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Il Levante mediterraneo a cavallo tra due secoli

2018, Il Mediterraneo Ottomano tra Ottocento e Novecento. Crisi ed evoluzioni

Dal 1516 fino alla fine della prima guerra mondiale, la regione del Vicino Oriente, con gradazioni, storie e assetti differenti, ricadeva sotto il dominio dell'Impero Ottomano 1 , costituendone il cuore delle province arabe; si estendeva, sul versante interno, intorno alle città di Aleppo, Damasco e Gerusalemme fino a comprendere, sulla costa, Jaffa, Acri, Haifa e Beirut. In questa regione del Mediterraneo orientale si sviluppò, fin dai primi decenni del dominio ottomano, un sistema di autonomie molto più profondo rispetto alle altre zone dell'Impero soprattutto grazie alla considerevole lontananza geografica dal centro. Per grande parte del XIX secolo e fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, la regione fu divisa in vilayet e mutassarifat: l'attuale Siria era divisa tra il vilayet di Aleppo e quello di Damasco (detto anche di Siria) 2 ; a partire dal 1861 venne creato il mutassarifat del Monte Libano 3 caratterizzato da una tra le più forti forme di autonomia sotto l'Impero ottomano e di fondamentale importanza poiché sarà una delle regioni in cui maggiormente e più palesemente si mostreranno le contraddizioni e i dilemmi dell'impero e del suo rapporto con le potenze europee; infine, Gerusalemme divenne a metà del XIX secolo un sangiaccato del vilayet siriano per trasformarsi, verso la fine del secolo, in ragione della sua importanza religiosa, anch'esso in un mutassarifat con rapporti diretti con Costantinopoli 4 . Nel 1888, inoltre, Beirut e la zona costiera circostante fino a quel momento ricompresa nel vilayet della Siria, costituirono un nuovo vilayet separato da quello siriano in ragione dell'importanza che questa zona aveva ormai assunto per l'Impero soprattutto dal punto di vista commerciale.

A. Roberta La Fortezza Il Levante mediterraneo a cavallo tra due secoli: nazionalismo arabo, resistenze imperiali ottomane e interessi europei Dal 1516 fino alla fine della prima guerra mondiale, la regione del Vicino Oriente, con gradazioni, storie e assetti differenti, ricadeva sotto il dominio dell’Impero Ottomano 1, costituendone il cuore delle province arabe; si estendeva, sul versante interno, intorno alle città di Aleppo, Damasco e Gerusalemme fino a comprendere, sulla costa, Jaffa, Acri, Haifa e Beirut. In questa regione del Mediterraneo orientale si sviluppò, fin dai primi decenni del dominio ottomano, un sistema di autonomie molto più profondo rispetto alle altre zone dell’Impero soprattutto grazie alla considerevole lontananza geografica dal centro. Per grande parte del XIX secolo e fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, la regione fu divisa in vilayet e mutassarifat: l’attuale Siria era divisa tra il vilayet di Aleppo e quello di Damasco (detto anche di Siria) 2; a partire dal 1861 venne creato il mutassarifat del Monte Libano 3 caratterizzato da una tra le più forti forme di autonomia sotto l’Impero ottomano e di fondamentale importanza poiché sarà una delle regioni in cui maggiormente e più palesemente si mostreranno le contraddizioni e i dilemmi dell’impero e del suo rapporto con le potenze europee; infine, Gerusalemme divenne a metà del XIX secolo un sangiaccato del vilayet siriano per trasformarsi, verso la fine del secolo, in ragione della sua importanza religiosa, anch’esso in un mutassarifat con rapporti diretti con Costantinopoli4. Nel 1888, inoltre, Beirut e la zona costiera circostante fino a quel momento ricompresa nel vilayet della Siria, costituirono un nuovo vilayet separato da quello siriano in ragione dell’importanza che questa zona aveva ormai assunto per l’Impero soprattutto dal punto di vista commerciale. 1 Con riferimento alla storia degli arabi nel periodo ottomano v., tra i tanti, B. Masters, The Arabs of the Ottoman Empire, 1516-1918: A Social and Cultural History, Cambridge University Press, Cambridge, 2013; H. Laurens, Les crises d’Orient. Question d’Orient et Grand Jeu (1768 – 1914), Fayard, Parigi, 2017; O. Bouquet, P. Petriat e P. Vermeren, Histoire du Moyen-Orient de l’empire ottoman à nos jours, Publications de la Sorbonne, Parigi, 2015; E. W. Anderson e W. B, Fisher, The Middle East : Geography and Geopolitics, Psychology Press, Londra, 2000 ; A. Hourani, Storia dei popoli arabi. Da Maometto ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 2017; E: Rogan, Gli arabi, Bompiani, Milano, 2016; A. R. Abu-Husayn, Provincial Leadership in Syria, 1575-1650, American University in Beirut Press, Beirut, 1985; B. Masters, The 1850 Events in Aleppo: An Aftershock of Syria’s Incorporation into the Capitalist Wordl System, in “International Journal of Middle East Studies”, n. 22, 1990. 2 Con riferimento alla storia della provincia siriana nei secoli dell’Impero ottomano v. H. Laoust, Les Gouverneurs de damaas sous les Mamlouks et les premiers Ottomans (658 – 1156/1260/1744), Institut Français de Damas, Damasco, 1952; M. A. Bakhit, The Ottoman Province of Damascus in the Sixteenth Century, Librairie du Liban, Beirut, 1982. 3 In riferimento al Monte Libano durante il periodo ottomano v. B. Dib, Histoire du Liban. Des origines au XX siècle, Editions Philippe Rey, Paris, 1998; P. K. Hitti, Lebanon in history: from the earliest times to the present, Macmillan, Londra, 1957 e P.K. Hitti, History of Syria: including Lebanon and Palestine, Macmillan, Londra, 1951; A. Hokayem, Emergence et affermissement de l’entité libanaise dans les tourmentes du Proche-Orient: 1841 – 1991, in “Cahiers de la Méditerranée”, n°44, Liban, 1992, pp. 7-53 ; A. Husayn, The view from Istanbul. Ottoman Lebanon and the Druze Emirate, I.B. Tauris, London, 2002; E. Rabbath, La formation historique du Liban politique et constitutionnel, Publications de l’Université Libanaise, Beirut, 1986 ; K. Salibi, The modern history of Lebanon, Weidenfeld & Nicolson, Londra, 1965; R. Di Peri, Il Libano contemporaneo. Storia, politica, società, Carocci, Bari, 2009. 4 Nel 1851 il distretto venne separato da Damasco e posto direttamente sotto il controllo di Costantinopoli; formalmente divenne un mutassarrifat indipendente nel 1872. Se l’Egitto era il granaio dell’Impero Ottomano, la regione del Bilad al-Sham5 ne era il centro commerciale, soprattutto in ragione della sua eccezionale posizione geografica; essa era la Porta dell’Oriente, il territorio di passaggio fra tre continenti e perno dei traffici tra l’Asia e il Mediterraneo, crocevia di culture, scambi commerciali, lingue e religioni. Le città commerciali e i porti del Levante attirarono sempre più i commercianti europei; è sufficiente citare città come Venezia, Amalfi o Palermo per riportare alla mente questo profondo legame tra le due sponde del Mare Nostrum. Questo spazio geografico, culla di civiltà antichissime, possedeva una propria identità e soprattutto era particolarmente ricco dal punto di vista culturale: alla fine del XIX secolo Beirut, insieme a Il Cairo, si era definitivamente affermata come il più importante centro del mondo arabo per il giornalismo e la stampa e più in generale per la classe intellettuale araba. Non a caso, del resto, saranno proprio le province del Bilad al-Sham a divenire il teatro principale di diffusione dell’intenso movimento letterario, culturale e filosofico, conosciuto nel mondo arabo come Nahda o «Risveglio». Sotto l’influenza della rivoluzione francese e della spedizione napoleonica in Egitto, delle rivolte dei serbi, dell’insurrezione greca, della sfida lanciata dall’Egitto di Muhammad Ali pascià e di tutte le rivolte che scoppiarono ai vari lati dell’Impero, la Sublime Porta si trovò a dover affrontare, nel XIX secolo, cioè proprio nel momento in cui la sua forza militare ed economica cominciava ormai a declinare sotto il peso della crescente potenza europea, l’annosa questione della sua stessa sopravvivenza in quanto impero multiconfessionale e multietnico. Per sopravvivere occorreva quanto meno procedere ad una ristrutturazione, una trasformazione, dell’impero che potesse diventare la risposta alle sfide lanciate dall’imperialismo europeo e dai nazionalismi interni. Fu così che al fine di evitare l’intervento dell’Europa e l’implosione dell’impero, la Sublime Porta avviò un profondo programma di riforme, noto con il nome turco-ottomano di Tanzimat, per poter modernizzare le proprie istituzioni e poter così “competere” con la moderna Europa nella speranza in questo modo di frenare anche i moti e i sentimenti nazionalisti. Sarà proprio nel periodo delle Tanzimat che cominceranno a manifestarsi le prime e più profonde contraddizioni nella regione del Levante arabo, sebbene soltanto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e definitivamente con il Primo conflitto mondiale l’endemica inquietudine di questa zona avrebbe assunto i toni di un irriconciliabile contrasto con l’Impero centrale. L’indole del popolo arabo, soltanto all’apparenza mite nella sua vita beduina, rappresentava un “gigantesco serpente insidioso che il piede del soldato turco rischia, a ogni passo, di calpestare” 6. La “nazione araba” si era limitata ad adeguarsi alla sovranità turco-ottomana per secoli, ma tra gli arabi “l’istinto atavico della 5 Il termine Bilad al-Sham, «Paesi del nord», indicava nel XIX secolo la regione compresa tra i monti Turo e il Sinai che oggi corrisponde sostanzialmente al Libano, alla Siria, alla regione irachena di Mosul, alla parte nord-occidentale del Regno di Giordania e al territorio israliano. “Sham” in arabo vuol dire “sinistra” ma anche “nord” nella sua forma dialettale (nell’arabo classico “sinistra” corrisponde invece al termine yasar) ma anche “nord”, nella sua forma dialettale. Prendendo come punto di riferimento La Mecca, dunque, il termine Bilad al-Sham indicherebbe i paesi a nord i quali si oppongono ai Paesi yamin, quelli cioè a destra, di cui rimane traccia lessicale nel nome dell’attuale Yemen. Sul concetto di Bilad al-Sham v. T. Philipp, Identities and loyalties in Bilad al-Sham at the beginning of the early modern period, in T. Philipp e C. Schumann (a cura di), From the Syrian Lands to the State of Syria and Lebanon, Beirut, Orient-Institut, 2004. 6 Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), Archivio Politico (AP) 1915 – 1918, b. 184, f. Siria, La strada ferrata dell’Hedjaz – parte III, Stefano Carrara, Damasco, aprile del 1907 (il documento è datato 1907 ma presumibilmente, trovandosi nel fondo 1915 – 1918, potrebbe essere del 1917; in quegli anni Stefano Carrara era inviato straordinario e Ministro plenipotenziario a L’Avana). libertà politica e della consanguineità comune” 7 non aveva mai cessato di esistere; e di questo il governo ottomano sarebbe stato costretto a prendere atto proprio negli anni più bui del suo esistere. Fu, dunque, proprio con la Prima guerra mondiale che il mondo arabo prese definitiva coscienza del suo potenziale nazionalista e del fatto che per secoli si fosse adagiato inerme sotto il dominio di un Impero che nonostante le riforme, i proclami e le rivoluzioni aveva finito per avviare nel 1908 con l’arrivo al potere dei Giovani Turchi un pesante processo di turchizzazione delle minoranze. Gran parte degli elementi che ancora oggi concorrono all’instabilità del paesaggio politico-economicosociale del Vicino Oriente trovano le loro più profonde radici proprio in quei processi innescatisi nell’Ottocento, maturati negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e definitivamente delineatisi durante e immediatamente dopo il primo conflitto mondiale. 