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L'imponderabile

Ri-Vista. Research for landscape architecture

Considering the intangible dimension of design is much more relevant than it may seem. Bearing in mind the limited room for manoeuvre the designer has when he receives a commission, since he is usually strongly constrained by the limitations of use and function, the consideration of the immaterial dimension of the project is perhaps the only way he can direct it and think of it as a whole. Thinking of the intangible as a project implies making the invisible visible, knowing how to generate a very subtle narration of the place that captures and attracts our gaze without clamour; a gaze that will not be homogeneous, because the perception of public space is always subject to nuances.

ri-vista L’imponderabile Gilles A. Tiberghien Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, Francia [email protected] 02 seconda serie 2021 Abstract Considerare la dimensione immateriale del progetto è molto più rilevante di quanto possa sembrare. Tenendo conto dello scarso margine di manovra che ha il progettista quando riceve un incarico, poiché solitamente è fortemente vincolato dalle limitazioni di uso e funzione, la considerazione della dimensione immateriale del progetto è forse l’unico modo che ha per indirizzarlo e pensarlo nel suo insieme. Pensare l’immateriale come progetto implica rendere visibile l’invisibile, saper generare una narrazione del luogo molto sottile che catturi e attiri il nostro sguardo senza clamori; uno sguardo che non sarà omogeneo, perché la percezione dello spazio pubblico è sempre soggetta a sfumature. Parole chiave Progetto, intangibile, immateriale, invisibile, spazio pubblico Abstract Considering the intangible dimension of design is much more relevant than it may seem. Bearing in mind the limited room for manoeuvre the designer has when he receives a commission, since he is usually strongly constrained by the limitations of use and function, the consideration of the immaterial dimension of the project is perhaps the only way he can direct it and think of it as a whole. Thinking of the intangible as a project implies making the invisible visible, knowing how to generate a very subtle narration of the place that captures and attracts our gaze without clamour; a gaze that will not be homogeneous, because the perception of public space is always subject to nuances. Keywords Project, intangible, immaterial, invisible, public space 30 Received: June 2021 / Accepted: October 2021 | © 2021 Author(s). Open Access issue/article(s) edited by QULSO, distributed under the terms of the CC-BY-4.0 and published by Firenze University Press. Licence for metadata: CC0 1.0 DOI: 10.36253/rv-12358 - www.fupress.net/index.php/ri-vista/ Tiberghien Parlare di immateriale a persone la cui professione consiste nel costruire e avere a che fare con i materiali, potrebbe essere visto come un paradosso, addirittura una provocazione. Ma se prendiamo la domanda seriamente, di che cosa si potrebbe trattare? Senza dubbio non un qualcosa riferito al campo delle ‘idee’, che come alcuni a volte immaginano, sarebbero alle fondamenta del progetto, con il progettista che ha il compito di ‘mettere in pratica’ queste idee. No, questa sarebbe una visione ingenua e ‘idealista’ delle cose, e nessun architetto, nessun paesaggista, nessun artista potrebbe seriamente sottoscriverla. Prendere in considerazione la dimensione immateriale del progetto è senza dubbio orientarlo decisamente verso orizzonti diversi da quelli della Commande Publique, che in Francia è l’incarico di progettare un edificio o uno spazio aperto su committenza pubblica. Quest’ultimo è generalmente pensato in termini di usi e di funzioni che sono soggette