illuminista
Rivista di cultura contemporanea fondata da Walter Pedullà
numero 58/59/60 • gennaio-dicembre 2021
I segni della satira.
Dai ‘60 a oggi
a cura di Andrea Gialloreto e Tommaso Pomilio
L’illuminista
Quadrimestrale di cultura contemporanea
Anno XXII – Numero 58-59-60 – 2021
ISSN 1720-5395
Autorizzazione del Tribunale Civile di Roma n. 00622/99 del 24.12.1999
Dipartimento di Lettere e Culture Moderne
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Redazione: Cecilia Bello Minciacchi, Floriana Calitti, Federico Francucci, Andrea Gialloreto,
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Daniel Raffini, Marco Ricciardi, Andrea Santurbano, Carlo Serafini, Siriana Sgavicchia
Comitato scientifico: Walter Pedullà (Presidente)
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Luigi Lombardi Satriani, Michele Mari, William Marx (Univ. Sorbonne, Parigi), Arturo Mazzarella,
Giorgio Patrizi, Gabriele Pedullà, Tommaso Pomilio, Amedeo Quondam, Fanny Rubio
(Univ. Madrid), Vera Stepanenko (Univ. Mosca), Paolo Valesio (Univ. Columbia, New York)
L’opera è stata pubblicata con il contributo dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza
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In copertina: un disegno di Pablo Echaurren (1977).
Indice
Premessa
7
Litigiosità dell’anima
Giorgio Manganelli (a cura di Andrea Cortellessa)
13
Sfaccettatura di un porcospino. Per una teoria della satira
Francesco Muzzioli
19
Convergenze sperimentali: Gianni Celati e «Il Caffè»
Stefano Tieri
35
Per una storia della fortuna del Satyricon nel secondo
Novecento. Prolegomeni e parléries
Fabrizio Bondi
49
Flaiano tra epitaffi e pisolini
Roberto Barbolini
59
Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
Tommaso Pomilio
65
L’«orba Urbs» di Morselli: la satira grottesca
in Roma senza papa
Andrea Santurbano
83
La satira come «difesa di una generosa illusione».
Tre bestemmie uguali e distinte di Augusto Frassineti
Andrea Gialloreto
99
Tra Oulipo e Giovenale: Sanguineti e la satira
del politicamente combinatorio
Chiara Portesine
119
Indice
«Non ama mica me». Il pubblico della poesia secondo Balestrini 143
Cecilia Bello Minciacchi
Fantasmi romani ovvero: il borghese narratore
e menzognero di Malerba
Marco Ricciardi
151
La satira felice di Juan Rodolfo Wilcock, con alcune
riflessioni sul microracconto e la poesia
Daniel Raffini
161
«Tra insulto e bestemmia», e ironia. La forma satirica
nella «trilogia della sciarra» di Jolanda Insana
Giuseppe Lo Castro
179
«Gioie e dolori e tanta noja»: il lessico di Tondelli
da Pao Pao alla Sanguineti’s Wunderkammer
Lorenzo Resio
197
Piccole satire quotidiane: Stefano Benni sulla stampa
periodica (1976-1986)
Giovanna Lo Monaco
215
La satira a distanza zero di Gabriele Frasca. Materiali
per la lettura del capitolo 12 di Santa Mira
Federico Francucci
229
«Cosa c’è da stare allegri» tra i dannati. Parodia e satira
in Caserza e Policastro
Davide Paone
251
Inconscia Incande(sce)nza: satiriche italianità bianche
in Infinite Jest di David Foster Wallace
Alessandro Giammei
261
La satira nell’arte del novecento
Rocco Familiari
271
Andrea Pazienza e la satira del «Male»
Erika De Angelis
289
La satira di Enzo Jannacci tra dialetto e italiano colloquiale
Emiliano Picchiorri
299
SAGGI EDITI
La satira degli italiani
Walter Pedullà
L’illuminista
313
Indice
Poesia satirica nell’Italia degli anni ‘60
Cesare Vivaldi
325
La musa infetta
Attilio Brilli
333
La satira politica nell’Italia del Novecento
Giulio Carnazzi
341
Epigrammi italiani
Gino Ruozzi
347
Dal tempo del dopo. La maniera epigrammatica
di Beppe Fenoglio
Giancarlo Alfano
353
«Un film delizioso»: Le lettere di Ottavia di Luigi Malerba
Cecilia Bello Minciacchi
359
Il rogo di Vassalli
Giovanna Ioli
377
Manganelli, la macchina del vilipendio
Andrea Cortellessa
383
L’illuminista
Dell’amara satira.
Luigi Compagnone,
ragioni e acheronti
di Tommaso Pomilio
Il ritratto, lo ricordiamo bene, è di quelli fulminanti; tagliente come
una lama. Il viso (nei suoi «lineamenti classici») «leggermente pallido, come di chi ha freddo»: gli occhi che «guardavano intorno
senza gioia, anzi con una rabbia muta, greve»: il «giovane funzionario» (della Radio RAI) « seduto in un angolo, con la sua aria
disfatta e mordace»: il «fragile rivoluzionario, che aveva in sé […]
l’istinto e la critica»: un’amarezza persino insenilente (il cui stigma
è nel «mento aguzzo di vecchio»), che s’imprime in un volto in
cui traspare «qualcosa […] tra l’estrema gioventù e la vecchiaia»:
una costante «lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch’erano in lui,
e una disperazione e perfidia che erano ugualmente in lui»: e,
«poco alla volta […] quella parte inferiore di lui, come un male
nascosto, era avanzata»... Lo strappo (doloroso, fino al definitivo autoesilio) con la propria città lambita da un mare che non la
bagna, il cupo disincanto seguito al polverizzarsi dell’esperienza
pur eccezionale della rivista «Sud» e della regressione a silenzio
d’un progetto di razionalità o almeno di presa di coscienza, nella
città dei vichi «dove la natura infuria» e «tiene oppressi nel sonno» i suoi abitanti,1 documentato nel reportage narrativo posto a
coronare il multigenere capolavoro uscito nel ’53 nei “Gettoni”
vittoriniani, si scandisce, per poco meno della prima metà, sulla
spezzata temporalità d’una visita di lei, Anna Maria Ortese, in casa
Compagnone: e sull’incontro (effettivo e, non meno, spettrale,
dilatato da analessi, sovrapposizioni, digressioni lirico-aforistiche)
con un narratore che all’epoca, di fatto, nemmeno aveva esordito
in volume (se si esclude, nel ’46, un libretto di versi),2 e che lei già
ritrae come il rinunciatario – faceto e nauseato insieme – lettore/
Tommaso Pomilio
esecutore di sketch radiofonici in riunioni pomeridiane fra letterati
amici, con la sua voce «quasi femminile» in cui sibila (per Ortese)
«il ribrezzo e l’insulto».
Non è il luogo, qui, per insistere sul cosa inducesse Ortese a
quest’attenzione a tal punto ingenerosa, persino ingiuriosa, e a
tratti (sonnambolicamente, si direbbe) livorosa o nobilmente isterica (in un testo cui pure – per sua sublimità – tutto sembra concesso), nei confronti di quello scrittore declassato a ««funzionario»: si
tratterebbe di ricostruire la vicenda intera di «Sud» e della sua quasi
immediata implosione (negli anni, poi, anteriori al frantumarsi degli
ideali generazionali che fu segnato dalle elezioni del ’48, ricordiamolo – in unarco temporale, ’45-’47, che è il medesimo del «Politecnico»), insieme quella del rapporto “nevrotico” che lei avrebbe
confessato avere ormai con la sua, non-più-sua, troppo-fisica città.
