La Lettonia tra Unione Sovietica e Unione
Europea
Bernardo Bertenasco
Raccolta di articoli pubblicati da Bernardo Bertenasco su Cafébabel e Il
Malpensante.
Indice:
Lettonia post-sovietica
Generazione sovietica e generazione europea a confronto (Cafébabel, 22/05/2017)
Rēzekne, l’ultima città europea (Cafébabel, 27/03/2017)
Il ruolo della religione nei paesi post sovietici (Cafébabel, 22/03/2017)
Sciamanesimo: in cosa credono i giovani lettoni? (Cafébabel, 30/08/2017)
Cent’anni di Unione Sovietica nel mondo (Cafébabel, 25/10/2017)
I millenials europei e il capitalismo (Cafébabel, 11/07/2017)
La Lettonia dei rifugiati (Cafébabel, 16/07/2017)
La russificazione della Lettonia (Cafébabel, 15/09/2017)
Le ferite aperte della Lettonia con il nazismo (Cafébabel, 02/10/2017)
Zarismo, comunismo e transizione post-sovietica: da dove vengono e dove vanno i paesi
baltici? (Il Malpensante, 05/04/2020)
Generazione sovietica e generazione europea a confronto
Maggio è il mese dell'indipendenza per la Lettonia. Un’ottima occasione per
fare la radiografia di un paese che è passato velocemente dall’Unione
Sovietica all’Unione Europea.
Il 4 maggio 1990 la Lettonia ottenne l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Era la
seconda indipendenza, dopo quella del 18 novembre 1918, la famosa guerra
d'indipendenza contro il secolare dominio russo. Così questo paese, dopo aver
passato quasi un secolo sotto dominio russo e tedesco, torna oggi a mostrarsi
com’è veramente: giovane, dinamico, spaventato.
La Lettonia ha scelto di passare velocemente da un’unione all’altra. Prima si poteva
viaggiare in Russia, Georgia, Lituania e in tutti i paesi comunisti, oggi c’e
Schengen. Prima tutti avevano un lavoro e una casa, oggi alcuni ne hanno dieci e
altri fanno l’elemosina. Prima la libertà era molto limitata, oggi vige l’iniziativa
individuale come nel resto del mondo.
Una nazione giovane e formalmente libera, ma che risente ancora molto del lascito
sovietico. E lo si vede nell’architettura, nell’economia, nell’uso diffuso della lingua
russa, nella mentalità. Cafèbabel ha l'occasione di intervistare una signora nata in
Unione Sovietica e una ragazza della generazione Perestoika, le due facce della
Lettonia.
Mi puoi dire una cosa positiva e una negativa dell’Unione Sovietica?
Generazione Perestroika: Sicuramente non c’era scelta. Istruzione, lavoro, viaggi,
tutto era scelto dall’alto. Non potevi scegliere quasi nulla riguardo alla tua vita. Non
c’erano possibilità di uscire dal sistema chiuso dello Stato. Se dovessi disegnare il
mondo sovietico farei un cerchio nel quale tutti i punti sono uniti, oggi sarebbe
quanto meno un Pollock. Ognuno per sé, la solidarietà e lo spirito comunitario si
sono forse un po’ affievoliti. Però tutti avevano un lavoro. Non esisteva la
disoccupazione, nessun giovane si sentiva colpevole dei propri fallimenti vissuti
come catastrofe personale. C’era spazio per tutti. Magari poco, magari limitato, ma
per tutti.
Generazione sovietica: Sono felice di festeggiare l’indipendenza della Lettonia. Ho
tanta voglia d’Europa e mi sento parte del grande progetto continentale. Quando
ero piccola mia madre lavorava per le assicurazioni, mio padre era preside in una
scuola. Vivevamo in campagna vicino Rezekne. Non esistevano i supermercati, si
trovavano solo olio, sale, zucchero e pane di qualità scadente. Al latte e alla carne
ci dovevamo pensare noi. Solo cibo sano, non esistevano i prodotti industriali. Si
lavorava nei campi e si mungevano le mucche, i viaggi che fanno i giovani d’oggi
non ci venivano nemmeno in mente. La casa te la forniva lo Stato a prezzi molto
agevolati, però dovevi vivere con tutta la famiglia.
Quello era l’appartamento che ti era stato destinato, non potevi certo opporti.
Piccolo, brutto e buio, era quello che ti spettava.
Il lavoro, per quanto molte volte inutile, era garantito a tutti. Vigeva una sorta di
egualitarismo al ribasso. Gli ingegneri guadagnavano meno dei lavoratori. L’idea
secondo la quale i proletari dovessero godere di un riconoscimento
socioeconomico era vera. Mio padre guadagnava meno di certi operai della
fabbrica che c’era vicino casa. Il telefono e le medicine erano gratis.
Non potevi scegliere nulla, ma la tua sopravvivenza era garantita. Non temevi di
rimanere senza soldi come oggi. Sapevi che avresti avuto una pensione. Sapevi
che lo Stato ti avrebbe garantito la sopravvivenza como contropartita di una quasi
totale mancanza di libertà. Nessuno aveva paura del futuro. Forse non era una
promessa, ma certo nemmeno lo spauracchio odierno. Non esistevano le
scandalose differenze sociali alle quali siamo costretti ad assistere adesso. Non
c’era quel divario che divide l’operaio dal manager.
L’individualismo sfrenato non esisteva, si faceva tutti parte di un progetto comune,
con i suoi limiti e le sue controindicazioni. Ma anche con le sue qualità.
Ti ricordi il 4 maggio 1990?
Generazione Perestroika: Certo che mi ricordo, ero nella culla quando la radio
annunciò la grande notizia! In realtà mi vien da ridere a pensare che sono nata
anche io in Unione Sovietica. E finita quando avevo 2 anni. Sono lettone e mi sento
nata già in Lettonia. Ad essere sincera la questione sovietica non mi appassiona
molto. Non mi capita di parlarne quasi mai con i miei familiari o i miei amici. Anzi le
tue domande mi fanno un po’ sorridere a dire il vero.
Generazione sovietica: Se avessi saputo che si trattava di un avvenimento così
importante avrei scritto un diario. Annotando meticolosamente dove mi trovavo, con
chi, cosa bevevo e perché. Ma non lo feci perché non lo sapevo. Certo ero al
corrente che dal 1986, con l’Helsinki group, l’Unione Sovietica era in crisi. Poi ci
fu Solidarnoch in Polonia. Però mentirei se dicessi che lo sapevo perché non si
sapeva nulla. Io abitavo in campagna, scoprii che si votò per l’indipendenza grazie
alla televisione. Come avrei potuto altrimenti? Non c’erano mica i cellulari né
internet al tempo.
Non immagini nemmeno lo stravolgimento che significò. Bisognava creare una
polizia, un parlamento, una difesa nuovi. Nel frattempo però i cittadini non smisero
di recarsi regolarmente sul posto di lavoro.
Tutti vennero a darci consigli. Tutti volevano mettere le mani sulla nuova piccola
repubblica. Cercavano potere, cercavano di vanificare la vera indipendenza. I russi
si avvantaggiarono della vicinanza linguistica e culturale, gli occidentali dei valori
democratici e di libero mercato di cui erano e sono i cantori.
Ad esempio ricordo il problema delle proprietà. Quando è collassata l’Unione
Sovietica quasi nessuno possedeva una propria casa, quanto piuttosto quella che
gli era stata destinata. Così il neocapitalista Stato lettone ha fornito delle tessere
aventi valore nominale paragonabile a 40 euro odierni (la cifra potrebbe non essere
giusta oggi) per ogni anno di vita del cittadino. Mettendo insieme quelle di mia
madre e le mie mi comprai un appartamento vicino la stazione. Vivo ancora là.
Ma la vera domanda è se e cambiato molto nel nostro paese da quel maggio del
secolo scorso a oggi. Secondo te perché ancora non sono state aperte le cartelle
contenenti i nomi degli iscritti al KGB (Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti: era il
nome della principale agenzia di sicurezza e servizi segreti dell'Unione Societica,
attiva dal 1954 al 1991, ndr)?
E non sono a Mosca, sono a Riga, tenute sotto chiave dalle autorità. In parlamento
dicono che è meglio non creare scandali e capovolgimenti in un paese già fragile.
Questo perché i politici al potere sono gli stessi di allora.
Secondo te qual’è la più grande differenza tra l’Unione Europea e l’Unione
Sovietica?
Generazione Perestroika: Domanda difficile, inaspettata. Non saprei cosa dire,
fatico a metterle a confronto. Sono troppo diverse. Forse la libertà di movimento, la
possibilità di viaggiare e lavorare liberamente. E la democrazia.
Sono tutte qualità positive riguardo la situazione odierna, niente da aggiungere?
Generazione Perestroika: Ma proprio non saprei. Non so nemmeno bene perché mi
poni domande riguardo l’Unione Sovietica. Io non c’ero. Quello che so viene da
racconti confusi e diversi tra loro. Ci sono i nostalgici e i detrattori. Come faccio io
ad avere un’opinione mia?
Generazione sovietica: La libertà.
Non puoi dirmi qualcosa di più?
Generazione sovietica: Dimmi tu cosa vuoi sentire? La libertà e importante! Se ci
sediamo davanti ad una bottiglia di vino forse potrò raccontarti altro. Perfetto allora
ci vediamo questa sera da te. Però non facciamo tardi che domani voglio andare a
pedalare un po’. E previsto sole e quello era raro sotto Mosca come sotto
Bruxelles.
In effetti il giorno dopo c'erano un sole e una temperatura insperati. Così dopo un
bel giro in bici la mia intervista prosegue.
Cosa pensi del giorno dell'indipendenza? E' giusto celebrarlo?
Generazione Perestroika: Qui a celebrarlo sono molti. Ma tanti sono anche contro.
La città si divide tra chi porta i fiori alla statua dei caduti per liberare l'Europa dal
nazismo e chi ha perso i propri cari in Siberia. Anche la guerra in Afganistan divide:
alcuni ricordano i propri eroi morti per l'onore e la grandezza dell'Unione Sovietica,
altri piangono vittime di una guerra inutile. C'è un monumento ai caduti della guerra
contro i mujaheddin nella piazza centrale, dietro la chiesa ortodossa. Oggi è pieno
di rose. Però ci sono anche tanti che soffrono in silenzio nelle loro case, che magari
senza urlare mostrano il proprio dissenso nei confronti di questa celebrazione. In
ogni caso la questione interessa solo gli anziani ormai. Noi giovani, eccetto chi ha
avuto vittime in famiglia e che desidera ricordarle, non partecipiamo alla
celebrazione.
Generazione sovietica: Io non vado. Mio padre è stato deportato in Siberia subito
dopo la liberazione, che io chiamo invasione sovietica. Ha passato i migliori anni
della sua vita là. Questo perché suonava il violoncello nell'orchestra militare
tedesca. Tutti coloro che avevano legami con la Germania venivano deportati. Lui
fu forte e creò una nuova orchestra là. Si trovava vicino a Novosibirisk, di più non
saprei dire. Lavorava in un'acciaieria. Conservo ancora le sue lettere. Scritte
rigorosamente in russo, il lettone era proibito, non passava la censura.
Prima potevi avere tanti soldi, ma non c'era nulla da comprare. Oggi puoi comprare
qualsiasi cosa, ma non hai i soldi per farlo.
Rēzekne, l’ultima città europea
Reportage da Rēzekne, l'ultima città europea prima della frontiera russa. Tra
campagne desolate e utopie dei giovani.
Qua la città si mischia alla campagna. Il limite tra centro e periferia è labile. Ci sono
casette in legno dei primi del novecento e palazzoni sovietici grigi e
spersonalizzanti. Stradine asfaltate e non, laghetti ghiacciati ovunque. Rezekne è
una piccolissima città lettone.
Tanti scheletri di fabbriche abbandonate risalenti ai tempi in cui la Lettonia era “un
gran produttore dell’URSS”. Solo pochi bar e ristoranti, tanti negozi di seconda
mano dove comprare scarpe e vestiti per pochi euro. La mensa della scuola in cui
lavoro dove con 95 centesimi ti godi un ottimo pasto con primo, secondo e dolce.
Sfori l’euro solo se ti concedi il succo mela e carota, ma ne vale la pena.
Nei laghi si possono vedere pescatori solitari, fanno un buco nel ghiaccio sperando
di prendere qualcosa. Ci sono anche camminatori che preferiscono la pista gelata
alla solita strada, più veloce, più avventurosa. Magari si fanno un goccetto di vodka
prima di affrontare il grande freddo. Un chai corretto, due patate, un po’ di caviale
del Maxima o del Rimi in lattina.