1. Tra riforme e minacce: il dominio imperiale ottomano tra Ottocento e Novecento A partire dal 3 novembre 1839 quando a Istanbul il ministro degli esteri ottomano Mustafa Rashid pascià8 lesse a nome del sultano Abdul Mejid I (1839 – 1861) un decreto di riforma noto con il nome di Gülhane Hatt-ı Şerif9, «l’editto imperiale del Giardino delle Rose»10, cominciò per l’Impero ottomano il quasi quarantennale periodo di riforme, noto con il nome di Tanzimat, «riforme» in turcoottomano, che tra il 1839 e il 1876, avrebbe trasformato profondamente l’Impero ottomano11 cercando di rispondere a quel processo di décadence che caratterizzava ormai il Malato d’Europa12. Con questo primo editto, e più in generale con tutti gli atti del periodo delle Tanzimat13, i sultani riformatori mirarono ad avviare un processo di modernizzazione dell’Impero che si inscrivesse nel solco del modello europeo di stato moderno e che potesse frenare, da un lato, la sempre più pressante ingerenza europea nelle vicende imperiali ottomane, e dall’altro le sempre più forti spinte autonomiste delle molteplici etnie che componevano uno degli imperi più multietnici della storia. Il progressivo “Non so se, nel Governo Ottomano, sia dissimulazione politica o inconsapevolezza l’affettato disprezzo per il beduino: ma è certo che, se alle porte di Damasco esso è già temibile, più si discende verso Medina e più si fa pericoloso, e da Medina alla Mecca è assoluto padrone del campo. Finora, la nazione araba dorme, inconsapevole di sé, e solo nei canti dei suoi poeti, tristemente modulati dai rapsodi del deserto, l’istinto atavico della libertà politica e della consanguineità comune rivive; ma, come alla lancia dei tempi eroici il beduino ha ormai sostituito quasi da per tutto la carabina, così l’epopea è in via di cedere anche il campo alla storia.”, ASMAE, AP 1915 – 1918, b. 184, f. Siria, cit. 8 Mustafa Rashid pascià fu il grande architetto delle tanzimat; sulla figura di Mustafa Rashid v. Y. Celik, Mustafa Resid Pasha, in “Encylopaedia of the Ottoman Empire”, Facts on File, New York, 2009; S. Somel, Mustafa Reşid Pasha, in “Historical Dictionary of the Ottoman Empire”, Lanham, The Scare Crow Press, 2012; E. J. Zürcher, Res̲ h̲īd Pas̲ h̲a, Muṣṭafā, in “Encylopaedia of Islam”, Leiden, E.J. Brill, 1995. 9 Il testo completo dell’Editto di Gülhane in traduzione francese è disponibile su http://mjp.univperp.fr/constit/tr1839.htm (consultato in data 7 marzo 2018). 10 Il “giardino delle rose” del palazzo reale ottomano è il luogo in cui è stato firmato l’editto. 11 Sul periodo delle tanzimat si v. M. Costanza, La Mezzaluna sul filo - La riforma ottomana di Mahmûd II, Marcianum Press, Venezia, 2010; K. Abu Jaber, The Millet System in the 19th century Ottoman Emprie, in “Muslim World”, n. 3, 1967; R. Davison, Reform in the Ottoman Empire, 1856 – 1876, Princeton University Press, Princeton, 1963. 12 L’espressione Malato d’Europa sembra essere stata usata per la prima volta nel 1853 dallo zar Nicola I in una conversazione con l’allora ambasciatore inglese. 13 L’epoca delle riforme ebbe tre momenti fondamentali: l’editto imperiale di Gülhane, appunto, con il quale si garantì a cristiani ed ebrei il loro diritto fondamentale alla vita, alla sicurezza personale, al rispetto della loro dignità umana e alla conservazione dei propri beni; con un secondo editto del 18 febbraio del 1856, conosciuto con il nome di Hatt-i Hümâyun, si consacrò l’esistenza ufficiale delle comunità cristiane, dotate di loro prerogative e competenze e poste sullo stesso piano, secondo un rapporto di uguaglianza, con la umma musulmana. Infine con la Costituzione del 1876, la proclamazione della quale segnò non a caso la fine del periodo delle riforme, si sancì, per la prima volta nell’Islam, l’uguaglianza civile delle comunità non musulmane con quelle musulmane. 7 movimento verso la realizzazione di uno stato moderno operò quasi esclusivamente, “sous le manteau de la religion”14. Del resto, probabilmente, una delle principali cause della decadenza imperiale era stata proprio l’incapacità dei turchi-musulmani di assimilare le decine di milioni di razze, lingue, e minoranze diverse presenti sull’immenso territorio ottomano. L’editto del 1839 non fu, infatti, altro che una sorta di “charte des droits les plus élémentaires” 15 con la quale si riconoscevano alle diverse popolazioni dell’Impero uguali diritti senza distinzioni etniche o religiose. Il processo giuridico che si era inaugurato sul finire degli anni Trenta del XIX secolo partiva dunque dal concetto di integrazione per spingersi, tramite tappe successive, fin verso l’uguaglianza tra le comunità musulmane e turche e quelle non-musulmane e non-turche, cioè le comunità che fino a quel momento erano state considerate come dhimmi16. Nelle menti degli ideatori ottomani del processo di riforma, l’uguaglianza etnica e religiosa, oltre a depotenziare le istanze autonomiste interne avrebbe alleggerito anche la pressione proveniente dalle potenze europee sulle diverse aree dell’Impero ottomano, soprattutto del Nord Africa e del Levante. Per tutto il XIX secolo le potenze europee avevano infatti adoperato a proprio vantaggio il problema dei diritti delle minoranze nell’Impero; tramite questo ingegnoso espediente dalle sfumature quasi “umanitarie”, gli europei trovarono ampi spazi per imporre la propria volontà politica agli ottomani e per inserirsi nei loro affari interni: i russi, si ersero a protettori delle minoranze ortodosse17, i francesi dei cristiani d’Oriente e i britannici, avendo più a cuore la protezione delle rotte mercantili da e verso le Indie che una comunità religiosa in particolare, fecero, per quasi tutto il secolo, del mantenimento dell’integrità territoriale ottomana, in funzione anti-zarista, uno dei principali fil rouge della loro azione politico-diplomatica. L’Italia, infine, quantomeno sul finire dell’Ottocento non sembrava avere particolari interessi nella regione siro-libanese18, se non quello di veder regnare “la quiete nei dominii del Sultano” 19 e di confarsi alle posizioni del Concerto europeo. Il processo di riforme e riorganizzazione delle istituzioni ottomane, oltre a sollevare importanti dubbi, paure e sospetti, nelle comunità turche-musulmane dell’Impero, ebbe almeno due effetti “collaterali” che giocarono in realtà in senso assolutamente contrario rispetto alle speranze e alla aspettative della Sublime Porta. Da un lato, furono proprio le riforme a fare posto ad un nuovo assetto delle province arabe e a nuove forme di autonomia di quelle stesse province che erano tra le più lontane geograficamente da Costantinopoli, dunque tra le più difficili da controllare e soprattutto i cui eccessi erano percepiti da Istanbul come molto meno pericolosi rispetto alla pressione esercitata da Vienna o da Mosca sul cuore dell’Impero. Dall’altro, fu proprio la spinta al cambiamento proveniente da E. Rabbath, La Constitution Libanaise. Origines, textes et commentaires, Publications de l’Université Libanaise, Beyrouth, 1982, p. 37. 15 Ivi, p. 41. 16 I dhimmi erano coloro che stipulavano con i musulmani, all’interno di uno stato in cui vigeva la legge islamica, un dhimma cioè un “patto di protezione” attraverso il quale i dhimmi versando una tributo al governo godevano della sua protezione e avevano maggiori diritti rispetto ai soggetti non-musulmani non appartenenti alla categoria dei dhimmi Lo status dei dhimmi fa, infatti, riferimento soltanto ai non-musulmani appartenenti alla “Gente del Libro” cioè a coloro che professavano una delle altre due religioni monoteiste, cristianesimo ed ebraismo (alle quali nel tempo si aggiunsero i zoroastriani, i mandei, gli indù, i sikh e i buddhisti). 17 Documenti Diplomatici Francesi (DDF), 1871 – 1914, Serie 1, Tomo XV, n. 54, G. L. De Montebello, Ambasciatore di Francia a San Pietroburgo, a T. Delcassé, Ministro degli affari esteri, San Pietroburgo, 31 gennaio 1899. 18 Documenti Diplomatici (DD) a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 142, Il Ministro degli esteri, B. Brin, al R. incaricato d’affari in Costantinopoli, A. di Bisio, Roma, 23 luglio 1892; anno 1902, n. 162, il R. Incaricato d’affari in Costantinopoli, A. Carlotti, al Ministro degli affari esteri, G. Prinetti, Terapia, 30 luglio 1902. 19 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), 1892, n. 142, cit. 14 Costantinopoli a divenire la miccia di più generali processi di rivalutazione e di sommovimenti politico-ideologici nelle varie componenti dell’Impero. È infatti proprio nel periodo delle tanzimat che si sviluppa il movimento culturale-filosofico di renaissance araba20, noto con il nome arabo di nahda21. Sviluppatosi inizialmente soprattutto fra i cristiani d’Egitto e dell’area siro-libanese, specialmente nelle città di Beirut, Damasco e Aleppo, esso faceva riferimento teorico-filosofico soprattutto alla storia passata degli arabi intesa come la vera forza del processo di rinascita arabo. Insistendo sull’unità del popolo arabo, sul suo passato preottomano ricco e glorioso, senza distinzioni confessionali, regionali o settarie, la nahda mirava in particolare a rivisitare il patrimonio culturale e linguistico arabo per scoprire e definire un’identità propriamente araba. Evidentemente il contatto con gli europei aveva giocato un grosso ruolo in questo processo di rivalutazione della condizione araba. La spedizione napoleonica in Egitto del 1798 aveva innegabilmente segnato l’irruzione della modernità, declinata in termini europei, nel mondo arabomusulmano e aveva palesato un’endemica stagnazione economica, politica e culturale di questo mondo soprattutto se valutata in contrapposizione all’incredibile momento storico che stava vivendo l’Europa, caratterizzata dall’ormai affermatosi spirito dei lumi e da processi scientifico-tecnologici di immensa portata che ebbero una straordinaria influenza nello sviluppo delle economie e del commercio europeo. A partire dalla fine del Settecento le condizioni di esercizio del pensiero arabo sarebbero state profondamente toccate e compenetrate dal sistema culturale e di pensiero dell’occidente europeo22. Soprattutto, la spedizione francese del 1798 costrinse le masse arabe e musulmane a entrare in contatto con la strutturazione statuale europea la quale, sviluppatasi in Europa a partire dal 1648 con l’ordine scaturito dopo Westfalia e perfezionatasi nel pensiero illuminista europeo, è fortemente ancorata alle idee di territorio, confini e sovranità. Tale schema nazionale, inteso in Europa quasi come una sorta di sillogismo dal carattere cartesiano, è invece estraneo al mondo arabo-islamico il quale oppone all’idea di uno Stato fondato sulla territorialità quella di una comunità, la umma, unita da un legame quasi personalistico di comune appartenenza. Il concepire da parte delle potenze europee le comunità come nazione e il contatto diretto, frequente e ripetuto dei capi comunitari con queste potenze spingeranno le comunità locali a sviluppare una nuova vocazione temporale intrinsecamente legata al concetto di territorio che pian piano, abbandonando l’idea di un impero diviso nelle sue province più o meno autonome ma comunque profondamente legate ad un centro decisionale, avvierà il processo di identificazione nazionale che porterà alle richieste di indipendenza e di riconoscimento di una propria entità statuale. Per secoli l’eterogeneità e la capacità dell’Impero di tenere insieme le differenze erano stato il grande vanto imperiale; nel momento in cui l’eterogeneità venne a contatto con l’identità nazionale europea, per definizione basata sull’omogeneità, il sistema cominciò a sfaldarsi dall’interno, portando a galla quelle contraddizioni che erano insite nel modello stesso imperiale ottomano. Se, infatti, in un primo momento il movimento di rinascita si presentò in termini puramente letterario-culturali ben presto esso avrebbe cominciato ad assumere nuances politiche, inserendo nel discorso teorico-concettuale elementi come 20 La nascita del panislamismo e del riformismo in quanto movimento di rigenerazione del pensiero musulmano è strettamente collegato a tre principali pensatori: Jamal al-Din al-Afghani (1838 – 1897), Muhammad Abduh (1849 – 1905) e Rashid Rida (1865 – 1935). 