Il testo del Silenzio tutto ha peraltro un sentore straniato di satira
– illividita, crucciosa, dolorosamente invettivale (più ancora nelle
pagine della visita a Rea), persino elegiaca (l’incontro col «ragazzo
Prunas»)… Sta di fatto che, nell’evidenza stessa di quella presa di
distanza, è possibile rinvenire in quelle pagine, dedicate all’incontro
col «funzionario Luigi» (e al contrario che per le altre sequenze su
cui quel reportage si articola – incontri-ritratto con Rea soprattutto,
e più fugacemente con Prisco, La Capria, Pratolini…), la traccia d’una pur conflittuale, e progressivamente delusa, apertura di credito,
nei confronti del cantore (a citare un verso di lui) d’una città senza
grazia: «Adesso non faceva più nulla, ma vi era stato un tempo,
subito dopo il ‘45, a Napoli, ch’egli era stato al centro della pubblica attenzione, riconoscendo tutti nella sua prosa agile e sfrontata,
nello scherno e l’ira di cui erano irti i suoi scritti, il segno di una
Napoli diversa da quella che finora ci avevano rappresentata classici
antichi e moderni, non più ridente e incantata, o tambureggiante
e grottesca, ma livida come una donna da trivio sorpresa da un
subitaneo apparire della ragione». E finanche, allora, una sintonia
segreta, nel sentirsi corrosa da quello stesso «male nascosto» (che,
più che per le polemiche derivate dall’impietoso ritratto della sua
intellettualità, l’avrebbe indotta di lì in poi a evitare Napoli – città da
lei abbandonata peraltro da anni, in favore di Milano). Potremmo
supporre che la delusione in lei derivasse dall’aver colto in Compagnone un evolvere (implodere?) della sua verve engagée in esprit
decostruente, voltairiano: per cui si sarebbe compiuta e corrotta, a
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Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
un tempo, quell’irruzione della ragione dal livido, infero sfaccettato
seno del grottesco (casomai per ripiombarvi, da narratore maturo,
come dentro lo specchio).3
Ma non stiamo qui a divinare più di tanto. Sta di fatto che l’anatema (che non riguardò il solo Compagnone – violente e prolungate le polemiche che suscitò il Silenzio – ma che su di lui si scaglio
tanto più violentemente e forse proprio per via d’una conflittuale,
forse nevrotica specie di prossimità) ha dovuto infine incidere, e in
modo sempre più pesante, sulla fortuna critica dell’autore dell’Amara scienza. E di fatto, per una forma inauspicata e come irridente
di caso, a misura della progressiva (e più che dovuta) canonizzazione della scrittrice avvenuta dai suoi anni più tardi, Compagnone
(dopo i fasti dei primi anni ’70) sembra disceso al rango di innominabile ancor più che di innominato; una coltre di silenzio, sempre
più spessa, è quella che avvolge la sua opera, e spegne la sua stessa
memoria: negli scaffali pavesi che accolgono il suo fondo, numerosissime le carte frusciano, in attesa di chi finalmente inizi ad aprire i
faldoni, ma sembra una Fortezza Bastiani per adesso.
Vero è che, nel ripubblicare, quarantuno anni più tardi, il suo
Mare per Adelphi, Ortese avrebbe confessato il grado di “allucinatorietà” che risiedeva nel suo “nevrotico” rigetto del reale, in
nome della metafisica, e che di lì si riversava nella scrittura di quel
libro.4 Eppure, per quanto rancoroso, e avventurato e acerbo –
alla luce d’un percorso narrativo che avrebbe dovuto inaugurarsi
solo nell’anno successivo, il 1954, con La vacanza delle donne,
protraendosi poi per più di un quarantennio con più di trenta volumi all’attivo – fosse il profilo che Ortese traccia dell’atra bile,
lo humour cupo o sfrenato e disperato, dello scrittore dell’Amara
scienza che sarà, colpisce quanto (al netto del rancore intellettuale
nutrito, motivato o appunto “nevrotico” che fosse), nei suoi tratti
portanti questo risulti già plausibile, quanto all’ars del Compagnone avvenire; pur declinandosi poi, quella, in una rutilante varietà di
forme e di maniere, qui nelle pagine del Mare si colgono appieno
(quasi risalendo la fisiognomica) diverse delle dominanti dell’opera
che verrà. Un netto tratto illuminista – voltairiano assai più che
vichiano, come lui avrebbe voluto piuttosto – ma spesso convertito
in smorfia, in decostruttivo sberleffo, e “oscurato” quasi; il riso
aspro: più che quello «falso», colto da Ortese, l’insorgenza critica
del “falsetto”; lo «scherno e l’ira», certo; e ancora, il connaturato
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L’illuminista
Tommaso Pomilio
istrionico genio dello sketch (e dell’improvvisazione anche orale,
viva attitudine in lui) – che si trasformerà in capriccio, antifiaba,
satira, e nel modo più spinto e strutturante, di lì a vent’anni, in
Città di mare con abitanti (costruito tutto per scheletri di aberranti
sketch, a partire dalla sua stessa furia onomastica – quell’ossessa
moltitudine di nomi che affollano, già tipizzanti, le pagine, e non
solo in quel libro):5 e già però pienamente in vita nella serie di
scenette parossistiche e paradossali del libro d’esordio. Ma ancora,
insomma: l’attrazione incantata e rabbiosa allo spazio-mondo partenopeo (nel suo eterno e mai sciolto mito, nel suo ilare-amaro o,
altrove, convulso illividirsi),6 in cui cercare un segno atto a suscitare
una presa di coscienza, e tuttavia sapendo quanto l’attesa sarebbe
delusa, quasi evocandola, spinto a una «nuova soggezione al mistero partenopeo» (nel momento in cui la “naturalità” di questo
ha ripreso il sopravvento sulle «esigenze della ragione»). La parabola amara, senza possibilità di riscatto, del romanzo del ’65 (che,
accanto alle Notti di Glasgow,7 giunto cinque anni più tardi – e
parzialmente, a Capriccio con rovine, del ’68 – rappresenta un risultato di sicuro significato – anche per concetto narrativo – in una
decade irregolare e fitta di rivolgimenti dentro e fuori le forme del
romanzo) sembra evolvere dal «male nascosto» che Ortese aveva
colto nel volto di lui, procedente da una sorta di «misterioso terrore», dalla humourosa umoralità di «occhi [che] guardavano attorno senza gioia»: e tuttavia sostenuta da una straniata e insieme
coinvolta qualità di pietas, del tutto insospettabile a percorrere il
profilo che era stato da lei «allucinato» nel Silenzio della ragione. E
peraltro, la percezione spettrale della città (che è del testo ortesiano) non è troppo diversa da quella di diversi testi di Compagnone,
non ultimo, il poemetto del ’66-’70, La giovinezza reale e l’irreale
maturità; e per quanto forse non del tutto calcolato, almeno in un
passaggio il Silenzio ortesiano sembra tornare nell’opera forse centrale, e più, ancora, pulsante, del suo percorso narrativo, L’amara
scienza: nell’arrivo di Egidio Alinei a via Orazio (siamo al cap.11),
per far visita (e chiedere aiuto) agli scrittori “vincitori”, quelli più
in vista nella città (mentre pensa: «Chi più scrive oggi per fare del
male? Rivoluzionari, sì, in apparenza, i nostri scrittori; dediti in sostanza ad accordi bonari su certezze comuni»); uno di loro, il più
generoso, fra l’altro si chiama, curiosamente, «Mare» (ma è uno
scrittore dell’entroterra: trasparentemente, Rea).
