complesso, all'interno del quale, il santuario, espressione della organizzazione sociale e religiosa di gente indigena, viene a collocarsi anche sulla scorta di una serie di credenze che i Greci avranno contri­ buito a formare in modo decisivo. Ovviamente, mancando i dati archeologici, i riscontri materiali, non vedo la possibilità di portare l'analisi oltre questo livello, già pericolo­ samente spinto. STRABONE E LA PENISOLA SORRENTINA 15 C'è solo un'ultima considerazione da fare: il Liber coloniarum contiene la interessante notizia della spartizione dell'ager dell'oppidum di Sorrento tra i coloni di Augusto. Vi si legge: «Oppido di Sorrento. Il territorio di questo oppido era occupato dai Greci, per la consacrazione a Minerva. Ma esso, compreso il monte delle Sirene (mons sirenianus), fu in parte asse­ gnato con limitazioni augustee. La parte rimanente rimase indivisa. Dove si trovano le Sirene si è lasciato un passaggio pubblico di XV piedi». Si comincia con un riferimento retorico alla grecità dell'agro, prova­ ta dal culto di Athena-Minerva (costruzione ideologica utilizzata per nobilitare le origini della comunità locale, come ha ben visto il De Caro) per passare poi alla divisione vera e propria che comprende un "Monte delle Sirene", non solo ma una strada pubblica, larga circa 4,5 mt., che si trova ubi Sirenae, espressione evidentemente da intendere come il santuario delle Sirene e non certo lo scoglio e che prova in ulti­ ma analisi come si avesse in età romana almeno memoria di dove questo si trovasse (pur ammettendo che esso non funzionasse più). Il tutto, quasi a suggerire un possibile indirizzo di ricerca, in una parte della penisola dove si trova terreno agricolo, quello che fu spartito tra i veterani di Augusto. MARMI ANTICHI DELLA CAMPANELLA NEL CONVENTO SORRENTINO DI S. VINCENZO di Enzo Puglia Sono piuttosto note fra gli specialisti e gli studiosi di storia patria le testimonianze sei-settecentesche sui resti del tempio di Atena alla Punta della Campanella del poeta gesuita Nicolò Partenio Giannettasio e del­ !' areivescovo di Sorrento Filippo Anastasio. Il primo si esprime così nelle Aestates Surrentinae: «Illius (scii. templi) vestigia adhuc extant; nimirum pavimentum opere tessellato, eq: perlucidis lapillis affabre coagmentum, et columnae marmoreae in quarum capitulis noctuae, Palladi sacrae, insculptae sunt». 1 E ribadisce negli Autumni Surrentini: «Adhuc fani pavimentum e texellis pellucidis compactum visitur, juxta turrim illam speculatoriam, quam videtis in edito ilio colle; columnae marmoreae in quarum capitulis insculptae noctuae».2 L'Anastasio a sua volta scrive: «in antiquis Templi vestigiis, ac rude­ ribus in fronte Promontorj Surrentini, quae adhuc extant, videre est epi­ stylia columnarum, cum noctua, quae Minervae Atheniensi sacra erat, insculpta, ut etiam annotavit in Aestatibus Surrentinis eximius sane poeta Pater Nicolaus Giannettasius ( ...) Sunt autem ea epistylia Corinthiae architecturae, qualem dicebant Minervam decere ( ... ) In Templo autem Minervae Surrentinae solus Corinthius apparet. Solum vero ex opere tes­ sellato adhuc conspicitur. Tessella quidem ex Encausto, unde, gemmula­ rum illarum, de quibus abunde locuti sumus, magna copia extracta».3 1 NICOLÒ PARTENIO G!ANNETTASIO, Aestates Surrentinae (Neapoli 1696), p. 2. lo., Autumni Surrentini (NeapoLi 1722), p. 26. 3 lucubrationes in Surrentinorum Ecclesiasticas Civilesque Antiquitates nuncupatae Sanctissimo Domino Nostro Clementi Xli Pont. Max. a Philippo Anastasio Patriarcha Antiocheno pridem Archiepiscopo Surrentino. Pars altera (Romae 1732), p. 250 s. 2 18 ENZO PUGLIA Per amore di completezza riporto anche una breve frase di Ludovico Agnello Anastasio, nipote di Filippo Anastasio e suo successore nell' e­ piscopato sorrentino, sebbene mi sembri che egli dipenda totalmente dai due autori precedenti. L'erudito scrive che, sulla Punta della Campa­ nella, del tempio di Atena «adhuc videre est ( ...) Epistylia columnarum cum noctua insculpta, quod ipsius Deae est symbolum».4 Le testimonianze qui richiamate furono prese in considerazione dal Capasso, il quale registrò che, ai tempi di Mons. Anastasio, «vedevasi ancora il sito delle colonne appartenenti a questo edificio (scii. il tem­ pio)».s Ma poi subentrò il sano sospetto di altri studiosi, a partire da Julius Beloch, il quale non era disposto ad attribuire i ruderi descritti dai due dottissimi personaggi al tempio ateneo, ma tutt'al più a una villa romana che prese il posto del tempio stesso.6 A loro volta Mingazzini e Pfister ritennero che i dati struttivi riferiti dal Giannettasio e dall'Anastasio «convengono assai meglio ad una villa di età augustea che a un tempio greco».7 Altre volte lo scetticismo è stato più radicale e si è giunti a pen­ sare che il Giannettasio e l'Anastasio abbiano più o meno consapevol­ mente lavorato di fantasia, spinti dal desiderio di dare almeno qualche vaga indicazione sullo scomparso tempio di Atena sorrentina. Non pare, tuttavia, che si possano del tutto trascurare le loro testimonianze, poiché esse sono state di recente avvalorate: dopo alcune ripuliture dello spazio ad est della seicentesca torre di guardia che sorge sul promontorio, è stato infatti notato il portico di cui esse parlano.s Ad accrescere inaspettatamente il dossier di notizie in nostro posses­ so sui ruderi della Campanella, giunge ora una notizia assai interessante segnalatami da mia moglie Luigina, impegnata in ricerche sulla presen­ za della Compagnia di Gesù in penisola sorrentina. La notizia è conte­ nuta nell'opera in tre volumi di Michele Volpe S. J. / Gesuiti nel 4 Animadversiones in /ibrum F. Pii Thomae Mi/ante Episcopi Stabiensi De Stabiis ... (Neapoli 1751), p. 159. B. CAPASSO, Topografia storico - archeologica della Penisola Sorrentina (Napoli 1846), p. 61. 6 J. BELOCH, Campania. Storia e topografia della Napoli antica e dei suoi dintorni, trad. dell'ed. tedesca (Breslau 1890) a c. di C. Ferone e F. Pugliese Carratelli, prefaz. di G. Pugliese Carratelli (Napoli 1989), p. 313. 7 Cf. P. MINGAZZINI - F. PASTER, Surrentum, Forrna Italiae Regio I Latium et Campania voi. [I (Firenze 1946), p. 147. 8 Cf. M. Russo, Punta della Campanella. Epigrafe rupestre osca e reperti vari dall'Athenaion, con contributi critici di M. Lejeune, A. L. Prosdocimi, G. Pugliese Carratelli, Attilio Stazio e P. Zancani Montuoro, a c. di P. Zancani Montuoro (Roma 1990), p. 283. Quello di Russo è il lavoro più completo e aggiornato sull'argomento, ma si veda ora anche L. IACOBELLI, Alcune osservazioni sull'area di Punta Campanella, nel voi. Scritti di varia uma­ nità in memoria di Benito lezzi, a c. di M. Capasso e E. Puglia (Napoli 1994), pp. 65-77. 5 MARMI ANTICHI DELLA CAMPANELLA 19 Napoletano. Note ed appunti di storia contemporanea da documenti ine­ diti e con larghe illustrazioni (1814 - 1914), Napoli 1915, e riguarda i gesuiti che dal 1835 si erano insediati nel convento sorrentino di S. Vincenzo. Per qualche tempo essi vi tennero il loro noviziato, poi, chiu­ so il noviziato, vi rimasero solo pochi padri. Riferisce dunque il padre Volpe, a p. 59 s. del volume III, che nel 1838, al termine di alcuni importanti lavori di rifacimento dei pilastri della loro chiesa e del muro soprastante, i gesuiti pensarono «di dotare di un'artistica edicola e del relativo altare in marmo» l'antichissima pittura della Vergine di Casarlano, anche detta Auxilium Christianorum, che lì si venerava. «Se non che faceva difetto il danaro, le elemosine mancavano e mancavano pure i marmi in buona parte. Che fare? Se ne parlò con parecchie perso­ ne di Sorrento e si venne a conoscenza che nelle adiacenze dell'antico tempio di Minerva, alla Punta della Campanella, se ne sarebbero potuti non solamente trovare, ma trovarne dei veramente preziosi. Tanto vi volle, perché il p. Ferdinando Nardone, uomo di rara energia, concepisse l'ardito disegno di compiere una esplorazione presso il diruto delubro pagano per cercarvi i marmi. L'esplorazione fu coronata da un magnifico successo: i marmi vi furon trovati in grande abbondanza, vennero diffos­ sati e trasportati a Sorrento con una spesa forse superiore a quella che si sarebbe sostenuta a farli venire altronde. Fu dunque innalzata a destra dell'altare maggiore un'artistica e preziosa edicola marmorea con il suo altare, e vi venne solennemente collocata l'immagine di Maria». Ai due lati dell'edicola, conclude il Volpe, furono poste due epigrafi su marmo. Non è purtroppo possibile rintracciare i marmi di cui parla il Volpe perché, com'è noto, il glorioso convento di S. Vincenzo, dopo essere stato tolto ai gesuiti nel 1860 e venduto a privati, nel 1905 fu infine acquistato e abbattuto dal ricco e stravagante inglese William Waldorf Astor. La distruzione dell'antico edificio, uno dei siti più significativi della storia sorrentina, fu operata per far posto alla nascente Villa Astor, odierna Villa Tritone.9 Se i bei marmi della Campanella furono salvati e in qualche modo riutilizzati nell'area circostante (la stessa Villa Tritone 9 Cf. almeno Sorrento e Torquato Tasso. Album per il lii celllenario della morte del poeta, a c. di B. Capasso ed altri (Napoli 1895), p. 10 s.; F. DE ANGELIS, Il convento di S. Vincenzo a Sorrento (Napoli 1979). Sulla presenza e l'attività di B. Croce a Villa Tritone nel corso della guerra cf. A. FRATIA, Così finì il Regno d'Italia (Napoli 1992). 20 ENZO PUGLIA è ricca di antichità) non è dato sapere. La dettagliata relazione dello storico gesuita Volpe, della quale, come ognuno vede, non vi è motivo di dubitare, consente tuttavia di rivedere lo scetticismo iniziale sulle testimonianze del Giannettasio e dell'Anastasio. Se nel 1838 era ancora possibile trovare alla Punta della Campanella tanti marmi "preziosi" da abbellirne con ogni decoro un'e­ dicola della chiesa del convento di S. Vincenzo, a maggior ragione fra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento dovevano essere ancora perfettamente visibili resti assai significativi degli edifici che erano sorti nelle adiacenze del santuario di Atena. Le parole dei due eruditi andrebbero perciò attentamente vagliate dagli archeologi per integrare i dati scientifici sull'area in nostro possesso. In attesa che ciò avvenga, mi sia concesso di svolgere, senza entrare troppo nello specifico, alcune considerazioni. In primo luogo, l'abbon­ danza e la "preziosità" dei marmi utilizzati dai gesuiti fanno pensare, sulla scia del Beloch, che essi non provenissero dall'antichissimo tem­ pio di Atena, per il quale - d'altra parte - s'è anche dubitato che fosse dotato di strutture in muratura. È invece presumibile che essi apparte­ nessero a qualche ricca villa romana che sorse nell'area una volta tra­ montato il culto di Atena, probabilmente in età imperiale. In secondo luogo, mi pare si possa suppore che, come i gesuiti, così pure molti altri costruttori o restauratori che nei secoli scorsi operarono nella penisola sorrentina attinsero largamente, come da una cava a buon mercato, ai ruderi della Campanella. Le stesse tessere colorate ad encausto ricavate dai mosaici della Campanella - riferisce l'Anastasio - furono riuti­ lizzate. Il fenomeno, ben noto a tutti gli esperti poiché interessò pratica­ mente tutti i monumenti antichi, non escluso il Colosseo, dovette lenta­ mente spogliare il promontorio ateneo e, in generale, tutti i siti sorrentini dove erano sorti edifici antichi, di ogni vestigio che fosse in qualche modo utilizzabile. Non va dimenticato, per addurre almeno un solo esempio, che una consolidata tradizione orale vuole che le colonne della Basilica di S. Antonino siano quelle di un antico e distrutto tempio pagano. Alla luce di questa riflessione, non appare illogico che alcuni mate­ riali antichi conservati a Sorrento, un tempo o ancor oggi inglobati in costruzioni moderne, possano essere attribuiti ali' area della Campanella MARMI ANTICHI DELLA CAMPANELLA 21 (o ad altri siti antichi). È anzi estremamente significativo che, proprio di recente, l'amico archeologo Umberto Pappalardo abbia ipotizzato una provenienza dalla Campanella per un capitello incompiuto di origine ignota oggi custodito alla Villa Pompeiana, non lontano da Villa Astor. Il capitello, in marmo greco, di elegante fattura e di medie dimensioni, appare stilisticamente di età augustea giulio-claudia e reca l'immagine della civetta, sacra ad Atena. 