a pesanti richieste specifiche, e che lasciano al progettista spazi di manovra veramente ridotti. Per allentare la morsa vincolante di questo genere di committenza, si è pensato quindi di fare appello agli artisti, ma senza mai riuscire ad evitare un certo aspetto ‘decorativo’1, per realizzare monumenti che, come indica il loro stesso nome, hanno la funzione di commemorare e di ricordare a chi li contempla oggi, un evento della storia che ci viene implicitamente chiesto di ricordare (Riegl,1984). Tradizionalmente questi monumenti erano fatti per attirare e imporre l’attenzione, e da qui, per estensione, il senso di notevole, o addirittura di ‘imponente’, dato al termine ‘monumentale’. Ma non essendo quello il loro fine ultimo, si possono anche immaginare dei monumenti di piccola taglia, quasi invisibili, o monumenti la cui visibilità, come minimo, è molto problematica. Diciamo che se la funzione del monumento contemporaneo è quella di lasciare un’impronta nello spazio pubblico, c’è anche quella di essere un legame tra passato e presente, creando una rottura nel tempo che ne offusca l’apparente linearità e il corso ‘senza storia’, come si dice in francese per parlare dello svolgimento di eventi che non verrebbero disturbati da nessun incidente o imprevisto. Possiamo prendere l’esempio di due artisti, Johen Gertz e Jan Dibbets. Il primo ha realizzato a Saarbrücken, con una dozzina di studenti dell’Ecole d’art2, 2146 pierres, Monument contre le racisme (2146 pietre, Monumento contro il razzismo). Nel 1990, nella antica Place du Château che fu sede della Gestapo durante la guerra, andarono di notte, clandestinamente, a togliere dalla pavimentazione tante pietre quanti erano i cimiteri ebraici, e sui queste incisero i no- 31 ri-vista 02 seconda serie 2021 32 mi dei cimiteri e la data in cui erano state rimosse le pietre. In seguito, dopo essere stata fotografata, ogni pietra è stata rimessa con la faccia contro terra in modo da rendere invisibile la sua inscrizione. Iniziata in modo illegale nel 1990, l’operazione fu in seguito formalizzata dal parlamento e l’inaugurazione dell’opera, nel 1993, fu accompagnata da una mostra fotografica. Il luogo fu ribattezzato Place du monument invisible (Piazza del monumento invisibile) Il suo solo nome è sufficiente per segnalare al passante di essere in presenza di qualcosa che non può vedere. Anche se non vuole saperne di più, la sua curiosità è comunque stata allertata. Per capire veramente di cosa si tratta, dovrà naturalmente informarsi sull’origine del nome. Così, man mano che ottiene più informazioni, tutta una parte della storia prende forma nella sua mente. In questo esempio, l’immateriale si raggiunge grazie alla sua invisibilità che è quindi un qualcosa che si può sentire attraverso una semplice idea. È certo che delle pietre sono state sollevate dalla pavimentazione e che sono state incise e rovesciate, ma questa azione equivale a far vivere uno spirito sopra o sotto le cose3, che una comunità di altri spiriti prenderà in consegna senza che nulla sia trasformato. E questo ha ‘avuto luogo’ due volte. Un crimine, la prima volta, in questo sinistro castello, come manifestazione di un altro crimine molto più grande, contro tutta l’umanità e noto a tutti, ma che con il passare del tempo, poteva essere diluito se non dimenticato. Una seconda volta, quando un artista e i giovani che lo accompagnavano, decisero che camminare lì sarebbe stato far risuonare per sempre i nomi dei luoghi dove sono sepolte le donne e gli uomini assassinati. E questa ‘risonanza’, come il suono dei passi sulle lastre di pietra, è qualcosa di molto più potente di qualsiasi discorso. Possiamo prendere come esempio un altro monumento, questa volta quasi invisibile, quello che Jan Dibbets fece a Parigi