L’illuminista
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Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
Il legame doppio, a mandate varie – e a sua volta, radicalmente
nevrotico legame – che in modo tanto sfaccettato (nella trentina
e passa di volumi) connette Compagnone al viscere del «mistero
partenopeo» – fra repulsione e attrazione, distanziamento e incatenamento (o feroce incantamento),8 – questo legame è una delle principali chiavi atte a schiudere un’opera sempre diversa ma a
suo modo a se stessa uguale, a partire dall’esordio (narrativo, in
volume) de La vacanza delle donne, che sarebbe avvenuto, giusto l’anno dopo quel crudo ritratto ortesiano, nella collana longanesiana La gaja scienza (con Leo Longanesi Compagnone aveva
già collaborato, scrivendo in alcuni numeri de «Il Borghese»: forse
stigmatizzato da Ortese anche per questa “resa” – ma il periodico,
si sa, aveva collaboratori d’eccezione). Il romanzo dell’esordio era
l’attualizzante/sovratemporale riscrittura, in forma di sapida cronaca indiretta (ripresa da certi localissimi Annali), della Lisistrata aristofanea, ambientandosi in una immaginaria “Melaria” non troppo
dissimile dalla non-specificata Città di mare del romanzo del ’73 ma
nemmeno dal quartiere Belmuro, in cui si ambienterà Nero di luna
trentuno anni dopo (1985): al pari di quest’ultimo, è lo scenario
«dove si snodano / le imprese / del plebeismo / infimoborghese»9
(e, non meno, «specie di punto intermedio tra i molti punti di cui
si compone il reale e questo punto intermedio è la dimensione
del semireale cioè una collocazione tra i due continenti del reale e
dell’irreale»).10 L’estro reinventivo e acremente parodico di Compagnone (che darà più tardi i suoi frutti più sfrenati, nel reiterarsi delle
riscritture del burattino collodiano – La vita nova di Pinocchio, del
’71, ma non solo,11 – o nell’iper-antifiaba pulcinellesca di Ballata e
morte di un capitano del popolo, 1974), alla sua prima prova già
si dispiega in un concatenarsi di esilaranti, bidimensionali numeri
(o, proprio, sketch) fortemente sonorizzati (pura ars rumoristica, a
tratti): un teatrino di varietà delle guarrattelle, dal dialogato subrealmente schematico e tanto più prossimo all’assurdo, che l’occhio
impassibile – straniato e autoironico – del cronista-puparo isola e ingigantisce nei suoi parossismi marionettistici: in una caratterizzazione che parte dalla cellula dell’onomastica (si diceva), plausibilmente
meridionale ma a effetto perlopiù paradossale, e che pare intagliarsi,
al modo di una sagoma, e porsi a rilievo. – Così anche sarà, e però
all’ennesima potenza, entro la cornice in grand-guignol della Città
di mare con abitanti, l’iper-romanzo del ‘73 – quasi pre-Centuria,
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L’illuminista
Tommaso Pomilio
o «singolare Novellino» per Piero Dallamano (su «Paese sera»), o
in ritmo da poema eroicomico (per Montesano), – dove vediamo
peraltro autocitazionalmente un riferimento proprio a Melaria, trasformata ormai in concretissimo «merdaio».
Nella Vacanza delle donne, così come in successive zone della fluviale bibliografia, c’imbattiamo in un voltairiano apologo, un
divertissement satireggiante ad ampio raggio, avendo come esilarante bersaglio i piccoli conformismi d’una società “immaginaria”
sì ma assai riconoscibilmente posta nel Mezzogiorno (campano?
forse nelle periferie partenopee?), colta nella sua noia e nell’anarchia (o in realtà spirito di sottomissione a un avventurato «borgomastro» sollevapopolo) che insorge quando il motore primo,
sessista-sessuomaniacale attivato dal tedio dell’inazione (si stacca
da Aristofane, il gioco delle fonti, per includere ombre brancatiane)
viene frustrato dalla vacanza dai servigi sessuali (dovuta, in Melaria,
non precisamente a “sciopero”, bensì a una non meglio specificata
«epidemia» del desiderio femminile; ingenerante, dunque, speculare follia). Geno Pampaloni, che nel decennio della sua direzione
della Vallecchi sarebbe stato l’editore di Compagnone nel periodo
che (prima di Città di mare con abitanti) resterà forse il più pieno e maturo,12 proprio nella nota alla riedizione Avagliano della
Vacanza (1998) sottolineò quanto, fin da quest’operina d’esordio,
si caratterizzassero diversi dei temi e dei tratti propri della scrittura compagnoniana: dove ha luogo la convivenza di «intelligenza
e nevrosi, realismo e utopia, surrealismo e subrealismo».13 E pur
nella varia e virtuosisticamente variata fedeltà alla propria subrealtà
mondo-partenopea (o appunto per quella), la gamma delle soluzioni e delle intersezioni tra voci, generi, misure, il “falsetto” – acuto
o dissimulato – da satiro-sopranista che si leva di tratto in tratto,
in diversi punti chiave del suo scrivere fluente, ci introduce in un
ambiente testuale screziatissimo, il quale include la possibilità del
prosimetro (strutturante addirittura in Città di mare), l’escursione
dal serio-pensoso al comico convulso, una tensione anarchicamente allegorica (che non esclude cupi sfondi metafisici), lo spastico
immedesimarsi-straniarsi in relazione non solo al tema trattato ma
al dettato stesso dello scrivere, o ancora, la deformazione espressionistica, anche linguisticamente, ma che – di norma – si attua più
dentro che sopra le righe…14 Un “ambiente” che, insomma, fin nella sua struttura ci appare “satirico” (nel più vasto senso menippeo):
L’illuminista
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Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
o comunque (teatro) anatomico (alla Frye); tanto meglio quando la
scrittura spinge nella direzione indecidibile e frenetica del capriccio
(goyesco), con l’irresistibile carnevale dei suoi mostri.
Ma l’eccentrica natura di quel debordante o finanche compulsivo scrivere (la cui straordinaria fertilità, specie dagli anni ’70 in
poi – con variazioni evoluzioni piroette non sempre di adeguato
livello – potrebbe aver contribuito anch’essa a tarpare la fortuna
critica, a favorire la disattenzione ora tombale),15 Pampaloni l’aveva
fotografata più diffusamente in recensioni varie, fra cui una magnifica a Città di mare, oltre che nei risvolti di copertina nei libri
ospitati nella sua collana. E, in via tanto più decisiva, egli avrebbe
notato come lo scrittore «percorresse febbrilmente in ogni senso,
per sentieri ed anfratti, ampie carreggiate e misteriose vie d’acqua,
scorciatoie e impensati scollinamenti, tutte le possibili vie che conducono dal drammatico al patetico, dal realistico al surreale, dal
razionale all’assurdo, dalla denuncia al giuoco bizzarro, dal plebeo
al letteratissimo, dal cronistico al fantastico, dal corrusco ideologico
al lievitante pastiche, dal sociale al metafisico, dal gusto del rischio
a una religiosità stravolta nel negativo»: perfetta, e in sé luminosa,
definizione, che Compagnone volle assumere come propria insegna, nella voce dell’Autodizionario degli scrittori italiani curato da
Felice Piemontese (Leonardo 1989).
Proprio in questa voce, parlando stavolta non per interposta
persona, e a proposito del suo (allora) ultimo e «ventesimonono libro, L’oro nel fuoco, che [egli] ritiene onesta summa di tutto
quanto sopra riportato» (ossia della sintesi pampaloniana), Compagnone avrebbe epigrafato: «egli innalza la sua città cattolica
apostolica pagana ai superbi cieli della propria Amoralità». – Ecco:
Napoli, in quanto (iper)luogo insieme pullulante e moralmente azzerato, troppo-pieno e insieme grado-zero della coscienza (per un
«popolo /crocifisso al legno dell’incoscienza»),16 è il Leviatano, il
troppoumano unico e infinitamente molteplice mostro che (nella
miriade dei nomi e delle maschere, che lo incarnano appiattiti in
esso spesso bidimensionalmente) popola la lunga, variata vibrazione del narrare compagnoniano. «Insomma Napoli boom. Boom
canzoni. Boom poeti. San Gennaro boom. Boom bombe, in quegli
anni là. E boom amlire. Segnorine boom. E boom ricostruzione.