10 Non so se il marmo provenga proprio dal santuario, ma è possibile che gli edifici che di quest'ultimo presero il posto avessero conservato nella loro decorazione gli antichi simboli cul­ tuali. In ogni caso, l'attribuzione alla Campanella avanzata da Pappa­ lardo non può che essere avvalorata dalla notizia del Volpe. IO Cf. U. PAPPALARDO, lezzi e le «Passeggiate sorrentine» di Amedeo Maiuri, «La Terra delle Sirene» 7 (giu­ gno 1993), p. 68. Il capitello sarà pubblicato dallo stesso Pappalardo nel catalogo della mostra Surrentum. Vemi anni di ricerche archeologiche nella penisola sorrentino - amalfitana, a c. della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta, della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Napoli e del Comune di Sorrento (Sorrento, Villa Fiorentino). LA SINTA SSI DEL GOLFO SORRENTO E LA LETT ERATURA di Francesco Durante Se, giusta un'acuta osservazione di Raffaele La Capria,1 assegnamo al golfo di Napoli un carattere "virgiliano" e a quello di Salerno un carattere "omerico"; e se, flettendo questo paradigma alle sue ulteriori possibilità espressive, riconosciamo nell'uno un carattere "antico", nel­ l'altro un carattere "medievale"; e, per conseguenza, nel primo un pae­ saggio di gusto neoclassico, nel secondo un paesaggio di gusto romanti­ co; se assumiamo per buona una simile prospettiva, saremo obbligati a riconoscere una fondamentale opposizione tra la costiera sorrentina e quella amalfitana; un'opposizione i cui termini tendono a comporsi al vertice caprese di questo triangolo, dove la distesa armonia campestre del paesaggio bucolico sorrentino si sposa con la natura alpestre del paesaggio amalfitano, e dove il retaggio greco comporta, come anche storicamente è verificabile, una presenza molto più che di remoto sostrato rispetto ali'evidenza romana. Sorrento neoclassica, Amalfi romantica, col passaggio intermedio di Capri: anche da un punto di vista strettamente cronologico, lo schema tiene. (Nella seconda metà del Settecento, la costa sorrentina già comin­ cia a essere parte integrante e cospicua dell'immaginario artistico euro­ peo. Capri e la costa amalfitana entreranno stabilmente nell'itinerario non prima dei tardi anni Venti dell'Ottocento).2 1 Cf. RAFFAELE LA CAPRIA, La costa delle Sirene, nel voi. omonimo, a c. di Vincenzo Proto, Electa, 1991. 2 Su questo tema, tra molti altri possibili, si leggano i lavori di Atanasio Mozzillo, dalle pagine introduttive all'ancor oggi fondamentale Viaggiatori stranieri nel Sud, Milano, Comunità, 1984 (seconda edizione); a Il giardi110 dell'iperbole. La scoperta del Mezzogiorno da Swinburne a Stendhal, Napoli, Nuove Edizioni, 1985; a La fron­ tiera del Grall{l Tour. Viaggi e viaggiatori nel Mezzogiorno borbonico, Napoli, Liguori, 1992. In maniera più siste­ matica, le varie problematiche connesse al tema del viaggio a Napoli e nel Sud nel Settecento sono ora affrontate 24 FRANCESCO DURANTE Si può dire che questo dualismo è giunto quasi fino a noi: fondato magari su meno organate pulsioni di campanile (corrente, e quasi prover­ biale in certi ambiti altoborghesi partenopei, l'opposizione Capri / Positano). Di certo, il dualismo era ancora "perfetto" nel 1924, quando poteva offrire al pittore tedesco Caspar Neher, in viaggio in Campania in compagnia di Brecht, l'occasione di notare che Positano «è un nido senza comfort, però qui c'è tutto ciò che vale la pena di dipingere. Qui non c'è la bellezza sovraccarica di Capri o di Sorrento, nulla di simile al consueto cliché meridionale. Qui la natura è semplice, primordiale, austera; con fatica e disagio ha formato il fascino scabro del paesaggio».3 Ovviamente, la linearità di un siffatto paradigma può essere conti­ nuamente contraddetta e negata da singoli referti artistici. Nel caso dj Sorrento, anzi, essa risulta problematica fin dall'inizio, quando si pensi che tra i più formidabili motivi di richiamo per il viaggiatore colto del Settecento, la città poteva esibire la casa natale del Tasso, figura "romantica" per eccellenza. Resta peraltro da verificare la congruenza di una simile attrattiva con l'analogo modello napoletano: l'apparente dissidio si potrebbe dunque ricomporre col ricorso all'unità, tipicamente "napoletana" e "classica", di natura e cultura. E dunque, così come Napoli vale una visita in quanto riassume in una incomparabile visione i temi del paesaggio naturale con quelli della memoria storica (soprattutto antica), e in quest'ultima ingloba almeno un paio di fortunatissime· emergenze letterarie che sono i sepolcri di Virgilio e del Sannazaro; allo stesso modo Sorrento, che di quella grande armonia è un· pezzo, è con­ notata dalla dolcezza del paesaggio addomesticato dall'uomo, che risve­ glia nella mente dei visitatori echi da Virgilio, Tibullo, Properzio e, sul versante marinaro, Stazio; con i suoi monumentali avanzi parla di un lontano passato di civiltà; e serba infine nella casa del Tasso un grande e tragico genius loci. da Mozzillo nel volume Passaggio a Mezzogiorno. Napoli e il Sud nell'immaginario barocco e illuminista euro­ peo, Milano, Leonardo, 1993. Assai utile, per una definizione complessiva del problema, anche DIETER RICHTER, Viaggiatori stranieri nel Sud. L'immagine della Costa di Amalfi nella cultura europea tra mito e realtà, Amalfi, Quaderni del Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 1985. Fondamentale, infine, per l'individuazione di un'ampia serie di materiali letterari, il repertorio di BENITO IEZZI, Viaggiatori stranieri a Sorrenro. Prima centuria bib/;ogra­ fica, Sorrento, Di Mauro, 1989. 3 BERNHARD REICH, /m Wettlauf mii der Zeit. Erinnerungen aus fuenf Jahrzehnten deutscher Theatergeschichte, Berlin, Henschel, 1970, p. 275. LA SINTASSI DEL GOLFO 25 In ogni caso, la pressoché perfetta adattabilità del paesaggio sorren­ tino alla sensibilità neoclassica non comporta di certo la sua messa in ombra con l'emergere del nuovo gusto romantico. È fin troppo ovvio, intanto, che un paesaggio classico può essere "letto" con gusto romanti­ co (si pensi alla Pompei di Shelley, al Vesuvio di Leopardi). Ma a garantire la vitalità, diciamo così, del paesaggio sorrentino, contribuisce ancor più la definitiva, completa scoperta della varietà delle numerose opportunità paesaggistiche della Campania, con la conseguente, accre­ sciuta mobilità sul territorio, che obbliga gli scrittori che parlano di questi luoghi a una nuova strategia, dove la mutevolezza degli scenari già basta a garantire più ricche articolazioni concettuali. È questo il momento in cui la narrativa - una nuova sintassi del molteplice, o, in modo più impegnativo: l'avventura - prende decisamente il sopravvento sulla poesia in queste contrade. La poesia, nutrita per secoli sopra i modelli dell'antichità, aveva preservato l'immagine staticamente serena delle singole località, dei singoli scorci paesaggistici, al più inserendoli nel fondale meraviglioso del golfo. Quello stesso golfo viene ora solca­ to da feluche e da speronare, attraversato da corsari e pescatori; mentre per terra (con l'avvenuto collegamento Castellammare-Sorrento), i cor­ ricoli prendono a lanciarsi dalla città alle incantate campagne sorrenti­ ne. Si va dalla metropoli al paese, dal continente ali'isola; e si scavalca­ no montagne, si attraversano ben coltivati giardini e orride distese vul­ caniche; si gioca, come si dice, a tutto campo. In realtà, l'Ottocento maturo porta a compimento intuizioni di gran lunga precedenti. Mi piace soffermarmi, tra le molte che si potrebbero portare a esempio, su quella di una gloria poetica sorrentina, il gesuita Nicolò Partenio Giannettasio, che negli ultimi anni del Seicento poteva rivendicare per sé il piccolo merito di essere stato il primo a comporre egloghe in cui pastori e contadini, cioè personaggi del canone virgilia­ no, dialogavano con pescatori, cioè con i nuovi attori introdotti in quel particolare genere dal Sannazaro prima e dal Rota poi. La rivendicazio­ ne del Giannettasio può apparire di ben poco momento nel generale svi­ luppo della letteratura occidentale. Pure, ha valore nel nostro discorso perché il poeta la motiva nei termini di un lodevole gusto realistico, che supera di slancio le irrealtà idealizzate d'Arcadia. Dice insomma il 26 FRANCESCO DURANTE Giannettasio che si è così regolato per il semplice motivo che questo accade nella vita reale: sui nostri lidi, chi lavora sulla terra finisce per incontrarsi con chi lavora sul mare. 4 Si tratta di una elementare anticipazione di quella "sintassi del mol­ teplice" di cui si è fatto cenno: è però interessante perché ci dice chiara­ mente come quella molteplicità è al postutto immanente, è una com�o­ nente essenziale del territorio e, per quel che ci riguarda più da presso in questa sede, un tema continuamente ricorrente nella letteratura napo­ letana (anche se non necessariamente riferito al caso di Sorrento).s Quanto a Sorrento, questa molteplicità originaria sarà ben riassunta da un passo di Edmond e Jules de Goncourt, da quell'opera - L'Italia di ieri - che sarebbe riduttivo ascrivere al puro genere odeporico, special­ mente, e per esplicita ammissione degli autori, per quanto riguarda le note dedicate alle regioni meridionali: «nel nord, lunghe note tutte reali­ stiche; a_ Roma cominciammo a inghirlandare il pezzo dal vero; a Napoli, note, brevi brevi e prese solo sugli esseri e sulle cose, che pote­ vano fornire una serie di paragrafi, poetici, ideali».6 La Sorrento dei Goncourt che, si badi, è in effetti La campagna di Sorrento, è segnata dal destino della molteplicità anche se il mare ne è curiosamente cassato: «Campagna anormale, e che sbalordisce come una natura artificiale, con i rosai che fanno bosco intorno all'albero da frut­ to, con questi verzieri d'aranci e di limoni, in cui si scorgono groppe di vacche, tutte seminate di petali dei loro bianchi fiori, e dove lo strumen­ to aratorio, l'aratro abbandonato nel campo, è mescolato a uno scenario d'opera, a una quinta poetica». 7 Il progetto dei Goncourt prevedeva che a questa facesse seguito un'altra nota su La poesia bucolica di Virgilio generata dai dintorni di Napoli (che non fu scritta); per poi andare avanti, in una concatenazione 4 «lntroduximus etiam pastores piscatoribus confabulantes, quod interdum accidit, praecipue in litoralibus, ubi passim pastores degunt. Pausilypus noster, Puteoli, Bajae, ac Cumae agrestibus hominibus habitantur, qui saepe mutata persona, genioque piscatoria exercent». (Nicolaj Parthenii Giannettasii, Piscatoria, et Nautica, Neapoli, typis regiis, 1685, dalla dedica "ad lectorem"). 5 L'armonica molteplicità del golfo napoletano è già compiutamente espressa in un sonetto del Boccaccio, dove si osserva che qui la Sirena Partenope aveva scelto di vivere: "tra il coll'erboso e la marina rena"; e "in questa terra fertile e amena" riposano le sue spoglie (Rime, XXXVI). Non pare necessario richiamare altre voci del vastis­ simo repertorio che a questi versi potrebbe ricongiungersi. 6 EDMOND e JuLES DE GoNCOURT, L'Italia di ieri. Note di viaggio /855-1856, Milano, Perinetti Casoni, p. 191. 