21 Il termine nahda deriva dalla radice araba n-h-d. 22 Lo stesso Nasser nel suo Filosofia della Rivoluzione, parlerà della spedizione di Napoleone come di un vero e proprio momento di svolta nella storia del mondo arabo. quello di Nazione araba e della nazionalità araba, della cultura e della storia comune ad un popolo, della patria e della libertà. La penetrazione nei territori dell’Impero Ottomano della concezione statale europea, l’impercettibile ma costante consumazione di quell’Impero che aveva fatto della multietnicità il proprio caposaldo e l’affermarsi di sentimenti nazionalisti anche nel mondo arabo costituiscono le principali lenti tramite le quali leggere il lungo cammino dell’Impero verso la sua dissoluzione. Sebbene il ciclo di riforme del periodo delle Tanzimat ebbe un notevole successo e raggiunse molti degli iniziali obiettivi che si era prefissato, questo non bastò a frenare quelle stesse spinte autonomiste che, lentamente ma inesorabilmente, avrebbero portato al declino e poi al crollo dell’Impero stesso; non bastò neanche a frenare la pressione proveniente dalle potenze europee le quali continuarono a trovare pretesti per intervenire nelle province ottomane: “Ainsi partout – scrive Edouard Driault – dans le Levant, du Danube au Nil, de l’Algérie à l’Euphrate, les ambitions des grandes puissances se croisent, et les Musulmans se débattent contre ces multiples interventions, d’accord seulement pour les étouffer ; pour beaucoup d’entre eux, le Tanzimat n’est qu’une des formes de la mort qui leur est réservée. Du moins, ils sentent nettement qu'ils ne sont plus maitres chez eux ; l’Empire ottoman n’est plus guère qu’un champ clos où se joue l’équilibre de l’Europe.”23 La grande forza dell’Impero ottomano diventava, al cospetto delle potenze europee, la più grande attrattiva: la sua posizione geografica a cavallo di aree di primaria importanza strategica aveva costantemente suscitato l’interesse delle potenze europee che da sempre erano alla ricerca di pretesti validi per interferire con i suoi affari interni. Del resto l’estensione territoriale dell’Impero semplificava le macchinazioni europee e aveva permesso di cominciare a erodere l’impero tramite un’azione sui territori più esterni: nel giugno del 1830 con un pretesto i francesi erano sbarcati a Sidi Ferrouch, porto a trenta chilometri da Algeri, il quale fu pertanto il primo territorio arabo dell’Impero ottomano a cadere sotto la dominazione europea; nel 1881 con gli accordi del Bardo sarebbe iniziato il protettorato francese sulla Tunisia; nel 1882 la Gran Bretagna avrebbe occupato l’Egitto dichiarandolo sotto il suo protettorato24; nel 1911 entrò in scena anche l’Italia, sbarcando sulle coste di quella che sarebbe diventata la futura Libia. Alla fine del XIX secolo l’imperialismo europeo era definitivamente penetrato lungo tutta la costa mediterranea dell’Impero, insediandosi in quei territori con varie fattispecie giuridiche, forme varie ed elaborate25 che significavano però de facto il costante e subdolo smembramento dell’Impero ottomano. Allo scoppio della Prima guerra mondiale delle province dell’Asia araba ne rimanevano solo cinque sotto il controllo dell’Impero Ottomano: i vilayet di Siria, Iraq e d’Arabia e i mutassarifat del Monte Libano e di Gerusalemme. Sempre più la Question d’Orient finì per declinarsi, quantomeno nella parte araba dell’Impero, come una questione intrinsecamente legata a quelle che erano le aspirazioni coloniali ed imperiali degli anglo-francesi e finanche agli equilibri che le forze imperiali dovevano mantenere tra di loro nel costante allargamento dei loro imperi. La Questione d’Oriente divenne, insomma, il grande altare sul E. Driault, La question d’Orient, depuis des origines jusqu’à la Paix de Sèvres, Félix Alcan, Parigi, 1920, p. 163. Soltanto nel dicembre del 1914 il protettorato britannico avrebbe sostituito la sovranità ottomana nel momento in cui Londra dichiarò unilateralmente la secessione dell’Egitto dall’Impero ottomano. 25 In Algeria e Tunisia si stabilì un’amministrazione diretta mentre in Marocco si parlò di protettorato; per l’Egitto e il Sudan si trattò di un’occupazione provvisoria mentre con gli Emirati del Golfo si procedette a siglare trattati di amicizia e alleanza. Soltanto nel caso libico si parlò di vera e propria annessione. 23 24 quale sempre più cominciò a delinearsi l’idea di sacrificare l’Impero ottomano per poter avere mano libera nelle sue province. Quello che mancava per poter realmente procedere ad una definitiva ricomposizione della questione ottomana era l’accordo tra britannici, russi e francesi, ciascuno dei quali aveva particolari interessi nell’area mediterranea 26; fu proprio la sovrapposizione che si registrò nella maggior parte dei casi tra questi contrastanti interessi a generare una situazione di stallo decisionale che per certi versi giocò a favore della sopravvivenza dell’Impero per molti decenni nonostante le numerose ferite inflittegli nel corso del secolo XIX. In questo senso, l’esperienza del Monte Libano è assolutamente emblematica del ruolo giocato dalle potenze europee e dalla loro penetrazione ideologica, culturale e militare, nei territori che permanevano ottomani. La situazione creatasi nella regione è del resto emblematica anche delle conseguenze avute dalle tanzimat nei territori dell’impero stesso. Fu, infatti, proprio per reazione al processo di riforme avviato dall’Impero che il Monte Libano fu preda di disordini e massacri a fasi alterne per tutto il ventennio 1840 – 1860. Gli avvenimenti del 186027 ebbero come causa scatenante, o quantomeno come concausa, lo spirito delle tanzimat nelle quali la popolazione musulmana non vide che “sacrilèges impies, susceptibles de porter atteinte à ses croyances, et, conjurations ourdies par l’Europe, en vue d’annihiler les acquis de l’Islam” 28. Proprio durante i decenni del processo di riorganizzazione dell’Impero, nella regione del Monte Libano, venne istituito, il 7 dicembre del 1842, in seguito ai sanguinosi scontri, ricordati con il nome di prima haraka29, tra maroniti e drusi30, il sistema noto come il Doppio caimacam con il quale fu prevista una scissione amministrativa tra un nord, posto sotto il controllo di un vice-governatorato maronita e un sud retto da un corrispettivo vice-governatore druso31. Nonostante l’unità geografica favorita dalla natura e l’entità politica unitaria che cominciava a profilarsi dopo tre secoli soprattutto 26 In particolare nei Documenti Diplomatici Italiani (DDI) e in quelli francesi si sottolinea a più riprese quanto la questione della Siria fosse inestricabilmente connessa a quelli che erano i rapporti tra Francia e Gran Bretagna con riferimento soprattutto alla questione dell’Egitto e alle pressioni che la Francia faceva sulla Gran Bretagna. La Siria sarebbe, presto divenuta, il contraltare delle “molestie” francesi alla Gran Bretagna per la questione egiziana. V. in particolare DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 136, Il R. incaricato d’affari in Costantinopoli, Di Bisio, al Ministro degli affari esteri, B. Brin, Terapia, 7 luglio 1892. 27 Sugli avvenimenti del 1860 v. L. Fawaz, An Occasion for War: Civil Conflict in Lebanon and Damascus in 1860, I.B. Taurus, Londra, 1994. 28 E. Rabbath, La formation historique du Liban, Op. cit., p. 53. V. anche R. Devereux, The first Ottoman Constitutional Period. A study of the Midhat constitution and Parliament, Baltimore, 1963 ; M. Ma’oz, Ottoman reform in Syria and Palestine, 1840 – 1861. The impact of the Tanzimat on Politics and Society, Oxford University Press, Oxford, 1968. 29 La parola deriva dalla radice araba h-r-k “movimento”, per estensione, “rivolta”. 30 Questi primi scontri furono in realtà fomentati dalla stessa Sublime Porta la quale, con un atteggiamento quantomeno ambiguo, cercò da un lato di cancellare le forme autonomistiche della regione del Djebel druso, come all’epoca veniva chiamata la regione del Monte Libano, e dall’altro di instaurare un controllo imperiale diretto nelle province del Monte Libano. L’Impero Ottomano mentre mostrava ai maroniti i vantaggi di un governo diretto dalla Sublime Porta, incoraggiava allo stesso tempo i drusi a continuare le loro razzie nei confronti dei maroniti. Occorre sottolineare, tuttavia, che, almeno inizialmente, gli scontri tra drusi e maroniti non si colorarono di un carattere tipicamente confessionale per legarsi, al contrario, più agli interessi particolari di alcuni clan e famiglie. 31 In una nota della Sublime Porta inviata all’ambasciatore britannico il 7 dicembre si esplicano le caratteristiche principiali del sistema del Doppio caimacam: “[…] la Sublime Porte, […] a pris la résolution d’envoyer à Essad Pacha l’ordre de procéder […] a choix et à la nomination de deux Caïmacans, l’un pour les Druzes et l’autre pour les Maronites, pris parmi les indigènes autres que ceux appartenant à la famille Chébab, conformément à la mesure déjà acceptée par les grandes Puissances, et de l’engager en même temps à consacrer tous ses soins au maintien de la tranquillité en Syrie […]”, G. Noradounghian, Recueil d’actes internationaux de l’Empire ottoman, Vol. II, F. Pichon, Parigi, 1900, p. 350 e ss. grazie alla politica di integrazione seguita dai primi emiri 32, il Monte Libano fu diviso in due settori, nettamente separati, il caimacam druso e quello maronita. Il nuovo sistema rompeva l’unità organica della Montagna così come forgiata dalla storia e dalla geografia, dividendola in due entità separate e distinte ma soprattutto creando una sorta di segregazione religiosa tra due comunità che fino a quel momento avevano occupato il medesimo territorio riuscendo a creare un sistema di cooperazione tendenzialmente efficiente. La divisone, in definitiva, non fece altro che provocare un esacerbamento dello scontro etnico-religioso che sfociò nei nuovi massacri del 1945 e poi del 1860 (seconda e terza haraka), data quest’ultima fondamentale non soltanto nella storia del Libano moderno ma anche in quella più generale dell’Impero ottomano. In realtà l’aspetto confessionale del conflitto venne in un certo qual modo amplificato proprio dagli interessi esterni delle potenze europee33: in particolare, la Francia si pose come la naturale protettrice della minoranza maronita in ossequio a quel legame storico che rimontava ai tempi delle crociate e di Carlo Magno e che era stato saldato nei secoli soprattutto per il tramite delle missioni religiose. Per tutto il XIX secolo e fino alla caduta dell’Impero Ottomano, la Francia continuò a insistere con tenacia sui sultani ottomani con l’intento di strappare alla Sublime Porta nuovi e consistenti privilegi per le comunità cattoliche della regione siro-libanese. Soprattutto nella zona del Monte Libano, infatti, numerose erano le missioni religiose francesi le quali avevano creato un legame profondo tra la comunità maronita e la Potenza europea, legame che segnerà l’intera storia dei rapporti franco-libanesi. Importante anche il richiamo economico della regione per la Potenza Latina: l’industria della seta di Lione, ad esempio, aveva cospicui interessi nel settore della produzione serica locale 34. D’altro canto l’impero britannico si schierò ben presto a favore delle comunità druse mentre gli ottomani sfruttarono le tensioni esistenti tra le comunità e le rispettive alleate europee per fomentare il conflitto nel tentativo di mantenere il proprio controllo sulla provincia araba. In questo modo, le comunità libanesi divennero l’oggetto delle interferenze europee e il Libano il teatro dove si affrontarono le ambizioni delle potenze all’egemonia politica, commerciale e culturale. I terribili fatti del 1860, diedero alla Francia di Napoleone III, autorizzata dal Concerto Europeo, il pretesto perfetto per intervenire direttamente con un proprio corpo di spedizione nella regione sirolibanese35. L’obiettivo dell’azione francese era volto a salvare la popolazione cristiana del Monte Libano da un massacro e ad assicurare alla giustizia i responsabili delle violenze contro i cristiani. Inizialmente la Gran Bretagna si era fermamente opposta a qualsiasi intervento armato nella regione: l’opposizione derivava dalla consapevolezza di quelle che erano le ambizioni francesi nella regione. Il timore di Londra era che l’invio di truppe per riportare l’ordine nel Monte Libano non fosse altro che il pretesto tanto atteso da Parigi per poter stabilire un’occupazione permanente, sull’esempio di quanto era già stato fatto in Algeria trent’anni prima. Dai tempi della spedizione napoleonica in 32 In particolare si fa riferimento all’esperienza dell’Emiro druso Fakhr al-Din II che governò nella regione del Monte Libano tra il 1591 e il 1635 e a quella dell’Emiro maronita Bechir II Chehab che governò tra il 1789 e il 1842. 33 “L’Inghilterra non si cura che de drusi, ed anche pochissimo; la Russia non mostra interesse che per i greci ortodossi; Germania, Austria e Italia hanno per missione di non occuparsi di nulla fuorché di vigilare al rispetto del regolamento organico; la Francia ha dunque le mani libere fra maroniti e greci cattolici”, DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1898, n. 161, il R. Console generale in Beirut, A. De Gubernatis, al Ministro degli affari esterni, E. Visconti Venosta, Beirut, 29 novembre 1898. 34 P. Di Gregorio, Frontiere: l’impero britannico e la costruzione del Medio Oriente contemporaneo, Carocci, Roma, 2012, p. 35. 