[…] Fanfani boom, e boom case, grattacieli e casermoni»: così in
una delle pagine più irate e “in presa diretta” de L’amara scienza,
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L’illuminista
Tommaso Pomilio
dal corrotto cuore di una «Napolimegalopoli» irreversibilmente cementificata e cementificanda (sono gli anni de Le mani sulla città):
guastamente modernizzata e nondimeno arcaica: attraversata, da
un capo all’altro, da una necrotica soffocante – “cattolica pagana”
– teoria di processioni.17 «Difficile est non satiram scribere», è la
rabbiosa epigrafe, da Giovenale, della Vita nuova di Pinocchio, che
dell’apologo collodiano è l’attualizzazione e il rovesciamento in
forma (appunto) di “capriccio” (Goya è effettivamente richiamato,
nell’immagine di copertina),18 non solo per l’antimorale (nel momento in cui si trasforma in ragazzo in carne e ossa, per divenire
poi «galantuomo perbene», Pinocchio è definitivamente perduto,
«travolto come da una libidine di denaro e grandezza»), ma per il
rutilante e “componibile” avvicendarsi di figure e miti d’Occidente
presenti e trans-storici (da Giona a Noè da Medea alla Gioconda,
alla Sacra Famiglia, agli Evangelisti, a Moby Dick… da Marx ed Engels a Kerouac, da Voltaire a de Sade, a un a Freud-Mangiafuoco…
dall’arca di Noè al Lager, dal fascismo alle S.S. alla mafia alla proprietà privata… quando l’osteria del Gambero Rosso è divenuta
l’osteria del Fascio Mortorio, ecc.)… in un «fluttuante spettacolo»
di varietà, in uno slittare continuo tra modo parodico a più e più
nodi, oscillante tra satira antiborghese («Che canaglie, i galantuomini!», è una seconda epigrafe, questa da Zola) e puro anarchico
capriccio… e questo casomai (emesso da una stanza del Babel’s
Building, l’albergo-grattacielo di cui Pinocchio è il proprietario, in
posizione di epistolare appendice – le lettere sono indirizzate alla
“G.” di Geno) nel segno espressamente di Landolfi (cfr. Lettere
dalla provincia, nel ’54 di Ombre), e magari di Kafka.19 Difficile non
farsi saturo, ribollente di satira furia: difficile non essere satira, allora, quando si vive «forestiero, e in povertà, in patria, solitario, tra
pusilli e lestofanti» (ancora nell’Autodizionario); dovendosi guardare da Gatti e Volpi del perbenismo, asserragliato nella stanza di
quell’albergo, da essi edificato in combutta col neo-galantuomo
Pinocchio. «La Storia, per Compagnone, razionalista e ribelle, è al
tempo stesso tutta verificabile e inconsulta. Di qui il suo trasformare il timbro di bonaria e civile arguzia toscana del Collodi in una
lingua stravolta, al limite della rabbia, che dà cittadinanza all’assurdo nell’atto stesso di rivoltarglisi contro» (ancora Pampaloni, nel
risvolto di copertina).20
L’illuminista
72
Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
È proprio questo il paradosso “satirico” di Compagnone, il doppio
legame che egli intrattiene con le proprie materie e figure, rese
bersaglio mentre le si recita e le si incorpora per una strana, feroce
specie di pietas (quasi antropofagica, a dirla col Benjamin qui citato
da Muzzioli – v. supra, p.19): seguendo una nevrotica «inclinazione
a respirare e a pensare nei termini del chiuso mondo» («belmurino»: partenopeo, e al quadrato) e «ad aggiungere […] se stesso al
sistema dell’orrore» (Nero di luna); e questo al di là delle occasioni
“satiriche” più specifiche, fulminanti ma di più corto respiro, negli
epigrammi e anagrammi e velenosi nonsense che egli di mano sinistra amava produrre serialmente;21 o negli apologhi più espliciti e
in sarabanda (ma anche – deliberatamente – bidimensionali, esprit
voltairiano22 rifiltrato in grottesca satura luce di Cartoonia). Tra questi ultimi, il più esemplare (e al pari della Vita nuova di Pinocchio,
«profanazione sarcastica della favola», avrebbe notato Daniele Del
Giudice su «Paese sera») è sicuramente, in Ballata e morte, quello
di Pulcinella Cetrulo, «figlio non di una, ma di mille invasioni» e
«perciò così ruffiano, così servo, così abietto» (detto nella bandella, firmata «L.C.»),23 che dal quartiere iperfiabesco incastonato nel
cuore di Napoli nel qwuale albergano «Orchi, Fate, Animali parlanti, Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata, Biancaneve, l’Augelbelverde» ecc., si fa per un glorioso attimo Masaniello, capitano del
popolo, prima di fatalmente vendersi alle capziose argomentazioni
di un simil-Ruffo «Cardinal Avvucato» delle intere stirpi dei conquistadores della città (dai normanni, agli angioini, agli aragonesi…
fino ai piemontesi, agli americani, e ai laurini e i democristiani implicitamente), «piombati […] tutti, in un solo momento», rapaci, sulla
città: quasi che avessero ripreso carne, gli oppressori, dalle pietre
che li raffigurano (almeno in sette di loro), incastrate nelle nicchie
del Palazzo Reale. E prima di vendere loro, il Cetrulo, l’intera Fiaba
in cui semiabusivo abita (o a megli dire vendere il côté femminile di
essa: blandito e indotto a popolare una neoedificato Padiglione del
Real Bordellame).24 È un pedale tra l’apologo e l’allegorico, che più
tardi verrà spinto anche più a fondo, in chiave di nero-grottesco,
in tono di “falsetto”, nella «satira amara e feroce contro i partiti
dell’intolleranza, dell’egoismo sfrenato, della dialettica inconsistente e fine a se stessa» di Malabolgia25 (ma con risultati più sfocati, in
depotenziante automanierismo).
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L’illuminista
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È evidente, tantopiù a guardarla anche retrospettivamente dalla
sua stagione sarcastico-fiabesca (aperta dalla Vita nuova di Pinocchio), quanto la qualità di satira che Compagnone tanto «imbevuto
della filosofia scettica di Candide» (Montesano) mette in atto – satira sociale, eminentemente: anti-borghese e anti-piccoloborghese),26
– nel suo stesso «telescopio illuminista» (Id.), sia da ascrivere alla
modalità più aperta e pullulante, quella proteiforme del “sovraccarico” (saturante: satura lanx), a cui Francesco Muzzioli (supra) fa riferimento, nel chiudere la sua densa sintesi sul “modo” (e i modi) della
satira. Tutto, in Compagnone – la sua «agitazione della forma», la
sua indisponibilità a fissarsi in uno schema finito, la sua costante,
esuberante, pulsione a deformare (assieme all’oggetto – e casomai
ancor prima – le stesse proprie forme), a moltiplicare per via d’ibridazioni anche incongrue, a costituirsi in pastiche per derive felicemente incongrue, e che (come rilevava Compagnone per il Pinocchio) si
autonomizzano dalla specifica “morale” (o anti-morale) della storia,
sino a convertirsi in furente sarabanda tramite un «linguaggio che
non riesce a placarsi in una qualsiasi norma, ma si tende, gonfia,
esplode in un cursus accidentatissimo e ribelle»,27 – tutto insomma
ci conduce in tale folto, spinoso, brulicante ambiente.