7 Ibidem, p. 199. LA SINTASSI DEL GOLFO 27 28 FRANCESCO DURANTE di libere associazioni che rispondono a intenti chiaramente ironici, con la descrizione de Le Ore «lazzarone» («Ore solleticanti, che vellicate, come carezze, il dorso delle lucertole e la fronte dei poeti»), della Arringa del vecchio Ferdinando al suo popolo, in cui si racconta l'apo­ logo del re che, perso il filo di un discorso coram populo, approfittò dei rintocchi di mezzogiorno per scandire: «Uno, due, tre, quattro, cinque ... dieci ... dodici!» e poi finire esclamando: «È tempo di mangiar macche­ roni!»; e chiudersi con un "Finale" degno del celebre film di Giannini Carosello napoletano, in cui tutti i napoletani in abito pulcinellesco, brandendo «scettri da buffone in pasta di Napoli», domandano la «buona mano» ai «forestieri».s Sorrento, qui, viene dunque cooptata ben dentro un "tutto napoleta­ no" nel quale passato e presente, pastori d'Arcadia e lazzari, filosofia epicurea e dolce far niente, vengono annullati nelle loro valenze indivi­ duali e riportati all'evidenza di un modo di vivere clamorosamente e capricciosamente diverso da quello dell'Europa razionale. In questo senso, Sorrento, più ancora di Capri, e molto più della costa amalfitana, risulta essere una sorta di "appendice" di Napoli, e non da poco tempo. Sorrento (a differenza, in particolare, di Capri) non vede oscurata la sua rinomanza di luogo di delizie nei secoli che intercorrono tra l'antichità classica e la riscoperta da parte dei viaggiatori europei in età moderna. Si può anzi affermare che la costa sorrentina rimane comunque nota (e, in parte, frequentata) come luogo della vacanza, degli ozi, dei piaceri anche in secoli nei quali Capri è evitata come luogo inospitale e selvatico. Così, lo sguardo dei poeti abbraccia naturalmente tutto il golfo, e nella gloriosa tradizione napoletana - dal Pontano al Sannazaro ad altri minori umanisti tardo-quattrocenteschi (per Sorrento, ricordiamo Pietro Gravina), dal Rota al Cortese al Genoino e oltre - non dimentica mai di annoverare Sorrento tra le perle del vasto cratere, citate magari soltanto per fare corona al primato della capitale ("na rosa nfra li sciure", giusta la definizione di Giulio Cesare Cortese).9 Sicché sembra del tutto logico che di un pari sguardo risultino in seguito forniti i poeti stranieri moder8 !bidem, p. 200. Le parti in corsivo sono in italiano nell'originale. 9 Micca Passaro 'nnammorato, VI, 30. Se ne veda il testo in GIULIO CESARE CORTESE, Opere poetiche, a c. di Enrico Malato, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1967 (voi. I). LA SINTASSI DEL GOLFO 29 ni, armati magari di una più febbrile sensibilità, tale che non più soltan­ to la vista, bensì tutti i sensi vengano sollecitati da quella visione, in una consapevolezza della prossimità spaziale che è forse il principale motivo di vanto per i regnicoli, di meraviglia per i forestieri. Ecco dunque uno di loro, August von Platen, domandare nella luce mattutina della città: Senti a questa volta Spirar con l'aure da Sorrento lieve Odor d' aranci? e confermare subito dopo: Sì, sfavilla al sole Lungi, presso la spiaggia ov'è la casa Del Tasso, la petrosa inebriante Co' suoi profumi splendida Sorrento.10 Ancora più chiaramente, il collegamento Napoli-Sorrento è dichiara­ to dal Platen nell'epigramma Napoli: Bella è pur sempre Napoli, ma ne l'ardente stagione, L'ariosa Sorrento ci offre dolce rifugio.11 Né si può tralasciare l'accenno sorrentino (e caprese) contenuto nell'Invito all'isola Palmaria (1828): Ma se vieni in quest'isola, non credere che sia Capri o Sorrento, ove l'eterna Voluttà sul flauto modula note languide/12 Da questo rapido trittico plateniano emerge con grande chiarezza il carattere di "hortus deliciarum" che Sorrento serba nei confronti di Napoli. Non l'unico, certo, ché all'epoca anche Posillipo, Baia, Pozzuoli e molte altre località degli immediati dintorni di Napoli danno ai poeti (tra gli altri, il contemporaneo di Platen Wilhelm Waiblinger) la IO Dalla egloga Impressioni di Napoli ( 1827), in AUGUSTO DI PLATEN, Odi, Inni, Egloghe, Epigrammi, Versione metrica di Giacomo Surra, Milano, Sonzogno, 1905, p. 83. li motivo dei profumi sorrentini è particolar­ mente fortunato: ottant'anni dopo Platen, lo ritroveremo per esempio in Rilke il quale, commentando con l'amico Leopold von Schlotzer la traversata da Napoli a Capri, noterà che «adesso gli aranci sono in fiore, e il loro profumo attira verso la luccicante Sorrento». 11 Ibidem, p. 102. 12 AUGUST V0N PLATEN, Egloghe-Idilli Epigrammi, Versione metrica di Emilio Weidlich, Palermo, Santi Andò & Figli, I 935, p. 34. 30 FRANCESCO DURANTE possibilità di ritirarsi nella quiete e nella bellezza. Pure, Sorrento con­ serva un carattere specialissimo, anche in virtù della fama internaziona­ le che già la contraddistingue e che la pone parecchio al di sopra di Capri e di Amalfi, località pure visitate e cantate da Platen; il quale, in particolare, con Kopisch e Waiblinger, è uno dei tre poeti tedeschi che iniziano la fortuna turistica dell'isola tra il 1826 (anno della "scoperta" della Grotta Azzurra) e il 1827. Anche nell'ambito narrativo si può registrare una prevalenza della prospettiva "napoletanocentrica", nella quale Sorrento e altri dintorni giocano appunto, secondo la tradizione che abbiamo già individuato, il ruolo di (più o meno rinomati, più o meno favolosi) dintorni: la logica è quella di "Pusilleco, Surriento, Marechiaro, 'o paraviso nuosto è chistu ccà". Tutto, o quasi, è affidato al puro nome, all'eco mitica che questo sa suscitare. Anche, si capisce, rovesciando la prospettiva, e legando quei nomi capaci d'evocare piaceri e armonia allo spettacolo delle peg­ giori nefandezze, della più squallida miseria. È questo il caso - fin dal titolo - di uno dei primi e più celebri romanzoni di Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento (1852) che, con Il barcaiuolo di Amalfi, La Medea di Porta Medina, Caterina la pettinatrice di via Carbonara, per non dire de / misteri di Napoli e parecchi altri consimili titoli, affida la sua fortuna alla risonanza mitica di una sorta di "denominazione d'origine controllata", che funziona anche come precisa connotazione geografica di qualche memorabile Jait divers, secondo una logica di vero marketing editoriale che incrocia la tradizione gotica inglese col realismo sociale d'ascendenza francese. Poco importa, ovviamente, che Sorrento, ne La cieca di Sorrento, praticamente non esista. "Napoletanocentrica" non poteva che essere la prospettiva di uno scrittore come Mastriani. E tale resterà soprattutto, com'è naturale, per gli scrittori napoletani o comunque italiani. Napoli peraltro continuerà a essere il fuoco della narrazione anche in molti libri di scrittori stranieri, soprattutto francesi. Si consideri, in quest'ambito, la grande ricchezza di movimento sullo scacchiere del golfo che è in grado di esibire un autore come Alexandre Dumas. Tra quelli che lo precedono, altrettanto ben familiarizzati con la realtà geografica campana, sarà il caso di citare almeno Henri de Latouche e la sua Fragoletta: romanzo storico, certa- LA SINTASSI DEL GOLFO 31 mente, dove però, come in una successione di quadri variamente pittore­ schi, si susseguono singoli episodi e personaggi, ciascuno legato a un luogo preciso. 13 Una narrativa attenta alle realtà sociali si fa strada anche in alcuni libri di viaggio, come il Voyage di Paul-Edme de Musset (1843), dove Sorrento è sostanzialmente due cose: la casa del Tasso (col racconto del ritorno del poeta, sotto mentite spoglie, e del suo colloquio con la sorella Cornelia Sersale), e la storia della sventurata Ritella, la piccola zoppa per calcolo della famiglia. I toni del patetico ben si addi­ cono a un episodio di cronaca come questo; la luce solare degli aranci e la luce nera della miseria e della superstizione: così la sensibilità tardo­ romantica aggiorna il topos e va incontro ai gusti dei nuovi lettori. Curiosamente, tendono a occuparsi meno di Napoli altri autori, anglo­ sassoni e tedeschi (oltre che americani). Qui, il centro della narrazione è tendenzialmente situato fuori dalla grande città, il cui respiro si avverte appena in lontananza; ciò non impedisce che le vicende si snodino in più luoghi, con la differenza che anche questi altri luoghi sono extraurbani: non però "dintorni", non nel senso di entità geografiche ad autonomia limitata. Per quanto riguarda Sorrento, il capolavoro è forse la novella di Paul von Heyse L'arrabbiata ( 1855), che non a caso si svolge su una umile barca di pescatori in viaggio tra Sorrento e Capri. 14 Questo esiguo braccio di mare è il teatro dell'innamoramento tra il marinaio Antonino e una fan­ ciulla tanto orgogliosa da meritare il soprannome che dà il titolo al rac­ conto. La cui trama è tenuissima: sicché L 'arrab-biata si potrebbe defini­ re niente più che un bozzetto, l'equivalente letterario d'un quadro dei Romische Deutsche, o magari la versione narrativa di uno dei dodici ldyllen von Sorrent pubblicati dallo stesso Heyse nel 1854 (si trovano nel secondo volume dei Gesammelte Werke, Berlin, Geibel-Altenburg, 1891190 I); è purtuttavia uno schizzo di splendida fattura e di larghissimo suc­ cesso, se ancora nella primavera del 1907 i superciliosi Rilke e Schlotzer nelle loro conversazioni capresi ne parlavano come di una delle ragioni che avevano determinato l'esplosione del mito turistico di Capri. Inebriati 13 HENRI DE LATOUCHE, Fragole/la, ossia Napoli e Parigi nel 1799, a c. di D. Frisali e C. Lucarini, Roma, Salerno, I 989. 14 Tra le varie edizioni italiane del!' Arrabbiata, segnalo qui la più recente, che si trova nel volume de Le Opere di Heyse nella collezione degli "Scrittori del mondo - I Nobel", Milano, Utet-Club degli Editori, 1971 (la traduzione è di Amina Lezuo Pandolfi). 32 FRANCESCO DURANTE da quel racconto, torme di "sempliciotti" salpavano verso l'isola: «La società diventa sempre più noiosa e insignificante. Da tutte le parti accorrono turisti [ ... ] e adesso arrivano anche loro, i vaporetti delle comitive. Una massa di esseri umani fuoriesce dalle navi, inonda le strade, si riversa negli alberghi a buon mercato [ ... ] Certi giorni è come se uno sciame di cavallette si abbattesse sul paese e sulla sua gente. Non perdonerò mai a Paul Heyse e al poeta del Trombettiere di Sackingen [Viktor von Scheffel, n.d.r.] di avere trasformato questa soli­ tudine rocciosa in una attrazione turistica, anche se tutto si era iniziato per via del buon Kopisch che aveva reclamizzato la Grotta Azzurra». È solo l'inizio del secolo ma, come si vede, si sta già compiendo, in maniera inesorabile, il consumo del mito. Il lungo racconto di Norman Douglas Nerinda (1901), 15 dove Sorrento (con Castellammare e Pompei) è uno degli sfondi della vicenda, può essere assunto a modello di una particolare stagione della letteratura del golfo di Napoli, in cui i luoghi della passata armonia, dello splendore antico, della perfezione del pae­ saggio, esistono più che altro in quanto teatri di fatali derive esistenzia­ li. In Nerinda, il protagonista si perderà nella sua follia, preso da una passione impossibile nei confronti di una statua pompeiana. Qualche anno più tardi, anche un narratore più ironicamente distaccato, William Somerset Maugham, descriverà in una serie di brevi racconti ambientati in queste zone il destino e l'eccentrica visione del mondo di una piccola galleria di lotofagi moderni. 16 Di questi personaggi - pietre angolari del mito mondano di Sorrento e di Capri - tornerà a occuparsi, con uno sguardo retrospettivo in cui non è difficile cogliere, sotto il velo persistente di una acuta ironia, la nostalgia per uno stile di vita irrimediabilmente perduto di fronte all'a­ vanzata dell'omologazione culturale, uno dei più brillanti romanzieri inglesi degli anni Venti e Trenta, Compton Mackenzie. Sostanzialmente identico a quello della novella di Heyse è il teatro del suo romanzo Extraordinary Women, del 1928, 17 con la differenza che quest'ultimo, 15 Lo si legge in N0RMAN DouGLAS, Three ofThem. London, Chatto and Windus, 1930. 16 I racconti in questione ("Mayhew", ''The lotus eater", "Salvatore" e "The wash-tub") si possono leggere nel quarto voi. delle Collected Short Stories, London, Mandarin Paperbacks, ultima edizione 1990. 