35 In riferimento all’intervento francese del 1860 si v. in particolare Y. Bouyrat, Devoir d’intervenir? L’expédition “humanitaire” de la France au Liban (1860), Vendemiaire, Parigi, 2013. Egitto, la Francia non aveva fatto che guardare al Levante e soprattutto al Monte Libano come al grande sogno imperiale. Furono gli orrori perpetrati a Damasco e nel Monte Libano a far cedere la Gran Bretagna nonostante i timori sulle intenzioni francesi. L’idea di un intervento fu adottata dalle Potenze europee sotto una doppia forma: diplomaticamente si sarebbe agito presso la Sublime Porta per cercare di porre rimedio alla situazione; militarmente, sarebbe stata la Francia ad intervenire in loco per fermare i massacri. Il 16 agosto del 1860 i primi contingenti del corpo di spedizione francese sbarcarono a Beirut sotto il comando del Generale Charles de Beaufort d’Hautpoul. Per gli ottomani questo sarebbe potuto significare la perdita di un altro pezzo del proprio impero e per questa ragione dovettero rapidamente attuare una strategia volta a riportare la calma e a fermare i massacri nella provincia ottomana così da non consentire ai francesi di consolidare le proprie posizioni nell’area. La Sublime Porta inviò nella regione siro-libanese proprio l’ideatore delle tanzimat, Fuad Pascià, con l’incarico di prendere tutte le misure necessarie per restaurare l’ordine nel più breve tempo possibile 36. Fu la Sublime Porta a portare davanti alla corte marziale i fautori degli scontri, a condannarli a morte o all’esilio; le esecuzioni capitali si susseguirono senza sosta a Beirut e Damasco. Quando il generale francese raggiunse le coste del Libano, l’Impero Ottomano per il tramite di Fuad pascià aveva ormai riportato ordine nel caos libanese, garantendo così che l’ennesima ferita inferta all’impero non si trasformasse nel colpo mortale. Con la calma ristabilita, la spedizione francese era infatti svuotata di senso: il generale de Beaufort riprese il suo viaggio in mare verso la Francia nel giugno del 1861. Il 1860 segna, dunque, l’entrata definitiva sulla scena delle potenze europee che profilatasi in realtà già nel 1842 nella strutturazione del sistema del Doppio caimacam37, trovò espressione completa soltanto nel 1860. Con questa entrata in scena militare si rafforzava, poi, sempre più, quella penetrazione delle idee occidentali, già precedentemente favorita dai numerosi contatti tra l’Europa e i cristiani. Il 1860 permise all’Europa, penetrata per secoli nel Levante tramite il commercio, di entrarvi anche con i propri eserciti e ancor di più soprattutto con la propria tradizione statale. Per paradosso della storia, il governo ottomano aveva stabilito con le tanzimat l’uguaglianza giuridica dei cittadini musulmani e non-musulmani sostanzialmente per prevenire l’intervento delle potenze europee e invece gli scontri che da quella decisione si generarono soprattutto nel Monte Libano furono esattamente il motivo che determinò un massiccio intervento europeo. Il Monte Libano uscì dall’esperienza delle tre haraka con un nuovo statuo amministrativo, elaborato a Costantinopoli, che sarebbe stato all’origine della definizione statutaria libanese del 1920 e della sua indipendenza nel 1943. Nella strutturazione che il Libano acquisì dopo i fatti del 1860, la mutasarrifiyya, fu pienamente evidente il ruolo delle potenze europee, le quali secondo il regolamento organico del 9 giungo 1861, quello del 6 settembre 1864 e dei protocolli del 27 luglio 1868, del 22 aprile 1873 e dell’8 maggio 1883, avevano il compito di designare, ogni dieci anni38, il governatore 36 In una nota al margine nei Documenti diplomatici francesi si trova un riferimento ad una presunta partecipazione delle truppe ottomane alle atrocità del Monte Libano e di Damasco o quantomeno ad una culpa in vigilando poiché le autorità turche nulla fecero per evitare i massacri, DDF, 1871 – 1914, Serie 1, t. 12, nota (2) alla n. 185, P. P. Cambon, Ambasciatore di Francia a Costantinopoli, a P. E. M. Berthelot, Ministro degli affari esteri, Pera, 4 novembre 1895. 37 Il termine caimacam deriva dall’arabo Qāʾim maqām ed indica un funzionario dello Stato facente, a livello locale, funzioni del Sultano. 38 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 139, Il Ministro degli affari esteri, B. Brin, al R. Ambasciatore in Vienna, C. Nigra, Roma, 20 luglio 1892. Nel 1892 la Gran Bretagna propose di ridurre il mandato a 5 del Libano, benché questo poi venisse formalmente nominato dal Sultano ottomano. Ogni modifica ai regolamenti, inoltre, sarebbe dovuta essere preventivamente concordata con le Potenze europee39. La concessione di questi privilegi in uno dei territori ottomani era logicamente poco gradita all’Impero, il quale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento avrebbe persino smesso di utilizzare una certa diplomazia accomodante volta a nascondere la propria volontà di sottrarre il governo del Libano al controllo europeo40. Il regolamento organico del 1861, mostra le contraddizioni del processo delle tanzimat, ponendosi in un’ottica imperiale, ma al tempo stesso palesa paradossalmente quanto a fondo lo spirito delle tanzimat fosse penetrato nella regione siro-libanese. Tramite questo statuto di diritto positivo il potere politico fu sottoposto per la prima volta nella storia dell’Impero ottomano a forme di controllo stabilite dal regolamento adottato e alla vigilanza internazionale delle potenze europee. Il regime del mutassarifat si basava, infatti, su un regolamento organico che assicurava la nomina di un governatore e l’elezione da parte della popolazione di un consiglio amministrativo, nonché il retto ed equo funzionamento della giustizia, dell’amministrazione e del sistema di riscossione delle tasse. Il normale svolgimento della vita amministrativa avveniva sotto il controllo delle potenze esercitato per mezzo del corpo consolare europeo a Beirut41. Fu un cambiamento minimo per quell’epoca il quale, persosi nelle prime manifestazioni delle brame europee, non ricevette particolare rilevanza; ma tramite il regime del mutassarifat in Libano veniva ad essere una prima e antesignana esperienza del nazionalismo arabo. All’interno delle province arabe dell’Impero ottomano questo governatorato fu sicuramente tra le forme più avanzate di autonomia e indubbiamente generò una condizione altamente privilegiata in confronto alle altre parti dell’Impero42 a tal punto che quando nel 1908 i Giovani Turchi, ristabilendo la costituzione, invitarono tutte le province a nominare i propri rappresentanti per il Parlamento, l’opinione pubblica libanese si spaccò tra coloro che desideravano rispondere al richiamo parlamentare imperiale e coloro che volevano mantenere lo status quo visto come una condizione di particolare e più ampia autonomia. Nell’esperienza libanese, allo spirito delle tanzimat si affiancò anche quello della nahda. Dopo i violenti scontri del 1860 cominciò a prendere sempre più forma quella “effervescenza politica” che anni, v. DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 139, cit.; n. 140, Il R. Incaricato d’Affari in Costantinopoli, A. Di Bisio, al Ministro degli affari esteri, B. Brin, Terapia, 15 luglio 1892; n. 141, nota verbale rimessa dall’ambasciatore britannico, G. Tornielli, il 21 luglio 1892; n 142, Il Ministro degli affari esteri, B. Brin, al R. Incaricato d’Affari a Costantinopoli, A. di Bisio, Roma, 23 luglio 1892. La regola dei 5 anni era quella che la Gran Bretagna seguiva per le colonie, v. DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 148, il R. Ambasciatore in Londra, G. Tornielli, al Ministro degli affari esteri, B. Brin, Londra, 20 luglio 1892. Sull’idea di ridurre il mandato concordava la Francia: assicurare un troppo lungo periodo di governo ad una stessa persona, per quanto questa potesse apparire “buona e capace” al momento della nomina, poteva dare adito alla corruzione e al dispotismo e finire addirittura per svolgere la propria attività senza rispetto alcuno per le leggi e per la giustizia, DD a stampa, Serie LXIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 143, Il R. incaricato d’Affari, A. Di Bisio, al Ministro degli affari esteri, B. Brin, Terapia, 19 luglio 1892. Il mandato veniva portato a 5 anni con il protocollo del 15 agosto 1892, v. DD a stampa, Serie LXIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 156 il R. Incaricato in Costantinopoli, A. Di Bisio, al Ministro degli affari esteri, B. Brin, Terapia, 16 agosto 1892. 39 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1892, n. 159, il R. Ambasciatore in Costantinopoli, A. Pansa, al ministro degli affari esteri, E. Visconti Venosta, Terapia, 15 agosto 1897. 40 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1902, n. 162, Annesso I al Rapporto N. 709/273, Il R. Incaricato d’affari in Costantinopoli, A. Carlotti, al Ministro degli affari esteri, G. Prinetti, Terapia, 30 luglio 1902. 41 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1908, n. 177, Il Console generale in Beirut, L. Anielli, al Ministro degli affari esteri, T. Tittoni, Beirut, 4 settembre 1908. 42 Ibidem era quasi naturalmente intrinseca al movimento culturale del risveglio. I massacri tra cristiani e drusi nella regione del Monte Libano e gli scontri a Damasco avevano provocato uno sconcerto e una ferita tale nella popolazione araba del Levante che si cominciò a focalizzare l’attenzione su quella che sempre più chiaramente appariva come la causa dei mali del mondo arabo: la Sublime Porta. Da un lato cominciarono irrefrenabili gli appelli alla solidarietà araba e alla primarietà di questa unicità; dall’altro la nazionalità araba cominciò a costituirsi sempre più in funzione anti-straniero, identificando come straniero il turco, padrone degli arabi da più di tre secoli. Cominciarono a nascere associazioni culturali e politiche 43 composte da cristiani e da musulmani, arabi, che chiedevano di porre rimedio alla sotto-rappresentazione araba nelle amministrazioni ottomane e che invitavano la Sublime Porta a riconoscere la lingua araba al pari di quella turca. Venne lanciata una campagna di stampa a Beirut e a Il Cairo, ma anche nella stessa Istanbul, volta ad ottenere dalla Sublime Porta il riconoscimento formale del diritto degli arabi all’autonomia e finanche all’indipendenza; un’agitazione clandestina scoppiò a Beirut; partiti si formarono in Siria, con il programma di creare uno stato dalla forma federale; il Consolato italiano a Gedda aveva perfino avuto notizia nel 1907 della formazione nelle colonie siriane di una società allo scopo di reclutare volontari disposti a combattere in Siria per liberare il paese dal giogo turco 44. Il punto culminante di questo intenso attivismo e fermento45, che mise insieme cristiani e musulmani arabi, sarebbe stato il Congresso arabo riunitosi a Parigi nel corso del mese di giungo del 1913. Possiamo dunque dire che è stata proprio “la combinaison de [l’]instinct de conservation, qui a remué les masses musulmanes, avec la psychose de terreur, éprouvée par les chrétiens d’Orient”46 a diventare il momento di definitiva nascita del nazionalismo arabo. Nel Monte Libano si creò la paradossale combinazione per cui il territorio in cui più profondamente era penetrato lo spirito delle tanzimat, fu anche la culla più sincera del nazionalismo arabo. In questo contesto di importanti cambiamenti intellettuali, politici e territoriali, di pressioni esterne e di pericolose dinamiche interne, l’arrivo al potere nel 1876 del sultano Abdul Hamid II (1842 – 1918), personaggio autoritario che si oppose fortemente allo spirito delle tanzimat, non fece che favorire la politicizzazione di questi movimenti arabi autonomisti e la nascita di una opposizione più attiva all’autorità ottomana. La politica autoritaria del sultano, l’abolizione della costituzione nel 1878, a soli due anni dalla sua promulgazione, il ristabilimento della censura e soprattutto l’importante opera di repressione che avviò, non fece che infiammare gli animi di quel movimento nazionalista arabo che si stava ormai sempre più chiaramente delineando nella sua forma politica. Tra il 1876 e il 1908 il regno del sultano ottomano Abdul Hamid II obbligò all’esilio numerosi intellettuali libanesi e siriani. In generale possiamo dire che l’opposizione al regime hamidiano abbia indiscutibilmente favorito l’affinamento delle teorie politiche nazionaliste; tuttavia, è anche vero che, nei primi anni del Novecento, esse dovevano ancora perfezionare le proprie posizioni, trovare il proprio sentiero e soprattutto ricomporsi in un movimento unitario e massivo. In un rapporto del 1907 del Consolato 43 Il Movimento nazionale arabo si organizzerà in società di intellettuali, alti funzionari e ufficiali; tra le più importanti: Il Circolo Letterario (al-Muntada), il Jam’iya al Arabiya al Fata, fondato in Francia e il Partito di decentralizzazione, al Kahtâniyya, di cui facevano parte i siriani Rafik al-Azm, Rachid Rida, Abdulhamid al-Zahraoui e i palestinesi Hafez alSaïd e Ali Nachâchibi, nonché anche personalità di spicco libanesi. 