E tuttavia, fin nella deflagrante distruttività del Compagnone più
deformatorio e/o burattinesco, nel suo ilare subrealismo ovvero nerissimo a tratti e anche folklorico «surrealismo acheronteo»28 (ponendosi su una linea che s’inarca dal Basile all’Imbriani – assoluto e parossistico acme, Città di mare con abitanti), nella sua «rappresentazione
d’una storia che, invece d’esser progressiva, è statica e simultanea»
(Mondo), resiste la vena di amarezza della scienza compagnoniana:
che si spinge nel fondo dell’autobiografia, nel tempo dei suoi “astratti
furori”, dei mai sopiti furori. Esemplare, allora, il Pinocchio anche per
la sua non-chiusura, il rilanciarsi nella duplice appendice: non solo
quella, conclusiva, delle Lettere, ma (più rivelatoria, anche per la sua
tonalità tanto a contrasto) quella, anteposta, del poemetto insieme
rabbioso ed elegiaco, sospeso tra amore e furore, e «veleno: ossia
odio […] contro corrotti e corruttori». La giovinezza reale e l’irreale
maturità (datato 1966-1970), posizionato tra la Vita e le Lettere, è il
coeur mis à nu del tempo del ricordo: dedicato alla Napoli dei vent’anni dell’autore (la memoria va al 1938) e però eterna, al suo popolo
(«un solo impasto / di spavento e miseria, in questo pianeta / immaginato da un dio sconvolto»): visione elegiaco-apocalittica d’una «plebe
L’illuminista
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Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
triste e furiosa [che] abita la strada», «a strapiombo per sempre nella
notte», governata da leggi incomprensibili, che conosce proverbi e
mai profezie, «vittima del sesso come di una torva religione», «presa
eternamente per fame», «crocifissa al legno dell’incoscienza», «alla
magia della Non-Storia»; fino all’urlo, addirittura ginsberghiano: «Ma
io l’amo questa città, ma io l’aaamooo questa plebe, / oh quanto –
perché amo / la fine del mondo, questa fine / che qui non finisce mai,
/ come il prolungarsi d’un vizio».29 Eppure, da queltanto implicato urlo
di condanna, nessuno è escluso: né corruttori, né corrotti, né tantomeno se stesso per via del «disamore / che [gli] batte nel petto: e lo
rompe».30 È così che, per quanto emersa solo in appendice in uno dei
suoi maggiori e più esemplari capodopera, la variante autobiografica,
nel suo pessimismo e sociale e metafisico, proietta ulteriore e più livida, coinvolta luce sulle guarrattelle compagnoniane (pinocchiesche e
oltre), e sui loro balletti meccanici; in un momento in cui, nella libidine
del consumismo anche culturale (dopo il centralissimo trittico ScienzaCapriccio-Notti), la sua città, disperatamente da lui odiosamata (suo
male nascosto), ha perduto finanche i «miti che la sostenevano»:31 e
tanto più malato è il sole che la bagna.32 E più amara, la satira attrae
a sé il suo satiro, chino sull’orlo d’un privato e (non)storico Acheronte.
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«Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa
della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa
e perpetua è andato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. […] Qui, il pensiero
non può essere che servo della natura […] Se appena accenna un qualche sviluppo
critico, […] è ucciso». Cito dall’edizione elettronica de Il mare non bagna Napoli negli
Adephi ebook, 2014.
Interessante, comunque, e da approfondire, la produzione in rivista: alcuni racconti (di
varia ispirazione: pirandelliana, neorealista, autobiografica) erano ad esempio usciti,
fra il ’51 e il ’53, nel settimanale «Il Lavoro Illustrato». A tale riguardo, v. R. Messina, Gli
esordi narrativi di Luigi Compagnone nelle pagine del settimanale «Il Lavoro illustrato»,
in «Critica letteraria», a. XXXIV (2006), n. 2, pp. 331-350.
«Denunciò una pazzia e una inintelligenza generale, ma senza cordoglio, senza
speranza di una resurrezione, anzi compiacendosi di ciò che appariva silenzio,
monotonia, morte, fine della ragione. […] Ma accadde che la città, quegli ambienti
antichi e moderni ch’egli aveva desiderato lacerare, si abituarono anche a questo
fenomeno. […] Continuò a ridere, ma in un tono falso» (ancora dal Silenzio della
ragione). Importante un’intervista resa da Ortese a Nello Ajello («la Repubblica»
15/5/1994), al momento della ripubblicazione del Mare presso Adelphi: dove lei rivela
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come fosse stato Vittorini (suo editore nei «Gettoni» einaudiani) a indurla a mantenere
i nomi effettivi: «Descrivere in quel modo quei miei amici e compagni, entrare così
nella loro vita, mi appare oggi una cosa non giusta. Il fatto è che da giovane, quando
facevo del giornalismo, pensavo che tutto fosse lecito. Vivevamo un dopoguerra
drammatico. Tutti parlavano ad alta voce. Dovevano farlo. Quanto a me, non potevo
guardare la realtà se non in quell’alone fra viola e nero, sotto il riflesso di un sole
malato»; e, su Compagnone: «Quando uscì quel mio libro Compagnone non era un
“vinto”. Era vitale, intelligente, luminoso, in piena forma. La sua sconfitta consisteva,
semmai, nell’ essere napoletano e nel voler parlare di Napoli con leggerezza, con una
sorta di accensione sentimentale. Lui era d’accordo con Napoli. Io no. Forse la mia
apparente crudeltà dipendeva da questo […] io ero diventata diversa».
«La scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà
nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che
di “troppo”: sono palesi in essa tutti i segni di una autentica “nevrosi”» (Il «mare»
come spaesamento). Al limite potremmo inquadrare lo stesso documentarismo del
Silenzio della ragione alla stregua d’una satira illividita (avvelenata e dolorosa insieme)
del reale – quel reale di cui la città partenopea è la manifestazione più viscerale (e
misteriosa, insieme), giusto in nome della metafisica. Non stenteremmo a riconoscere,
articolati in questa nevrosi ortesiana, i connotati della “satira romantica”, schilleriana
(tantopiù se intrisi di elegia e anti-idillio): riportati da Francesco Muzzioli nel saggio in
apertura di questo numero (v. supra, p. 18).
«Città di mare con abitanti pullula di nomi, trabocca di silhouettes verbali che
compaiono sulla scena per sparire subito dopo aver recitato le loro battute, incalzate
da altri ectoplasmi sonori divorati e inghiottiti a loro volta dalla pagina successiva.
Concetta Aurisicchio, Libera Scala, Angelo Pala, Ugo Ferace, Concetto Imperiale, Oreste
Còfano e tutte le altre maschere sembrano nascere direttamente dalle capricciosità
della lingua, dalle sonorità degli accenti, dagli incontri e scontri delle consonanti» (G.
Montesano, nella assai bella postfazione alla riedizione di Città di mare con abitanti,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2000, pp.179-190).
Ciò, specialmente nella stagione più significativa e sperimentale: fra il ’65 de L’amara
scienza e il ’74 di Ballata e morte di un capitano del popolo.
Non v’è tempo, qui, di toccare questo romanzo, che tuttavia appare fra le prove più
irrinunciabili della produzione compagnoniana, anche per la sua struttura mobile
e composita, imprevedibile di capitolo in capitolo pur fondandosi su un passo di
“sonatina” a due (eseguita, più che narrata, in soggettiva dalla prospettiva semicomica
d’una caotica nevrosi, in dialogo con un soggetto femminile di straordinaria
“innocenza” e parimenti insteria, incolpevole inattendibilità): in cui sembra riverberarsi
una intera tradizione del romanzo (dis)amoroso e allucinatorio, da Senilità al Serpente
malerbiano. L’elemento della satira sociale è ampiamente presente, anche in un
intérieur così screziato e progressivamente claustrofobico: ad esempio, nella soirée
letteraria narrata al cap.VI, tanto esilarante quanto, e indecidibilmente, “alta”, per la
lunga citazione degli aspri versi di Maria Di Lauro, amica di Compagnone e poetessa
naturale, la cui produzione rimasta praticamente inedita.
Scrisse di lui Nello Ajello, nel “coccodrillo” su «la Repubblica» (1/2/1998):
«Compagnone restava come una miniera vivente di napoletanità non scavata fino
in fondo. Gli altri [scrittori napoletani] li si incontrava in giro, in altre città. Lui era
rintracciabile soltanto a Napoli: una sorta di “fermo-posta” dell’anima».