Sono nell’UE e nella Nato. Guadagnano poco, spendono poco, il consumismo non
sanno nemmeno cosa sia, ma hanno l’euro. Anche il nostro modello liberale death
or glory sembra non correre nelle loro vene. Forse non ne hanno bisogno, hanno
capito che per divertirsi basta mettersi due pattini ai piedi e raschiare il ghiaccio,
oppure ci sono semplicemente meno occasioni di svago costoso e
spettacolarizzato per sostenere l’economia dell’eccesso.
Scrutano interdetti le persone che vengono da fuori, non sono poi tanto interessati
né affascinati. Per le persone dell'Europa centrale un silenzio e una tranquillità del
genere non sono scontati, loro ti guardano accennando un timidissimo sorriso, in
realtà non capiscono cosa intendi. Non esistono il Mcdonald, Zara, H&M e altre
catene del genere.
Molti di loro non sono mai stati in una metropoli. Riga, Tallin, Vilnius e basta. Non
conoscono lo stress dei 50 minuti sul bus senza spazio e con una puzza non
sopportabile. Non hanno mai visto la Tour Eiffel o il Colosseo. Ma non cedono
all’ammirazione. Sembrano autosufficienti, indipendenti, disinteressati.
Non esiste l’immigrazione né il turismo. E quasi impossibile incontrare un arabo, un
cinese o un nero. E anche gli europei occidentali sono molto rari, praticamente ci
siamo solo noi giovani studenti o lavoratori inseriti nell’erasmus+. A volte ci
guardano strano. Come disse Ruben, un ragazzo portoghese che abita qua, “è
normale, è come se un giorno uscissi di casa e ti trovassi davanti uno blu”.
Molte ragazze sono studiose, poliglotte, disposte a sacrificarsi pur di andare
altrove. Magari a Riga, a Mosca. O ancora meglio in Inghilterra e Germania. Si
applicano, hanno un obiettivo. Purtroppo i ragazzi meno. Fanno vite usuranti: alcol,
lavoro pesante, violenza e sigarette li mettono fuori gioco. In Lettonia gli uomini
muoiono in media 10-12 anni prima delle donne. Non hanno retto il passaggio
all’economia di mercato, la fine del socialismo, la competizione. Sono rimasti legati
al vecchio modello dell’uomo duro sovietico e gli tocca pagar fattura.
Ci sono ovviamente anche giovani maschi con alti livelli di istruzione universitaria e
che conoscono bene l’inglese e magari anche il francese o lo spagnolo, ma spesso
dicono di voler lasciare Rezekne perché non ci sono opportunità per gli high skilled.
Tuttavia qua ci sono tante iniziative culturali, inclusa l’università, per essere una
cittadina così piccola. Poi ci sono quelli che non hanno nessuna intenzione di
andare via e che quando ti sentono parlare inglese ti dicono un po’ arrabiati
“amerikanskaia?” “Net, russkiy” (sei americano?)
Dice Kristaps che per molti qua “sono tutti lo stesso”. Un piacevole scontro di luoghi
comuni, noi sempre filoccidentali, loro sempre antiamericani e perché no anche
anti-inglesi, francesi, italiani… C’è poi la psicosi della III guerra mondiale. Secondo i
media comincerà in Lettonia. A quanto dice una ragazza del posto “è solo
questione di tempo, un anno, forse due e scoppierà. Meglio andare via prima.
Ultimamente faccio brutti sogni, finirà come in Ucraina. A breve lascerò il paese
(parte per un scambio in Polonia) e quando tornerò il Latgale sarà Russia. Forse,
ma non credo, riusciremo a evitare la guerra”
C’è tensione questo è certo, ma non ho i mezzi per capire se la questione può
evolvere in qualcosa di concreto o restare solo allo stadio di “aggressioni
simboliche”. Il paese è spopolato. Le statistiche dicono 2 milioni, ma secondo i
locali almeno mezzo milione non censito di giovani è fuori per lavoro e difficilmente
tornerà presto. La crisi è stata forte, il passaggio da un’unione all’altra non è stato
indolore. Il modello capitalista sembra non aver attecchito quanto avrebbe potuto o
forse dovuto. D’altronde la disoccupazione di massa è un problema globale, anche
noi figli del western dream andiamo altrove a cercare opportunità.
Questa cittadina, Rezekne, è l’ultima roccaforte dell’UE che confina con la Russia.
Non siamo in Europa. Il 50% degli abitanti parla solo russo. Il sindaco è fortemente
pro russo come il suo partito, sostiene che Mosca conosca le loro esigenze e la
loro cultura meglio di Bruxelles. Come negarlo? Però i russi, e in parte anche i
polacchi e i tedeschi, sono gli imperialisti. Sono coloro che hanno sottomesso la
Lettonia per farne l’uso che hanno voluto. Sono grandi, potenti e ricchi. Sono
fratelli, si conoscono, parlano la stessa lingua, ma fanno paura.
La religione predominante è il cristianesimo; cattolico, luterano e ortodosso. Il
neopaganesimo è forte, ci sono molte feste e ricorrenze legate alla mitologia
baltica, al pantheon lettone. Per esempio la tradizione di ballare (a volte anche
nudi) con una ghirlanda in testa in occasione del solstizio d’estate si è mantenuta.
Proprio qua, tra Rēzekne e Ludza, il politeismo pre-cristiano è radicato. In generale
il revival del neopaganesimo è evidente in tutto il paese, la Dievturiba rappresenta
la rinascita delle tradizioni popolari locali in materia religiosa. Vietata sotto il regime
sovietico è risorta, insieme al cristianesimo, negli anni 90’. Diversamente
dall’Estonia, quasi interamente atea o a-religiosa, Lettonia e Lituania hanno
ritrovato il loro attaccamento alla natura ed ai riti che la celebrano.
La lauki (campagna in lettone) è uno dei simboli nazionali in un paese così verde e
ricco di natura ancora incontaminata.
La Lettonia è l’ultimo paese europeo a essere stato cristianizzato, nel XIII secolo. Il
progetto non è riuscito del tutto perché, come scrissero alcuni gesuiti nel XVI
secolo "Il paganesimo resisteva e il latino non si conosceva". Solo nel XVIII e XIX
secolo si cominciano a tradurre i testi cristiani nella lingua locale. Un secolo dopo
inizia l’occupazione prima tedesca e poi sovietica che decreta una nuova crisi per il
cristianesimo.
Rarissime sono le religioni orientali, pochissimi gli ebrei sopravvissuti allo sterminio.
A Rēzekne il giudaismo era una delle religioni principali, purtroppo è rimasta solo la
“sinagoga verde” a testimoniarlo. Inesistente l’islam e quindi la psicosi islamofobica
tipica della nostra area.
Non è facile parlare di politica con le persone del posto. Parlando di NATO, Putin e
quant’altro, dicono che a loro i media occidentali non piacciono. Perché non siamo
in Lettonia, siamo in Latgale, l’unica regione del paese ad aver votato sì al
referendum del 2012 sul russo come lingua ufficiale. Niente Guardian o Le Monde.
Su questo hanno ragione, noi crediamo di sapere tutto grazie a internet, ma se
leggiamo solo giornali francesi, inglesi, spagnoli…avremo sempre un punto di vista
molto parziale. Detto questo bisogna pur dire che qua non li leggono perché non
conoscono le “nostre” lingue. Ma il vero problema è il mélange linguistique locale
(lettone, dialetto del latgale e russo), perché non sai mai quale può far maggior
piacere all’interlocutore di turno..
Una ragazza di qua dice che è la NATO a provocare la Russia. Perché se
veramente rendesse un buon servizio ai paesi baltici non ci sarebbe bisogno di
lodarla così tanto e non invierebbe continuamente nuove truppe provenienti da UK,
Canada e Italia (sì ci siamo anche noi) ai confini orientali. E lei è 100% lettone e
non parla nemmeno russo.
E altresì vero che ancora tanti hanno il complesso di essere considerati eastern
Europe, preferiscono dirsi central or northern, anche se sanno di non esserlo né
geograficamente né storicamente. Il comunismo è stato terribile, basta guardare i
palazzoni sovietici, l’alcolismo diffuso e la povertà per capirlo, ma forse negarlo non
è la migliore cura.
E' una sensazione strana, si percepisce da un lato molta voglia di occidente,
dall’altro nessun interesse nei confronti dello straniero. Ricorda la Polonia rurale di
10-15 anni fa; adesso è molto più aperta, molto più europea. A volte si palesa
un’atmosfera di amicizia e collaborazione, altre un muro quasi invalicabile.
Il ruolo della religione nei paesi post sovietici
Il revival religioso nei paesi post-sovietici è inarrestabile. Divinità naturali,
cristianesimo e sciamani popolano questo mondo nuovo, complesso e
variegato.
La cortina di ferro è caduta, ma la visione del mondo degli ex paesi sovietici non
coincide con quella dell’occidente.
In Europa occidentale e negli Stati Uniti viviamo nel mondo post-religioso, in
particolare post-cristiano, in Russia e nei paesi dell’ex blocco sovietico in quello
post-ateo. Si tratta probabilmente non solo di una profonda differenza culturale, ma
di un concetto di libertà formatosi sotto storie non comuni.
Credere o non credere? Questo è il dilemma.
Credere perché obbligatorio o come scelta libera, matura e consapevole. Credere
perché si è inseriti in una determinata cultura o perché non se ne può fare a meno.
Credere per inerzia e conformismo o come atto di ribellione. Credere per sapere o
sapere per credere.
Mentre in Italia, Francia e Spagna le chiese si svuotano e l’islamofobia cresce,
dall’altra parte del continente il revival religioso non si ferma. Cattolici, ortodossi,
luterani, neocatecumenali, sciamani e pagani. L’importante è credere. Per opporsi
al passato scientifico e rigoroso del comunismo, per trovare un’identità nazionale,
per distinguersi, per curiosità, per novità. A Gesù, alle divinità della natura,
all’ignoto, al piacere di ballare insieme senza porsi troppe domande.
Così rinasce la Dievturiba, una sorta di politeismo pagano pre-cristiano diffuso in
Lettonia e Lituania. Le due repubbliche baltiche, a differenza dell’Estonia che
sembra aver chiuso la propria partita con la religione, hanno visto rinascere le
proprie tradizioni popolari dagli anni ’90 in poi. Entrambi paesi caratterizzati da una
forte presenza della natura ed una scarsa popolazione si sono da sempre rivolti alle
divinità "del bosco". Al cielo, alla terra, all’acqua. Molto tardi e senza troppa
convinzione al culto cristiano, insediatosi stabilmente solo nel XIII secolo, facendo
di quest'area l'ultima ad essere stata cristianizzata in Europa. Ma mai del tutto
diffusosi, prima a causa della non conoscenza del latino dei popoli locali, poi per
imposizione del Cremlino, infine per resistenza pagana al cristianesimo.
Certo dopo la dominazione sovietica anche i vari cristianesimi si sono ripresi in
quest’area. Ma, soprattutto i giovani, preferiscono definirsi pagani. Forse non
sempre sanno perché, però l’idea di credere in qualcosa di libero è bella,
affascinante. E poi i riti sono celebrati in maniera accattivante, con danze, falò e
vestiti colorati sfoggiati per l’occasione. Difficile resistere ad una festa del genere.
Non ultimo motivo quello identitario, l’importanza di avere delle danze tradizionali
lettoni, lituane o georgiane per distinguersi non solo dalla Russia, ma dal mondo
intero. La fierezza di un’autosufficienza culturale investe non solo la religione, ma
anche la lingua, vissuta come potente strumento di emancipazione ed
autodeterminazione. La mitologia baltica, con i suoi pantheon nazionali, dà forza e
speranza a queste zone.
In Polonia ed in altri paesi “dell’est” le code per entrare in Chiesa nei giorni di festa
sono interminabili. Bisognerebbe fare di Varsavia la nuova Roma, come questa fu
nuova Gerusalemme. La religione qua si lega al sentimento di libertà post sovietico,
ma anche alla forte moralità, anzi al moralismo tipicamente russo. Critica e
assoluzione del passato: delitto e castigo.
Verità o rassegnazione ad una realtà troppo dura per essere accettata?
C’è un disegno divino dietro le nostre banali azioni, dietro la vita che crediamo di
vivere liberamente?
In Siberia invece è risorto dalle ceneri dell’URSS lo sciamanesimo. Sepolto negli
anni ’20 è stato tramandato segretamente di generazione in generazione. Oggi
conta svariati adepti e può essere esperito anche da viaggiatori curiosi nella zona
del lago Baikal. Si possono vedere “stregoni” vestiti di piume con il capo coperto da
maschere d’uccelli mentre praticano una suzione o un esorcismo. Assistere ad un
sacrificio animale, ad una divinazione o ad una espiazione.
I popoli locali hanno ritrovato così la possibilità di esprimersi.
Mostrando forse che l’uomo, se messo in condizioni di libertà, vuole credere in
qualcosa di sovrannaturale. Che sia Dio, l’albero o lo sciamano.