44 ASMAE, AP, 1915 – 1918, b. 184, f. Siria, Rapporto dal Consolato d’Italia in Gedda, 5 gennaio 1907. 45 Già nel 1905 Negib Azoury aveva pubblicato a Parigi il suo Le réveil de la nation arabe dans l’Asie turque, proponendo la creazione di uno Stato arabo indipendente. 46 E. Rabbath, La formation Historique du Liban, Op. cit., p. 53. d’Italia a Gedda si evidenziava ad esempio quanto il “blocco nazionalista” siriano fosse profondamente diviso al suo interno. I musulmani avrebbero voluto optare per un’indipendenza completa sotto la sovranità hascemita benché come precisava il Console a Gedda “per ora, non appalesano tale pensiero”47; i cristiani invece desideravano l’indipendenza assoluta senza intervento straniero né arabo. La famiglia hashemita era disposta a promette a cristiani l’indipendenza desiderata nel Libano, dando loro la possibilità di scegliere un principe cristiano come guida e leggi e regolamenti conformi ai loro bisogni religiosi, sociali ed economici; in cambio si chiedeva però ai cristiani “di mantenere la nazionalità araba in unione con gli altri sudditi musulmani del costituendo regno arabo”48. Fin dalla culla, il movimento nazionalista arabo, mostrava quei segni premonitori dell’irrealistica proclamazione, perlopiù meramente teorica, dell’unità dell’intero popolo arabo; segni che si sarebbero mostrati proprio tramite quell’esperienza comunitaria nata successivamente alla Seconda guerra mondiale, la Lega Araba, la quale nascendo come il primo passo verso il grande sogno unitario arabo dimostrò nei fatto l’irrealizzabilità dello stesso. Agli inizi del Novecento, dunque, il movimento nazionalista arabo non si era ancora definitivamente strutturato nelle sue forme più intransigenti; ne è testimonianza il fatto che quando nel 1908 i Giovani Turchi giunsero al potere gli arabi dimostrarono inizialmente di essere favorevoli al nuovo corso dell’Impero ottomano. Inizialmente, le rivendicazioni dei nazionalisti turchi, riassumibili in poche righe nella restaurazione della costituzione del 1876 e nella convocazione di un Parlamento, trovarono infatti ampio consenso e generarono un vago entusiasmo fra i sudditi arabi dell’Impero i quali credevano che i Giovani Turchi avrebbero trasformato in senso liberale il governo ottomano. Ciò è quantomeno indicativo del fatto che, nel primo decennio del Novecento, l’idea della completa secessione dall’impero non era ancora pienamente maturata neanche nelle fila di quel movimento nazionalista in formazione. Con riferimento alla regione del Monte libano, in seguito al ristabilimento della costituzione dopo i fatti dell’estate del 1908, le capitali europee, prima fra tutte Roma, si sarebbero trovate a domandarsi quanto la condizione privilegiata del mutassarifat libanese avesse ormai più senso in un sistema in cui i libanesi avrebbero potuto “far valere i loro diritti ed esporre le loro doglianze per mezzo dei propri legittimi rappresentanti al parlamento”49. Ciò che appariva chiaro già nella Montagna libanese, e in questo la Montagna continuava a rappresentarne ormai l’esempio più dinamico e incisivo di un focolaio nazionalista arabo, era che i libanesi, anche quelli più entusiasti del nuovo regime, non avrebbero mai intenzionalmente rinunciato al regolamento organico del 1861 ed alla protezione delle potenze, “forse dubitando (e certamente non a torto) che il funzionamento del nuovo governo costituzionale raggiunga quella perfezione ideale che assicuri realmente la tutela dei loro diritti”50. Il problema che si poneva era quello di trovare un modo di conciliare il mantenimento dello status quo nel Libano col nuovo assetto comune dell’Impero. Da un’indagine che Lorenzo Anielli, Console generale a Beirut, svolse tra la popolazione libanese emerse che l’opinione pubblica del Libano era per parte maggioritaria51 disposta a rinunciare volentieri all’invio dei propri ASMAE, AP, 1915 – 1918, b. 184, f. Siria, Rapporto dal Consolato d’Italia in Gedda, 5 gennaio 1907. Ibidem 49 DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1908, n. 177, Il Console generale in Beirut, L. Anielli, al Ministro degli affari esteri, T. Tittoni, Beirut, 4 settembre 1908. 50 Ibidem 51 DD a stampa, Serie XLIII- Libano (1982 – 1915), anno 1908, n. 179, il R. Console generale in Beirut, L. Anielli, al Ministro degli affari esteri, T. Tittoni, Beirut, 9 ottobre 1908; n 184, il Console Generale in Beirut, L. Anielli, al Ministro degli affari esteri, T. Tittoni, Beirut, 27 ottobre 1908. 47 48 rappresentanti al parlamento, purché le potenze si accordassero per una revisione del regolamento organico del 1864 e, soprattutto, s’impegnassero ad esercitare meglio di quanto avessero fatto fino ad allora la vigilanza alla quale si erano impegnate e che “finora fu (e ciò è vero) soltanto nominale, visto che essa non ha impedito abusi da parte dei governatori che si sono sin qui succeduti, come destituzioni arbitrari di funzionari, imposizioni di tasse nuove, ingerenze illecite nell’azione dei tribunali, ecc. Addirittura in molti valutavano l’invio di rappresentanti a Costantinopoli come un contro senso colla stessa esistenza del regolamento, perché con tale invio i libanesi verrebbero implicitamente ad accettare le risoluzioni della camera elettiva, le quali non sempre potrebbero trovarsi in armonia con il regolamento stesso”52. Viceversa, coloro che sostenevano che il Monte Libano avrebbe dovuto inviare i propri rappresentanti, partivano dal presupposto che il territorio della Montagna, facendo de jure e de facto parte dell’Impero avesse il diritto e il dovere di partecipare alla vita di esso. Questi ultimi però costituivano, a detta del Console, soltanto una minoranza arrivando addirittura a sostenere che si trattasse di un gruppo di uomini “aspirati alle future candidature politiche, e dei gruppi dei loro amici!”53. Il dibattito sorto nella regione del Monte Libano diventa fondamentale in una prospettiva allargata: infatti esso sottolinea ancora una volta quanto un certo nazionalismo arabo non fosse totalmente contrario alla sua esistenza all’interno di un Impero, potendo trovare un certo soddisfacimento semplicemente in una più ampia autonomia; sottolinea anche quanto il dibattito fosse particolarmente sentito finanche in una delle regioni arabe con la più ampia autonomia; infine come, concludeva lo stesso console Anielli, il punto fondamentale non era il Libano in sé o la protezione delle minoranze religiose, cristiane nello specifico, quanto il margine che le potenze europee avevano dopo il 1908 per inserirsi ancora negli affari interni imperiali 54. Nonostante l’iniziale anelito costituzionale e parlamentare, il regime dei Giovani turchi cominciò ben presto a caratterizzarsi per un forte centralismo autoritario. Le prime manifestazioni di gioia nei confronti dei “rivoluzionari” del 1908 cedettero il posto alla rabbia quando emerse chiaramente il vero volto della politica del Comitato Unione e Progresso (CUP): avviare un profondo processo di turchizzazione dell’Impero, puntare sull’ottomanismo come ideologia nazionale, mettere in discussione molti dei diritti e dei privilegi acquisiti dalle comunità non musulmane e riprendere il controllo diretto sulle province arabe. A partire da queste linee generali, i Giovani turchi cominciarono ad implementare concrete politiche volte a dare sempre maggiore importanza alla lingua turca nell’amministrazione, nella giustizia e nell’insegnamento, a sostituire nelle istituzioni pubbliche l’elemento non-turco, per tornare, persino, a ristabilire la censura e l’interdizione delle organizzazioni politiche e sociali. A quel punto una parte della fedeltà delle province arabe all’impero si scontrò contro la disillusione provocata dall’azione del CUP; fu quest’ultima a spingere la maggior parte degli arabi verso l’opposizione e verso quei partiti pronti a lottare per la decentralizzazione del potere. Le volontà autonomiste cominciarono sempre più ad emergere deluse dal “nuovo regime che ha tradito tutte le speranze in lui riposte dalle nazionalità cristiane ed ha fatto crollare in pochi anni DD a stampa, Serie XLIII – Libano (1892 – 1915), anno 1908, n. 177, cit. Ibidem 54 Ibidem 52 53 tutte le loro illusioni e speranze” 55. Se l’azione di Abdul Hamid II non fece che favorire il lento ma inesorabile processo di politicizzazione del nazionalismo arabo contro l’Impero Ottomano, il processo di disaffezione degli arabi nei confronti del governo ottomano raggiunse l’ultimo stadio prima dell’esplosione finale proprio con la rivoluzione dei Giovani turchi. È in questo complicato quadro condizionato dal fermento continuo e irrefrenabile di idee, di desiderio di riscatto e di volontà di autonomia che dal 18 al 21 giugno del 1913 si tenne a Parigi, presso la Sala delle Conferenze della Società Geografica, il Primo Congresso Generale Arabo. Fortemente voluto dall’associazione al-Fatat56 che si era fatta convinta promotrice dell’evento, il Congresso, presieduto dallo sceicco Abdullhamid el-Zahraoui, radunava 23 delegati, cristiani e musulmani in pari numero e un ebreo, più di duecento partecipanti arabi che rappresentavano varie organizzazioni nazionaliste cristiane e musulmane57, e un gruppo di francesi invitati a partecipare alla chiusura dei lavori. Esattamente come era già emerso negli affari della Montagna libanese, anche al congresso furono subito evidenti almeno due macro-correnti, divise poi al loro interno in varie e più dettagliate prospettive: i“decentralizzatori” e i “riformisti”. I primi pur restando fedeli al “contenitore imperiale” domandavano una radicale decentralizzazione e una più profonda autonomia de jure delle province arabe. Durante la guerra questa posizione sarebbe stata particolarmente indebolita dall’azione fomentatrice anti-ottomana degli anglo-francesi, dalle draconiane decisioni dell’Impero ottomano come quella di sospendere nuovamente la costituzione e soprattutto dalla dura repressione portata avanti dall’impero nella regione siro-libanese. Il secondo gruppo, i cosiddetti “riformisti”, al contrario, erano pronti a domandare l’appoggio delle potenze europee pur di ottenere un’indipendenza completa dall’Impero. Questo secondo gruppo criticava profondamente la gestione ottomana degli affari dell’impero e desiderava che il califfato tornasse di matrice araba. Il 21 giugno, i delegati arabi adottarono dieci risoluzioni che avrebbero rappresentato l’agenda del movimento e che vengono comunemente ricordate come la prima espressione delle rivendicazioni arabe tramite un’istanza rappresentativa. Con le risoluzioni del 21 giugno i delegati arabi rivendicavano prima di tutto, una più grande partecipazione negli affari dell’Impero e dell’esercito, una decentralizzazione dei poteri, la tutela dei loro diritti e la possibilità di esercitarli compiutamente e, da un ultimo ma non meno importante, il rispetto della lingua araba. Le richieste erano ancora relativamente moderate e soprattutto rimanevano ancorate ad un piano d’azione “laico”, facendo riferimento all’arabità e non agli aspetti confessionali. Il congresso del 1913 rappresenta l’ultimo estremo tentativo di dialogo avanzato dal nazionalismo arabo verso i turchi; il tentativo non ebbe però le conseguenze sperate anche perché a distanza di pochi mesi il mondo si sarebbe trovato coinvolto nel Primo conflitto mondiale. Il cerchio, e con esso le possibilità di dialogo e di compromessi, si chiuse definitivamente nel 1915 quando tra i tanti “cospiratori” uccisi durante il periodo di terrore sotto il governatore ottomano in Siria, Ahmed Cemal pascià, ci fu proprio il capo nazionalista, al- DD a stampa, Serie XLIII- Libano (1982 – 1915), anno 1908, n. 201, Il Reggente la R. Agenzia diplomatica al Cairo, P. L. Grimani, al Ministro degli affari esteri, A. di San Giuliano, Ramleh (Alessandria), 1° ottobre 1912. 