Nella bandella (in versi, firmati dall’autore) di Nero di luna, Milano, Rusconi, 1985. Il
quartiere “Belmuro” (quintessenza di Napoli, specie la plebea: già “cantata” a fondo,
e in differenti guise, specie nei primi anni ’70 – in forma di irosa elegia nel poemetto
La giovinezza reale e l’irreale maturità, pubblicato nel ’71, o in forma di pirotecnica,
piedigrottesca antifiaba, nella Ballata e morte del ‘74) viene subito descritto come
«un girone a sé stante in cui vivono (sopravvivono) piccolimpiegati, medioimpiegati,
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sedicentimpiegati, medioccupati, mediodisoccupati, erranti non già nell’inferno ma nel
limbo del sottosviluppo ossia in una terra di nessuno dove fingono a se stessi di credersi
qualcuno e se talora ne vollero uscire vi furono ricacciati dentro dai despoti, dalle leggi,
dalla miseria, dalla stronzeria, dalla rassegnazione» (p.15).
Nero di luna, p.34. La “semirealtà” di cui si parla fin nel risvolto di copertina, che si
articola in una rigida rete di casamenti i cui spazi vengono scanditi da cloache, è quella
di una Napoli innominata che si rivela a sé come una «megalopoli di vero cartone e di
falso cemento, di veri stracci e di falsi orpelli» (i cui stessi abitanti sono «un’espressione
geografica nata dalla concrezione dei liquami, delle alluvioni» e di quella «cattiva calce
e […] fradicio cemento»); luogo fantasmatico-iperreale in cui si muove la coscienza del
narrante che interpreta la sua «polinevrosi» innanzitutto nell’ircocervo d’una lingua
tendenzialmente inarcata tra l’arcaico e il plebeo, il popolare e il culto. Per questa
serie di nevrotiche polarità, il romanzo, che tra quelli di Compagnone non è dei più
felici (scontando forse un che di meccanicità e inconseguenza nel gioco linguistico, e
un cedimento ad anteriori maniere), pure è fra quelli in cui temi, poetiche, slittamenti,
ire, allucinatorietà, pulsioni, dell’estro compagnoniano si manifestano nella più piena e
contraddittoria evidenza.
Vedasi, a monte, il Commento alla vita di Pinocchio, Napoli, Marotta, 1966; poi, qualche
anno dopo, i versi de La ballata di Pinocchio, Torino, Stampatori, 1980; ma anche nelle
Notti di Glasgow (Firenze, Vallecchi, 1970) l’apologo collodiano al cap.X viene rivisitato in
esilarante duetto. Per quel che riguarda la riscrittura del ’71 è possibile riferirsi al saggio
di Luisa Bianchi, Le avventure del libro di Pinocchio. Riscritture e rivisitazioni del secondo
Novecento, in A.M. Morace e A. Giannanti (a cura di), La letteratura della letteratura: atti
del XV Convegno internazionale della MOD (12-15 giugno 2013), Pisa, ETS, 2016, pp.
373-384; e a quello di C. Brancaleoni, La Vita nova di Pinocchio di Luigi Compagnone o
dell’integrazione nel sistema di produzione capitalistico, in: F. Scrivano (a cura di), Variazioni
Pinocchio. 7 letture sulla riscrittura del mito, Perugia, Morlacchi, 2010, pp. 89–104.
Mi riferisco soprattutto a L’amara scienza (1965), Le notti di Glasgow (1970), La vita
nova di Pinocchio (1971), ma anche, nel mezzo, al singolare Capriccio con rovine
(1968), e poco prima, ai racconti de L’onorata morte (1960).
Centrale, di fatto, quest’ultima categoria. Aveva scritto Pampaloni, nel recensire sul
«Corriere della sera» Città di mare con abitanti (2/10/1973): «Si parla spesso, per
definire la narrativa di Luigi Compagnone, di surrealismo; e si potrebbe parlare, con
uguale fondamento, di sub-realismo; di una fantasia che si aggiunge alla realtà, che
sveltamente rassottiglia in uno spessore di sogno; e al tempo stesso di una fantasia
che si alimenta nel buio della realtà degradata, nei suoi fondigli purulenti, verminosi,
subumani»: «in una sorta di gentilezza del nero, del corrotto, del sub-reale, […] di
squisita e affabile domesticità dell’orrendo».
Un «espressionismo che si direbbe “povero”, che corrode la realtà seguendo le forme
stesse in cui la corrosione dell’esistenza si presenta a questi personaggi caduti in
miseria», così definisce Giulio Ferroni quello de L’amara scienza (certo diverso, più
“realistico” – benché realistico-visionario, – da quello che risalterà in molti dei testi
successivi), nel prefare la riedizione del romanzo, per la napoletana Compagnia dei
Trovatori nel 2008.
Lorenzo Mondo, ad esempio, nel recensire Ballata e morte di un capitano del popolo,
uscito appena dieci mesi dopo Città di mare con abitanti, metteva in guardia lo scrittore
dall’abbandonarsi alla «vena fin troppo ricca», all’«empito fin troppo spumoso», della
sua nuova ispirazione: e dal cedere dunque «all›entusiasmo per avere scoperto in poco
tempo la sua natura più autentica» («La Stampa», 19/4/1974). Pur variandosi, l’opera
di Compagnone, in serie di soluzioni relativamente polimorfe, l’invito a «guardarsi
dall’impazienza» dové cadere, in effetti, nel vuoto.
Sono versi del poemetto (più su citato) La giovinezza reale e l’irreale maturità, che
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venne pubblicato, in prima battuta, come appendice a La vita nova di Pinocchio (ma
poi nell’81 da Einaudi in un volume a sé).
17 Si tratta dell’undicesimo capitolo del romanzo; è il boom che uno dei protagonisti, Egidio,
coscienza critica e grande Perdente (senza mai esser entrato nell’agone), alterego in parte
dell’autore medesimo (escluso dal flusso d’una vita sociale dominata da una reificazione
che trascina nell’irreale: «Tutti, chi più chi meno, consumatori di beni. Ma più consumi
beni, meno realtà consumi. […] Si rompe la complessità dei rapporti, poiché ne basta
uno solo: rapporto tra produttore e consumatore. Lui che niente ha da consumare, lui
è morto», ruminando Wright Mills in monologo interiore, nel cap.6), vede riflesso negli
occhi d’un turista americano che sta «cine-imprimendo». L’amara scienza, ricordiamolo, è,
«in un continuo soprassalto di piani diversi, di angolazioni improvvise» (così nel risvolto di
copertina, verosimilmente, Pampaloni), il racconto entrelacée della giornata dei tre giovani
Alinei, in cerca del modo di pagare l’affitto per evitare a se stessi e soprattutto all’anziano
padre il dramma e l’umiliazione d’uno sfratto (in una società che, anche a Napoli, è drogata
ormai dal boom economico, dalla corruzione dei palazzinari, dall’ingannevole sfavillare
delle merci). Un romanzo che, senza rinnegare la lezione di Eduardo (a cui peraltro
Compagnone avrebbe reso una sorta di strabico omaggio in un capitolo del romanzo
successivo, Capriccio con rovine), arricchiva la rappresentazione di Napoli di « mitologie
relativamente nuove per quelle scene, la fantasia folle del consumismo, del benessere
abborracciato e diseguale, del “boom”, le tecniche letterarie del monologo delirante e
degli incastri, l’ “immaginazione sociologica” di Wright Mills grottescamente mimata
eccetera» (avrebbe riassunto Giuliano Gramigna pochi anni dopo, sul «Corriere della sera»
del 6/6/1968, a introdurre la recensione del romanzo successivo, Capriccio con rovine); un
testo che appare scritto in (diffratta) soggettiva, dove «il peso del presente» (la città stessa,
è quel presente assoluto che «avvinghia in sé»), «si rivela nettissimo nelle stesse modalità
della narrazione», nel suo inarcarsi nel tempo-odissea dell’unica giornata per cui viene a
esporsi «una indiretta, anche polemica, allusione all’Ulysses di Joyce» (illuminanti i rilievi di
Giulio Ferroni, op.cit.). Per la rappresentazione di Napoli nella narrativa fra anni ’60 e ’70
rimanderei al bel volume di Laura Cannavacciuolo, Napoli boom. Il romanzo della città
(1958-1978), Avellino, Sinestesie, 2016, che prende titolo proprio dall’immagine da cui
parte il tumultuoso flusso-di-coscienza cosale e (anti)consumistico di Egidio (e che dedica
alcune pagine sintetiche quanto acute a L’amara scienza e a Le notti di Glasgow).