17 Lo si legge anche in versione italiana (di Maria Napolitano), col titolo Donne pericolose, Milano, Longanesi, I 967 (edizione tascabile). LA SINTASSI DEL GOLFO 33 34 FRANCESCO DURANTE invece che mettere in scena le passioni degli umili sorrentini, si occu­ perà dei capricci dei ricchi forestieri. A questa altezza temporale, i nomi di Sorrento e Capri hanno visto formidabilmente accresciuta la propria reputazione internazionale, anche se l'alone mitico che li circonda non è più determinato dalla "purezza", dalla "innocenza", dalla "grazia primitiva" che li contraddi­ stingueva, ed è bensì legato alla vita eccentrica e sofisticatissima che alcuni divini mondani vi menano. Quando questi scrittori descrivono la stessa vita della gente di Sorrento, sono ormai lontani dal vecchio cliché del povero marinaio innamorato (l'Antonino dell'Arrabb iata): lo aggiornano, semmai, mettendo nel conto la tangibile avanzata sociale dei sorrentini. Così, ad esempio, nelle pagine iniziali di Donne pericol:o­ se incontriamo Carmine, il giovane e aitante sorrentino innamorato della sedicenne aristocratica Lulu de Randan. Carmine non porta il berretto frigio e i pantaloni at ginocchio e non balla la tarantella: è il figlio del farmacista, circostanza che - benché proibitiva in termini di dislivello sociale - marca comunque un sensibilissimo scarto rispetto agli stereoti­ pi di pochi decenni prima. Tali stereotipi resisteranno nel mondo atemporale della narrazione popolare - si pensi allo spasimante di Sofia Loren (e avversario del comandante dei vigili urbani di Sorrento Vittorio De Sica) nel film di Dino Risi Pane amore e... (1955). Non a caso, così come in quel film c'è una scena memorabile di ballo in piazza al suono del Mambo italia­ no di Tony Bennett, la vulgata sentimentale italo-americana assumerà il nome di Sorrento come una sorta di epitome della sublime, favolosa bel­ lezza della terra d'origine: ecco dunque un gustoso libro di racconti intitolato Come Back to Sorrento (il titolo è una trasparente traduzione di quello della celeberrima canzone), in cui un povero scaricatore di porto di Brooklyn, Patsy Esposito, lavora per mettere da parte il gruzzo­ lo che gli consentirà di tornarsene nella tanto sognata Italia: cosa che non farà, perché nel frattempo si compirà la sua americanizzazione. 1 s La realtà, con la sua pressante evidenza, irrompe dunque nel mondo delle favole belle. Non soltanto Patsy Esposito verifica il peso delle tra18 JOSEPH i'ETRACCA, Come Back to Sorrento, Boston, Little, Brown, 1952. LA SINTASSI DEL GOLFO 35 sformazioni ormai avvenute nella sua testa: sono bensì evidenti anche quelle avvenute nel mondo lontano che egli vagheggiava. Nina Berbe­ rova (in Il corsivo è mio) ci ha tramandato i temi delle conversazioni con Maksim Gorkij al capo di Sorrento. «Vedrete, vi porterò, vi farò cono­ scere, vi farò vedere ... » prometteva l'autore della Madre; poi, puntual­ mente, quei giri sorrentini in cerca della purezza che egli aveva cono­ sciuto in anni ormai lontani si rivelavano deludenti, come quando si capiva benissimo che le spettacolari tarantelle campestri erano ormai ridotte a una modesta e artificiosa attrattiva per turisti di poche pretese. 19 È da questo momento in poi che Sorrento - e ovviamente ogni altro luogo che abbia seguito nella storia una analoga traiettoria - cessa di avere una specifica valenza letteraria: o, meglio, cessa di essere dotata di quella specie di "valore aggiunto" rappresentato dal mito della sua aristocratica bellezza. Se la bellezza resta, insomma, essa risulta ormai fredda e consumata, non più tale da costituire, da sola, elemento lettera­ riamente rilevante. 19 NINA BERBEROVA, // corsivo è mio, a c. di J. Dobrovolskaja, traduzione di P. Deotto, Milano, Adelphi, 1989. SORRENTO NELL'OPERA DI CORRADO ALVARO di Federico Frascani La scorsa primavera non è stata fedele a se stessa. Sembrava I'autun­ no, sembrava talvolta l'inverno coi suoi venti, le sue pioggie, le sue rigide temperature. Le poche giornate tiepide e luminose che ci ha con­ cesso incoraggiavano una speranza di "sereno stabile", immancabilmen­ te delusa il giorno dopo. Appunto in una mattinata nella quale la prima­ vera sembrava essersi ricordata d'esser lei, restituendo al cielo l'azzurro e il sole, mentre sedevo al tavolo di un caffè di Sorrento, appresi dal giornale che la cultura italiana si apprestava a rendere omaggio a Corrado Alvaro, nel centenario della nascita. E allora mi ritornò in mente che lo scrittore calabrese aveva dedicato a Sorrento pagine belle e profonde, nelle quali m'ero imbattuto in anni ormai lontani, mentre andavo leggendo la intera produzione narrativa e saggistica di Alvaro, per poter scrivere un libro che rendesse omaggio soprattutto all'uomo, ali'Alvaro cioè che con appassionato fervore aveva denunciato certe pia­ ghe del Mezzogiorno, ali'Alvaro nemico giurato della ingiustizia, sociale o non che fosse, quale si era confermato di recente, lasciando la direzione di un grande quotidiano napoletano perché l'editore voleva costringerlo a licenziare un redattore professionalmente irreprensibile che gli era inviso. Alvaro disse no e rinunciò all'incarico prestigioso e ben remunerato che solo tre mesi prima gli era stato affidato. Questa sua generosa, esemplare protesta non aveva precedenti nella storia del giornalismo napoletano dove i posti di comando vengono sempre difesi con i denti, nonché in cieca ed assoluta obbedienza ai diktat del potere. Ne rimasi incantato ed anche da questo stato d'animo nacque un libro, Le due 38 FEDERICO FRASCANJ Napoli di Corrado Alvaro, che vinse nel 1969 il Premio Calabria per la saggistica, restò invenduto per la inerzia dell'editore, ed oggi è diventa­ to introvabile. Corrado Alvaro, narratore di solida fama, non era, ovviamente, sen­ sibile soltanto alla bellezza della creazione artistica. Subiva il fascino della natura, come una parte della sua produzione documenta. In Itinerario italiano, una delle raccolte dei suoi scritti giornalistici, un lungo capitolo è dedicato al paesaggio che si offre alla vista di chi rag­ giunga Sorrento seguendo la strada della costiera amalfitana «dove i venti del mare sono capricciosi, le vie tagliate a picco sulla roccia, le case sospese sull'orlo dei precipizi e i massi sospesi sul punto di una immane rovina. Ad ogni punto più minaccioso la Madonna col Bambino ha la sua nicchia, anche se gli scogli che si drizzano alla riva o stanno isolati tra le onde o sono a due a due, uno grande ed uno piccolo, e il grande protegge il piccolo dagli assalti del mare. Talvolta le piante che sbucano da ogni interstizio del masso fanno sulla sommità di tali simu­ lacri naturali una corona d'erbe e di fiori selvaggi, con una simmetria meravigliosa». Dal paesaggio l'attenzione di Alvaro si rivolge all'uomo per ricorda­ re la fatica improba che dovette costare la vittoria su di una natura così incantevole, ma anche così ostile, tanto restia a lasciarsi dominare. «La terra è buona, dona arance e limoni, rose che fioriscono tutto l'anno, ma dovette essere strappata palmo a palmo alla montagna, da uomini che sono architetti nati e le loro case le fanno con ogni logica, con un sapiente sfruttamento del terreno, con tale senso di costruttori, che il funzionalismo moderno ha in loro dei precursori». Dalla costiera Alvaro raggiunge Sorrento che gli appare immersa in una luce meno intensa, meno vibrata, «dove vigne e agrumeti formano un profondo bosco col verde luminoso degli aranci». In queste pagine l'Alvaro paesaggista - talvolta giudicato invadente dai critici delle sue opere narrative - rende compiutamente il fascino di Sorrento e dei suoi dintorni. Né si avvertono disarmonie quando Sorrento suggerisce osser­ vazioni, considerazioni ali' Alvaro uomo di cultura, ali'Alvaro umanista, come accade allorché egli ricorda il poeta de La Gerusalemme liberata. «È facile dire che Tasso il sentimento dei suoi orti e dei suoi giardini, SORRENTO NELL'OPERA DI CORRADO ALVARO 39 rischiaranti tanto soavemente il suo poema, li avesse da una reminiscen­ za di questi luoghi, e tutta la pastorelleria capricciosa alle soglie del Barocco, e i suoi canti agresti, gli strumenti rustici che si sentono nelle sue selve, che hanno un timbro miracolosamente salvo da ogni conven­ zionalità, li abbia tratti da qui. E anche le mollezze e i piaceri dei suoi giardini, appartengono a quest'ozio. E le colombe che volano nelle sue liriche, i fiori che s'aprono al principio dei suoi madrigali, somigliano a questi, e a queste colombe che si vedono volare all'improvviso come innalzate da una improvvisa tempesta». Alvaro ricorda Torquato Tasso anche in un altro capitolo di Itinerario italiano, nel quale affida alla pagina, fra l'altro, le impressioni in lui suscitate da una visita alla stanza del convento romano di Sant'Onofrio dove il poeta morì. Sopra una parete tinta a calcina è lo specchio del Tasso, annerito dal tempo. Alvaro vi scorge il volto della propria adole­ scenza alla quale sorrideva la bellezza di figure femminili nate dalla fan­ tasia del poeta: Clorinda, Erminia, la tizianesca Sofronia. «Ritroviamo queste illusioni e queste prime creature che amammo, in queste stanze in cui passò la tempesta, cresciute con noi, invecchiate con noi». Nel rimpianto del se stesso adol. escente., ormai remoto nel passato, Alvaro trova la dimensione lirica che consente alla sua prosa di rendere, in sintesi incisiva, non solo i valori essenziali della poesia del Tasso, ma anche la tragedia dell'uomo. Tutto il brano, più che una descrizione, è un colloquio tra due poeti, entro una antica dimora divenuta un picco­ lo museo di manoscritti tra i quali le pagine autografe de La Geru­ salemme liberata suggeriscono ad Alvaro un confronto ingegnoso, divertente, che riesce anche a rendere con straordinaria felicità lo slan­ cio, la vibrazione dell'epica del Tasso. «La grafia dona ai versi l'aspetto di un esercito in marcia. Sulle ordinate file delle n e delle r, sulle pan­ ciute a e le v, svettano l alte come le lance dell'esercito di Goffredo, le s lunghe e snodate come gli sciabolatori di Argante, le t tagliate alte come le bandierine di squadra, e le p poggiano su un lungo svolazzo, come se galoppassero in una lunga scia di polvere». Ritornando alle pagine su Sorrento, è necessario precisare che nac­ quero da un incontro del 1933. Nella Sorrento di un'epoca meno lonta­ na, già assediata dal cemento, già invasa dal traffico motorizzato, 40 FEDERICO FRASCANI Alvaro non avrebbe potuto vedere «bianchissime colombe volare all'im­ provviso come innalzate da una improvvisa tempesta». La città del Tasso ha un posto tra i ricordi di Alvaro anche perché nel 1944 lui vi ebbe con Benedetto Croce un incontro che era certamen­ te senza precedenti, giacché l'autore di Gente in Aspromonte e l'uomo è forte era stato durante il fascismo uno scrittore "allineato", dolendosene poi però finché visse. «A Sorrento - ricorda Alvaro in Quasi una vita - vado da Benedetto Croce che mi ha invitato a sentire da lui su quali basi politiche si possa fare il giornale liberale di Napoli, per cui sono stato ufficiato. Mi ricor­ da la visita al Fanàf, al Patriarca di Costantinopoli. Croce manda via bruscamente una delle sue figlie la quale aveva tentato di assistere al colloquio. Metto avanti la questione del giorno più scottante, la monar­ chia. Croce mi risponde che non c'è da preoccuparsene perché, dice, essa è rappresentata da tali cretini che finirà col crollare da sé. Io penso invece che sia l'intoppo maggiore per la ripresa italiana e per il riscatto dell'Italia meridionale. Per cui ho finito col credere che la monarchia abbia ribadito la vita feudale per mantenersi una riserva di fedeli, arre­ tratissimi sui problemi della convivenza moderna. Croce mi pare scosso ed io rincalzo ricordandogli come egli sia stato il primo a formulare l'accusa contro la monarchia. Mi risponde: - Ma non vorrete mica la repubblica di Granchi - ». Croce parlò ad Alvaro anche della sua esperienza di uomo politico: «Ho avuto l'impressione