56 L’Associazione giovani arabi, nota con il nome di al-Fatat (dal nome arabo Jam’iyya al-‘Arabiyya al-Fatat) era stata creata nel 1909 a Parigi da un gruppo di musulmani siriani. 57 C. Saint-Prot, Le Mouvement national arabe. Emergence et maturation du nationalisme arabe de la Nahda au Baas, Ellipses, Parigi, 2013; C. Saint-Prot, Le nationalisme arabe : Alternative à l'intégrisme, Edition Ellipses Marketing, Parigi, 1998; P. Guingamp, Hafez El Assad et le parti Baath en Syrie, L'Harmattan, Parigi, 1996. 55 Zahraoui, colui che aveva presieduto il Congresso arabo di Parigi nel 191358. A quel punto si sarebbe definitivamente consumata la rottura tra l’Impero e il movimento nazionalista arabo in tutte le sue sfaccettature; gli arabi abbandonarono per sempre l’idea di far parte dell’Impero Ottomano, ammesso che questo fosse sopravvissuto, e si girarono verso la famiglia hascemita di Hussein e i suoi sostenitori europei nella speranza di ottenere l’aiuto necessario per liberarsi definitivamente dall’ingombrante fardello ottomano. Nonostante i suoi scarsi risultati il Congresso del 1913, tuttavia, rimane un evento di portata storica poiché ha rappresentato al contempo fine e inizio per il nazionalismo arabo: la fine di un certo nazionalismo sottotono e ancora troppo accomodante e l’inizio di quel progetto panarabo chiaramente di matrice politica che avrebbe portato al Congresso di Gerusalemme nel 1931 a quello di Bloudane nel 1937 e dopo la Seconda guerra mondiale sarebbe stato il fondamento teorico del progetto nasseriano stesso. Nell’autunno del 1913, a pochi mesi dallo scoppio della Prima guerra mondiale, sembrava che i mali dell’età moderna si fossero scatenati tutti insieme nel vacillante Impero ottomano: le guerre balcaniche, l’avventura italiana in Libia, il nazionalismo arabo, le cospirazioni delle società segrete di Damasco, gli intrighi anglo-francesi, i progetti dello sceriffo della Mecca, Hussein Ibn Ali. Furono tutte queste vicende, nel loro insieme, a portare lentamente ma inesorabilmente verso il crollo dell’Impero ottomano: “le perdite territoriali non erano state solo dannose sul piano strategico ma addirittura umilianti, visto che gli avversari della Turchia ridacchiavano contando le proprie vittorie, con la connivenze delle grandi potenze nella spartizione” 59. Nonostante tutti gli sforzi che gli Ottomani avevano portato avanti per difendere, ristrutturare e modernizzare il loro impero, alla fine l’impero non seppe resistere alle pressioni interne indipendentiste e a quelle esterne europee. Indebolito dalle difficoltà economiche e sociali, l’Impero Ottomano fu sempre meno capace di contenere le ambizioni delle Potenze europee nella regione; d’altro canto anche le potenze europee cominciavano ormai ad assumere un atteggiamento sempre più provocatorio nei confronti del morente impero: la tentazione europea a cavallo tra i due secoli era ormai evidentemente quella di smembrare l’Impero Ottomano per proteggere e aumentare gli imperi coloniali europei. Le comunità che avevano composto l’impero maggiormente multietnico della storia vennero spinte verso la resistenza incrinando l’originale struttura dei millet60. In questo senso, furono soprattutto gli arabi, presso i quali l’ideologia nazionalista sembrò sempre più assumere una veste politica, a determinare il definitivo allontanamento delle periferie dall’Impero centrale. La dottrina politica dei nazionalisti arabi si presentò presto come l’esatto corrispettivo, in veste araba, del nazionalismo turco-ottomano portato avanti dai Giovani Turchi e tendente al medesimo risultato: la creazione di un’idea e di una conseguente entità nazionale. 58 Insieme a lui, nel maggio del 19016 furono giustiziati anche due membri di al-Fatat: Muhammad al-Mihmisani e Abd al-Ghani al-Uraysi, in E. Rogan, La grande guerra nel Medio Oriente, Bompiani, Milano, 2016, p. 44, nota n. 34. 59 S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano. La guerra, la rivoluzione e la nascita del moderno Medio Oriente. 1908 – 1923, Einaudi, Torino, 2015, p. 86. 60 Il termine ottomano millet, riprendendo il concetto islamico di dhimmi, indica una comunità religiosa protetta. Il termine millet ha finito, per analogia concettuale, per designare la struttura organizzativa dell’Impero Ottomano: esso fa, infatti, riferimento ad un’entità amministrativa con ampi poteri autonomi rispetto all’Impero centrale. 2. La Prima guerra mondiale nel Levante e il consolidamento di un nazionalismo arabo antiottomano Come visto, molti dei presupposti dell’agitazione araba erano già stati posti nel periodo delle tanzimat; con l’entrata in guerra dell’Impero ottomano tutte le tensioni, già profondamente maturate durante tutto l’Ottocento, si sarebbero definitivamente palesante nella loro più profonda intensità. Storicamente, infatti, la nascita del nazionalismo arabo, in quanto coscienza nazionale e obiettivo politico61, si colloca proprio durante gli anni della Prima guerra mondiale. Per quanto la guerra arrivò nel Levante anche nella sua più naturale forma, quella militare, portando dunque con sé i reclutamenti di migliaia di giovani, i caduti e i feriti in combattimento, le campagne militari e le armi62, si potrebbe dire che l’impatto più grave e oscuro della Prima guerra mondiale nella regione levantina fu sullo “spirito” del popolo arabo, cioè proprio sul suo più sincero bisogno di ricercare una propria identità nazionale che prescindesse da quella imperiale ottomana. Persino nei primi anni di guerra il mondo arabo levantino continuò a dimostrare una certa lealtà verso l’Impero e il suo Sultano, tanto che addirittura ancora nell’estate del 1918 Lazzaro Negrotto Cambiaso, Console generale al Cairo, riferiva al ministro degli esteri, Sidney Sonnino, che “nonostante i benefici innegabili apportati dalla Amministrazione britannica [in Palestina], l’elemento musulmano continua a tenere un attitudine molto riservata e sembra nel fondo rimpiangere il regime turco.”63. Nonostante la sensazione provata dal Console generale sarebbe stato proprio nel contesto della Prima guerra mondiale che l’opposizione araba si sarebbe fatta assoluta e di conseguenza avrebbe mostrato una certa disponibilità, del vero timida all’inizio, a rivoltarsi contro l’Impero. Questa cristallizzazione sarebbe avvenuta soprattutto intorno a due elementi fondamentali: da un lato, la sanguinaria repressione che l’Impero ottomano attuò durante la guerra nei confronti di molte delle minoranze non-turche dell’impero, accusate di tradimento; dall’altro, l’aggravamento delle condizioni di sussistenza nella regione e le politiche di requisizione dell’esercito ottomano. Sotto il primo profilo la figura e l’operato del comandante della IV armata e Governatore ottomano in Siria64, Ahmed Cemal pascià, risultarono uno dei punti chiave. Durante la guerra il Governatore turco avviò nella provincia siriana un processo di turchizzazione dell’elemento arabo al quale aggiunse una politica di dura repressione, tanto da valergli il soprannome di al-Saffah, «il sanguinario», contro coloro che erano sospettati di tendenze separatiste o di tramare contro l’Impero. I documenti sequestrati ai consolati francesi di Beirut e Damasco65 furono utilizzati per dimostrare le trame di alcuni tra i più illustri esponenti del mondo politico e intellettuale beirutino-damasceno i quali fin dall’inizio del secolo avevano complottato contro l’Impero cercando di ottenere dalle capitali 61 V. K. Kappat, The politicisation of Islam, Reconstructing Identity, State, Faith and Community in the late Ottoman State, Oxford University Press, New Yok, 2001. 62 Sugli aspetti militari delle Campagne nel Vicino Oriente v. in particolare S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit.; E. Rogan, La Grande Guerra nel Medio Oriente, Op. cit.; J. Salt, La disfatta del Medio Oriente. Due secoli d’interventi occidentali nei paesi islamici, Castelvecchi, Roma, 2013. 63 ASMAE, AP 1915 – 1918, b. 184, f. Parte Generale Siria e Palestina, Riservatissimo n. 1915/265, dal Console Generale al Cairo, Negrotto Cambiaso, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Bulkeley Ramleh, 19 luglio 1918, corsivo aggiunto. 64 A metà novembre del 1914, Enver, ministro della guerra, affidò a Cemal l’incarico di creare un’armata in Siria per condurre un attacco alle posizioni britanniche nel Sinai. Il 21 novembre Cemal partì per la Siria dove vi giunse il 6 dicembre. 65 Subito dopo l’entrata n guerra, infatti, le autorità turche ordinarono il sequestro degli archivi dei consolati britannico e francese di Beirut e Damasco proprio per avere accesso alle informazioni segrete che potevano contenere. europee, soprattutto quella francese, un sostengo alle aspirazioni autonomiste arabe. In questa “caccia alle streghe”, il Governatore Cemal accusò di alto tradimento decine di siriani e libanesi, indistintamente cristiani e musulmani (anzi proprio su quest’ultimi più si scatenò l’ira del Governatore66). Nel giugno del 1915 venne istituito un Tribunale militare nella regione del Monte Libano con il compito di giudicare sui presunti traditori. La prima impiccagione ebbe luogo a Beirut il 21 agosto del 1915; a partire da questa data le impiccagioni in pubblica piazza furono all’ordine del giorno e contribuirono a generare un clima di profondo terrore: militari, uomini di cultura, uomini di chiesa, talvolta persino invalidi o feriti, venivano detenuti nel carcere di Aley, nel Monte Libano, per poi essere impiccati nella piazza centrale di Beirut o in quella di Damasco. Alle impiccagioni dovevano poi aggiungersi i centinaia di uomini che finirono in prigione e i migliaia che furono costretti all’esilio. Esattamente come era già successo con la repressione hamidiana, anche quella dei Giovani turchi durante la Prima guerra mondiale giocò un ruolo unificatore, galvanizzando l’idea di una comune appartenenza e soprattutto quella dell’esistenza di un comune nemico, personificato dall’Impero, contro il quale bisognava lottare in un impeto comunitario per l’indipendenza araba. Abd al-Rahman Shahbandar, nazionalista siriano, parlando nei suoi scritti della morte di Selim al-Jazairi, ufficiale dell’esercito ottomano impiccato con l’accusa di alto tradimento, sintetizzò perfettamente quello che era ormai lo stato d’animo di molti siriani e libanesi: “le grand officier qui avait, en 1908, fustigé des frères arabes [pour leur infidélité à l’Empire] s’en est allé vers les potences dressées par le bourreau Ahmad Jamal Pacha pour les grands hommes arabes, le 6 mai 1916. C’est ce retournement qui m’a ouvert les yeux sur le danger que courrait la patrie arabe. Alors nous primes cette voie nationale nouvelle.”67. Nel 1917 il capo del Servizio Informazioni del Comando Supremo italiano, Giovanni Garruccio, in un telegramma al Ministro degli Esteri, Sonnino, disegnava il regime di Cemal come un vero e proprio regime del terrore: “Gemal Pascià, che comanda in qual disgraziato paese [Siria], continua a servirsi di un regime di vero terrore: in tutte la città e villaggi della Siria, quotidianamente, penzola qualche impiccato, condannato non tanto per relazioni passate (durante la pace) con i Consoli di Francia, quanto per servire di esempio e di terrore alla popolazione” 68. Se le élite intellettuali e militari erano particolarmente terrorizzate dalla politica di repressione di Cemal, il resto della popolazione era vessata soprattutto dalla fame la quale fu il “nemico” che, soprattutto nella regione del Monte Libano, fece più vittime. Del resto, secondo molti siro-libanesi era stato lo stesso Cemal a portare nella regione la terribile disgrazia della fame. La questione della circoscrizione obbligatoria voluta nel 1908 dai Giovani turchi, con la quale si era definitivamente messo fine al principio di protezione delle minoranze non musulmane 69, e soprattutto la politica di 66 Cemal arrivò anche ad impiccare a Damasco il figlio di Abdel Kader il quale vantava persino una discendenza diretta con il Profeta, DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. 363, Il Capo del Servizio Informazioni del Comando Spremo, G. Garruccio, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Roma, 23 febbraio 1917. 67 Abd al-Rahman Shahbandar, Ahammu Hadith athara fi majra hayati, (L’événement qui a déterminé le cours de ma vie), Al-Maqâlât, Damas, 1993, p. 137; il passaggio tradotto in francese è riportato in L. Dakhli, Comment la première guerre mondiale a transformé le Proche-Orient, OrientXXI, https://orientxxi.info/l-orient-dans-la-guerre-19141918/comment-la-premiere-guerre-mondiale-a-transforme-le-proche-orient,0734 (consultato in data 7 marzo 2018) 68 DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. 