18 Il “modo” del “capriccio” era stato esplicitamente introdotto, in posizione di titolo, nel
romanzo uscito tre anni prima: e già lì Gramigna (cit.) riconosceva «l’aria dei “Caprichos”
di Goya, gioco con i mostri generati dal sonno della ragione, che possono essere i mostri
della convenzionalità familiare e sociale ma anche il loro contrario». Con Capriccio con
rovine (1968), affondo nella società dei consumi ma squarciandola dal suo interno (dalla
prospettiva della famiglia borghese nell’atto di implodere, sotto una comica-livida luce
da fine del mondo), in una narrazione per scene o sketch labilmente concatenati e
nell’angoscioso contrappunto d’una vita onirica erotico-macchinica che ulteriormente
deforma e dilata, si «arriva fin dentro a una Napoli» (riassumeva ancora Gramigna)
«che non è neppure più nominata e non è categorialmente solare bensì come sotto la
minaccia di un diluvio universale, i sogni, Freud, il subconscio, Henri Miller, magari un
pizzico di Marcuse: solo che li ha rimanipolati Compagnone insieme con leggerezza e
durezza, con divertimento e cattive intenzioni». La dominante dell’incessabile diluvio
nella terra convenzionalmente del sole, tornerà, strutturante, in un romanzo (assai
notevole) che molto deve a questo Compagnone anni ’60 (ossia al trittico de L’amara
scienza, Capriccio con rovine, Le notti di Glasgow): mi riferisco a Malacqua (1977),
prova narrativa praticamente unica di Nicola Pugliese, che Compagnone sosterrà
in una recensione («Corriere della sera», 4/9/1977) e che può valere senz’altro, per
Compagnone, in chiave traslatamente autodefinitoria. Qui egli insiste sul fatto che
soltanto dalla «città aperta da sempre a tutti i prodigi e le meraviglie del surreale, la
città del Pentamerone e della Posilecheata, del barocco e delle livide icone stradali in cui
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le Anime Purganti stridono lamentevolmente tra i fuochi, di Viviani, di Eduardo, di Totò
[…] la più enigmatica e surreale città della terra», ovviamente Napoli, poteva suscitarsi
un narrare tanto «concitato nella sua fitta coralità, in cui tenerezza ironia crudeltà
sarcasmo e amore si compongono con perentoria moralità in un’impressionante
metafora della vita di una città minacciata da sempre dalla “malacqua” della Storia o
della sua particolare Non-storia» (nella quale è da riconoscere, probabilmente, la Natura
– resistente ai progetti della Storia – di cui aveva detto Ortese nello spettrale scritto del
’53, proprio nelle pagine sul «funzionario Luigi»; e il goyesco Sonno della Ragione – con
relativo sprigionamento di Mostri – che essa Natura suscita).
È anche questo un legame che sarebbe da approfondire. Raffaele La Capria ricorda
(in Napolitan Graffiti, del 1998) come la sua conoscenza dell’opera di Kafka fosse
dovuta a Compagnone, che gliela aveva fatta leggere quando lui era giovanissimo.
In una testimonianza raccolta da Pier Luigi Razzano, La Capria ritorna su questo
legame. «Kafka e Compagnone sono collegati nella mia immaginazione. La colpa,
l’angoscia, le fragilità di sé e del nostro tempo, e il tentativo di capirle, esorcizzarle
con la scrittura. E in alcuni momenti Compagnone, con la sua grande intelligenza e
sensibilità alimentava l’indignazione verso gli errori e le mancanze» (in «la Repubblica»,
3/2/2019). Scrivendo di Città di mare su «Il Giorno», Ferdinando Giannessi avrebbe
scritto: «talora hai l’impressione – oltretutto suggerita dall’autore stesso – di un Kafka
che, a lumi spenti, si diverte coi cascami di Piedigrotta; o, nei momenti peraltro rari
di vena meno felice, che gioca con le ombre di certo Buzzati più allucinato o di certo
Zavattini più scatenato».
Il che può implicare, proprio per assurdo, un quanto di carica utopica: nel «sogno che il
circolo vizioso di una società murata viva nell’ingiustizia vada in pezzi a causa della sua
stessa assurdità» (Montesano). Un paio d’anni più tardi, nell’ambito d’una inchiesta
su Napoli (Napoli, alla ricerca di se stessa. Prisco, Rea, Compagnone, Sarno giudicano
la loro città, «La Stampa», 12/7/73) Compagnone avrebbe chiarito il carattere
obliquamente “locale” della propria tensione all’assurdo: «È una città ideale per uno
scrittore, un continuo invito alla surrealtà. L’unico modo per uscire dall’angoscia è
proprio questo: trasferire la “napoletanità” sul piano del surreale e dell’assurdo».
Che Puzo! Epigrammi e non sense, Milano, Scheiwiller, 1973; L’elogio del cretino
affettuoso. Epigrammi ed anagrammi. a cura di R. La Rotonda Compagnone, Napoli,
Colonnese, 1999.
Ma il tono leggiadramente settecentesco di molto Compagnone è disposto ad
annettersi (pur parodicamente) la lezione di De Sade (v. soprattutto in Le notti di
Glasgow, cap.XII).
Nel cap. V: «”Or dimmi: per quale ragione pensi che i Reges sien convenuti nella nostra
Cittade?” Pulcinella alza il capo; e, fiero: “Opprimerci, sedurci, stuprarci. Per questo.
La Storia, eccellenza» (p.73). Notava Luigi Baldacci, in una recensione apparsa su «Il
Tempo»: «È un’idea della Storia […] molto vicina a quella che Elsa Morante ha espresso
nel suo ultimo romanzo [La Storia; che sarebbe uscito tre mesi dopo la Ballata]; ma
Compagnone ha capito che al nostro tempo non si addicono più le lacrimae rerum
bensì gli sconci lazzi di una tragica farsa».
Nel gran finale, commentato dalle rime siciliane di un «cantastorie dagli occhi
saraceni» sul suo variopinto carretto-catafalco, Pulcinella muore schiantandosi ai
piedi della Forca (elemento che si accampa giusto al centro della piazza, lì stabilmente
installato): e alla sua morte, il popolo, che per compiacere il Cardinale apostrofa
l’Augelbelverde, «si trova trasformato in statue di sale: e anco oggi aspetta di
sciogliersi da quell’incantesimo» (p.212). Scriveva Lorenzo Mondo, nel recensire il libro:
«La sconfitta e la morte di Pulcinella sono un segno di questa sostanziale immutabilità,
la voce del cantastorie che sopravviene ritraduce in favola quello che aveva cercato,
con patimento e rabbia, di farsi vita» («La Stampa» 19/4/74).