che egli abbia lasciato la politica attiva anche perché ha saputo che altro è teorizzare altro praticare. Osservandogli io che non volevo distrarmi dal mio lavoro letterario per la politica, egli mi ricordò il tempo in cui fu ministro dell'Istruzione. Dice che si torna al proprio lavoro più freschi e più pronti, che non si perde il proprio tempo ma si fa esperienza. Mi raccontava pure d'una seduta d'un Consiglio di Ministri dopo la liberazione. Un ministro andava in giro con un foglietto su cui scriveva e cancellava nomi e chiedendo: "Ce lo mettiamo, non ce lo mettiamo?". Quando questi arrivò a dire a Casati che Bonomi lo voleva ministro della guerra, Croce fissò Casati, il quale sotto quello sguardo rispose di sì. Terminata la seduta Croce manifestò a Casati la sua meraviglia dell'incarico che si assumeva. Casati rispose SORRENTO NELL'OPERA DI CORRADO ALVARO 41 che aveva accettato perché vedeva quegli sguardi di Croce su di lui. Ma io ti guardavo sbalordito di quello che stavi facendo, rispose Croce». Alvaro non divenne il direttore di quel giornale che ebbe in pratica la sua culla a Sorrento, essendo stato concepito e fondato soprattutto tenendo conto delle indicazioni di Benedetto Croce delle quali fece tesoro l'editore, Tommaso Astarita, appartenente ad antica famiglia sor­ rentina. Fu un giornale che non ebbe lunghissima vita, ma ha lasciato di sé un ricordo eccellente perché era stampato benissimo, con innovatrice visio­ ne tipografica, aveva bravi redattori, e prestigiosi collaboratori. Quando nel 1958 Quinto Quintieri, che ne era il proprietario, tirò i remi in barca e fece cessare le pubblicazioni del giornale, Guido Cortese che ne era stato il maggior "fondista" politico, da poco era diventato Ministro dell'Industria. In tale ruolo gli sarebbe stato facile far sopravvivere il giornale, procurandogli un sovvenzionatore. Non lo fece perché non glie­ lo consentivano i suoi principi di liberale autentico. Perciò si potrebbe anche dire che "il giornale liberale di Napoli" fece una fine gloriosa. GLI ANTICHI VILLAGGI FUORI LE MURA DELLA CITTÀ DI SORRENTO di Francesca Aiello e Antonello Munzù Il sito della contrada è piano, ma alquanto curvo ( ... ), sol­ levato dal mare da poco alta ripa ( ... ) et avendo alle spalle colli fruttiferi et ameni, i quali quasi vaga ghirlanda la cin­ gono e la difendono da venti importuni e noiosi, si porge verso Maestro, nel cui angolo occidentale sopra il mare siede la Città. *** I villaggi per la civiltà de' costumi e per la magnificenza degli edifici sono degni, ma sopratutto egregij sono gli edifici e gli apparati delle Chiese, per ciò che non contenti de' termini communi con nuove fabbriche emulano le prime macchine della Città: i cui nomi sono Fuormura, Cesarano, Baranica, Casola, Lavaturo.1 L'area collinare che circonda verso Sud la terrazza pianeggiante di Sorrento, efficacemente delineata nelle sue caratteristiche naturali ed antropiche da Cesare Molegnano all'inizio del XVII secolo, si presenta ancor oggi come un sito di notevole interesse dal punto di vista ambien­ tale e storico-insediati vo. È proprio in questo sito che si snoda il nostro itinerario, quasi un cir­ cuito che dal centro storico di Sorrento si prolunga nell'entroterra attra­ verso gli antichi villaggi sparsi nella campagna per concludersi alle porte della città moderna. La recente e massiccia espansione urbana di Sorrento verso Sud, oltre i valloni e le mura della città storica, ha ormai inglobato 1' antico villaggio di Fuorimura ed ha quasi raggiunto - pur senza intaccarlo in 1 C. MOLEGNANO, Descrittione dell'origine sito e famiglie antiche della città di Sorrento, Chieti 1607, ed. a cura di Benito lezzi, Massa Lubrense 1977, pp. 11, 17-18. 44 FRANCESCA AIELLO -ANTONELLO MUNZÙ maniera irreversibile - quello di Cesarano. A Cesarano, appunto, si può porre oggi l'effettivo punto di partenza del circuito collinare tra gli insediamenti di Baranica, Casarlano, Lavaturo e Casola, laddove sono ancora presenti gli originari rapporti fra natura ed architettura, fra gli spazi della campagna, i tracciati dei sentieri ed i volumi edificati. Percorrere oggi questo itinerario storico-naturalistico significa anche rivisitare i luoghi già descritti da diversi autori, fra i quali Wladimiro Frenkel nella sua "guida" di Sorrento del 1929, 2 per cercare di ritrovare ivi strade e sentieri di un tempo, giardini di agrumi e macchie boscose, chiese, palazzi e piccoli agglomerati di case coloniche, angoli nascosti ed inaspettati nonché panoramici punti di belvedere con affaccio sulla Città. Il nostro itinerario "fuori le mura" della città di Sorrento inizia a Cesarano, località il cui nome evoca ancor oggi la memoria storica del suo antico passato. Secondo alcuni storici il toponimo "Cesarano", derivante dal latino "Caesarianus" che significa "(fondo) di Caesar", risale all'epoca romana imperiale ed attesta presumibilmente l'esistenza ivi di una villa di Cesare Augusto. 3 Tuttavia questo luogo era stato abitato già molti secoli prima, come attestano i recenti ritrovamenti archeologici di una necro­ poli preromana risalente al VI secolo a.C.4 Oggi Cesarano non è più riconoscibile nel villaggio descriuo dal Frenkel meno di un secolo fa come "nucleo di poche casette colo­ niche",5 ma si presenta come una località abbastanza densamente abita­ ta, raggiunta dalla larga strada rotabile Via S. Renato e caratterizzata dall'alternanza di nuove lottizzazioni residenziali e brandelli di campa­ gna coltivata. L'andamento e la dimensione della Via S. Renato non consentono di percepire con immediatezza la posizione geografica del sito, "sul!'orlo 2 W. FRENKEL, Sorrento e dintorni. Nuova guida, Torre del Greco 1929, pp. 140-143. 3 Per quanto concerne le ipotesi sull'origine del toponino di Cesarano, si rimanda ai seguenti autori: G. MALDACEA, Storia di Sorrento, Napoli 1841, p. 93; M. FASULO, La Penisola Sorrentina, Napoli 1906, p. 23; A. TROMBEITA, Profilo linguistico ed onomastico della Penisola Sorrentina e Storia del Faito, Casamari 1983, p. 39. 4 Per la descrizione dei reperti archeologici della necropoli preromana di Cesarano si veda M. Russo, Le necropoli preromane a Sorrento, in Archeologia a Piano di Sorrento. Ricerche di Preistoria e di Protostoria nella Penisala Sorrentina, Catalogo della mostra a cura di Claude Albore Livadie, Napoli 1990, p. 113. 5 W. FRENKEL, op. cit., pp. 140-141. GLI ANTICHI VILLAGGI FUORI LE MURA 45 di una pittoresca depressione circondata da colline"6 né di individuare a prima vista l'antico villaggio. Quest'ultimo si intravede ai margini della rotabile attraverso un alto supportico, quasi una porta che sembra sottolineare l'ingresso in un' an­ tica spaziai ità "a misura d'uomo". Inoltrandoci lungo uno stretto percorso pavimentato in pietra e scan­ dito da due cavalcavia disposti in successione, ritroviamo l'originario nucleo abitato di Cesarano, con cortine di case a due piani che si artico­ lano lungo la strada, alternate ad alti muri di cinta che racchiudono i giardini. Il percorso si conclude in un breve slargo di forma irregolare, deli­ mitato frontalmente dalla chiesa ed aperto lateralmente verso un profon­ do vallone dalle sponde scoscese e ricoperte di vegetazione. Nella chiesa, edificio dalle semplici linee architettoniche in muratura di tufo, secondo un'antica tradizione si venera la prodigiosa immagine di S. Maria di Montevergine a Cesarano. 7 In questo tratto residuo del tessuto urbanistico del villaggio di Cesarano sopravvive ancora i I suo originario carattere di insediamento rurale spontaneo risalente agli inizi del XVII secolo. 8 Anche nello slar­ go si conserva, sia pur mortificata dalla presenza di numerose auto in sosta, la memoria storica dello spazio pubblico che un tempo fungeva da luogo di riferimento e di aggregazione·del nucleo abitato. Proseguiamo l'itinerario lungo la Via Cesarano, costeggiando dappri­ ma il vallone e poi inoltrandoci in salita nella campagna, attraverso una successione di giardini di agrumi, vigneti, macchie di olivi e case spar­ se, fino a Festola. 9 Qui la strada si allarga in una piazzetta, la cui peculiarità spaziale appa­ re accentuata dalla presenza di alte palme e da elementi di "arredo" che ne rivelano la relazione con un'antica dimora signorile: un'edicola votiva con­ tenente una sacra immagine, una fontana con vasca in pietra levigata, tracce superstiti di una pavimentazione in grossi blocchi di pietra. Ibidem. 7 P. BONAVENTURA DA SORRENTO, Sorrento Sacra e Sorrento Illustre, Sant'Agnello 1877, pp. 53, 57. 8 L'esistenza del villaggio di Cesarano è attestata nella descrizione del territorio sorrentino scritta dal Molegnano nel I 607 e citata in apertura del presente testo. 9 La località di Festola è indicata in W. FRENKEL, op. cit., pp. 140-141. 6 46 FRANCESCA AIELLO -ANTONELLO MUNZÙ Sulla piazzetta prospetta un grande palazzo a due piani, a pianta qua­ drata, con facciate dalle eleganti linee architettoniche settecentesche. È questa l'antica dimora signorile, ora purtroppo abbandonata e ridotta in condizioni di avanzato degrado. Successivamente la strada - Via Festola - si inerpica in forte penden­ za sulla collina, costantemente fiancheggiata e racchiusa da alti muri di cinta in tufo che racchiudono agrumeti e vigneti. Indi il percorso si interrompe e l'itinerario prosegue lungo la strada rotabile in direzione di Baranica, mentre la prospettiva si apre progressivamente tra gli olive­ ti verso la valle di Sorrento ed il mare. L'"ingresso" a Baranica, nucleo abitato che fin dalla metà del XVI secolo costituiva un "casale" di Sorrento, 1 0 avviene attraverso un vasto ed anonimo piazzale adibito a parcheggio. Poco oltre, lungo la stretta Via Baranica, sopravvive ancora la struttu­ ra dell'antico villaggio rurale, con le case allineate in cortine prospettanti da un lato sulla strada ed aperte sul lato opposto verso gli spazi coltivati. Le abitazioni scandiscono il percorso fino ad un breve slargo ali'in­ crocio fra Via Baranica e Via Cala. Qui sorgono affiancati due edifici evidentemente emergenti, sia per la funzione che per i caratteri formali, nell'architettura "corale" del nucleo abitato: la piccola cappella di S. Biagio 11 e l'imponente Villa Mastellone, denominata "Villa Olimpia". Dopo aver attraversato nuovamente il villaggio, ci inoltriamo lungo la strada rotabile Via Casarlano. Questa si snoda a mezza costa lungo il fianco della collina e si presenta racchiusa a monte da scoscesi terrazzamenti alter­ nati ad alti costoni rocciosi, ed aperta invece verso valle su uno strapiombo. Il panorama appare quanto mai ampio e la vista spazia dalla sommità del Capo di Sorrento fino alle scogliere a mare, dal centro storico della città di Sorrento - caratterizzato dalle rosse coperture a tetto degli edifi­ ci - fino a Marano, laddove si concentrano i massicci ed anonimi volumi edilizi della recente espansione urbana. Alla base dello strapiombo roc­ cioso si distinguono appena le minuscole case rurali di Lavaturo e Casola, immerse nel verde degli agrumeti. 10 Secondo M. Fasulo (op. cit., p. 79) verso la metà del XVI secolo il territorio sorrentino comprendeva la Città ed il Piano. Fuori le mura della Città erano i casali di Priore, Foremura, Baranica, Lavatura, Casola e Marana. 11 La cappella di S. Biagio "sopra Baranica" è menzionata nel 1877 tra le cappelle facenti capo alla Parrocchia di s. Maria di Casarlano, in P. BONAVENTURA DA SORRENTO, op. cit., p. 53. GLI ANTICHI VILLAGGI FUORI LE MURA 47 Un rito sacro a via Festola. In questo sito di incomparabile valore paesagg1st1co ed ambientale, posizione arretrata rispetto al margine dello strapiombo, laddove i in costoni rocciosi si dissolvono in terrazze dalla pendenza più lieve, si erge isolato il complesso di S. Maria di Casarlano. Questa località fu abitata fin dall'epoca romana imperiale e forse fu sede di una villa dell'imperatore Marco Aurelio, da cui pare sia deriva­ to il toponimo "Casa Aureliana", poi trasformato in "Casarlano". 