Ed anche nella nostra parte d’Europa il cristianesimo, soprattutto nella sua variante
sociale ed egualitaria, trova spazio di espressione pubblica. Anche nel mondo
secolarizzato post-religioso si diffondono varie forme di culti più o meno nuovi, dal
conosciutissimo buddismo al candomblé afrobrasiliano.
Ovunque, per un motivo o per un altro, si cerca un’identità che non può prescindere
dalla religione o per lo meno dalla religiosità.
Se non ci credete basta chiedere ad uno storico o ad un antropologo delle religioni.
Vi dirà che non esiste vita senza religiosità.
Cosmologia, cosmogonia, divinità naturali, Gesù, Maometto o vacche sacre.
Perché nella notte tutte le vacche sono nere.
Sciamanesimo: in cosa credono i giovani lettoni?
Piume, colori, teschi e un incredibile rapporto con la natura. In Lettonia,
gli sciamani tornano ad affascinare le giovani generazioni in cerca di
spiritualità. Il racconto di un giovane italiano che vive in Lettonia.
Alcuni giorni fa mi hanno chiesto se credo negli sciamani. Quesito piuttosto insolito,
direte voi. Ma ciò che vi colpirà ancor di più è che non ho risposto: sarebbe stato
impossibile. La domanda si presentava e si presenta come priva di senso.
Non si può chiedere ad un occidentale se crede negli sciamani. Non ne ha bisogno,
la sua società non li richiede, non li vuole, non li comprende. In Lettonia però,
nazione sospesa tra l’Europa e la Russia, lo sciamanesimo ha una sua ragione
d’essere. Il mondo baltico non può rinunciare alla figura dello sciamano, cardine
della società agricola arcaica. In un paese in cui la natura gioca un ruolo principale
è impossibile non conoscerla, non interrogarsi su di essa, non temerla. Quasi tutti
hanno una casa in campagna, magari dei nonni, dove sperimentare un rapporto
diretto con l’acqua, la terra e gli animali. La foresta non è muta come nelle società
completamente secolarizzate quanto piuttosto luogo di incontri, paure, dubbi ed
esperienze.
“Dopo il crollo del muro di Berlino sono tornati gli sciamanispiega Krišjānis, studente di Riga- in Occidente vivono nel mondo post-religioso,
noi ex paesi sovietici viviamo in quello post-ateo. Lo sciamanesimo rappresenta la
conquista di una libertà che sembrava perduta per sempre. In questo senso
possiede un valore non solo religioso, ma anche culturale, antropologico e
identitario”.
La storyteller di Riga
Lo sciamanesimo è in realtà un fenomeno asiatico, principalmente turco-mongolo e
siberiano. Quello locale è più che altro sciamanesimo urbano. Un ottimo esempio di
questa realtà è Inin Nini. Una sciamana che si autodefinisce Medicine Woman,
Mystic, Soul guide e Storyteller di Riga. Anche per lei lo sciamanesimo rappresenta
la possibilità di esprimersi per come si è, senza filtri né restrizioni di sorta. E il modo
di esprimere la propria unicità, la differenza rispetto a tutti gli altri, l’originalità che il
mondo sovietico aveva completamente annichilito. E se volete rendervene conto
basta fare una passeggiata in una qualsiasi città lettone, i palazzi sono tutti
tristemente e inesorabilmente identici. Lo sciamano rompe questa monotonia con i
colori delle sue vesti e con il fumo dei suoi incensi.
In Lettonia c'è una vasta scelta religiosa: dalle pratiche più comuni, alla spiritualità
più strampalata. La religione più praticata (per l'80% della popolazione) è il
cristianesimo. In particolare, per 708 773 persone essere cristiano in quest'area
significa abbracciare il Luteranesimo per via dei legami della Lettonia con la storia
religiosa dei paesi nordici. Ma, negli ultimi anni, il potere delle "religioni del bosco"
sta crescendo sempre di più tra i giovani. Lo sciamanesimo si fonde con il
neopaganesimo, in un nuovo credo ispirato dalla natura.
La natura fa da padrona
Dovete immaginare una grande pineta con un lago in mezzo e qualche rigagnolo
che funge da affluente. Riempite il quadro di zanzare, fiori e felci. Non dimenticate
un cane che abbaia in lontananza e una signora anziana che passeggia da sola.
Due ragazzini si arrampicano su un albero per dare un senso alla giornata estiva, i
genitori fanno il bagno nel lago. Qualcuno accatasta la legna per il falò. Altri
preparano il succo di betulla e una zuppa di patate e carote. Tutti sono fieri di
essere entrati a far parte di quello che viene comunemente chiamato “occidente
industrializzato”, ma nessuno vuole rinunciare al privilegio della natura. Alla libertà
di poterla vivere come un fatto aperto a tutti, quale primo canale di comunicazione
con il mondo.
Ecco che torna lo sciamano. Sembra uno di noi, è uno di noi. E il simbolo della non
omologazione, della protesta contro l’usurpazione della natura, della resistenza
delle tradizioni. La ripresa della mitologia baltica e del suo pantheon pagano
rappresenta la voglia di unicità della Lettonia. Non russa, non occidentale, e il
paese della lauki (campagna). Una nazione alla ricerca di se stessa, nella quale il
cristianesimo ufficiale non basta.
“Il nostro rapporto con la natura è diverso rispetto a quello degli altri giovani
europei- racconta Dace, studentessa in teologia di Rēzekne parlando del rapporto
con le sue zone-Conosco i boschi del Latgale quasi come il salotto di casa mia. Ci
giocavo da piccola, là ho dato i miei primi baci, mi sono posta i primi quesiti
esistenziali. Fu così che decisi di studiare teologia. Per conciliare la mia intimità
con la foresta con le tensioni religiose che mi hanno sempre abitato”
Durante una passeggiata in un campo assolato, continua: “Per noi natura e
religiosità sono indissolubilmente legate. Non si può comprendere la prima senza
conoscere la seconda e viceversa. Ho sempre subito il fascino dell’oriente, ma non
ho mai rinunciato alle tradizioni locali. Non posso dirmi cristiana, ma nemmeno
pagana. Sono attratta dalle religioni panteistiche e animistiche asiatiche. Il mio
credo e simile a quello spinoziano. Dio è nel tutto. Nel lago, nei fiumi, nella neve”
Le religioni che si mescolano
Le religioni diverse dal cristianesimo non si nascondono qui. A Tartu, in Estonia, è in
corso una mostra sullo sciamanesimo, è lì per ricordare che dopo la caduta del
muro di Berlino, all'est è tornato un bisogno di spiritualità.
“A volte mi chiedono in cosa crediamo noi giovani Lettoni- Elina, impiegata nel settore
turistico a Rēzekne- Paganesimo e cristianesimo si mischiano continuamente, non si sa
dove inizia uno e dove finisce l’altro. Certo dopo la fine del comunismo è risorto il credo in
tutte le sue varianti.
Non giudico negativa la rinascita della Dievturiba (politeismo pagano precristiano) come
non giudico negativa la ripresa del cristianesimo dopo l’ateismo imposto. La nostra
generazione cerca qualcosa in cui credere che non sia il solito vecchio cristianesimo".
Parlando con le persone che vivono il territorio si capisce che in Lettonia c’e di
tutto. Cattolici, ortodossi, luterani, pagani. Però per capire veramente lo spirito dei
giovani bisogna vivere Līgo e Jāni. Sono le festività principali del paese nelle quali
si riscontra l’attitudine dei locali nei confronti della religione. Si celebra la fine del
lungo inverno. "Per voi cattolici sarebbe San Giovanni (festeggiato a giugno)- dice
ridendo Elina- ma noi abbiamo tolto il santo e lasciato solo Giovanni. D’altra parte
Jānis è uno dei nomi più diffusi in Lettonia. Come a dire che noi non rinunciamo al
nostro sottosuolo precristiano. Ci crogioliamo in un mondo fatto di creature
fantastiche, falò infiniti, corone di fiori e divinità millenarie”
La spiritualità lettone è fatta da tanti antichi simbolici geometrici che rappresentano
il sole, la pioggia o la terra. Da una decina di anni il paganesimo è molto popolare
tra i giovani perché è facile da capire e diretto, non come il cristianesimo. I crocifissi
e i santini perdeno terreno, si fa prima ad appendersi un ciondolo al collo per
lanciare un messaggio. Ad esempio la svastica ha un significato completamente
diverso rispetto al mondo occidentale, qua è un simbolo di virilità, fuoco, forza. La si
regala ai ragazzi in segno di rispetto o amicizia. Molti se la tatuano sulle braccia o
sulle gambe. Il serpente invece è un segno femminile, simboleggia la saggezza.
Molte ragazze hanno collane o braccialetti con questa rappresentazione, anche se
tradizionalmente si appende alla gonna. Se si vuole proteggere la casa si appende
alla porta il simbolo divino, un semplice triangolo oppure il Laima, divinità del
destino. Importante anche la fertilità, per quella ci sono vari segni che ricordano il
legame con la campagna.
“Una parte della mitologia baltica è legata a determinati simboli, l’altra è connessa
con le piante- sorride Elina- Per esempio ricordo che una volta, facendo una
passeggiata con mia nonna nei boschi del Latgale, ho trovato un sorbo selvatico
(Rowan). E' molto importante, protegge la casa dagli spiriti maligni, dai ladri e dai
fulmini. Così mia nonna lo prese e lo piantò nel nostro giardino spiegandomi che
non farlo sarebbe stato un grave errore. Dopo anni è ancora là".
C'è qualcosa di magico, ogni essenza ha il suo simbolismo, quasi come in un
racconto: "Anche la betulla è un albero fondamentale, da questa non solo si estrae
il succo, ma è anche il materiale tradizionalmente usato per le culle dei bambini.
Ma l’albero più importante della mitologia lettone è la quercia, simbolo di potere,
forza, resistenza. Rappresenta la connessione fra il cielo e la terra, tra noi umani e
Dio. I ragazzi lo usano per farsi la corona a Līgo e Jāni. Infine per chi cerca l’amore
nei boschi Lettoni l’occhio deve essere puntato sui trifogli rossi, fiori con sfumature
fucsia e dalla forma ovale. Si può fare una semplice corona con questi fiori, ma è
meglio portarli a casa e metterli sotto il cuscino. Nella notte vi apparirà in sogno il
vostro futuro marito”
Identità nazionale o identità religiosa?
Nel mio percorso alla ricerca della spiritualità lettone, incontro Ilze, una ragazza che
si è avvicinata molto allo sciamanesimo negli ultimi anni. Mi dice che il credo
religioso non può essere slegato dall'identità personale e nazionale. "La Lettonia
non e un paese veramente cristiano. Qua gli sciamani e le divinità naturali sono
arrivate molto prima di Cristo e non se ne sono mai veramente andate. Noi siamo
l'ultimo paese europeo a essere stato cristianizzato nel XII secolo. Ciononostante
nessuno ha veramente smesso di credere nei riti sciamanici e nel potere della
natura. Questo paese è un grande bosco, qua si possono vivere vere pratiche
sciamaniche".
Quasi soddisfatta dell'essere approdata ad un'identità spirituale, Ilze mi spiega in
modo più profondo come si svolgono le sue giornate: "Nel mio gruppo c'e chi fa
yoga, chi è buddhista, chi consulta sciamani. Ad esempio una mia amica mi ha
spiegato come funziona una pratica rituale sciamanica. Ci si reca dallo sciamano e
gli si spiega il proprio problema. Lui o lei entra in contatto con il mondo
sovrannaturale inviando la sua anima in cerca di risposte. Poi stabilisce una
diagnosi e una cura. In genere gli si chiede di avere salute, ma anche successo e
soldi. Tradizionalmente il rito sciamanico dovrebbe essere lungo e celebrato dopo il
tramonto, oggi per motivi pratici viene spesso abbreviato e svolto nelle ore diurne"
“La parte più affascinante dello sciamanesimo è lo Yasa. Fondamentalmente è un
concetto di derivazione turco-mongola che ha investito tutto lo sciamanesimo
secondo il quale il punto focale dell’osservanza religiosa si trova nel rapporto tra
uomo e natura. Esiste un codice etico-morale secondo il quale bisogna rispettare i
tempi, le esigenze e le necessità della natura. Si tratta di un ambientalismo ante
litteram al quale noi Lettoni non possiamo certo rinunciare. Dio è nel tutto.
Rispettarlo significa rispettare i nostri boschi, il nostro paese, la nostra identità e
quindi noi stessi”
Così le chiedo di parlarmi più dettagliatamente dello sciamanesimo. E dai suoi
discorsi è chiaro: in Siberia e nel mondo baltico sono risorti gli sciamani. O forse, in
realtà, non se ne sono mai andati, si sono presi solo una pausa durante la
dominazione sovietica.