nel 1994 in omaggio ad Arago. Si tratta di una serie di 135 medaglioni di bronzo che attraversano la città da nord a sud, dalla Porte de Montmartre al Parc Montsouris, passando per il Palais Royal e l’Osservatorio di fronte al quale si trova la base della statua eretta un tempo in memoria dello scienziato e poi fusa durante la Seconda guerra mondiale. La linea così formata è percepibile solo da queste piastre di 12 cm di diametro, disseminate da un luogo all’altro, e sulle quali una N e una S indicano le direzioni nord e sud. Questa linea quasi invisibile costituisce nelle parole di Dibbets, “un monumento immaginario realizzato sul tracciato di una linea immaginaria”, il meridiano di Parigi, o il méridienne de France. Il suo tracciato ripercorre infatti quell’antica linea da cui nascevano i calcoli astronomici dei marinai e dei geografi, il meridiano che stabiliva la longitudine originaria prima di essere detronizzato dal meridiano di Greenwich nel 18844. Arago completò quel calcolo, intrapreso prima e durante la rivoluzione, e poiché aveva anche ricoperto alte cariche politiche, il monumento celebrava sia lo scienziato che il repubblicano. Un tipo di intervento, così minimale, funziona nello spazio pubblico come una sorta di allarme, perché mette in moto, in modo tenue, l’immaginazione di ogni persona là dove la realtà massiva, di una scultura o di un edificio, ci lascerebbe indifferenti. L’opera è in un certo senso senza oggetto, senza destinatario e quasi senza autore. Questo puntinato spaziale è una metafora del filo immaginario del tempo, scandito dal cammino dei pedoni che ne sono i suoi anonimi eroi5. È un’opera per flâneurs, o per i curiosi, diciamo, per persone a cui viene voglia di sperimentare nella realtà un’astrazione, materializzandola proprio attraverso il camminare. Jacques Réda si è fatto prendere da questa voglia e ne ha scritto un libro, Le méridien de Paris, in cui racconta le sue avventure nel tentativo di camminare su questa linea, i suoi fallimenti e la sua irritazione. “In fondo”, scrive, “mi chiedo se l’idea dell’olandese è così buona come sembra; se il mio disegno non è quello di un mezzo elfo che si dà da fare. Soprattutto, mi sarebbe piaciuto provare un po’ più di emozione” (Rèda, 1998). dentro ne siamo trasformati, noi e il nostro ambiente insieme a noi. L’esperienza, mettendo in evidenza questa relazione di cui parlano Rosa e altri, è la garanzia della mobilità e del legame tra gli esseri e le cose, e riattiva costantemente questo legame: un filosofo come John Dewey negli Stati Uniti, o, in una tradizione completamente diversa, pensatori come Philippe Lacoue Labarthe o Jean-Luc Nancy, l’hanno posta al centro del loro pensiero. Per non parlare, ovviamente, della fenomenologia e di Henri Maldiney per esempio: “L’esperienza è un attraversamento. È definita in greco nel senso di una breccia che apre il passaggio (poros). Dove non c’è passaggio, dove ‘non passa’, la situazione è un vicolo cieco (aporos) e il greco parla infatti di impasse (aporia). Poros è una delle parole più rivelatrici dell’essere nel mondo. Attraverso di essa, l’essere umano si indica come un essere dell’attraversamento, sempre alla ricerca di un passaggio verso l’altra parte” (Maldiney, 2003). Allora dire che il paesaggio, qualsiasi tipo di paesaggio, è un attraversamento, è solo un altro modo di mettere l’accento sull’esperienza come modalità di accesso a ciò che noi chiamiamo paesaggio, di cui non sapremmo disconoscere la dimensione urbana, anche se troppo spesso viene associata, e talvolta esclusivamente, alla ‘natura’. Come molti pensatori hanno mostrato, da Michel de Certeau a Richard Sennett, i paesaggi urbani sono costituiti da un insieme di luoghi praticati che ne fanno spazi diversamente qualificati secondo