363, cit. 69 Con l’entrata in guerra l’Impero ottomano aveva richiamato alle armi tutti gli uomini fino ai 45 anni, fossero essi musulmani o cristiani. Questi ultimi fino a quel momento avevano avuto la possibilità di essere esentati tramite il pagamento di un’imposta. Nonostante la coscrizione obbligatoria l’esercito turco, nel 1917, contava, secondo i dati del Servizio Informazioni del Comando Supremo italiano, soltanto 700.000 uomini; DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. requisizione portata avanti dall’Impero con lo scopo di garantire approvvigionamenti all’esercito imperiale, avevano affamato la popolazione locale gettandola in uno stato di totale miseria. Jeremy Salt traccia un quadro abbastanza preciso delle conseguenze generate dal mostro della fame 70: “A Beirut e in altre città le donne e i bambini rovistavano nella spazzatura in cerca di cibo o estirpavano le erbacce per mangiarle i malati affamati morivano per le strade. Sul Monte Libano interi villaggi cominciarono a perire: gli uomini si allontanavano per morire lontano dalla viste delle donne e dei bambini, e la gente staccava le tegole dei tetti per rivenderle e comprare il pane.”71. In questo senso il 1915 marca un momento fondamentale nella guerra nel Levante poiché la “politica sistematica della fame” comincia ad essere utilizzata consapevolmente come tattica di guerra per ridurre l’opposizione interna e per frenare la temibile minaccia proveniente dal nazionalismo arabo 72. La regione levantina assume così un’altra particolare caratterizzazione nel primo conflitto mondiale: essa diventa la sede di una guerra “sporca” tra gli anglo-francesi e l’Impero Ottomano in cui più che i morti al fronte si contavano quelli tra la popolazione civile. Del resto, turchi e anglo-francesi si scambiavano a vicenda l’accusa di utilizzare l’arma della “fame” contro le popolazioni levantine per poter meglio perseguire i propri fini bellici. Gli anglo-francesi accusavano Cemal di voler affamare la popolazione per stroncare il nazionalismo arabo; dal canto suo Cemal rivolgeva le medesime accuse agli anglo-francesi i quali erano i veri nemici e affamatori della regione siro-libanese poiché il blocco navale alleato imposto nei primi mesi di guerra non consentiva neanche alle navi con gli aiuti umanitari di entrare nei porti del Vicino Oriente 73. Giovanni Garruccio, rappresentando al Ministro degli esteri Sonnino tutta la tragicità della situazione nella provincia siriana dove un “quinto della popolazione è morto di fame, di miseria, di malattie, durante la guerra” 74 sottolineava che nel solo Libano erano morte più di 150 mila persone e che proprio l’altissimo prezzo pagato dalla regione faceva pregare ai siro-libanesi di essere liberati il prima possibile dalla crudeltà ottomana e faceva loro rivolgere tutte le speranze verso la rivolta dello sceriffo della Mecca: “Da questi [dall’esercito dello Sceriffo Hussein] i Mussulmani di Siria attendono la liberazione, pronti alla rivolta, al primo barlume di successo, tanto che nelle moschee si prega già per la di lui vittoria sui turchi”75. La tragedia della guerra, la repressione ottomana contro le minoranze e l’alto prezzo pagato dalla regione siro-libanese in termini di vite umane, non soltanto per gli uomini mandati al fronte ma soprattutto per i civili affamati dalle requisizioni, dalla siccità, dalla carestia e, nel marzo del 1915, persino da un’invasione di locuste76, furono i veri catalizzatori di una nuova coscienza politica; proprio quest’ultima ormai quasi interamente matura allo scoppio della guerra e sulla strada di una 363, Il Capo del Servizio Informazioni del Comando Spremo, G. Garruccio, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Roma, 23 febbraio 1917. 70 J. Salt, La disfatta del Medio Oriente, Op. cit., pp. 56 – 57. Particolarmente toccati anche le pagine scritte da G. Antonius, The Arab Awakeing, Hamish Hamilton, Londra, 1938, p. 241 ss. 71 J. Salt, La disfatta del Medio Oriente, Op. cit., p. 56. 72 Ibidem 73 V. E. Rogan, La Grande Guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 447 – 448. 74 DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. 363, Il Capo del Servizio Informazioni del Comando Spremo, G. Garruccio, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Roma, 23 febbraio 1917. 75 Ibidem 76 Si stima che la carestia causò fra i 300.000 e 500.000 morti in Siria e Libano tra il 1916 e la fine della guerra, v. E. Rogan, La Grande guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 446. reale trasformazione in un movimento nazionalista77, avrebbe condotto i paesi arabi, tra il 1915 e il 1918, lungo il sentiero delle prime rivendicazioni e poi definitivamente, nel secondo dopoguerra, verso l’indipendenza. In una tragica spirale funebre, tanto più aumentava la repressione nella regione siro-libanese, tanto più aumentava il sentimento nazionalista e la voglia di ritorsione nei confronti dell’Impero, tanto più, infine, la situazione volgeva a favore delle potenze europee. Gli anglo-francesi seppero cogliere l’occasione che veniva offerta dalla draconiana politica turca verso gli arabi cominciando ad inserirsi nel mondo arabo tramite l’assai aleatoria moneta delle “promesse” 78. In questo modo cercarono di guadagnarsi l’appoggio delle popolazioni arabe del Levante in funzione anti-ottomana, sfruttando il neanche troppo latente nazionalismo arabo: “[…] l’Inghilterra non può ignorare la forza rappresentata dall’elemento arabo, su cui anzi cerca di appoggiarsi, come lo dimostra la richiesta fatta allo Sceriffo della Mecca di cooperare, mediante l’invio di truppe arabe, all’azione contro i Turchia nella Soria.”79 Elie Kedourie parla a tal proposito di una “deliberata strategia delle grandi potenze europee, che trovarono utile fomentare le agitazioni nazionaliste in territori appartenenti a potenze rivali o nemiche”80. In un costante sforzo volto ad assicurare alle popolazioni indigene l’indipendenza in cambio del loro supporto contro la Sublime Porta, inglesi e francesi si affannarono a emettere in numerose circostanze, oralmente e per iscritto, una molteplicità di dichiarazioni volte a supportare le loro promesse81. Ma mentre si prometteva e si proclamava l’indipendenza dei territori arabi dell’ormai morente Malato d’Europa, Francia, Gran Bretagna e Russia82 concludevano, il 16 maggio 1916, l’accordo passato alla storia con il nome dei negoziatori anglo-francesi, Mark Sykes, per la Gran Bretagna, e François George Picot, per la Francia83. I negoziati tra gli anglo-francesi iniziarono 77 Per una storia del nazionalismo arabo, delle sue diverse manifestazioni e correnti, si veda, tra gli altri M. Campanini, Storia del Medio Oriente contemporaneo, il Mulino, Bologna, 2014 e M. Campanini Storia del Medio Oriente 1798 – 2006, Il Mulino, Bologna, 2007; O. Carre, Le nationalisme arabe, Fayard, Parigi, 1993; J. L. Gelvin, Storia del Medio Oriente moderno, Einaudi, Torino, 2009; A. Hourani, Storia dei popoli arabi. Da Maometto ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 1986; A. Merad, Islam et nationalisme arabe à la veille de la première guerre mondiale, in “Oriente Moderno”, 4-5, pp. 213 – 222; P. Khoury, Syria and the French mandate: the politics of arab nationalism, 1920 - 1945, Princeton University Press, Princeton, 1987. 78 Il riferimento è al noto carteggio composto da dieci lettere tra lo sceriffo della Mecca, Hussein ibn Ali e l’Alto Commissario inglese per l’Egitto, sir Henry McMahon, che ha rappresentato l’origine della diatriba sul tradimento inglese delle promesse fatte agli arabi sull’indipendenza e per la costituzione di uno stato arabo unitario sotto la dinastia hascemita. La prima lettera risale al 14 luglio 1915 e l’ultima, quella che chiude questa corrispondenza, porta la data del 30 gennaio 1916. L’intero carteggio è disponibile all’indirizzo http://www.jewishvirtuallibrary.org/the-husseinmcmahon-correspondence-july-1915-august-1916 (consultato in data 7 marzo 2018). 79 DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. 436, L’agente diplomatico e Console generale al Cairo, L. Negrotto Cambiaso, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Cairo, 8 marzo 1917. 80 E. Kedourie, Nationalism in Asia and Africa, World Publishing Company, New York, 1970, p. 37. 81 Emblematico in tal senso il proclama del Generale Allenby, comandante delle truppe inglesi nel Levante: “Scopo della Francia e della Gran Bretagna, nell’estendere in Oriente la guerra promossa dalle ambizioni germaniche, è la liberazione completa e definitiva dei popoli lungamente oppressi dai Turchi, e la creazione di governi ed amministrazioni nazionali, che derivino la loro autorità dall’iniziativa e dalla libera scelta delle popolazioni indigene”, estratto da Palestine News, periodico ufficiale del Corpo di occupazione Allenby riportato in A. Ausiello, La Francia e l’indipendenza della Siria e del Libano, Proja, Roma, 1938, p. 9- 10. 82 Ausiello contesta in generale l’azione della potenza mandataria francese nel Levante sottolineando, inoltre, che l’Italia venne tenuta all’oscuro degli accordi Sykes-Picot, “quantunque la sua posizione di unica Potenza interamente chiusa nel Mediterraneo ed i suoi eroici sacrifici non inferiori a quelli degli altri due alleati, rappresentassero titoli più che validi per una compartecipazione agli «utili»”, A. AUSIELLO, La Francia e l’indipendenza della Siria e del Libano, Op. cit., p. 6 83 Come sottolinea McMeekin sarebbe più corretto riferirsi agli accordi del maggio 1916 con il nome di Accordi SazonovSykes-Picot, S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 289. in realtà già nel 1915, quando i britannici invitarono il ministro francese Aristide Briand ad inviare a Londra un rappresentante del governo francese con l’incarico di negoziare le richieste della Francia in Medio e Vicino Oriente; il 9 marzo i negoziatori anglo-francesi, Sykes e Picot, si ritrovarono a San Pietroburgo per valutare insieme all’alleato russo quale assetto avrebbe assunto il territorio dell’Impero ottomano una volta che la guerra fosse finita. Prima di arrivare a San Pietroburgo i negoziatori britannico e francese avevano già raggiunto un accordo di massima sulla spartizione immaginata, accordo che sarebbe sostanzialmente corrisposto alla nota spartizione mandataria dato che la Russia post Brest-Litovsk rinunciò a qualsiasi pretesa, uscendo dal gioco degli accordi84. L’accordo raggiunto85 prevedeva che a guerra finita la Francia avrebbe avuto la sua zona di occupazione (Zona Blu) sul territorio dell’attuale Libano e sulla Cilicia, ed una zona di influenza (Zona A) che avrebbe compreso la Siria e il nord dell’attuale Iraq con la provincia di Mosul. Dal canto suo, la Gran Bretagna avrebbe ricevuto come zona di amministrazione diretta (Zona Rossa) la regione fertile della Mesopotamia meridionale, compresa fra Bagdad e il distretto di Bassora; la zona di influenza britannica (Zona B) avrebbe invece compreso il resto dell’Iraq e la zona attualmente divisa tra Giordania e Israele. I territori di San Giovanni d’Acri, Haifa e Gerusalemme (Zona Bruna) venivano invece sottoposti ad un’amministrazione internazionale da definirsi nelle sue specifiche caratteristiche in un secondo momento86. L’accordo mirava dunque a ridisegnare la carta geografica delle province dell’Asia araba che erano appartenute all’Impero Ottomano una volta che la guerra fosse finita e che Francia e Gran Bretagna, presumibilmente potenze vincitrici, sarebbero potute tornare a spartirsi il mondo in ossequio alla tipicamente ottocentesca impostazione ideologica colonialista87. Adottando una prospettiva di lungo corso, l’accordo del maggio 1916 si sarebbe dimostrato di fondamentale importanza: esso incise profondamente su quello che sarebbe stato l’assetto politico e geografico del Vicino Oriente dalla fine della Prima guerra mondiale fino ai giorni nostri. Gli accordi di Sykes-Picot furono il vero giro di boa per la regione del Vicino Oriente anche perché con essi venivano naturalmente meno molte delle promesse fatte fino a quel momento al mondo arabo, soprattutto quelle contenute nel famoso carteggio Hussein-MacMahon88. Proprio per questa peculiare ambivalenza delle promesse britanniche, l’accordo di Sykes-Picot non fu reso 84 Sul ruolo della Russia e del suo ministro degli esteri Sergej Sazonov nelle negoziazioni di Sykes-Picot v. S. McMeekin, Il crollo dell’Impero Ottomano, Op. cit., pp. 287 – 292. 