Cent’anni di Unione Sovietica nel mondo
Nei Paesi Baltici e nel Caucaso l’identità europea si scontra con quella
sovietica dando adito ad un confronto ideologico e generazionale del quale
non conosciamo ancora gli sviluppi.
Appena arrivato in Lettonia capì che c’era qualcosa che non andava. Riuscì a dare
un nome a questo sconosciuto dopo poche settimane: Unione Sovietica. La mia
generazione, in Europa occidentale, non la conosce nella sua grandezza e nella
sua complessità. Associa un nome ad una realtà vuota, sconosciuta, idealizzata o
infamata. Non sappiamo quanto pesasse questa realtà nel mondo e quali effetti ha
ancora oggi in molti paesi.
Berlusconi in Italia salì al potere, anzi “scese in campo” per usare le sue parole,
utilizzando una semplice retorica anti-comunista. Quindi negli anni ’90 in Italia
c’erano i comunisti?
Nel frattempo i Paesi Baltici e il Caucaso si liberavano dal giogo dell’oppressore,
ritrovando le proprie lingue e culture, perdendo la maggior parte delle industrie e
del lavoro che li legava alla Russia. Lo stesso avveniva nei paesi dell'Asia Centrale.
La Polonia di Solidarność e di Papa Wojtyła si avviava ad essere una delle
principali democrazie europee, prendendo la testa dei paesi dell’est all’interno
dell’Unione Europea.
In Cina il Partito Comunista era ed è l’unica scelta possibile.
Negli Stati Uniti il comunismo invece non è mai esistito: ecco perché in Europa
Occidentale non conosciamo e non capiamo la storia e l’importanza economica,
culturale e sociale dell’Unione Sovietica. Il pregiudizio esiste ancora oggi, se
parlate inglese nessuno ha nulla da ridire, se vi esprimete in russo invece, in certi
contesti, riceverete critiche. Il vecchio mito, per quanto usurato, dei buoni e cattivi
esiste ancora. Tale mito peraltro non tocca solo le nazioni, ma anche le religioni. I
buddhisti ad esempio sarebbero i “pacifici” e i musulmani i “guerrafondai”, salvo poi
scoprire il caso del Myanmar che rimette in questione questo fittizio sistema di
valori dove, di fatto, alle ragioni etniche e religiose si sostituiscono quelle politiche
ed economiche.
In Spagna, dopo il franchismo, nel 1977, in piena transizione democratica, Santiago
Carrillo gioiva del rinato Partido Comunista de España (PCE). Dopo decenni di
illegalità tornavano i comunisti. Negli stessi anni in Italia c’era Berlinguer, in Francia
Mitterand, nei Balcani Tito, a Cuba Castro. L’America Latina tuttavia era in mano
alle dittature di destra volute dalla CIA e dagli Stati Uniti grazie all'Operación
Cóndor. Il patio trasero era stato assoggettato, ma in molti guardavano all’Unione
Sovietica come modello sociale.
Scrittori, artisti e poeti credevano nel modello russo che si dicevano pronti a imitare.
In Messico Frida Kahlo e Diego Rivera abbracciarono gli ideali del comunismo.
Pablo Neruda sosteneva che il modello sovietico fosse la sola via possibile per
portare pace e prosperità in America Latina. Jose Carlos Mariategui era convinto
che il socialismo fosse l’unica speranza per il Perù e in generale per tutti i paesi
latinoamericani assoggettati agli Stati Uniti. Gabriel Garcia Marquez con il
suo realismo mágico mostrava di amare molto poco la realtà dell’ America Latina
sfruttata, sottomessa, violentata. Nella Bolivia di Suazo, dopo vent’anni di dittatura
militare, si creavano i compromessi per i futuri governi di Lula, Evo Morales e
Chavez.
L’Unione Sovietica non era impegnata solo ideologicamente in America Latina, ma
anche militarmente. Appoggiava Cuba e le guerriglie in Nicaragua e Bolivia. Lo
stesso avveniva in molti moti rivoluzionari in svariate parti dell’Africa alle prese con
la decolonizzazione, dove la CIA si scontrava con la Čeka.
I Russi dimostrarono per alcuni decenni di essere superiori agli americani da un
punto di vista tecnico e scientifico. Controllavano 1/6 dell’interno pianeta ed il loro
prodotto interno lordo, nel 1969, rappresentava il 15% di quello globale. Ecco
perché la caduta dell’Unione Sovietica è stato il trauma più grande dell’epoca
moderna.
Alcuni anni dopo in Russia Gorbachev inaugurava un periodo passato alla storia
come perestroika e glasnost. Finiva formalmente l’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche, ma la strada da fare era ed è ancora immensa. E per
rendersene conto basta osservare i Paesi Baltici e il Caucaso, dove l’identità
europea si scontra con quella sovietica, dando adito ad un confronto ideologico e
generazionale che ancora non sappiamo dove ci porterà.
I millennials europei e il capitalismo
Cafébabel ha intervistato dei giovani partecipanti al progetto EVS (European
Voluntary Service) chiedendo loro di esporre il proprio punto di vista sul
modello capitalista
I millennials sono nati dopo la caduta del muro di Berlino in un mondo interamente
dominato dal modello capitalista. Non hanno mai avuto la possibilità di vivere direttamente
un sistema socioeconomico “altro”. Non si sono mai dovuti confrontare con l’alterità in
quanto figli di un mondo unipolare.
Oggi Cafébabel ha l'opportunità di intervistare alcuni giovani europei partecipanti al
progetto EVS (European Voluntary Service) per vedere quale è l'opinione dei millennials
europei sul modello capitalista
Volontario italiano, 25 anni - Il problema riguardo al capitalismo non è l'approvarlo o il
contestarlo quanto piuttosto il considerarlo un fatto naturale. L'assenza di un'alternativa
economica con la conseguente società unipolare ha atrofizzato il nostro pensiero. I miei
coetanei sono convinti che esista un solo modello, anzi non si rendono nemmeno conto
che di questo si tratta. Semplicemente non riescono ad affrancarsi dall’idea del mercato
globale con la quale siamo stati cresciuti. Tutto è business. Kapitalismus sive natura.
Ecco perché la fine del comunismo ha lasciato un vuoto immenso. Non in quanto giusto o
sbagliato, ma perché rappresentava un'alternativa, una contrapposizione in grado di
sviluppare una fantasia e un senso critico oggi assenti. Il semplice fatto di sapere che
esisteva “altro” portava i giovani a interrogarsi sulla giustizia del proprio sistema. A
indagarne i limiti e le qualità, i pregi e i difetti.
Volontario italiano, 27 anni - La mia generazione è stata forgiata con il pensiero unico del
consumismo. Però non tutti l'hanno abbracciato. C’è chi sogna una società diversa,
fondata sui valori della condivisione e della comunità.
Nel diffondersi di nuove comuni, religioni, ecovillaggi e quant'altro è evidente la voglia di
resistere ad una società interamente fondata sul consumo e sul capitale. Tra la comune di
Bagnaia e il monastero di Bose le ideologie differiscono, ma l’obiettivo è il medesimo. Una
cristiana, l’altra laica: entrambe critiche nei confronti del sistema imperante, entrambe
determinate a rimettere al centro il concetto di condivisione fortemente indebolito dal
capitalismo avanzato.
Volontario francese, 29 anni – Tutti criticano il capitalismo, ma nessuno vuole veramente
sostituirlo. Anche la mia generazione, nonostante la crisi, gode degli agi di questa sistema.
I veri problemi per un giovane in Europa oggi sono il lavoro e la famiglia. Mete difficili da
raggiungere, ma certo non impossibili.
Il capitalismo è un sistema come un altro. Chi vuole ce la fa con questo o con un altro
modello.
Volontario irlandese, 23 anni – Spesso dicono che grazie alla globalizzazione capitalistica
si sono accorciate le distanze tra Occidente e resto del mondo. Pare sia sorta una nuova
classe media in Cina e sia aumentata la redistribuzione della ricchezza. Sarà vero, però
perché qua non arrivano gli aspetti benefici del sistema in cui viviamo?
O non sono veri o non valgono per l’Europa.
Volontaria francese, 27 anni - Oggi parlare di capitalismo è impossibile. Il termine stesso è
diventato sovversivo. Abitiamo un sistema che non possiamo discutere, dibattere, criticare.
Siamo obbligati a viverlo, ma non possiamo esplorarne i limiti. Siamo costantemente
portati a far finta di vivere in una realtà senza nome. Però un nome c’è: si chiama
neoliberismo. Ma anche di questo chiaramente è meglio non parlare.
Forse perché fa troppe vittime e ci costringe tutti all’omertà.
Volontaria lettone, 27 anni – Parlare di capitalismo e di socialismo nel mio paese non è
facile. Generalmente abbiamo fiducia, con le dovute riserve, nel modello capitalista. La
mia generazione qua equivale a quella dei baby boomers in Europa occidentale.
Dobbiamo costruire tutto, partiamo da zero. Abbiamo avuto poco nella nostra infanzia, non
viviamo il palese declino di altri paesi quanto piuttosto la crescita della nostra piccola
nazione.
Personalmente credo non sia il migliore dei mondi possibili, ma certo potrebbe essere
peggio.
La Lettonia dei rifugiati
I lettoni hanno paura dei rifugiati, i rifugiati hanno paura della Lettonia.
Poco tempo fa sono andato a Riga con una collega. Appena arrivati ha cominciato
a dire che non sopportava il traffico e la confusione. Proprio non capivo cosa
intendesse, non ho mai visto una capitale più tranquilla di questa.
La Lettonia è spopolata. I dati ufficiali parlano di più due milioni di abitanti, in realtà
ce ne sono molti meno. Solo l’anno scorso il declino demografico ha segnato -14%.
Questo paese è una foresta. Bella, verde, desolante.
I giovani sono quasi tutti in UK, Olanda, Irlanda o Belgio. Cercano opportunità che
sanno di non poter trovare qua. Dopo anni di studio e impegno non si rassegnano a
lavorare per pochi euro l’ora, senza mettere a frutto le proprie competenze. Lo
stipendio minimo si aggira sui 2,50 euro l’ora. Un kebab grande ne costa 4,30. I
conti non tornano.
Nonostante il grande calo demografico la maggioranza dei lettoni non vuole
rifugiati. Quando il governo stipulò il contratto con l’Unione Europea per accogliere
poche centinaia di migranti scoppiarono le proteste. E pensare che solo oggi in
Italia ne sono arrivati più di mille.
Hanno paura degli stranieri, non per cattiveria quanto piuttosto per ignoranza. La
xenofobia e il timore di possibili “invasioni” attraverso la frontiera russa, dove
recentemente è stato costruito un muro, non si spiega. Incontrare persone di altre
etnie è piuttosto raro, fare un paragone con i paesi dell’Europa occidentale non
avrebbe nemmeno senso. L’unica città del Paese è Riga e, nonostante molti lettoni
si ostinino a definirla grande e internazionale, lo è meno di Torino, Marsiglia o
Manchester. La seconda città per dimensioni e importanza è Daugavpils, con
80.000 abitanti è più piccola di Udine.
Stesso discorso vale per i piccoli centri lettoni. La mia cittadina, Rēzekne, senza
l’afflusso di giovani partecipanti ai progetti Erasmus+, studenti o volontari, non
ospiterebbe stranieri. Perché non c’è lavoro, perché non ci sono le condizioni
sociali e culturali per permettere un’accoglienza adeguata.
E qui veniamo al punto cruciale, il rapporto tra i lettoni e gli immigrati.
A Riga, precisamente al Cinnamon Hostel, ho incontrato Mohammed (nome di
fantasia), uno dei pochissimi rifugiati afghani presenti in Lettonia. Appena ha saputo
che sono italiano ha cominciato a chiedermi di tutto. A quel punto non sapevo più
se ero io a intervistare lui o lui a intervistare me.
“Abito a Roma da anni, ma sono originario di Torino” gli dico.
E lui “Bellissima Torino. L’Italia mi piace, soprattutto il nord. C’è lavoro, la sanità
è pubblica, i rifugiati provenienti dal mondo arabo-musulmano sono tantissimi. Non
come qua. Siamo solo otto afghani, senza possibilità concrete di trovare un
impiego decente. Viviamo con i sussidi dell’Unione Europea. Ma io voglio
andarmene dalla Lettonia. Sono ormai in questo ostello da mesi, aspetto solo i
documenti per prendere il volo. Tanto siamo nell’Area Schengen, sono libero di
viaggiare”
“Oltre al lavoro cosa non ti piace della Lettonia?”
Ride “Il clima è tremendo. Troppo freddo. Le persone ti guardano strano per strada,
non sono abituate a vedere molti stranieri. La lingua è incomprensibile e inutile. Io
vorrei studiare l’inglese, il francese o l’italiano, non il lettone. Però sono stato
sfortunato e mi hanno assegnato qua. Un paese che non riesce nemmeno a
mantenere i propri cittadini, figuriamoci i rifugiati”
“Se dovessi partire oggi dove andresti?”