gli interventi dei pianificatori, ma anche secondo il modo in cui, analogamente, gli abitanti hanno potuto impadronirsene. Come possiamo allora pensare l’immateriale come progetto? Seguendo una certa tradizione cartesiana, abbiamo a lungo identificato lo spazio come una sostanza estesa e materica, per cui tale domanda da questo punto di vista, potrebbe non avere alcun senso. Oggi la fisica ci insegna che lo spazio è sì materia, ma non più concepita come sostanza bensì come relazione. Lo spazio in cui viviamo è esso stesso di quest’ordine, è legato ai nostri corpi, alle loro posi- Tiberghien Con quest’ultima parola ha detto tutto: ciò che manca agli occhi del poeta, sono le occasioni di sentire qualcosa di nuovo, di provare le sensazioni che questa partitura suonata dai suoi soli passi non gli ha dato. Questa linea fantasma può, tuttavia, avere una forza suggestiva come le linee invisibili che collegano i punti di triangolazione o che ci permettono di disegnare le costellazioni. “senza di loro - scrive Tim Ingold - non potremmo raccontare niente sugli astri” (Ingold, 2011). Queste linee immaginarie hanno effetti e conseguenze reali: permettono di guidarci e di capire dove ci troviamo o, come sulle vie dei canti della cosmologia aborigena, di determinare i limiti di un territorio là dove si ferma il canto (Chatwin, 1987). Quindi, certamente, un monumento di questo tipo ha senso solo se incontra un’eco nello spazio pubblico, ma l’esempio di Jacques Réda non invalida un progetto del genere. Dimostra semplicemente che non produce meccanicamente l’effetto desiderato. Questa è in fondo la natura di ogni vero progetto artistico, di non essere mai accolto in modo uguale da tutti. E così, per il filosofo e sociologo Harmut Rosa, ciò che ‘risuona’ in noi, in questo mondo di modernità avanzata, non è mai nulla di prevedibile. La relazione con ciò che ci circonda accade o non accade, a seconda che possiamo considerare questo rapporto come “costitutivamente indisponibile”. O meglio, “il modo in cui funzionano la pubblicità e la mercificazione capitalista in generale, si basa sul fatto che queste traspongono il nostro bisogno esistenziale di risonanza, in altre parole il nostro desiderio di relazione, in un desiderio di un oggetto” (Rosa, 2020; 2021). Con questa idea di ‘risonanza’ Rosa ci permette di capire come un progetto si anima nello spazio pubblico, non in modo univoco ma in una sorta di dialogo largamente imprevedibile con quelli che ne fanno ‘l’esperienza’. Senza approfondire oltre la teoria di Hartmut Rosa, mi sembra che ciò che è importante comprendere qui, è l’idea che quando qualcosa ci risuona 33 ri-vista 02 seconda serie 2021 34 zioni e ai loro movimenti, è il prodotto di essi, tanto che riguardo ad esso, si può parlare di spazializzazione. Quindi, se c’è immaterialità, deve essere intesa in un senso piuttosto particolare. All’inizio abbiamo identificato l’immaterialità con l’invisibilità. Ma la materia stessa può essere invisibile. Quando Cesare Brandi riflette sui principi del restauro delle opere d’arte, distingue tra materia e aspetto esteriore, affermando un principio chiaro: solo la materia delle opere d’arte viene restaurata. Così le caratteristiche pittoriche di un affresco, per quanto danneggiato, non saranno toccate, ma esso potrà essere rimosso per consolidare la muratura che lo sostiene. Per Brandi un’opera d’arte in un certo sito è legata alla storia delle sue rappresentazioni, alla luce che la rende visibile, al luogo in cui è inscritta, così che cambiare il suo sito è modificare ipso facto la sua stessa materia. Qui la materia, si capisce, non è più solo ciò che è visibile ma ciò che rende visibile. Sono le condizioni di accesso o di esposizione delle cose, e oltre alle immagini, anche le parole, i