12 Molti secoli più tardi la collina di Casarlano fu ancora una volta scelta, grazie alla sua splendida posizione naturale, come residenza di villeggiatura di sovrani. Risale infatti al 1423 la costruzione ivi di una casa della regina Giovanna II, casa poi ceduta nel 1425 ai Padri Domenicani e trasformata in un convento. 13 12 Per quanto concerne le ipotesi sull'origine del toponimo di Casarlano. si rimanda ai seguenti autori: G. op. cit., p. 93; M. FASULO, op. cit., pp. 24-25; A. TROMBETIA, op. cit., p. 39. 13 M. FASULO, op. cit.. p. 57. MALDACEA, 48 FRANCESCA AIELLO - ANTONELLO MUNZÙ Nello stesso luogo proprio in quegli anni era stata edificata una chie­ sa dedicata alla Madonna, in onore di una sacra immagine miracolosa­ mente rinvenuta nella campagna. Una lapide conservata nel pronao della chiesa ne attesta la fondazione nell'anno 1425, in seguito a vicende leg­ gendarie tramandate dalla tradizione e ricordate nel 1877 dal Padre Bonaventura da Sorrento nella sua descrizione delle chiese sorrentine. 14 Il complesso di S. Maria di Casarlano, con la famosa immagine della Madonna ivi custodita, divenne meta di pellegrinaggi e fu visitato anche dai sovrani Giovanna II e Ferdinando il Cattolico.1s La chiesa cominciò poi ad assumere un ruolo emergente nell'ambito del territorio sorrentino tra il 1620 ed il 1652, epoca in cui l'originario complesso conventuale fu trasformato in una parrocchia per la cura delle anime. 16 La chiesa parrocchiale, grazie alla sua funzione religiosa e sociale, divenne quindi un importante luogo di riferimento per la popolazione dei villaggi rurali di Cesarano, Baranica, Lavaturo e Casola, e dal 1773 fu anche sede di una confraternita laicale. 17 Oggi il complesso architettonico conserva ancora, nella sua posizio­ ne isolata rispetto ai centri abitati dell'area, la memoria storica del pri­ mitivo insediamento conventuale. L'insieme si articola intorno ad un ampio sagrato su cui prospettano la chiesa, preceduta da un pronao ad arcate su pilastri, un massiccio campanile a pianta quadrata, ed un edifi­ cio alquanto rimaneggiato che deriva presumibilmente dalla trasforma­ zione dell'antico convento. Da Casarlano ritorniamo in prossimità di Baranica e di qui prose­ guiamo il nostro itinerario inoltrandoci nella campagna in direzione di Lavaturo, attraverso un antico percorso pedonale che discende fra ter­ razzamenti ricoperti di olivi. Il tracciato originario, inizialmente occultato da un recente "getto" di cemento, si rivela poi progressivamente nella sua struttura a gradonate in forte pendenza e nell'interessante disegno della pavimentazione in 14 P. BONAVENTURA DA SORRENTO, op. cit., pp. 44, 57. 15 B. CAPASSO, Memorie Storiche della Chiesa Sorrentina, Napoli 1854, pp. 131-132. 16 Le vicende inerenti la trasformazione dell'originario Monastero Domenicano di Casarlano in Parrocchia sono riportate in B. CAPASSO, op. cit., pp. 131-132. 17 La Confraternita di S. Maria di Casarlano fu istituita nel 1773. Si veda in proposito P. FERRAIUOLO, Le Confraternite laicali, in Le Confraternite a Sorrento, I Quaderni de «La Terra delle Sirene» 2, Sorrento 1994, pp. 14-15. GLI ANTICHI VILLAGGI FUORI LE MURA La chiesa di Casarlano. 49 50 FRANCESCA AIELLO - ANTONELLO MUNZÙ pietra. Procedendo verso valle, agli oliveti si sostituiscono gli agrumeti e la gradonata si trasforma in un viottolo in lieve pendenza fiancheggia­ to da alti muri di cinta in pietra. Improvvisamente ci troviamo a Lavatura, insediamento rurale a carat­ tere spontaneo che dalla metà del XVI secolo costituì un "casale" della città di Sorrento 1 s e che si presenta ancor oggi come un piccolo gruppo di "case coloniche tra giardini", secondo la descrizione del FrenkeJ.1 9 Anche in questo nucleo abitato si affermano con evidenza gli antichi ed equilibrati rapporti spaziali propri dell'ambiente e degli insediamenti rurali del territorio sorrentino, nonostante la violenta "intrusione" di alcune recenti costruzioni tipologicamente estranee alla tradizione stori­ co-architettonica dei luoghi. Percorrendo la Via S. Valerio Vescovo Sorrentino, il cui nome evoca la memoria di uno dei primi vescovi di Sorrento vissuto nel V secolo d.C. forse proprio in questo sito,20 giungiamo a Casola. Questo nucleo abitato, anch'esso "casale" di Sorrento fin dal XVI secolo,21 conserva pressoché inalterata l'originaria struttura definita da cortine edificate più o meno compatte che si articolano in successione lungo la strada. Negli edifici si riscontra la compresenza di diffuse connotazioni pro­ prie dell'architettura rurale, quali l'essenzialità dei volumi ed il loro stretto rapporto con gli spazi coltivati, nonché di puntuali connotazioni ricercate che riecheggiano temi architettonici più propriamente urbani, mutuati dalla vicina città. Sulle facciate delle case si ritrovano spesso significativi elementi di decoro formale, quali portali in pietra, davanzali dal profilo scolpito e balconi s·orretti da mensoloni lapidei. È inoltre da sottolineare, per la sua peculiarità, la presenza di un'edicola votiva con un'immagine dell'Assunta, affrescata a vivaci colori e sormontata da un grande stem­ ma in pietra scolpita. Proseguiamo verso Sorrento ripercorrendo Via S. Valerio e Via Lavatura, lungo il verdeggiante vallone che termina presso il Cimitero. 18 M. FASULO, op. cit., p. 79. 19 W. FRENKEL, op. cit., pp. 142-143. 20 Per quanto concerne la vita di S. Valerio Vescovo si rimanda a B. CAPASSO, op. cit., p. 20. 21 M. FASULO, op. cit., p. 79. GLI ANTICHI VILLAGGI FUORI LE MURA 1) Fuorimura 2) Cesarano 3) Baranica 6) Casola 7) S. Renato 51 4) Casarlano 5) Lavatura Sullo sfondo delle architetture cimiteriali si stagliano imponenti i ruderi dell'antico monastero22 dedicato a S. Renato - primo vescovo di Sorrento - il quale dimorò in questi luoghi durante il V secolo d.C.23 Le possenti strutture murarie in pietra, che conservano finestre ed archi ormai ricoperti dalla vegetazione rampicante e dai cespugli, rappresentano oggi soltanto una ridotta testimonianza architettonica del grande insedia­ mento religioso di S. Renato, uno dei più antichi della città di Sorrento. Il primitivo cenobio, retto dai Monaci Cassinesi, esisteva infatti già nell'anno 77324 e nel corso dei secoli successivi divenne un'importante 22 Per l'identificazione dei ruderi del Monastero di S. Renato nonché per le vicende storiche, si veda V. Russo, / Benedettini .a Sorrento ed i beni del Monastero di S. Renato nel territorio di Castellammare, «La Terra delle Sirene» 8, dicembre 1993, pp. 53-60. 23 Per le vicende della vita di S. Renato Vescovo, si veda B. CAPASSO, op. cit., pp. 16-17. 24 P. BONAVENTURA DA SORRENTO, op. cit., pp. 24-25. 52 FRANCESCA AIELLO - ANTONELLO MUNZÙ abbazia alla quale facevano capo estesi possedimenti territoriali.25 Le vicende del monastero attestano la sua lunga ed ininterrotta conti­ nuità storica fino al XIX secolo, con un periodo di massimo sviluppo in epoca angioina, tra la fine del XIII ed i primi decenni del XIV secolo.26 L'abbandono dell'area, con la conseguente rovina del complesso di edi­ fici religiosi che vi sorgevano, ebbe inizio nel 1807 in seguito alla sop­ pressione del monastero, e si protrasse fino al definitivo insediamento del cimitero negli ultimi decenni del secolo scorso.21 Oltre il cimitero la strada prosegue, con un lungo rettilineo alberato, fino al Viale degli Aranci. * * * Siamo ormai giunti, con brusca soluzione di continuità, alle porte della moderna zona residenziale di Sorrento e, dopo il lungo cammino percorso da Cesarano fin qui alla ricerca di spazi "a dimensione umana" con antichi equilibri tra natura ed architettura, ci troviamo immersi nella stessa dimensione spaziale urbana dalla quale siamo partiti. In ogni caso è quanto mai significativo che a breve distanza dal cen­ tro urbano di Sorrento si conservi ancora - quasi immutata - la qualità ambientale peculiare del territorio sorrentino, con il suo valore "intrin­ seco" che risiede nel paesaggio, nelle colture, negli insediamenti rurali, nelle architetture e nei sentieri storici, ma soprattutto con il suo valore "estrinseco" che si esplica in relazione alla Città. 25 V. Russo, op. cit., pp. 54-57. 26 !bidem. 27 P. BONAVENTURA DA SORRENTO, op. cit., pp. 24-25. MEMORIA STORICA E MEMORIA SENTIMENTALE di Palma Cappuro L'interesse per la storia nasce, come è ormai riconosciuto, dalla microstoria, quella del paese in cui si vive, costituita da fatti ed eventi che non vengono registrati dai testi scolastici, ma che possono, quoti­ dianamente, rivivere ed educare alla riflessione, solo che se ne parli in casa o a scuola, che si abbia la pazienza di ascoltare i ricordi di attendi­ bili testimoni. La memoria storica, a sua volta, non vive se non è alimentata dalla memoria sentimentale, che sottende la sensibilità personale, nonché la coscienza che ciascuno di noi porta in sé una parte del passato e la responsabilità di quello che, quotidianamente, si determina nella società. Oggi che l'istruzione scolastica è diffusa e livellata e, per effetto dei mass-media, l'informazione arri va nelle città come nei piccoli paesi, può essere interessante un particolare spaccato culturale della Sorrento preindustriale degli anni Trenta, quando la distanza tra il paese e la città sembrava insuperabile. Tale periodo, inoltre, segna uno spartiacque tra il territorio del rassegnato ossequio alla tradizione e quello dei primi fermenti di un progresso sociale, che, tuttavia, s'annunciava sofferto, in quanto iniziatico. Infatti, proprio alla fine degli anni Trenta, anche nei piccoli centri del Sud, grazie all'espansione del terziario, alla voce della radio, alla diffusione dei rotocalchi, che facevano da cassa di risonanza al cinema americano, che presentava l'immagine di un mondo industria­ lizzato e, di conseguenza, di una società più evoluta, i ragazzi della pic­ cola borghesia sorrentina cominciarono ad aspirare ad una soluzione di 54 PALMA CAPPURO continuità della tradizionale acquiescenza della condizione socio-cultu­ rale in cui erano nati. A Sorrento non c'erano docenti laureati, in quanto non c'erano scuo­ le superiori, fatta eccezione del Seminario Arcivescovile. Le uniche scuole governative erano l'Istituto Nautico Nino Bixio a Piano di Sorrento; a Sorrento, la scuola di avviamento Professionale e l'Istituto d'Arte; a Castellammare il Liceo Classico Plinio Seniore. Pertanto, se c'era bisogno di un doposcuola di matematica, bisognava chiedere aiuto a un ingegnere non ancora sulla cresta del!' onda o a un farmacista disoccupato. I letterati del paese che conoscevano il latino erano gli avvocati e i sacerdoti; esperto di greco c'era un solo canonico; i primi non avevano bisogno di impartire lezioni private né metodologia didatti­ ca, i secondi accettavano di buon grado, sommando alla ieraticità del1'altare e del pulpito l'auctoritas della cattedra, ed ogni loro parola aveva il peso del "verbo". Eppure Sorrento vantava, sin dalla fine degli anni Venti, un corpo scelto di donne laureate in lettere classiche, in filosofia, in matematica, in fisica, in biologia; di donne miniaturiste e pittrici; di esperte in restauro come in stampa e in rilegatura di libri: erano le suore benedetti­ ne. Quasi tutte venute dal Nord, nobili o dell'alta borghesia. Vivevano nel Monastero di S. Paolo, con ingresso in Via Tasso, con vista sul mare e su piazza della Vittoria e, nel giardino del lato Nord, nel 1940, fecero costruire la foresteria, che oggi ospita alcuni corsi dell'Istituto Tecnico per ragionieri. Queste suore, essendo ricchissime, grazie ali'ingente dote che versa­ vano all'Ordine Benedettino, ed obbligate ad una semi-clausura, inse­ gnavano per hobby, ai ragazzi già adolescenti, a patto che fossero intel­ ligenti, diligenti, ricchi e, preferibilmente, di famiglia aristocratica o alto-borghese. Ricordo la loro andatura lieve e svelta; per il loro abito nero e il sog­ golo bianco le assomigliavo alle rondini che, a quei