“Ho un amico a Brescia, città bellissima. Anche lui era in Lettonia, ma appena si è
ammalato ha lasciato il paese. Altri ragazzi gli hanno consigliato l’Italia. Là si è fatto
operare gratuitamente mentre qui avrebbe dovuto spendere molti soldi (che non
aveva). Poi ha trovato un lavoro e non è più tornato. Parla afgano e arabo tutti i
giorni e durante le vacanze estive va in Liguria. E un vero italiano ora, perché da
voi l’integrazione è possibile, non come in Lettonia”
“Prima di partire cosa farai?”
“I documenti non arrivano subito, già lo so. Sto seguendo un corso di lingua lettone
organizzato dall’Unione Europea per noi migranti, ma contemporaneamente studio
il russo da autodidatta. A Riga sono in tanti a parlarlo ed è utile per lavorare. Per il
resto se trovo un impieguccio in un bar o in un ristorante bene, sennò sopravvivo
con il sussidio fino al giorno della mia partenza”
Questa chiacchierata mi ha lasciato un sapore agrodolce in bocca.
Da un lato toccare con mano la realtà dei migranti non è cosa facile, dall’altro veder
lodare così il mio paese dal quale siamo in tanti a fuggire mi ha fatto un certo
effetto. Forse mi ha dato un po’ di fiducia, ha smosso in me la voglia di cercare
soluzioni positive per fermare l’esodo dei miei connazionali.
Poi sono uscito con degli amici locali a prendere una birra e quando mi hanno
chiesto a cosa pensassi ho risposto semplicemente
“I lettoni hanno paura dei rifugiati, i rifugiati hanno paura della Lettonia”
La russificazione della Lettonia
Viaggio in un paese diviso tra russi, russofoni, europeisti, nazionalisti lettoni e
“non cittadini” tecnicamente apolidi dal 1991.
Il mondo baltico è misterioso, sospeso tra l’Europa e la Russia, intricato,
complesso, difficile da penetrare. Diviso tra minoranze russofone, agguerriti
nazionalisti ed accesi europeisti. Dilaniato dall’interno tra chi rimpiange l’Unione
Sovietica e chi finge non sia mai esistita, tra chi fa della lingua e della religione una
questione nazionale e chi no. Consumato dalla continua guerra intestina tra chi
guarda verso Mosca e chi verso Bruxelles. Appesantito da una realtà
socioeconomica dura, dove però alcol e povertà non riescono ad annichilire la forza
del mondo magico che anima queste foreste.
Oggi Cafébabel ha l’occasione di intervistare una signora riguardo la russificazione
della Lettonia.
Puoi raccontarmi la Lettonia prima e dopo l’Unione Sovietica?
Il paese è sempre lo stesso, popolato dalle medesime persone, i Lettoni. Certo la
presenza russa ha fortemente mutato questi territori. Le importazioni di epoca
Staliniana sono state massicce. Arrivarono centinaia di migliaia di russi in pochi
anni. Anche con Chruscev l’afflusso di stranieri non si fermò. Venivano da ogni
dove: Urali, Caucaso, Siberia. Il piano sovietico funzionò, tanto che ancora oggi,
soprattutto a Riga e in Latgale, non si capisce se ci troviamo in Lettonia o in
Russia. Negli anni ’50 e ’60 la Lettonia aveva aumentato la sua portata industriale;
la produzione aumentò almeno di dieci volte tra il 1940 e il 1961. Però l’agricoltura
e l’allevamento erano diminuiti, il piano di spartizione delle terre, con conseguenti
lunghi esili in Siberia sofferti dagli espropriati lettoni, non funzionò. Si produceva
meno latte, meno carne e meno verdura degli anni precedenti la guerra. I miei
concittadini delle campagne si riversavano nella capitale per procurarsi generi
alimentari di ogni tipo. L’autosufficienza era morta per lasciare spazio al grande
“piano agricolo” staliniano.
Il paese non si è mai ripreso dalla sofferenza dei Gulag né dalla povertà impostaci.
Il problema è tangibile ancora oggi, siamo una delle nazioni meno sviluppate
dell’Unione Europea. Abbiamo trecentomila “non cittadini” Lettoni di lingua russa.
Quelli con il “passaporto viola” e non verde, noi li chiamiamo così per distinguerli
dagli altri. Secondo alcuni non meriterebbero la cittadinanza in quanto nostalgici
dell’Unione Sovietica, simpatizzanti di Putin e avversi ai valori di una Lettonia
progressista e democratica; per altri assistiamo ad una grande
ingiustizia, unicum in Europa.
Tecnicamente si tratta di apolidi, esclusi da determinate professioni e dal diritto di
voto, impossibilitati a viaggiare come i loro “connazionali” nell’area Schengen. Sono
ex cittadini sovietici, nepilson ossia “non cittadini” dal 1991.
Adesso c’è chi vorrebbe regolarizzarli e chi invece crede possa essere uno dei più
grandi errori nell’attuale processo di apertura ed integrazione della Lettonia
all’interno dell’Unione Europea. A complicare le cose si aggiunge la sottile
differenza tra etnicamente russi e russofoni, perché credere che tutti coloro che
parlano russo in Lettonia siano contro i valori democratici della nostra repubblica è
estremamente banalizzante.
Nel 2012 ci fu un referendum per rendere il russo lingua ufficiale, i promotori lo
persero e il lettone rimane l’unica lingua ufficiale del nostro piccolo paese. La
cultura baltica rialza la testa, si riappropria delle sue tradizioni e dei suoi valori.
Perché noi non siamo né Russi né Europei, siamo Lettoni.
Cos’è il giornale Brīvība?
E uno dei principali giornali antipropaganda sovietica che girava negli anni ’60 e
’70. Per procurarselo bisognava conoscere qualcuno che ne possedesse una copia
e incontrarlo clandestinamente. La diffusione a Riga, focolare dei movimenti
indipendentisti Lettoni, era piuttosto alta. Piuttosto bassa nelle campagne del
Latgale, più frequente nelle zone di Cesis e Sigulda. D’altra parte ancora oggi da
quelle parti c’è quasi il 90% di Lettoni al fronte del 60% di Riga, del 44% di
Rezekne e del misero 20% di Daugavpils, che si è guadagnata l’epiteto di Little
Russia. Questo giornale aveva un obiettivo principale, salvare la lingua, la nazione
e la cultura lettone. Nel 1959 l’obbligatorietà del lettone nelle scuole è stata
soppressa, da lì in poi il semplice fatto di parlare la nostra lingua rappresentava un
atto di protesta nei confronti del regime. Tuttavia affermare che il russo soppiantò
del tutto il lettone sarebbe un falso storico. La lingua madre è difficile da uccidere.
Tu eri nel partito comunista?
Fino alla metà degli anni ’80 facevamo quasi tutti parte del Partito. Studenti,
docenti, impiegati nell’amministrazione pubblica. Difficile scappare. Poi con il
gruppo di Helsinki, Solidarnoch e Atmoda le cose sono cambiate.
Cos’è l’Atmoda?
La forma lunga in lettone è Latviesu Tautas Atmoda, in inglese la
chiamarono Singing Revolution a causa di una spontanea manifestazione
antisovietica realizzatasi durante un concerto a Tallinn nel 1988. Fu un importante
movimento di liberazione nazionale, molto attivo negli anni ’80. Risultò essere
fondamentale per il raggiungimento dell’indipendenza nel 1991. Si batteva, come
molti tra noi, contro tutti i divieti imposti da Mosca. Affermava inoltre l’importanza
del retaggio Svedese, Tedesco e Polacco nella cultura lettone, oggi spesso caduto
in oblio a causa della russificazione imposta. Sorto in Estonia era attivo in tutti gli
Stati baltici.
Il 14 giugno 1987, anniversario delle deportazioni del 1941, in coordinamento con il
gruppo di Helsinki, il monumento alla libertà lettone di Riga fu riempito di fiori. Tale
evento proibito simboleggia l’inizio della rivolta contro l’URSS, già indebolita dalla
Perestroika voluta da Gorbachev. Cinema, arte, letteratura: tutto era considerato un
atto di dissidenza e rifiuto nei confronti del regime.
Famoso fu il caso del “gruppo dei poeti” di Riga. Furono deportati per aver
“materiale proibito”; poesie e romanzi, principalmente di lingua francese. Se vi
interessano queste storie andate al museo del KGB a Riga, è stato aperto da poco
e contiene storie e memorie importanti.
Il 23 agosto 1989, cinquantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop, una
catena umana di 600 km univa le tre capitali baltiche. Quella dimostrazione
simbolica fu fantastica, si capiva che eravamo tutti uniti contro l’Unione Sovietica da
Tallinn a Vilnius.
Come avete vissuto il 1968 in Lettonia?
A noi piacevano l’inglese e la radio proibita, Voice of America, creata a Washington
nel 1942, attiva nei paesi sovietici dal 1947. Negli anni ’60 andava molto di moda
tra i dissidenti lettoni. Ci trovavamo nelle cantine per ascoltarla, a volte in lingua
originale a volte tradotta, anche se di quello che dicevano non ci interessava poi
tanto.
Non sapevamo bene cosa succedesse a Londra, Roma o Parigi, ma ci sembrava
che il mondo fosse là, nelle grandi capitali occidentali. Anche noi volevamo il Rock
e le minigonne.. Ma soprattutto desideravamo qualcosa che ci sembrava
impossibile avere all’epoca, la libertà.
Le ferite aperte della Lettonia con il nazismo
In Lettonia si parla molto di russificazione a scapito del ricordo
dell’oppressione nazista e della strage di Rumbula.
In Lettonia si parla molto di russificazione, quel processo di imposizione culturale e
linguistica che ha interessato il paese per buona parte del secolo scorso. Si
condanna l’invasore sovietico, ci si avvicina sempre di più all’Unione Europea e alla
NATO al fine di prevenire qualsiasi tipo di attacco dal nemico russo. Si rivendicano
l’uso della lingua lettone e delle tradizioni locali spazzate via da anni di
occupazione.
Molti russi etnici sono ancora oggi privi di documenti, tecnicamente apolidi dal
1991. In attesa di un referendum o di una legge che possa regolarizzarli, il paese è
dilaniato al suo interno tra chi vorrebbe far di loro dei cittadini a tutti gli effetti e chi
crede che questo farebbe della Lettonia un paese “meno europeo”. Formalmente
all’interno dell’Unione Europea dal 2004, insieme a molti altri paesi dell’est, la
Lettonia ha preferito attuare una “rimozione” storica che ne avrebbe forse
compromesso l’ entrata. O almeno così credeva il primo ministro dell’epoca, come
mostrano lettere e affermazioni ancora oggi consultabili.
La Lettonia “si vergognava” e si vergogna del suo passato nazista. Da qualche
anno i lettoni sottolineano la loro appartenenza all’Europa del Nord, cercando di
staccarsi il più possibile dal retaggio russo e di accodarsi ai paesi scandinavi. Sulla
scia dell’Estonia, molti lettoni vorrebbero dare impulso alla propria economia e
società annichilendo il passato sovietico. Prendono a modello la Finlandia e la
Svezia, della quale amano ricordare di aver fatto parte. Si tratta di un revisionismo
storico con una gerarchia delle dominazioni, bocciata quella russa, approvate
quella tedesca e quella svedese.
E facile farsi raccontare dei gulag e delle detenzioni in Siberia, luogo simbolo della
repressione stalinista, metafora della morte, zona indefinita dove si concentrò il
dolore di molti lettoni, estoni e lituani. Nessuno però vi parlerà della strage nazista
di Rumbula, bosco vicino a Riga nel quale in soli due giorni furono uccise circa
30.000 persone. Si tratta del 30 novembre e dell’8 dicembre 1941, in pieno
olocausto. Gli storici stimano che senza l’aiuto dei collaborazionisti lettoni ciò non
sarebbe stato possibile. Ciononostante negli anni successivi a tale enorme evento
non furono aperti dei veri e propri fascicoli per indagare e condannare i crimini di
guerra commessi dai lettoni contro gli stessi lettoni, principalmente ebrei e zingari.
Dopo la seconda guerra mondiale il gruppo delle SS lettoni fu generalmente
dichiarato illegale. Al processo di Norimberga, però, dei componenti della Legione
Lettone quasi non si parlò. Eppure furono promotori della Shoa, degni di condanna
quanto Eichmann o Goebbels.