racconti, le mappe fanno parte di queste condizioni. Lo spazio pubblico è uno spazio di scambio teoricamente accessibile a tutti, uno spazio di esposizione ma anche di controversie, dove non si cerca necessariamente il consenso. Per definizione quindi, un progetto in uno spazio di questo tipo, non può piacere a tutti allo stesso modo, ma può produrre delle reazioni diversificate, che rendono l’accesso più complesso e permettono a tutti di trovare la propria posizione. Questi spazi da inventare sono luoghi dove nulla può essere veramente fissato, una sorta di piccole utopie con autonomia limitata e porosità variabile. Tutta la questione è allora cercare di rendere reali queste utopie senza accontentarsi di sognare il loro ipotetico e improbabile avvento. D’altronde è proprio la loro forza di mobilitazione, il loro intrinseco potere di sognare, ciò che manca tanto alle nostre società. L’artista e architetto austriaco Friedensreich Hundertwasser scrisse, tagliando corto sul presunto di- scorso realistico su chi ha o no ‘i piedi per terra’, questa frase che la biennale di Melle, nel 2013, aveva fatto diventare una sorta di motto: “Quando un uomo sogna, è solo un sogno. Ma se molti uomini sognano insieme, è l’inizio di una realtà”. Riformulava così ciò che tutte le avanguardie hanno sempre cercato, che siano i costruttivisti, i futuristi o i surrealisti: che il progetto sociale è inseparabile dal progetto artistico, e che la domanda è sempre: «come farlo?» ‘ma anche’ «in che momento farlo?». O per riprendere il dilemma formulato da André Breton: dobbiamo prima cambiare la vita (Rimbaud) o cambiare il mondo (Marx)? Dopo i situazionisti e il loro progetto di urbanismo unitario, che si accompagnava alle proposte di Henri Lefebvre nella sua Critique de vie quotidienne, dopo la New Babylon di Constant, la critica delle società di sorveglianza (Michel Foucault) e delle società di controllo (Gilles Deleuze), ma anche dopo i tentativi delle comuni autogestite come la Città libera di Christiania a Copenhagen negli anni ‘70, o molti altri esperimenti di autogestione, compresi quelli di alcuni gruppi di abitanti a Parigi o altrove, non si è ottenuto nulla di veramente definitivo. Questo potrebbe lasciar pensare che nulla di questo genere potrà mai essere realizzato. Ma, ancora una volta, una tale conclusione sarebbe un controsenso sulla natura delle utopie e dei progetti. Quello che proiettiamo è sempre più grande, più ambizioso e più lontano di quello che possiamo immaginare in un futuro vicino. Da questo punto di vista, il progetto è in analogia con la crescita degli alberi e con l’essere vivente che ci sembra di scoprire oggi. Quando a Gilles Clément fu chiesto di fornire grandi alberi per il giardino del Museo del Quai Branly, si rifiutò, sostenendo che non si trattava di piantare delle colonne ma di permettere a delle specie di crescere per comporre un giardino. Quindici anni dopo, il giardino è in magnifica salute e le cure che riceve contribuiscono alla sua salute. Il progetto è un po’ da pensare su questo modello: ha bisogno favoriscono la sua creatività così come quelle degli altri” (Pareyson, 2006. p.19). Così aveva cercato di trasformare il corso ordinario delle cose, per esempio, attraverso il modo in cui le persone camminano nelle strade originariamente destinate a loro: “I modelli stradali sono partizioni, perché controllano non solo i raggruppamenti e i ritmi delle persone (e dei veicoli, naturalmente), ma anche il corso e persino la natura degli avvenimenti in una città” (Pareyson, 2006. p.82). In effetti, queste partizioni organizzano alcuni movimenti ma, come negli happening, i movimenti più creativi si esprimono proprio al di fuori di esse. Lawrence Halprin ha così figurato sotto forma di diagrammi, i