tempi, nidificavano numerose nella facciata, priva d'intonaco, di un palazzo confinante con la mia casa. La sala, adibita a studio, era un ambiente altissimo e vastissimo, con pavimentazione in giallo e azzurro, e con due porte-finestre che s'apri- MEMORIA STORICA E MEMORIA SENTIMENTALE 55 vano su un giardino curatissimo. In questo salone c'erano dei tavolini rotondi in legno intarsiato, intorno ai quali sedevano, gomito a gomito, l'insegnante e l'alunno; una grande libreria su una parete laterale, men­ tre, sul fondo, completavano l'arredo due cassettoni del Settecento napoletano. La lezione durava cinquantacinque minuti, al sessantesimo l'alunno, scritto l'assegno, raccolti i libri e i quaderni, doveva essere già sulla soglia. Nessun suono di campanello turbava l'atmosfera silenziosa e raccolta (bisognava parlare a voce bassissima e con gran chiarezza). Ogni suora portava al polso un orologio d'acciaio con il cinturino nero. Nessuna preghiera ali'inizio della lezione; nessun accenno ad argomenti religiosi, nessuna osservazione che esulasse dall'argomento specifico della disciplina; nessuna parola di elogio, affinché gli studen­ ti, prendendo coscienza della loro capacità, non insuperbissero. Solo qualche tagliente rimprovero, che non ammetteva repliche. Gli alunni che frequentano i corsi di ragioneria che cosa sanno della scuola elitaria degli anni Trenta? Che cosa del Convento, di cui oggi sono inquilini? Che cosa di Sorrento, quando, prima della seconda guer­ ra mondiale, vi si respirava ancora un'aria feudale? Che cosa ne sanno i docenti pendolari e non? Da un viaggio a ritroso nella microstoria di Sorrento potrebbero par­ tire confronti interessanti, volti ora a chiarire alcuni fenomeni sociali, difficili a spiegarsi, ora ad apprezzare il tempo attuale, spesso ingiusta­ mente vituperato. Questo scritto di microstoria, suggerito dalla memoria sentimentale, può immettersi nella memoria storica fino a confluire nel panorama sociologico, utile ad acquisire una maggiore coscienza della qualità del post-moderno che, quotidianamente, scorre sotto i nostri occhi e passa sulla nostra pelle. L'ARTE DELLA RIGGIOLA NAPOLETANA A MASSA LUBRENSE di Arturo Fratta La maiolica delle Sirene di Eduardo Alamaro e Francesco Tanasi, pubblicato dalla Esi per iniziativa dell\.,\rcheoclub di Massa Lubrense, è un libro di non facile lettura. Ma per ragioni del tutto diverse da quel che si può pensare. Niente di troppo concettoso, che costringa ad ecces­ si ve elucubrazioni. Anzi! L'autore si è sforzato di tenere un tono affa­ bulante, prendendo per mano il lettore e accompagnandolo lungo tre iti­ nerari, alla ricerca dei pavimenti maiolicati settecenteschi disseminati in chiese, conventi e cappelle nel vasto territorio di Massa Lubrense. E l'ha fatto senza rinunciare al fascino della citazione gustosa, illuminante o dotta, al ricordo personale, alla testimonianza determinante, alla pun­ tata ironica, all'invettiva, alla polemica, al lirismo, tutto piegando alla necessità del racconto, come chi sia approdato da un lungo viaggio e si preoccupi di perdere tra gli anfratti della memoria sensazioni, ricordi e rivelazioni raccolti durante il cammino. I compagni di viaggio sono Norman Douglas, Persico, Maldacea, Filangieri di Candida, Fabrizia Ramondino, Amedeo Maiuri, Roberto Pane, ma nessuno si meraviglierà di vedere spuntare dietro l'angolo Vittorio Sgarbi o il "gigante" di un cartone animato. Per far tutto questo, l'autore ha dovuto relegare nell'appendice del volume non solo il corredo di documenti, che danno al testo il necessa­ rio supporto scientifico, ma parti essenziali del discorso principale, saggi e studi apparsi precedentemente in pubblicazioni periodiche. Così che le pagine del libro finiscono per essere irte di richiami e il lettore è costretto a procedere a balzelloni tra la prima parte, l'appendice, le illu- 58 ARTURO FRATTA strazioni nel testo e quelle fuoritesto, l'indice delle immagini a colori e l'indice di quelle in bianco e nero. Nel corso dell'esame del volume abbiamo preso una serie di appunti, principalmente sui motivi che fanno di questa pubblicazione un'opera note­ vole. Tenteremo di raggrupparli e di riassumerli per quanto è possibile. Primo punto: il valore documentario dell'opera di Alamaro e di Tanasi. Le ottime riproduzioni e le documentatissime schede ci sembra­ no la migliore assicurazione possibile contro la dispersione di un patri­ monio storico-artistico di inestimabile valore e pressoché sconosciuto. E poiché il monito di padre Franco Strazzullo perché in tutti i Seminari d'Italia si insegni arte sacra allo scopo di evitare la scomparsa o la distruzione di altari, balaustre, tabernacoli, fonti battesimali e pavimenti maiolicati è destinato a rimanere inascoltato, soltanto pubblicazioni come questa possono determinare quelle remore che fino ad oggi non ci sono state e indurre la coscienza di ciò che si rischia di perdere, secon­ do l'antica massima che vuole la conoscenza primo passo verso l'azione di tutela. Nella Prefazione al volume padre Giuseppe Esposito, che si firma nella qualità di Presidente dell' Archeoclub, è come al suo solito molto esplicito quando parla di questo come di un libro di provocazione e di denuncia, un libro che «interpella la coscienza del lettore sia laico che cristiano. Denuncia aperta - prosegue padre Giuseppe Esposito - per la colpevole manomissione o distruzione di buona metà dei pavimenti maiolicati che fino a cinquant'anni addietro, o poco più, adornavano quasi tutte le cappelle e le chiese del territorio». Non sappiamo quale diffusione questo libro potrà avere tra le fami­ glie massesi. Ma l'azione promossa dall' Archeoclub con questa pubbli­ cazione, e con la bella mostra che ne è seguita, è destinata a non rima­ nere senza frutti. I cittadini, gli ospiti, i naturali custodi di chiese, cap­ pelle, conventi e i responsabili della cosa pubblica non possono più ignorare la preziosità di un patrimonio d'arte che, benché destinato ad un uso fatalmente distruttivo, oggi deve essere conservato. Come fare non è difficile dirlo, anche riferendoci ad esempi generalmente noti. Ma questo è un discorso che spetta ai tecnici, e quindi me ne asterrò. Anche il terzo ordine di motivi per i quali questo volume ci sembra notevole è di pertinenza degli specialisti, che certamente daranno i L'ARTE DELLA RIGGIOLA NAPOLETANA 59 dovuti riconoscimenti al valore scientifico di questa ricerca. Ci riferia­ mo alla individuazione in Ignazio Chiajese jr di un ceramista di grande prestigio, autore, secondo Eduardo Alamaro - che spesso ha sostenuto con documenti le proprie tesi - della maggior parte dei pavimenti maio­ licati che dalla metà del Settecento impreziosiscono i luoghi sacri di Massa Lubrense. Partendo da questa ricerca, la storia di Ignazio Chiajese, del suo ritorno alla fede e della parte che ebbero nella sua conversione Alfonso Maria dei Liguori e, a Massa, suor Cristina Oli­ vieri e il Vescovo Giuseppe Bellotti a nostro parere è tutta da ripercor­ rere e da raccontare come una straordinaria vicenda umana. Sono proprio gli esiti della conversione del Chiajese a costituire l'oggetto del lungo studio di Eduardo Alamaro ed ora di questo libro: riaccostatosi alla fede, e sotto la spinta di Suor Cristina e del suo Ve­ scovo, Ignazio Chiajese arricchì di straordinari pavimenti maiolicati decine e decine di chiese nell'intero territorio di Massa Lubrense. Basterebbe quanto si è detto per plaudire all'impegno e al lavoro che gli autori hanno profuso per quest'opera. Ma ci sembra di non dover risparmiare ai lettori altre considerazioni che nascono dalla lettura di questo libro e che quindi, se valide, a merito di questa iniziativa vanno pure ascritte. Con l'indagine sulla ceramica settecentesca, con questa pubblicazione e con la mostra relativa Massa Lubrense ha aggiunto molti punti al suo già ricco blasone di autentica perla della Penisola sor­ rentina, già celebrata per la singolarità dei suoi paesaggi, per il fascino delle sue cale, dei suoi colli, delle sue valli, per la bellezza solitaria dei suoi casali, ed ora destinata ad esserlo per la rarità del patrimonio arti­ stico di cui stiamo parlando. Ma quanti sorrentini - e dicendo sorrentini voglio riferirmi ai cittadini di tutta la Penisola di Sorrento - sono andati a Massa a vedere la mostra, a prendere il libro, a congratularsi con i promotori? E d'altro canto - e qui so di toccare un tasto molto delicato, ma mi sento autorizzato a farlo dall'amore che porto a questa terra quanti massesi hanno visitato la bella mostra archeologica allestita dalla Soprintendenza a Sorrento? Non è necessario che dica qui le ragioni di questi comportamenti, le cause di questa assurda separatezza. Le cono­ scono tutti e ciascuno le giudica a suo modo. Ma abbiamo il dovere di porci un interrogativo. Come superare questi ostacoli, che a un osserva1 60 ARTURO FRATTA tore distaccato sembrano di ordine soprattutto psicologico? La via giu­ sta è indicata proprio dalla importante iniziativa di cui stiamo parlando. Fare. Operare per la valorizzazione di straordinarie ricchezze esistenti, da proporre a un pubblico non soltanto di turisti distratti, ma al mondo della cultura. E se l'Archeoclub ripetesse questo tipo di iniziative per i suoi molti e importanti edifici storici? E se Massa Lubrense volesse costituire, con le sue forze e con il suo ingente patrimonio, un importan­ te Antiquarium? Non pensate che la Soprintendenza archeologica dareb­ be tutto il suo appoggio e il suo apporto scientifico a un'opera simile, destinata ad essere conosciuta ben al di là dell'ambito comunale? Ecco quindi un altro motivo per cui questo libro è importante. Ma un'ultima riflessione ci sembra di dover fare. Guardiamo le belle immagini a colori di questo libro. Esse consentirebbero di aprire un discorso sulle straordinarie attitudini precorritrici dell'espressione arti­ stica di cui sono documento. Ci sembra difatti di scorgere in queste riproduzioni, felicemente eseguite e felicemente selezionate, episodi che preannunciano geometrie alla Mondrian (ma molto più coinvolgenti, oseremmo dire), altri decisamente impressionistici, brani di grande forza narrativa, complesse composizioni incentrate su inattesi ma preci­ si equilibri, propri del secolo dei lumi, abbacinanti trionfi di un'epoca che presagisce un prossimo tramonto. Un discorso a parte meriterebbero le figurazioni molteplici, e spesso annidate nella complessità dell'ornato, e così singolari nel ritrovato Paradiso perduto, che toglie a quello anacaprese l'esclusiva d'una com­ posizione che straordinariamente riesce a fondere ingenuità e fantasia. Ci sarebbe da dire ancora dei colori, dai blù di Prussia ai gialli di Pozzuoli, e di certe opalescenze che tolgono il fiato. Tutto questo nella continuità ideale, e certe volte fisica, con un paesaggio quello massese sempre aperto verso l'infinito d'un cielo e di un mare ineguagliabili. Ora, ed è questa la riflessione che intendevamo proporvi, dobbiamo immaginare l'impatto che una così imponente invasione di pavimenti maiolicati, di questi pavimenti maiolicati, deve aver prodotto sulla popolazione di Massa Lubrense alla metà del Settecento, quando furono fatti e messi in opera. Noi viviamo nella civiltà dell'immagine, al punto da esserne a volte ossessionati. Ma oltre due secoli fa l'aver steso sotto L'ARTE DELLA RIGGIOLA NAPOLETANA 61 gli occhi, e addirittura sotto i piedi, dei massesi questi straordinari tap­ peti di fantasia, d'arte e di grazia non deve essere stato senza conse­ guenze. Passati e ormai lontani i tempi e svanita la memoria delle gran­ di paure - dalla distruzione della città fortificata ordinata da Ferrante d'Aragona nel 1465 all'invasione turchesca del 1558 che lasciò una grande scia di lutti e di rovine - la gente di queste terre trovò nel regno di Carlo di Borbone e nella prima parte di quello di Ferdinando quel tanto di pace e di affidamento nel futuro che le consentì di prosperare