Edito da Rusconi, nel 1981, il romanzo è la «storia di una paradossale guerra intestina che
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si svolge tra due temibili sette: i Digiunatori e i Mangiatori, i Frugalitari e gli Antifrugalitari»,
in uno scenario che, per una volta, non è quello partenopeo o simil-tale, ma è quello di una
«Roma che ha smarrito se stessa, avendo perduto la sua fisionomia di allegra e “onesta
bagascia”» (a citare da bandella e quarta di copertina). «C’è satira, alla base di tutto?»,
si domandava Alberto Bevilacqua, nel recensire il libro («Corriere della sera» 3/1/1982);
«Certo. Ma soprattutto un procedimento di fossilizzazione delle figure e dei disvalori che
noi reputiamo nefasti nella società. La scrittura è a volte beffardamente settecentesca,
mentre in altri casi si serve dello stile dell’«appendice» per motteggiarlo e ottenerne
motteggi. Il mangiare, il divorare, l’ingozzarsi invadono il libro e si contrappongono alla
dieta che, in un caso, viene definita un “vizio della vanità”. […] Si dibatte su un tema
principale: il banchetto feroce dell’umanità, che ingoia o rifiuta, si danna per eccesso o per
difetto, si castra con le sue morali, le sue religioni. Ma la luce che cade non è quella delle
vetrate che specchiarono le epiche mangiate e libagioni, o le caste frugalità, bensì […]
quella del vetrino usato dal biologo. Per fissare il germe. Il pasto o l’astinenza son quelli
dei germi, le putrefazioni e i borborigmi sono da essi generati, all’interno di un organismo
vivente la cui fisionomia è volutamente elusa. Di questo organismo (la società di oggi?
la Storia? forse entrambe) si sa soltanto che esiste, deambula, e che è affetto da turbe
intestinali, dannatamente mortale. Un romanzo dell’intelligenza, e sull’intelligenza (il suo
spirito, le sue ironie), dove l’insieme delle facoltà e dei processi psichici superiori dell’uomo
si specchiano senza pietà nel loro contrario».
26 Nel modo forse più diretto e violento, in Città di mare (dove domina «il farfugliare della
piccola borghesia» – prigioniera di una «rispettabilità che la strangola» – una lingua
«fatta apposta per non chiamare mai le cose con il loro nome», Montesano, op.cit.);
qui (ancora Pampaloni, nella recensione del 2/10/1973, cit.), «il tema portante è la
protesta contro l’ingiuria e la sopraffazione della miseria, contro l’occulta violenza del
sistema. […] Ma la satira sociale, la rivolta contro la violenza sociale di oggi, si incide
sul rovescio di un neomedioevale “trionfo della morte”. E proprio dal conflitto tra lo
spensierato, illuminista, laico Compagnone, che cercava sino ad oggi il suo romanzo,
come fu detto, nella razionalità del dolore e questo tuffo nella […] “merda” corporalrepressiva, nasce il sapore di novità della Città di mare».
27 Assai precise le considerazioni di Lorenzo Mondo, nella sua recensione a La vita nova
di Pinocchio («La Stampa», 5/6/1971): se «Pinocchio […] rilutta a lasciarsi imprigionare
nel lieto fine e non si trasformerebbe in eroe deamicisiano senza gli interventi decisivi,
e forse arbitrari, della Fata dai capelli turchini», ciò che nel libro predomina è «il fascino
tipicamente moderno per la “moltiplicazione” di un testo attraverso il finto restauro,
le chiose surreali, il rimando a lingue e culture fantasiose, attraverso i vari interventi,
cioè, che potremmo collocare sotto la sigla dell›immaginazione critica», ma soprattutto,
«l›invenzione assoluta predomina, rompe in episodi e immagini che vivono per se
stessi, travolgono il piano dell›opera, estenuandosi talora nel capriccioso divertimento».
Ancora Montesano, peraltro, ci indica la possibile chiave (musicale) di questa agitazione
antiromanzesca della stagione dei capricci, nel culmine della Città di mare: «Racconti?
Storie? Prose? I pezzi musicali che compongono Città sembrano rispondere a un bisogno
antiromanzesco, alla voglia di mescolare e confondere i generi, di non raccontare. Quasi
tutte le prose di Città sono costruite con clausole ritmiche, e alcune sono esplicitamente
rimate come giganteschi nonsense tra Edward Lear e Charles Cros; altre sono narrazioni
portatili, romanzi in pillole, filiazioni dello Zavattini di I poveri sono matti e di Io sono il
diavolo, o precorrimenti del Wilcock del Libro dei mostri e del Manganelli di Centuria;
altre ancora, sembrano elaborazioni in forma di racconto di quegli epigrammi e
anagrammi che Compagnone inventava inesauribilmente» (op.cit.)
28 Pampaloni nella recensione del 2/10/1973, cit. Ricorderei il titolo della recensione, assai
centrato: La «confidenza» con l’inferno (una suggestione che torna in diverse delle
recensioni dedicate al libro; Ferdinando Giannessi, su «Il Giorno», parla di «infernale
caleidoscopio»).
L’illuminista
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Dell’amara satira. Luigi Compagnone, ragioni e acheronti
29 E in modo ancor più esplicito e paradossale (ma senza voler prendere assolutamente
alla lettera, per via dell’atra bile istrionica e piroettante caratterizzante l’opera
compagnoniana), v. in Nero di luna: «In verità io ho scelto Belmuro perché […] solo qui
potevo coltivare interamente i miei vizi, le mie (scarse) virtù, il mio iroso abbandono al
male di essere al mondo» (p.42).
30 Chiosa, di nuovo pregnante, Montesano: «I satirici odiano la realtà per eccesso
d’amore, si accaniscono a colpirla ma da lontano, e la pietà per essa li spinge a
metterla al bando: da Giovenale a Swift ai moderni, i satirici combattono l’assurdità e
l’irrealtà del mondo ma hanno in sé, dentro, il germe di ciò che più detestano, e sono
condannati a quella che Compagnone ha stupendamente definito “la nostra sterile
pietà di guardoni”».
31 In Napoli, alla ricerca di se stessa, cit.: «Un tempo c’erano alcuni miti che la sostenevano,
le conferivano un fascino inconfondibile. Che differenza sostanziale c’è ora tra Napoli
e Milano-Torino-Roma? Tutto s’appiattisce. La libidine del guadagno, dell’auto, del
vestito all’ultima moda potrà riempire il vuoto lasciato dai miti?» Si tratta, lo abbiamo
visto, di un’osservazione del ’73; ma era otto anni prima che, con L’amara scienza,
egli aveva saputo cogliere, nel pieno degli entusiasmi del “boom”, «le prime radici
di quella disgregazione della realtà e del tessuto sociale napoletano» che sarebbero
presto «giunte a un punto di non ritorno» (Ferroni, op. cit.)
32 Per riprendere l’immagine di Ortese, nell’intervista resa ad Ajello nel ’94. – Chiudo con
una piccola nota personale; debbo a Luigi la mia prima (e adeguatamente “assurda”)
uscita a stampa: nel gennaio del ’70, sulle pagine del «Corriere dello Sport», quando
lui per caso lesse la stupida e stupefatta cronaca d’un ragazzino al suo primo ingresso al
San Paolo, che si soffermava soprattutto sullo spettacolo fuori dello stadio (la cuccagna
dei bancarellari, i fumi di salsicce) ma anche, più convenzionalmente, sulla cronaca di
un Napoli-Lanerossi Vicenza 1-0 (erano i tempi del senile Sivori napolista). Anni dopo,
avrei dedicato a Ballata e morte di un capitano del popolo (anzi alla riduzione teatrale
del Gruppo della Rocca) il primo o forse secondo pezzo che pubblicai, sul settimanale
torinese «Il nostro tempo» (l’altro era per il grande convegno palazzeschiano di Firenze,
del novembre 1976). E a ripensarci, qualcosa dello spirito di Luigi dové penetrare, per
vie subliminali, anche nella quasi decennale (rapsodica, certo) fabbrica “merceologica”
(ovvero, anti-) di certa Crema Acida, uscita poi nel ’97; della quale, avendo perso da
tempo immemore i contatti, ci sfuggì di fargli dono di una copia. Valgano allora, queste
mie poche pagine, anche come umile tributo a lui, e al mancarsi della sua memoria: ora
che ride amaro tra le sue Anime Purganti.
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