movimenti della folla che percorre Nicollet Avenue, l’arteria commerciale principale del centro di Minneapolis, per darle una certa animazione. Nella misura in cui la strada è il luogo d’incontro dei cittadini, il cuore pulsante della città, bisogna comprenderne la sua vitalità, cosa che nessuno schema può fare, e che ancor meno nessun progetto può organizzare in anticipo. Ma i pianificatori sono interessati a strade e viali solo guardandoli sui loro disegni, da lontano. Da qui l’idea di creare delle performance nello spazio pubblico per ridare coscienza alla popolazione di ciò che vi accade e, soprattutto, di ciò che vi può accadere. Senza approfondire oltre, diciamo che questo è l’esempio di un modo di pensare il progetto che riguarda tutti i campi della creazione, paesaggio, architettura, danza, poesia, musica, ecc. Per nessuno di loro si tratta, ancora una volta, di una semplice trasposizione di un piano o di una ‘partitura’, ma di un uso particolare che ne inflette i vincoli, che implica di modificarli una volta che l’opera sarà terminata. Camminare in una città o in un paesaggio è un modo di appropriarsene e di ‘performarlo’, seguendo strade e sentieri come delle annotazioni, guide o rampe che trasformano una semplice passeggiata in un momento di contemplazione estetica, ma anche in un gioco, dove i semplici piaceri, legati alle risorse Tiberghien di tempo e di ‘cure’, il che significa una partecipazione di tutti a qualcosa che permetta di ‘tenere insieme’ tutti e che corrisponda a ciascuno. Questo senso di comunanza è la parte immateriale del progetto, il suo carattere utopico. L’utopia non è mai da qualche parte, ma è sempre alla ricerca del suo posto. Una società utopica è mobile, dinamica e inventiva. Non smette mai di innovare. Senza ripensare la società nel suo insieme, possiamo pensare a come intervenire per cambiarne il corso. Un architetto come Lawrence Halprin ci fornisce un bell’esempio di analisi acuta dei problemi della città e di proposte semplici ispirate dalla comunità artistica in cui viveva negli anni ‘60 con sua moglie, la danzatrice Anna Halprin. Nel suo libro RSVP Cycle pubblicato nel 1969, ha tratto molte lezioni dagli esperimenti realizzati insieme ad altri artisti come John Cage, Robert Morris, La Monte Young, Simone Forti, Jackson MacLow e altri ancora. Integrò nel suo pensiero anche gli esperimenti del Living Theatre e gli Happenings di Allan Kaprow. A quel tempo scriveva: “Entrambe le fonti - il nuovo teatro-danza e l’ambiente per come Anna ed io li abbiamo intesi nella nostra pratica - sono non statiche e sono strettamente correlate in quanto tese verso il processo piuttosto che verso il risultato” (Halprin, 1969). Grazie a un sistema di notazione del movimento, chiamato Motation6, lui intende intervenire nel corso delle cose, sia naturali che umane, per introdurre uno scatenamento, un germe creativo, quello che il filosofo Luigi Pareyson chiamerebbe uno ‘spunto’, o un punto di partenza perché qualcosa accada (Pareyson, 2006). Halprin, come un buon numero di attori del mondo artistico di quegli anni, riteneva che l’arte fosse stata troppo a lungo concepita per ‘un pubblico’, cioè una categoria di persone relativamente passiva. L’artista non può più essere il genio solitario che domina la sua tecnica e la sua arte; oramai occupa un nuovo posto “e diventa consapevole che l’arte è un’esperienza creativa comune grazie allo sviluppo di partizioni che 35 ri-vista 02 seconda serie 2021 naturali a nostra disposizione, se ci sono, vengono apprezzati secondo le nostre aspettative intellettuali ed emotive del momento, dando così nuovo significato a ciò che vediamo. Non c’è niente di necessariamente spettacolare in tutto questo, al contrario. L’intervento discreto del progetto fa sì che ci si