Marina Jarre, nel suo libro Ritorno in Lettonia, è costretta a prendere atto della
“dimenticanza” del periodo nazista in Lettonia. Avrebbe avuto una salvifica funzione
antisovietica negli anni ’40 e poi non si sarebbe dovuto più ricordare dopo la caduta
del muro di Berlino, sminuirebbe il valore della Lettonia agli occhi dell’Unione
Europea e cancellerebbe dalla memoria l’infamia sovietica. Certo soffrì nel rendersi
conto che, davanti ad un comando, una torbiera, un gulag tedesco impiantato sul
suolo lettone nel 1943, certi operai lavoravano tranquilli senza curarsene, senza
conoscere il significato storico di quel luogo. La memoria selettiva sta rimuovendo,
giustamente, il lascito sovietico, anche grazie ad una grande opera di
sensibilizzazione pubblica. Non si può dire che lo stesso avvenga per quanto
riguarda l’epoca nazista. Infatti non solo non c’è più memoria dei rastrellamenti
nazisti, ma si guarda alla Germania come ad un modello da emulare, guida
dell’attuale Europa. Tanto che nel 1998 la Lettonia istituì una festa nazionale
(formalmente abolita nel 2000, ma continua de facto a svolgersi); il ricordo delle SS
lettoni, con tanto di parata ufficiale a Riga. Con stivaloni e croci uncinate, come si
confà ad una democrazia occidentale.
La Jarre racconta di come gli stessi turisti tedeschi si trovino a fare autocritica al
Museo dell’Occupazione, secondo molti di loro le informazioni riguardo agli anni
dell’occupazione nazista sono insufficienti. L’ex direttore del museo si disse
“perplesso di fronte a tali commenti” sottolineando che in ogni caso “è l’esperienza
del gulag il trauma dei lettoni”.
Quando, nel 2000, l’allora presidente della Lettonia Vaira Vike-Freiberga si trovò a
dover rendere conto della mancata richiesta di estradizione da parte del governo
lettone per Konrads Kalejs minimizzò. Disse che non c’erano tutte le prove
sufficienti per procedere. La realtà dimostra che le prove c’erano, ma che ci fu una
scelta governativa per fare calare il silenzio su un grande criminale di guerra,
accolto prima dagli Stati Uniti poi dall’Australia (divenne cittadino australiano nel
1957), morto comodamente nel suo letto a Melbourne. Nella sua ultima intervista
rilasciata in Australia ammette di essere stato uno dei promotori e degli esecutori
dell’Operazione Barbarossa svoltasi nei boschi di Rumbula e che portò alla morte
decine di migliaia di ebrei, zingari e oppositori politici lettoni.
Poco dopo il giornalista chiese perché la commemorazione delle Waffen SS a Riga
non fosse stata dichiarata illegale. Il presidente disse “Stiamo parlando di una città,
Riga, capitale di un paese che ha recuperato la sua democrazia e il diritto per tutti
di radunarsi, se ne chiedono l’autorizzazione”
Pare che a parlare dell’occupazione tedesca in Lettonia in maniera sana e calibrata
siano proprio i tedeschi, come Bernd Nielsen-Stokkeby nel suo Baltische
Erinnerungen. Tedesco baltico, mezzo estone, l’autore è animato da un forte
sentimento antisovietico, ma non minimizza sui numeri dell’olocausto nazista in
Lettonia, come fanno invece molti storici e giornalisti lettoni. Anche Andrew
Ezergailis, nel suo The Holocaust in Latvia, 1941-1944, fornisce dati e prove utili a
chi volesse vederci chiaro.
D’altra parte si sa che il primo passo per la tacita giustificazione di determinati
eventi storici passa proprio dalla minimizzazione del numero di morti. E stato fatto
per quanto riguarda l’olocausto in generale e in particolare in Lettonia. Ancora oggi
viene proposto come metodo di sminuimento della tragicità della storia dal
presidente Macrì in Argentina. I desaparecidos furono 30.000, ma lui sostiene che
furono solo 9.000 e che le nonne e le mamme di plaza de mayo vogliano
esagerare. Farabutte quelle, che ancora non sanno dove sono andati a finire i loro
figli e nipoti. Poi propone pene ridotte, con la legge del 2x1, e con varie buone
condotte per gli assassini della dittatura. I processi durano 30 o 40 anni, dando così
il tempo ai signori della guerra di invecchiare con serenità, senza fretta e, quasi
sempre, in maniera agiata.
I paesi “senza estradizione” (o che decidono di accogliere criminali di guerra senza
troppi problemi), che per altro molte volte, persi tra le lungaggini burocratiche e la
mancata voglia di giungere a un vero verdetto non viene nemmeno chiesta,
diventano le mete predilette di chi ha conti in sospeso con la giustizia nel
dopoguerra.
Così l’Australia, in un modo o nell'altro, divenne il paese dei “grandi” dell’olocausto
e delle dittature latino americane: Pinochet, Kalejs, Zenta, Goering, Goebbels,
Himmler.
Corsi e ricorsi storici, in occidente e in oriente.
Perché non ci si deve accanire contro nessuno, nemmeno contro i criminali di
guerra.
Zarismo, comunismo e transizione post-sovietica: da dove vengono
e dove vanno i paesi baltici?
I paesi baltici hanno in comune una caratteristica fondamentale: la complessità. Queste tre
piccole repubbliche, nate nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, condividono
una storia tragica, costituita da molti elementi intrecciati tra loro, ma anche da peculiarità
che le rendono uniche. La Lettonia è il paese maggiormente sovietizzato dei tre e vantò
addirittura due piccole colonie ai tempi della “Grande Curlandia”, potenza navale
secentesca ispirata al modello olandese; la Lituania è la nazione che ha risentito di più
dell’influenza della vicina Polonia e della religione cattolica, nonché quella che ebbe il
granducato più esteso; l’Estonia il paese più vicino alla Scandinavia, sia geograficamente
sia per quanto riguarda la lingua, la cultura e l’economia. Le tre capitali, Vilnius, Riga e
Tallin sono molto diverse tra loro, ma fanno emergere tutte un carattere comune: la
ricchezza della storia del “secolo breve”, colmo di sfaccettature e problematiche ancora
vive nel cuore e nella pelle degli abitanti di queste zone. Condividono infatti alcuni tratti: la
scomparsa della comunità ebraica, l’occupazione nazista ed il collaborazionismo, il lungo
periodo sovietico e gli incerti esiti della transizione capitalista; ma anche la peculiarità
linguistica, l’attaccamento alla natura che si esprime attraverso le “religioni dei boschi”, la
crisi identitaria post-sovietica che provoca un interesse verso il proprio idioma, dall’origine
unica e la diffusione estremamente minoritaria (uno o due milioni per lingua), nonché
l’attaccamento ai balli tipici ed al “canto dei boschi”, mediante il quale questi popoli
esprimono la propria indipendenza ed unicità.
L’aspetto della sovietizzazione, con tutte le implicazioni che comporta, è il più noto, il più
studiato ed il più criticato. Ciò non toglie che l’analisi degli effetti culturali, linguistici,
religiosi e socio-economici del lascito russo-sovietico sia il punto da cui partire, il nodo
fondamentale per comprendere il passato ed il presente di questi popoli. Questo non solo
per la sua lunga durata, ma soprattutto in quanto è ciò che maggiormente lega i paesi
baltici: uniti nelle guerre d’indipendenza scaturite in seguito alla rivoluzione bolscevica che
pose fine alla dinastia dei Romanov; nel 1939, anno del patto Molotov-Ribbentrop che
comportò l’annessione all’URSS di Estonia, Lettonia e Lituania in modo da ripristinare i
confini del vecchio Impero Russo, ma anche momento in cui Hitler ordinò il rimpatrio in
Germania o in Polonia Occidentale (nuova colonia tedesca secondo il “patto di non
aggressione”) dei baroni baltico-tedeschi, retaggio dello zarismo e dell’odiata nobiltà
feudale, già fortemente indebolita dalla cosiddetta “domenica di sangue” del 1905 e dalla
nazionalizzazione delle terre successiva alla prima guerra mondiale; negli anni 1941-1945,
durante l’occupazione nazista, da molti considerata una “liberazione” dal nemico sovietico;
nel marzo 1949, quando in conseguenza della “direttiva del Consiglio dei ministri nr. 390-
139 viene dato incarico al Ministero per la sicurezza nazionale di inviare da Lituania,
Lettonia ed Estonia (…) kulaki, nazionalisti, banditi e loro sostenitori con le famiglie in
luoghi speciali di detenzione” in Siberia; nel 1956, davanti alla distruzione del culto di
Stalin voluta da Cruščëv al ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione
Sovietica; nel 1968, vivendo la grande frustrazione del non poter partecipare ai moti
studenteschi e libertari dell’occidente, costretti a guardare impotenti la “primavera di
Praga” e la protesta-suicidio di Jan Palach; negli anni del glasnost e
della perestrojka (1985-1991), della “demonopolizzazione della verità” e della
“riabilitazione della dissidenza”, ma soprattutto in occasione della “rivoluzione cantata” che
coinvolse i cittadini baltici in una catena umana “anti-russa” lunga centinaia di chilometri e
che li avrebbe portati velocemente all’indipendenza (certo preceduta dal movimento per la
liberazione polacco di Lec Walesa e dal “Gruppo di Helsinki”); infine, nel 2004, con la
scelta di entrare nell’Unione Europea e nella NATO e nel 2014 con l’ingresso nell’EURO,
lasciandosi alle spalle il passato socialista per puntare interamente sul capitalismo
neoliberista, con tutte le contraddizioni che ciò implica.
Il testo Anime Baltiche si apre proprio con il peso dell’eredità sovietica, forse perché
comincia con la Lettonia, che conta ancora oggi alte percentuali di russofoni, soprattutto a
Riga e nella regione orientale del Latgale, a Rēzekne, dove il lettone ed il russo si dividono
equamente, ed ancor più a Daugavpils, dove la minoranza diventa maggioranza, fino a
conquistarsi l’epiteto di Маленькая Россия (Piccola Russia). Fu qui che, nell’estate del
1812, Napoleone cercò di abbattere la grande fortezza dell’Impero Russo, importante via
di comunicazione tra San Pietroburgo, capitale a quel tempo, e Riga. Ancora oggi è
possibile assistere alla ricostruzione della celebre battaglia, con molti soldati, pronti a
difendere le mura nel vallone davanti alla fortezza e diversi cavalieri e arcieri, intenti ad
attaccare dalla cima della piccola collina. Si tratta di una ricostruzione molto ben fatta, che
ci riporta ad una Lettonia inclusa nello Zarismo, ma anche nel delirio di onnipotenza
napoleonico, per il quale la Russia fu il sogno più grande e la disfatta definitiva; in un’ironia
della sorte per la quale i russi sognavano la Francia e, come Tolstoj, non perdevano
occasione di mostrare la loro padronanza della principale lingua europea dell’epoca,
mentre i francesi vedevano nella conquista dell’Impero orientale la vittoria definitiva nella
grande battaglia globale dell’imposizione militare, economica e culturale.
Queste due grandi potenze si sono sempre guardate con rispetto, ammirazione e
fratellanza, infatti oggi, se un russo deve andare in Europa, il primo Paese a cui pensa è la
Francia; ma anche con timore e distacco, soprattutto in quei momenti di scontro frontale,
che però non hanno mai impedito un’intesa letteraria e linguistica importante, dalla storia,
forse leggendaria, del termine “bistrot”, che verrebbe dal russo быстро (bistra), cioé
veloce, fino alla condivisione di vocaboli quali douche, étage, chauffeur. Nell’arsenale della
fortezza si trova il museo Mark Rothko, descritto con maestria da Brokken, che fa davvero
venire voglia di andarci; più che altro per immergersi nell’atmosfera di Dvinsk, come si
chiamava la città ai tempi in cui ci viveva il giovane pittore (che si è sempre definito russo),
prima che diventasse Daugavpils, “Castello della Daugava” in lettone. Desiderio per
inespresso, anche se devo ammettere che, quando mi trovai di passaggio a Daugavpils,
proprio nel giorno della commemorazione delle guerre napoleoniche, il mio interesse si
focalizzò maggiormente me ancora sui palazzoni sovietici dismessi, nei quali entrai, forse
in maniera non del tutto legale, per il semplice gusto di curiosare, oppure sulle persone
vestite da soldati francesi con cavalli, spade, parrucche, baionette.
Infine, passeggiando, mi ritrovai in un bel mercatino, dove mi innamorai subito di un
portachiavi in ferro di epoca sovietica, con la falce e il martello poste sopra la scritta
ветеран труда (veterano del lavoro). Costava un euro e, vedendomi senza monete, me lo
regalò la direttrice del teatro Yorik di Rēzekne, forse in segno di amicizia per aver sempre
mostrato interesse per le attività che proponeva, per aver preso parte ad un viaggio
formativo al festival teatrale di Suwalki in Polonia, per la curiosità e la passione con cui
cercavo di imparare il russo, oppure, più probabilmente, per semplice simpatia.