nella tranquillità delle cose semplici e nel silenzio rasserenante d'un tempo senza strepito d'armi. Tali erano i massesi incontrati e descritti da Norman Douglas, quan­ do venne in questi luoghi. Sperava di sentire il canto delle Sirene, ma restò sedotto da tutte le altre infinite voci di questa terra. Fu lui per primo a capire come all'origine di tanta gentilezza e di tanta grazia fos­ sero quei tappeti di cielo, di fiori e di uccelli che Ignazio Chiajese tanto tempo prima aveva steso sotto i piedi della gente di Massa per la gloria di Dio e per la felicità dell'uomo. Averci fatto conoscere, o ricordare, tutto questo è forse il merito maggiore degli autori di questo libro e di quanti altri a qualsiasi titolo vi hanno messo mano. RICORDO DI ENRICO GABELLI (1934-1994) di Giusy Gargiulo Ricordare e riassumere in poche parole il profilo artistico ed umano di Enrico Gabelli è paragonabile al difficile tentativo del fotografo che vuol fare entrare nel rettangolo dell'obiettivo un paesaggio vario, colo­ rato e solare e cerca l'inquadratura giusta, con la focale adatta per non lasciare nulla fuori campo, per cogliere in un clic di una frazione di secondo tanta vita formatasi in un tempo lunghissimo. La vicenda artistica di Enrico è stata vissuta come il percorso di uno sguardo che pensa e inventa in maniera inattesa il mondo, con una profonda partecipazione affettiva, attraverso un'infinità di inquadrature, ricercate con la precisione della semplicità, attraverso la pittura, le immagini fotografiche, cinematografiche, televisive e infografiche. Tutti i mezzi erano adatti, dai più semplici ai più sofisticati e complessi, per restituire e ricreare un'emozione visiva. Una naturalezza che nasce­ va nel laboratorio della sua possente camera ottica mentale. Per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo all'opera, ciò che colpiva di più oltre alla sua grande competenza tecnica, per lungo tempo aveva svolto mansioni di operatore cinematografico e fotografo professionista a Cinecittà, era la generosità nel dare consigli, suggerire soluzioni origi­ nali e spesso geniali ai problemi di ripresa. Sempre con la massima naturalezza tanto da farci dire ammirati e un po' frustrati, toh, in tutto questo tempo non ci avevamo pensato, ma lui sì, in pochi minuti. Quando mi insegnava ad usare la cinepresa 16millimetri biottica o la Contax reflex, ormai pezzi da museo della fotografia, trovava sempre una angolazione insolita da cui partire per cominciare a raccontare una 64 GIUSY GARGIULO storia con lo sguardo, a far diventare fotogenico, cioè interessante, un pezzo di muro, un portone, un'ombra o un raggio di sole che ridisegna­ va un oggetto fino a quel momento condannato ali'anonimato della fret­ tolosa disattenzione generale. Con lui il mezzo tecnico ci avvicinava alle forme della vita, veniva docilmente ammaestrato, senza virtuosismi, per dare una riproduzione più esatta delle cose, e qui esatta vuol dire rispettosa della voglia di comunicare differenti momenti di esistenza da parte di persone e cose che si offrono allo sguardo del fotografo artista. Con Enrico la fotografia dimenticava quell'aura di seriosità vagamente stregonesca e funerea, che l'accompagnava fin dalle origini, come uno strumento per rubare l'anima, catturare e congelare volti corpi e oggetti in pose e luci tali, da ingessare e soffocare il soggetto fotografato in un'atmosfera che non gli appartiene e che finisce con il cancellarlo. Proprio tra gli anni Sessanta e Settanta con gli amici fondatori del Cinefotoclub, che lo aveva anche visto presidente, in perfetta linea e talvolta in anticipo, con quanto succedeva a San Francisco, New York, Milano e Parigi, dava vita ad una serie di esperimenti di accumulazione fotografica attraverso la riproducibilità, ciò che più tardi si sarebbe chiamato happening di arte povera e di body art, inumidendosi il volto con il rivelatore chimico per impressionare direttamente su carta foto­ sensibile il suo ritratto, oppure facendo fotografie con fustini di detersi­ vo dotati di foro stenopeico. La fotografia diventava un'esperienza di giocosa interdisciplinarietà, dove al buio della camera oscura si preferi­ va l'eresia della luce in libertà, come una lunga e liberatoria risata foto­ sensibile. All'adorazione del Moloch supertecnologico, rappresentato dagli scatti petulanti di una iperaccessoriata e costosissima fotocamera giapponese, Enrico si divertiva a rispondere talvolta con l'intelligente spernacchiata, made in Naples, di una macchina fotografica istamatic, di poche migliaia di lire ma dalle foto mozzafiato. Anche come pittore i suoi oli, acquerelli e acrilici, dalle dimensioni sempre più grandi, testimoniavano questa ricerca di esattezza, nella let­ tura di luci e colori, ma che talvolta faceva velo ad un'originalità com­ positiva, specialmente nelle ultime opere astratte, esposte per ben due volte alla prestigiosissima Foire lnternationale d'art Contemporain di Parigi. RICORDO DI ENRICO GABELLI 65 Ma accanto alla fotografia, l'immagine cinematografica e più tardi quella televisiva gli permettono di continuare quel racconto attraverso lo sguardo, senza la soluzione di continuità che gli imponeva il foto­ gramma fisso. Con il film in superotto Fragilità vince il leone d'oro, per il cinema a passo ridotto, al festival di Venezia del 1960. Un gioiel­ lo di sensibilità espressiva nel riprendere il sogno di un bambino duran­ te il carnevale. Inquadrature a misura di personaggio, la cinepresa vissu­ ta come un diario discreto che annota le emozioni, che non invade il racconto, ma che lo fa scivolare con fragilità, come una carezza per immagini, dall'inizio alla fine. Poi arrivano televisione e computer. Con la telecamera e il computer graphic, l'avventura visiva di Enrico, Homo Multimediaticus, mette le ali. Con pochi mezzi, se si pensa a cosa significhi avere uno studio tele­ visivo tecnologicamente attrezzato, come quelli della Rai e della Fininvest, da solo, fa il lavoro di un'intera équipe televisiva: riprende le immagini, compone le musiche e le esegue personalmente al sintetizza­ tore, è stato anche chitarrista rock con la formazione dei Gagà 90, le registra e le mixa con le immagini che ha montato e modificato attraver­ so effetti speciali geniali e di fattura quasi artigianale. Vedere per cre­ dere. Uno così ce lo invidierebbero anche quelli di Hollywood. Ma questo profilo così incompleto del nostro Enrico credo che meriti di essere messo a fuoco, nei limiti del possibile, con questo episodio. Un giorno, mentre montavamo un documentario di tecnica della comuni­ cazione del!'italiano, che a Parigi riscosse l'ammirazione di colleghi e studenti, mi mostrò al computer la fotografia di Black, il suo cane lupo cieco all'occhio sinistro. «Guarda - mi disse sorridendo - gli ho ridato l'occhio. Ho ricopiato l'occhio sano, l'ho messo in memoria, con il paint brush l'ho risagomato e l'ho collocato al posto di quello malato». In effetti il cane sembrava completamente normale. Era la prima volta che mi commuovevo dinanzi a una info-fotografia, che era anche un quadro elettronico, e non so che altro procedimento tecnico, ma comuni­ cava un grandissimo atto d'amore. Ho pensato ad una frase di Melanie Klein; l'artista è colui che con il suo gesto ci restituisce un oggetto per­ duto facendoci uscire dal dolore causato dal suo smarrimento, e, io aggiungo, ci permette attraverso i suoi occhi di vedere quanto la vita 66 GIUSY GARGIULO meriti di essere vissuta fino in fondo, capendola con amore e amandola con intelligenza. Grazie Enrico per questi splendidi doni, li porteremo sempre con noi. Specialmente in questo periodo, dominato dalla mediocrità spudoratamen­ te gridata a tutti i livelli, la tua genialità discreta, il tuo non prenderti mai sul serio e la tua delicatezza resteranno un esempio e una speranza. LE ATTIVITÀ DEL CENTRO B. CAPASSO - Il 17 dicembre 1994, nel salone dell'Hotel Tramontano di Sorrento, il Prof. Raffaele Mormone ha presentato al pubblico la cartella fotogra­ fica I luoghi sorrentini del Tasso (foto di Antonino Fiorentino e testi di Dante Della Terza e Gino Cavallo) e la medaglia ideata e realizzata dal nostro socio Raffaele Mellino per il 450 ° anniversario della nascita di Torquato Tasso. Nella stessa serata, la giornalista Donatella Trotta ha presentato la cartella fotografica La Sorrento di Saltovar (ricerche foto­ grafiche di Antonino Fiorentino, testi di Michele Lubrano, Nella Pane e Francesco P. De Martino) pubblicata dal Centro Capasso in occasione del cinquantenario della morte di Silvio Salvatore Gargiulo. - Si è svolta a Sorrento e in Penisola sorrentina dal 22 al 26 marzo 1995, organizzata dal Centro Meridionale di Educazione Ambientale con la collaborazione del Centro Capasso, la prima edizione degli "Incontri Internazionali Multimediali del Mezzogiorno". Nelle mattina­ te, presso il Cinema Teatro Armida di Sorrento, si è tenuto il Convegno "Dalla fotografia alla realtà virtuale", con l'intervento di numerosi e qualificati studiosi dei vari ambiti: fotografia, cinema, linguaggio video, multimedialità, ipertestualità, realtà virtuale. La relazione fntroduttiva è stata del Prof. Nazareno Taddei e le conclusioni del Prof. Alberto Abruzzese. Nel pomeriggio degli stessi giorni sono stati proiettati i film vincitori della Rassegna Internazionale dell'Audiovisivo Didattico. A seguire sono stati presentati, uno per pomeriggio, i libri fotografici Le processioni del Venerdì Santo a Sorrento di Antonino Fiorentino; Dino Risi di Paolo D'Agostini; Il dizionario della p ubblicità di Alberto 68 LE A1TIV!TÀ DEL CENTRO Abruzzese e Fausto Colombo; Luci del Sud. Sorrento un set per Sofia, a cura di Giovanni Fiorentino. Nelle serate si è svolta una rassegna di film del regista Dino Risi, a cura di Valerio Caprara. La rassegna si è conclusa con la proiezione del film "Pane, amore e...", girato a Sorrento nel 1955. I medesimi film sono stati proiettati con ingresso libero nelle mattinate dei giorni 23-26 marzo al Cinema Teatro delle Rose a Piano di Sorrento. La manifestazione si è conclusa il 25 marzo con una serata di gala al Cinema Armida e con la proiezione di "Pane, amore e...". Sono intervenuti attori, artisti, critici e giornalisti cinematografici. A Dino Risi e ad altri personaggi è stato consegnato il premio "Città di Sorrento: immagine e ambiente" con una medaglia in argento, coniata per l'occasione dal Centro Capasso, recante la dicitura: "1995 Il Mezzogiorno per il Centenario del Cinema". Una serie di mostre, che sono rimaste aperte fino ali'aprile 1995, ha accompagnato lo svolgersi della manifestazione. Immagini di scena del film "Pane, amore e..." sono state esposte nel trecentesco chiostro di S. Francesco e nelle vetrine dei più bei negozi della Penisola sorrentina. Al Cinema Armida sono state allestite la mostra "Omaggio a Dino Risi" e l'esposizione "Gli strumenti dell'immagine". Presso lo Spazio culturale "La Primavera" di Sorrento è stata ospitata la mostra "Dino Risi foto­ grafo"; presso il Circolo dei Forestieri di Sorrento la mostra "Gli stru­ menti del futuro". - Il Centro Capasso h a inaugurato la collana "Im magine e Mezzogiorno" con i due volumi fotografici Le processioni del Venerdì Santo a Sorrento, foto di Antonino Fiorentino, con interventi critici di Giuseppe Alario, Gilberto Antonio Marselli, Pasquale Ferraiuolo e Franco Scandone, e Luci del Sud. Sorrento un set per Sofia, a cura di Giovanni Fiorentino, con contributi critici di Valerio Caprara, Pasquale laccio, Giovanni Fiorentino, Fabrizio Corallo, Antonino De Angelis. I due libri sono stati presentati al pubblico nell'ambito degli "Incontri Internazionali Multimediali del Mezzogiorno", il primo il 22 marzo 1995 da Lanfranco Colombo, Arturo Fratta, Enzo Puglia, Nazareno Taddei e Fulvio Tentori; il secondo il 25 marzo da Valerio Caprara, Arturo Fratta, Enzo Puglia, con interventi di Mario Franco, Enzo Grano e Dino Risi. LE ATTIVITÀ DEL CENTRO 69