possa passare accanto senza notare nulla, ma non senza averne consapevolezza. Questo è stato il caso dell’intervento di Erik Samakh nel quarto arrondissement di Parigi nel 1992, in piazza George Cain, dove il canto di un usignolo si attivava automaticamente in base alle variazioni della luce del giorno e ad altri parametri. Questo semplice canto è stato sufficiente a trasformare lo spazio circostante, intrecciando, per così dire, diverse temporalità, disturbando la nostra percezione troppo omogenea delle cose. Questo quasi-nulla appartiene a ciò che vorrei chiamare la parte ‘imponderabile’ del progetto, cioè la parte che non può essere prevista perché dipendente da fattori aleatori. Ma questo termine designa anche ciò che non ha peso, nessuna misura quantificabile. Ora, ciò che non può essere pesato è precisamente ciò che è capace di procurarci piacere e gioia. Un progetto gioioso è euforico, ci eleva, ci stimola e ci incita a proseguire l’esplorazione del mondo e della vita quotidiana. 36 (Traduzione dal francese di Francesco Careri) Tiberghien Note In Francia, per esempio, grazie all’istituzione dell’“1% artistico”, creato sotto il Fronte Popolare per integrare l’arte nella città, dal 1951, l’“obbligo di decorare gli edifici pubblici”, comunemente noto come “1% artistico”, è una procedura specifica per commissionare opere d’arte ad artisti che si impone allo Stato, alle sue istituzioni pubbliche e agli enti locali. Sito web del Ministero della Cultura:https://www.culture.gouv.fr/Aides-demarches/Dispositifs-specifiques/Le-1-artistique. 1 Nel 1986 aveva creato un’altra opera ad Amburgo, Monument contre le fascisme (Monumento contro il fascismo), una colonna larga un metro e alta 12 metri, ricoperta da un sottile strato di piombo su cui i passanti erano invitati a firmare mentre scompariva nel suolo. 2 Narval diceva “Un pur esprit s’accroit sous l’écorce des pierre” (Uno spirito puro cresce sotto la scorza delle pietre). 3 Nel 1959, Piero Manzoni aveva il progetto ‘impossibile’ di disegnare una linea bianca lungo il meridiano di Greenwich. 4 Fa pensare a Louis Aragon, quando racconta che, dopo aver completato il libro Le Paysan de Paris, avrebbe voluto scrivere un romanzo su una “greca”, ossia il motivo decorativo così chiamato, che avrebbe seguito a Parigi, “sui muri delle case di varie epoche, sui ricami dei fazzoletti, sulle rilegature dei libri o negli ornamenti dei giornali, lo svolgimento che non ha nessuna ragione di fermarsi, e che di conseguenza costituirebbe per il romanzo un eroe mai minacciato di morte”. Je n’ai jamais appris à écrire ou les Incipit, citato in Bancquart M.C. 1972, Paris des surréalistes, Seghers, p.89. 5 Bibliografia Bancquart M.C. 1972. Paris des surréalistes, Seghers, p.89. Chatwin B. 1987. Le chant des pistes, trad. fr. Jacques Chabert, Le livre de poche, Parigi. Halprin L. 1969. The RSVP Cycles. Creative Processes in the Human Environment, George Braziller, New York. Ingold T. 2011. Une brève histoire des lignes, Zones sensibles, Bruxelles, p.70. Maldiney H. 2003. Espace et poésie, in L’art l’éclair de l’être, Editions Comp’Act, Nouvelle édition, Collection La Polygraphe, p.108. Manzoni P. 1991, Musée d’Art moderne de la Ville de Paris. pp. 227 - 228. Pareyson L. 2006. Esthétique, théorie de la formativité, traduzione francese di Gilles A. Tiberghien in collaborazione con Rita di Lorenzo, ENS, Ulm, Parigi. Réda J. 1998. Le méridien de Paris, Fata Morgana, Montpellier, p. 13. Rosa H. 2020. Rendre le monde indisponible, La Découverte, Parigi. p. 50. Rosa H. 2021. Résonnance, Une sociologie de la relation au monde, trans. Fr. Sacha Zilberfarb e Sarah Raquillet, La Découverte, Parigi. Il termine è difficile da rendere in italiano: notazione, partitura, segno, punto di riferimento. 6 37