Un altro ricordo che ho di Daugavpils è la grande chiesa ortodossa azzurra, con le sue
luminosissime cupolette allungate dorate. Un simbolo del cristianesimo di matrice russa, in
una città che, ancora oggi, è il simbolo della russofonia nei paesi baltici e che si distingue
per essere una grande scuola di questa lingua, frequentata da molti europei e americani.
Questa voglia di comprendere quale fosse l’importanza del lascito sovietico non mi ha mai
lasciato, portandomi a lunghe discussioni con diverse persone, oltre che alla necessità di
comprendere in maniera concreta quale sia la differenza tra questi paesi oggi e ieri. Per
farlo ci sono diverse maniere e, fatta eccezione per l’Estonia, che da qualche anno offre,
non appena si varca la frontiera, una sensazione “altra” rispetto alle sorelle Lettonia e
Lituania (pur se ne condivide i tratti fondamentali della storia dei “Governatorati baltici”,
inclusi nell’Impero Zarista e, successivamente, del “secolo breve” o, come preferisco
chiamarlo in questo contesto, “secolo nazi-sovietico”), altrove quasi ogni luogo è buono.
Scelgo, in maniera arbitraria -ma non troppo- la cittadina in cui abitavo, Rēzekne, per
trattare questo tema.
Inutile dire che non ne sentirete parlare in nessun libro, articolo o film, perché, come disse
un mio amico francese che mi venne a trovare, “qua siamo davvero ai confini del mondo”.
Rēzekne è l’ultima cittadina dell’Unione Europea prima della frontiera russa. Situata tra
Riga e Mosca, in epoca sovietica era uno snodo commerciale e ferroviario piuttosto
importante, oggi un’estrema periferia di un’Europa che fatica a concepirsi e riconoscersi
come tale. Un paesone di qualche decina di miglia di abitanti, molti meno di quelli
ufficialmente censiti vista l’enorme emigrazione, che però ha una propria università, due
centri culturali, un teatro ed alcune associazioni finanziate dall’UE. Qui le attività ricreative
sono poche: andare in bici, passeggiare nei boschi fino a raggiungere Anchupane e salire
sulla torre di legno alta trenta metri per godersi il panorama, entrare in vecchi edifici
cadenti e inattivi che mostrano la ferita della dissoluzione dell’URSS per queste zone. Il
primo mese e mezzo di vita a Rēzekne lo passai nella periferia nord, dopo il cavalcavia, in
un grande palazzone davanti al Maxima, supermercato lituano diffuso nei paesi baltici e
tristemente noto per un crollo che portò alla morte di 54 persone, per il quale, molti anni
dopo, nel 2020, c’è stato un solo condannato, assolti tutti gli altri. Questa storia è nota
come la tragedia di Zolitūde, dal nome del quartiere della capitale lettone in cui si consumò
il disastro. Accanto a questo supermarket c’è un enorme edificio cadente, nel quale,
nonostante il rischio conclamato, decisi di entrare con Aaron, un amico irlandese in visita
da me. Le scale danno sul nulla, le scritte coprono tutto, il terreno è pieno di terra,
sporcizia e cacche di uccelli; i piccioni hanno fatto il nido in quel che resta dell’Unione
Sovietica, mentre i giovani, senza prospettive, infatuati d’occidente, cercano casa altrove.
Qui dei rapper della zona, tra le crepe che si aprono nei muri ed il parcheggio davanti al
Maxima, hanno girato il video di una canzone in russo, della quale non conosco o non
ricordo né il titolo né il contenuto, ma credo parli di giovantù bruciate e alcol. E se pensate
che sia un luogo comune, basta farsi un giro da queste parti per notare che l’alcolismo,
sotto Mosca come sotto Bruxelles, rimane una piaga immensa, una sorta di mesto trait
d’union tra quelle due Unioni, pur così diverse tra loro.
Nei miei numerosi viaggi a Riga scoprii un altro aspetto della Lettonia: la belle époque. Tra
la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Riga, terza città dell’Impero Russo dopo
Mosca e Leningrado, era una capitale cosmopolita, poliglotta e multiculturale. Un gioiello
liberty, adesso nuovamente godibile dopo le ricostruzioni di fine anni ’90 primi 2000, nelle
vie Alberta Iela, Elizabetes Iela e limitrofe, dove questa piccola metropoli sembra voler
rivaleggiare con Parigi, Bruxelles e Vienna. In effetti la capitale lettone, grazie alla mano
di Michail Ėjzenštejn, è la città con la maggiore concentrazioni di edifici Art Nouveau al
mondo. Accostati a case in legno e palazzoni sovietici molto numerosi, tali costruzioni ci
riportano agli splendori di una belle époque che questa nazione, da quel momento in poi,
non ha più vissuto. Insomma una Lettonia pre-nazista e pre-sovietica della quale non si
parla molto, pur essendo ricca di fascino e interesse storico-culturale.
“Lo Jugendstil fu il canto del cigno della borghesia. Mentre passeggio per il quartiere art
nouveau di Riga, mi viene continuamente da pensare al rammarico del compositore Erik
Satie “Sono un uomo molto giovane in un mondo molto vecchio”. In quel mondo molto
vecchio la borghesia rispolverava per l’ultima volta i simboli della civiltà occidentale, con
uno sfarzo infinito ma senza lo slancio della giovinezza e del rinnovamento” (Jan
Brokken, Anime Baltiche, 2009)
Dopo il canto del cigno della belle époque, valido anche “oltre cortina” (cioè in Europa
Occidentale), dove si susseguirono due guerre mondiali e il nazi-fascismo, la storia, in
quest’angolo d’Europa, prosegue con l’età sovietica, intervallata dal tragico periodo
nazista.
Un altro punto fondamentale della sovietizzazione fu la questione della lingua, molto
dibattuta anche in epoca capitalista. Nel 1959, a causa della russificazione imposta nei
diversi ambiti di vita, fu sospesa l’obbligatorietà del lettone nelle scuole, anche se questa
lingua (ma anche l’estone ed il lituano) non sarà mai annichilita del tutto, ma convivrà a
fianco del russo fino al 1991 e dopo. Ancora oggi la questione linguistica è importante, i
russofoni infatti, nelle due repubbliche più a nord, rappresentano una grande minoranza
(mai ossimoro fu più vero di questo) che mostra, da un lato, un atteggiamento (più o meno
velato a seconda dei casi) di “apertura” verso il passato sovietico e l’attuale situazione
politica russa, dall’altro non ha il minimo interesse riguardo problematiche sociali, ma si
caratterizza solo per l’utilizzo del russo come idioma veicolare, di uso quotidiano, in
famiglia e sul luogo di lavoro. Far coincidere la lingua russa nei paesi baltici con un
determinato atteggiamento politico è molto pericoloso, estremamente banalizzante e
fuorviante a causa delle diverse interpretazioni, spesso contradditorie fra loro, che
possono essere date; lo posso garantire, avendo conosciuto russofoni culturalmente e
socialmente più vicini alla Russia e altri maggiormente legati ai valori dell’Unione, ed
avendo anche notato un graduale avvicinamento tra le due comunità, pur se ancora non
privo di contrasti. Non si può negare che la russificazione linguistica rappresenti uno tra i
maggiori problemi della transizione in atto, tuttavia, se nel 1959 fu sospesa l’obbligatorietà
del lettone nelle scuole, dal 2004 sono state soppresse le scuole dove si insegnava solo il
russo e dalla fine del 2018 è ufficialmente iniziato, nonostante le proteste di buona parte
della popolazione, lo “smantellamento” della lingua russa in scuole e università, la “vecchia
lingua sovietica” verrà portata avanti solo da chi la ha già iniziata, per il resto è previsto un
potenziamento dell’inglese, la “nuova lingua liberale”.
Così, circa 300.000 lettoni ex-sovietici (ma anche 85.000 estoni con il “passaporto grigio”),
dopo il collasso dell’URSS, si trovarono ad essere “non cittadini”: sono i cosiddetti
“nepilson”, ossia tecnicamente apolidi dal 1991.
Si tratta di persone di lingua russa che, sulla base di una non conoscenza della lingua e
della storia lettone (o estone), vengono private dal governo di una cittadinanza definita,
quindi impossibilitate a muoversi nell’area Schengen come i propri “connazionali” lettoni ed
europei, ma conservano forti legami con la Russia, dove possono recarsi senza bisogno di
visto. Tale imbarazzante problema mostra da un lato come la forza e la pervasività della
“vecchia unione” sia ancora molto forte, ma anche i limiti e le fragilità della “nuova unione”.
Il punto centrale di questo problema è proprio la questione linguistica, il difficile rapporto
tra russofoni e non, che, pur nell’impossibilità di irrigidire le definizioni, mostra, almeno in
parte, una differente concezione di se stessi e del mondo, anche se, come disse
giustamente una signora che intervistai a Rēzekne, “è difficile agire su queste situazioni
con i mezzi attuali, perché prima eravamo tutti parte di un grande progetto e di una grande
nazione: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Occorre tuttavia dire che,
grazie alla risoluzione parlamentare del 17 ottobre 2019, secondo la quale i figli dei
“nepilson” saranno automaticamente lettoni, quindi ordinari cittadini dell’Unione Europea,
tale problema appare già parzialmente risolto, segno che quell’integrazione all’occidente,
voluta con l’ingresso nell’UE, nella NATO e nell’EURO, è avvenuta, mostrando un rapido
passaggio, ancora in fieri e colmo di dubbi e interrogativi, dalla sovietizzazione
all’europeizzazione. Lo stesso si può dire riguardo l’apertura del museo del KGB nel 2014
e degli archivi segreti del KGB un anno fa, simboli di un passato che non può più essere
nascosto, ma, dopo essere affrontato, deve essere reso pubblico, cercando un equilibrio
tra la condanna degli errori commessi e la critica dei limiti e dei problemi insiti nel nuovo
sistema.
Ancora oggi il rapporto tra iniziativa privata e garanzia pubblica, libertà e controllo nel
paragone tra sistema socialista sovietico e capitalismo neoliberale europeo, si presenta
come un problema irrisolto o quantomeno estremamente controverso dal punto di vista
socio-economico e religioso-identitario. Gli abitanti di queste zone adorano le libertà postsovietiche, ma molto spesso si trovano troppo sguarniti da un punto di vista economico per
poterne godere, infatti, come disse un signore che intervistai “prima potevi avere tanti
soldi, ma non c’era nulla da comprare. Oggi puoi comprare qualsiasi cosa, ma non hai i
soldi per farlo”. (Bernardo Bertenasco, Generazione sovietica e generazione europea a
confronto, 2017)
I cittadini baltici soffrono di un senso di insicurezza circa il futuro, sono delusi dalle
grandissime differenze sociali del capitalismo e dai costi esorbitanti di servizi prima
pubblici, che nella neolingua del liberismo economico chiamano “gratuiti”, come
l’abitazione – in Unione Sovietica non esisteva il “mercato immobiliare” -, la telefonia –
nessuna “offerta”a pagamento -, l’istruzione – prima del 1917 nell’Impero Zarista il 90%
della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, in epoca comunista l’analfabetismo
fu eliminato – e le cure mediche affidate alla sanità pubblica, che adesso, con l’apertura al
“mercato”, si caratterizza sempre più per la “aziendalizzazione degli ospedali”; tale sistema
sanitario pubblico si rivelò, stando ai dati forniti, efficace nel contenimento delle epidemie
di difterire in epoca sovietica, molto meno in quelle diffusesi in seguito negli stati liberali
post-sovietici. Tuttavia è indubbio che le persone di questi paesi sono contente delle
libertà ritrovate ed uno dei mezzi con cui lo mostrano di più è la religione.
L’ateismo di stato, imposto dal razionalismo scientista sovietico, piegò le coscienze dei
lettoni e degli estoni, ma ancor di più dei polacchi e dei lituani, fortemente cattolici; i primi,
promotori del movimento di liberazione di ispirazione religiosa Solidarność molto vicino a
Papa Wojtyła, i secondi, che hanno fatto della croce il loro simbolo nazionale. L’attacco
alla religione, rivolto a ebrei, cattolici, ortodossi e luterani, ma anche sciamani, musulmani
e buddisti sul suolo russo, ha creato un grande revival religioso dopo la caduta del muro di
Berlino: oggi in europa occidentale viviamo nel mondo post-religioso, in europa orientale in
quello post-ateo.
Il significato della religione in questi luoghi è molto forte, ma possiede delle differenze
significative a seconda del paese.
“Cattolici, ortodossi, luterani, neocatecumenali, sciamani e pagani. L’importante è credere.
Per opporsi al passato scientifico e rigoroso del comunismo, per trovare un’identità
nazionale, per distinguersi, per curiosità, per novità. A Gesù, alle divinità della natura,
all’ignoto, al piacere di ballare insieme senza porsi troppe domande.
Così rinasce la Dievturiba, una sorta di politeismo pagano pre-cristiano diffuso in Lettonia
e Lituania. Le due repubbliche baltiche, a differenza dell’Estonia che sembra aver chiuso
la propria partita con la religione, hanno visto rinascere le proprie tradizioni popolari dagli
anni ’90 in poi. Entrambi paesi caratterizzati da una forte presenza della natura ed una
scarsa popolazione si sono da sempre rivolti alle divinità “del bosco”. Al cielo, alla terra,
all’acqua. Molto tardi e senza troppa convinzione al culto cristiano, insediatosi stabilmente
solo nel XIII secolo, facendo di quest’area l’ultima ad essere stata cristianizzata in
Europa. Ma mai del tutto diffusosi, prima a causa della non conoscenza del latino dei
popoli locali, poi per imposizione del Cremlino, infine per resistenza pagana al
cristianesimo.” (Bernardo Bertenasco, Il ruolo della religione nei paesi post-sovietici, 2017)
Tutti e tre i paesi, Estonia in primis, ma seguita molto da vicino da Lettonia e Lituania,
sono caratterizzati da una grande presenza di foreste, tanto da favorire, oltre al ritorno alle
diverse confessioni cristiane, la divinizzazione della natura (parzialmente riscontrabile
anche nella “atea Estonia”); infatti, come diceva Mircea Eliade, “the manifestation of the
sacred in a stone or a tree is neither less mysterious nor less noble than its manifestation
in a ‘god’.” (Andrei Znamenski, The beauty of the Primitive. Shamanism and western
imagination, 2007)
La spinta verso il panteismo è molto forte in paesi nei quali il rapporto con la natura è
essenziale, libero e diretto; dove fiumi, laghi e boschi occupano la metà dell’estensione
nazionale e nei quali molte tradizioni popolari, come quella del ballo e dei canti, ma anche
del solstizio d’estate, si svolgono all’aperto. Il 21 giugno, il nostro San Giovanni, in Lettonia
è Jānis (nome maschile maggiormente diffuso in questo paese) ed è una festa
fondamentale.
“Questi in Lettonia sono giorni importanti. Si celebra Janis, la festa pagana della rinascita
della natura, il solstizio d’estate che rompe la monotonia dell’inverno. Si rievocano
tradizioni antichissime: le corone di fiori sulla testa delle donne, il salto del fuoco, la
riattualizzazione dei culti magici e agrari della mitologia lettone.
Il pantheon baltico rivive. La palingenesi vegetale e animale è anche e soprattutto umana.
Si distrugge e si ricrea, senza sensi di colpa cristiani, senza rimorsi, senza riserve. Si
celebra la fine della neve, delle piogge, dei ghiacci che a volte sembrano perenni. E lo si fa
con tanta birra, facendo il bagno nel lago o nel fiume, restando svegli tutta la notte per
ammirare l’alba alle 3 del mattino.
Le notti bianche, le albe rosa, i giorni infiniti. (…)
La spiritualità lettone è composta da tanti simboli geometrici che rappresentano il sole, la
pioggia o la terra. Ad esempio la svastica possiede un significato completamente diverso
da quello occidentale; qua è un simbolo di virilità, fuoco, forza. La si regala ai ragazzi in
segno di rispetto o amicizia. Il serpente invece è un segno femminile, simboleggia la
saggezza. C’è poi il simbolo principe, il Laima, la divinità del destino. Infine vi è la
sconfinata simbologia legata alla fertilità, per la quale vi sono svariati segni che ricordano
l’inscindibile legame con la campagna e l’agricoltura, principalmente di sussistenza”
(Bernardo Bertenasco, Ovunque tu sia, 2019).
Esiste un deus sive natura, un profondo “sentire politeista, neo-pagano, ambientalista” del
pantheon baltico; tuttavia non si può non tenere conto dell’importanza del cattolicesimo,
del luteranesimo e del cristianesimo ortodosso, ma ancor di più della tragica storia
dell’ebraismo, oggi quasi scomparso, messa in luce molto bene nel capitolo di Anime
Baltiche sulla Lituania, ossia su quando Vilnius, città stupenda che visitai in un inizio di
primavera estremamente mite e soleggiato, era chiamata Vilné in yiddish.
Nel 1914 metà della popolazione di Vilnius era di origine ebraica. L’eccidio fu grandissimo
ed il piano diabolico di Hitler funzionò: oggi rimangono pochi ricordi e qualche edificio; ma
le persone non ci sono più e senza di loro la cultura muore, privata del patrimonio più
grande, la vita. Vilnius era chiamata “Gerusalemme del nord”, ma adesso per
comprenderlo occorre saperlo e ricercarne ossessivamente le tracce: la Lituania odierna è
un paese molto cattolico, simile alla Polonia nella sua dinamica religiosa post-sovietica.
I lituani oggi ce la stanno mettendo tutta per progredire dal punto di vista economico e per
adeguarsi alle richieste culturali dell’europa unita, l’inglese supera il russo, il marketing e
l’economia superano la letteratura, la storia e la filosofia; il rischio insito dell’adeguamento
cuturale all’occidente però, non è solo quello della nascita oppositiva dei “nazionalismi
identitari”, ma anche quello della “dimenticanza storica”, ovvero della mancanza di
consapevolezza circa il proprio passato o dell’occultazione, ideologica o no, di una parte di
questo.
Infatti qui, come in Lettonia ed Estonia, l’eccidio non sarebbe avvenuto senza l’ausilio dei
collaborazionisti locali. Di questo parla giustamente Rikken nel suo capitolo sulla “Lituania
dimenticata” e lo fa Pipino nel suo articolo storico-politico su questo paese.
“La sinagoga più grande era la più grande del mondo, e accogliava tremila fedeli. Delle
cento sinagoghe, o “scole”, novantanove sono state incendiate, bombardate, rase al suolo,
fatte a pezzi o, nel migliore dei casi, demolite (…) Il cuore pulsante di Vilnius, il ghetto
ebraico, è stato amputato dalla città. Quello che resta non è che una mummia risistemata
ad arte. Vilnius porta tanti nomi quanti sono i padroni che si sono avvicendati nella sua
dolorosa storia: Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilnius in russo, Vilné o Wilne in
yiddish, Vilnius in Lituano” (Jan Brokken, Anime Baltiche, 2009)
Così, continua Pipino, “Capire cosa rimane della shoah nella coscienza collettiva della
Lituania odierna non è facile. Un libro in particolare, Mūsiškiai (I nostri) della giornalista
Ruta Vanagaite, ha contribuito ad aprire il dibattito sullo sterminio degli ebrei, facendo luce
sull’antisemitismo precedente all’occupazione tedesca e sulla partecipazione della
popolazione locale ai massacri compiuti tra il 1941 e il 1944 (…) Il suo lavoro ha
comunque toccato un nervo scoperto.
“Il senso di colpa è un sentimento complicato da elaborare e da esprimere”, riconosce
Vaidas Saldžiūnas, giornalista del sito d’informazione Delfi, attivo in tutti e tre i paesi
baltici. Le responsabilità furono essenzialmente personali, ma riguardarono diverse
migliaia di persone, molte di più di quanto si è creduto per decenni. E nessun colpevole è
mai stato punito. Tra i lituani c’è ancora una certa ritrosia ad accettare che i loro antenati
siano stati colpevoli di simili atrocità. Si cercano scuse, argomenti e alibi che possano
essere usati per scagionare o giustificare i collaborazionisti, che si schierarono con i
tedeschi anche in funzione antisovietica (…) Un altro ostacolo al riconoscimento
dell’unicità della shoah è la tendenza, anche istituzionale, a equiparare le sofferenze patite
dai lituani per mano dei sovietici – deportazioni nel gulag, esecuzioni – allo sterminio degli
ebrei. Raccontare l’occupazione sovietica come genocidio lituano, come fa il più grande
museo storico della città, ospitato nell’ex sede del Kgb, non fa che confondere le cose e
alimentare l’equivoco” (Andrea Pipino, Breve guida alla scoperta della Lituania, 2019)
Anche l’Estonia pagò il suo debito con il nazismo, il 19 settembre 1944, mentre l’Armata
Rossa avanzava velocemente verso ovest, il campo di concentramento di Klooga fu
liquidato in un solo giorno. Inutile dire che, anche qua, senza l’aiuto dei collaborazionisti,
questo eccidio non si sarebbe potuto avverare; eppure avvenne, a pochi chilometri dalla
capitale Tallin, come fu per Vilnius e Riga. Vennero uccise circa 2000 persone e, il 24
settembre 1944, ci fu la liberazione per mano sovietica, che diede inizio così a quella che
per alcuni fu la libertà dall’oppressore nazista, per altri l’occupazione russo-sovietica.
A Riga avvenne lo stesso, si consumò un eccidio a pochi chilometri dalla città. Scrivono
benissimo al riguardo Andrew Ezergailis, nel suo The Holocaust in Latvia, 1941-1944
e Marina Jarre in Ritorno in Lettonia. L’autrice, italo-lettone di origini ebraiche e valdesi,
visse quasi tutta la sua vita a Torino, dopo essere fuggita dalla Lettonia all’età di nove
anni. Negli anni ’90, in piena transizione democratica, decide di tornare dove nacque e
scopre l’enorme dimenticanza del periodo nazista in questi luoghi piegati dalla lunga
sovietizzazione imposta.
“È facile farsi raccontare dei gulag e delle detenzioni in Siberia, luogo simbolo della
repressione stalinista, metafora della morte, zona indefinita dove si concentrò il dolore di
molti lettoni, estoni e lituani. Nessuno però vi parlerà della strage nazista di Rumbula,
bosco vicino a Riga nel quale in soli due giorni furono uccise circa 30.000 persone. Si
tratta del 30 novembre e dell’8 dicembre 1941, in pieno olocausto. Gli storici stimano che
senza l’aiuto dei collaborazionisti lettoni ciò non sarebbe stato possibile (…)
Marina Jarre, nel suo libro Ritorno in Lettonia, è costretta a prendere atto della
“dimenticanza” del periodo nazista in Lettonia. Avrebbe avuto una salvifica funzione
antisovietica negli anni ’40 e poi non si sarebbe dovuto più ricordare dopo la caduta del
muro di Berlino, sminuirebbe il valore della Lettonia agli occhi dell’Unione Europea e
cancellerebbe dalla memoria l’infamia sovietica (…)
La Jarre racconta di come gli stessi turisti tedeschi si trovino a fare autocritica al Museo
dell’Occupazione, secondo molti di loro le informazioni riguardo agli anni dell’occupazione
nazista sono insufficienti. L’ex direttore del museo si disse “perplesso di fronte a tali
commenti” sottolineando che in ogni caso “è l’esperienza del gulag il trauma dei lettoni”
(Bernardo Bertenasco, Le ferite aperte della Lettonia con il nazismo, 2017)
Per concludere, l’uso dell’espressione “secolo nazi-sovietico” è quindi da intendersi
tenendo in conto la “dimenticanza” delle ferite naziste nei paesi baltici, in una sorta di
revisionismo storico con una gerarchia delle dominazioni che mostra una grande
coscienza critica relativa alla russificazione a fronte di una memoria quasi nulla riguardo il
collaborazionismo in Estonia, Lettonia e Lituania: niente a che vedere con l’astorica norma
dell’Unione Europea del 2019 che ha parificato nazismo e Unione Sovietica. Per quanto
concerne invece il futuro di questi paesi in piena transizione post-sovietica, come abbiamo
visto ancora in atto da tanti punti di vista; identitario, economico, religioso, linguistico e
normativo tra gli altri, è certamente difficile fare pronostici, soprattutto alla luce di quel
conflitto aperto tra “libertà post-comuniste” amate dal popolo ed impossibilità a renderle
effettive a causa di un’economia di mercato in “crisi perenne”, appesantita dall’adozione
della moneta unica e dalla stagnazione dei salari, bloccati a poche centinaia di euro
mentre il costo della vita continua a crescere, ma anche per quel difficile e non sempre
voluto adeguamento culturale ai valori dell’occidente (individualismo, consumismo,
anglofonia, agnosticismo…); lo stesso che sta continuando a diffondere i “nazionalismi
identitari” in tutto l’est-Europa. Ma forse la crisi del coronavirus in atto porterà ad una
rivincita del welfare, della redistribuzione del reddito e della sanità e istruzione pubbliche di
livello. Insomma, la via post-sovietica non sarà necessariamente neoliberale, nazionalista
o europeista che sia, ma, perché no, rivolta più oltre il Mar Baltico che oltre oceano,
mirando alla creazione di una social-democrazia illuminata secondo il modello “nordico”,
come gli stessi cittadini baltici amano definirsi, più che ad un capitalismo della
disuguaglianza in stile americano.