85 Il testo dell’accordo Sykes-Picot è disponibile online http://opil.ouplaw.com/page/Sykes-Picot/the-sykespicotagreement-may-1916 . 86 Nell’accordo di maggio alla Russia venivano riconosciute come zone di controllo diretto l’Armenia turca (la regione cioè che si estendeva tra Trebisonda e Siirt) e l’Azerbaigian persiano, la regione cioè intorno al Lago di Urnia. 87 In realtà gli accordi di Sykes-Picot prevedevano la formazione di uno stato arabo. Questi territori attribuiti agli arabi venivano divisi in due zone in quanto agli effetti economici e amministrativi: la zona A, di influenza francese, comprendente il nord dall’attuale Siria e la provincia di Mosul, e la zona B, assegnata all’influenza della Gran Bretagna e comprendente il sud dell’attuale Siria e la regione della Palestina, attualmente divisa tra Giordania e Israele. I territori fuori dallo Stato arabo venivano invece divisi in tre zone: zona bleu, comprendente il Libano e la Cilicia ad amministrazione diretta francese; la zona rossa che, sotto amministrazione diretta della Gran Bretagna, avrebbe dovuto comprendere il Kuwait attuale e la Mesopotamia; e la zona bruna, ossia San Giovanni d’Acri, Haifa e Gerusalemme, sottoposta ad amministrazione internazionale. Nel dicembre del 1918 gli anglo-francesi avrebbero rivisto l’accordo con riferimento alla zona di Mosul. La Francia accettò di rinunciare alla zona di Mosul in cambio di una parte della petrolio della regione. Sugli accordi di Sykes-Picot si v. H. Laurens, Comment l'Empire ottoman fut dépecé, in “Le Monde Diplomatique”, avril 2003. 88 I documenti diplomatici che compongono il carteggio sono interamente disponibile online su http://www.jewishvirtuallibrary.org/the-hussein-mcmahon-correspondence-july-1915-august-1916 . Per un commento sul carteggio v., in particolare, E. Rogan, La Grande guerra nel Medio Oriente, Op. cit., pp. 433 ss. pubblico, rimanendo segreto fino alla sua pubblicazione da parte della Russia dopo l’armistizio di Brest-Litovks del 3 marzo 1918. In realtà Eugene Rogan sostiene che Hussein ibn Ali, sceriffo della Mecca, e suo figlio Faysal non fossero del tutto all’oscuro del piano di spartizione anglo-francese89. E infatti alcuni accenni in tal senso venivano riferiti anche dalle cancellerie europee. Il 25 aprile del 1917, il Console Lazzaro Negrotto Cambiaso riferiva al ministro Sonnino che in quei giorni era giunto a Il Cairo proprio il Signor Picot, il quale ricevendo una delegazione siro-libanese, aveva dichiarato “esistere perfetto accordo tra alleati circa sistemazione Siria, Libano, Arabia, Armenia e che alla Francia era stata riconosciuta qualità di potenza “patronale” per Siria e Libano, aggiunse che la sua venuta significava principio esecuzione di detto accordo assicurando che verrebbero rispettati i privilegi del Libano e che aspirazioni popolazione siriana sarebbero tenute in debito conto. Censura non ha permesso pubblicazione questa dichiarazione come pure oggetto missione Picot che evidentemente è relazione cooperazione militare Siria.”90. La percezione che gli anglo-francesi stessero tramando qualcosa alle spalle degli arabi e di Hussein emerse nuovamente nel maggio dello stesso anno in un altro rapporto del Console Negrotto Cambiaso: “Signor Picot prima di partire per il fronte Palestina ha tenuto ai Siriani di Alessandria d’Egitto linguaggio analogo a quello riferito nel telegramma suddetto. Non sembra però che impressione sia stata favorevole perché Siriani temono per la loro autonomia tanto più che su questo punto Picot non volle pronunziarsi benché espressamente interpellato. Questo Delegato Governo Hedjaz è pure preoccupato sembrandogli che Inghilterra, contrariamente alle continue assicurazioni ed a intese passate collo Sceriffo della Mecca, lasci mano libera alla Francia in Siria.”91. Dunque, le promesse dei britannici agli arabi si condensavano sostanzialmente nel carteggio HusseinMcMahon, carteggio nel quale i termini usati rimasero molto vaghi e volontariamente imprecisi in ossequio ad una certa pratica diplomatica: “L’ambiguità intenzionale è una comune prassi diplomatica adottata dai governi quando non vogliono rivelare le loro vere intenzioni” 92. Il pomo della discordia avrebbe riguardato soprattutto la Siria93 contesa tra gli interessi francesi e quelli arabi. Sui primi non vi erano dubbio alcuno: “Quanto alla Francia, che ha riaffermato e riafferma continuamente le sue tradizionali aspirazioni sulla Siria e sulla Palestina, non possono esistere dubbi od esitazioni circa i suoi sentimenti verso il nuovo Stato arabo e le sue pretese espansioniste. Il linguaggio di una parte della stampa francese favorevole alla emancipazione delle popolazioni arabe soggette alla Turchia va interpretato quindi come una manifestazione dettata dalla opportunità del 89 Ivi, p. 546 ss. DDI, Serie V 1914 – 1918, vol. VII, n. 822, L’agente diplomatico e console generale al Cairo, L. Negrotto Cambiaso, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Cairo, 25 aprile 1917. 91 DDI, Serie V 1914 – 1918, vol. VII, n. 905, L’agente diplomatico e console generale al Cairo, L. Negrotto Cambiaso, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Cairo, 6 maggio 1917. 92 J. Salt, La disfatta del Medio Oriente, Op. cit., p. 78. 93 La lettera incriminata era quella del 24 ottobre 1915 scritta da McMahon: “The two districts of Mersina and Alexandretta and portions of Syria lying to the west of the districts of Damascus, Homs, Hama and Aleppo cannot be said to be purely Arab, and should be excluded from the limits demanded”. 90 momento e con l’esclusione, in ogni caso, delle due regioni alle quali non credo che in Francia nessuno voglia rinunziare.”94 Anche sui secondi, del resto, non ci si poteva fare grandi illusioni di ridimensionamento. Già nel 1915, poco dopo lo scoppio della guerra, i nazionalisti arabi avevano presentato a Faysal un piano, noto come Protocollo di Damasco95, per la costituzione di un futuro stato arabo, con il quale si professava la volontà del movimento di sostenere la rivoluzione araba ai danni dell’Impero stante, in contropartita, la promessa britannica di riconoscere la creazione di uno stato arabo. Sulla base della difesa delle richieste avanzate con il Protocollo si autorizzava Hussein a negoziare con i britannici. Il documento stesso faceva riferimento a precisi confini di questa auspicata entità statale araba, confini i quali si sarebbero dovuti estendere dalle Province dell’Asia ottomana del nord fino all’est del Sinai, incluse Siria, Palestina e Mesopotamia, ponendo così tutti i popoli di lingua araba sotto un unico stato96. L’accordo di Sykes-Picot era abbastanza chiaro circa il destino del territorio della Siria e questo nonostante Hussein e i nazionalisti arabi avessero continuato per tutto il biennio a manifestare chiaramente quelle che erano le loro richieste e aspettative: “Re Hedjaz giunto ieri a Gedda ha avuto un lungo colloquio col signor Picot […] Al colloquio era presente l’Emiro Faisal arrivato con nave da guerra inglese da Iwegh. Da fonte sicura mi risulta che il signor Picot avrebbe cercato mediante concessioni di stabilire un accordo col Re dell’Hedjaz circa regolamento della questione indipendenza politica della Siria da parte della Francia. Re Hedjaz avrebbe dichiarato al Signor Picot essere questione indipendenza di quelle province assolutamente connessa con quella degli altri paesi arabi soggetti alla Turchia, e, come arabo e musulmano Re Hedjaz non saprebbe transigere su questo punto senza venire meno alla difesa degli interessi arabi in genere e di quelli musulmani in particolare, ritenendo unione dei paesi arabi soggetti alla Turchia sotto un solo scettro e col controllo gradito delle potenze alleate sia messo per garantire eguaglianza dei diritti politici e religiosi fra le popolazioni cristiane e musulmane arabe e per assicurare esistenza e incremento civiltà alla nazione araba, giusto desiderio espresso dalle potenze alleate. Re Hedjaz avrebbe in ultimo declinato ogni responsabilità per una diversa soluzione della questione della Siria.”97. Del resto come ebbe modo di precisare il rappresentante in Egitto del Governo dell’Hedjaz, Sayed Mohamed el-seerif el-Faruki, in un colloquio con il Console generale italiano al Cairo, Negrotto Cambiaso, il sottosuolo dell’Hedjaz era troppo povero per poter assicurare ad un futuro regno arabo DDI, V Serie, 1914 – 1918, Vol. VIII, n. 457, L’Agente e Console Generale al Cairo, Negrotto Cambiaso, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Cairo, 25 giugno 1917. 95 Il testo del Protocollo di Damasco è riportato in R. Baker, King Husain and the kingdom of Hejaz, The Oleander Press, Cambridge, 1979, p. 65. 96 “The recognition by Great Britain of the independence of the Arab countries lying within the following frontiers: North: the line Mersin-Adana to parallel 37°N and thence along the line Birejik-Urfa-Mardin-Midiat-Jazirat (ibn-‘Umar)Amadia to the Persian frontier; East: The Persian frontier down to the Persian Gulf; South: The Indian Ocean (with the exclusion of Ades whose status was to be maintained); West: The Red Sea and Mediterranean Sea back to Mersin.”. Oltre all definizione dei confine, il protocollo prevedeva ulteriori specifiche condizioni: “The abolition of all exceptional privileges granted to foreigners under the Capitulations. The conclusion of a defensive alliance between Great Britain and the future independent Arab State. The granting of economic preference to Great Britain”. 97 DDI, V Serie 1914 – 1918, vol. VIII, n. 39, Il Console a Gedda, V. Bernabei, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Gedda, 20 maggio 1917, corsivo aggiunto. 94 di estensione geografica limitata a questo territorio, una sopravvivenza autonoma; da ciò, concludeva el-Faruki, dipendevano “le mire verso la Siria, con Damasco antica sede del Califfato arabo” 98. La pubblicazione degli accordi Sykes-Picot generò un momento di turbamento in Hussein e in Faysal; dopo le doverose richieste di spiegazioni al governo di Sua Maestà e dopo aver ricevuto più tergiversazioni che spiegazioni, i due leader arabi decisero di continuare sulla strada della rivolta. Hussein e i suoi figli “si erano spinti troppo avanti nella rivolta contro gli ottomani per tornare indietro”99. A quel punto non restava altro da fare se non persistere nella lotta contro l’Impero ottomano cercando e sperando di potersi garantire, attraverso il successo militare, ciò che britannici e francesi parevano negare con le loro trame diplomatiche100. Del resto tra il maggio del 1917 e la pubblicazione degli accordi di Sykes-Picot un altro evento aveva particolarmente segnato le coscienze arabe. La situazione, le aspettative e le macchinazioni si erano ulteriormente complicate nel 1917, quando, il 2 novembre, i britannici, in una strategia doppiogiochista altamente pericolosa che trovava giustificazioni soltanto nel momentaneo contesto bellico ma che poco guardava al futuro, arrivarono a fare nuove promesse anche al movimento Sionista con la nota Dichiarazione Balfour 101. Detta dichiarazione apriva alla possibilità di veder nascere in Palestina un foyer ebraico102. Il Sionismo fu un altro “ottimo ritrovato a servizio delle aspirazioni e della influenza inglese” 103. Parlando dei rapporti tra il Sionismo e la Gran Bretagna e soprattutto dell’uso che i britannici intendevano fare di questa nuova “possibilità”, il Console Negrotto Cambiaso ebbe modo di precisare, con una certa sicurezza nel giudizio, che la Gran Bretagna intendeva sfruttare la causa sionista “per i suoi fini particolari sperando trovare nel sionismo un ottimo alleato per conservare e sviluppare la sua “L’Hedgiaz, mi ha detto El faruki, data la povertà del suolo non offre assolutamente le condizioni essenziali per assicurare al paese una vita indipendente, tanto che attualmente, coll’interruzione dei rapporti economici con la Turchia, deve ricorrere all’Inghilterra per ottenere i mezzi di sussistenza. Tale stato di cose che non potrà migliorarsi neanche dopo la guerra e quindi lo Stato arabo, che si va formando, deve preoccuparsi di trovare altrove le risorse che gli permettono di sussistere e di prosperare. Da ciò le mire verso la Siria, con Damasco antica sede del Califfato arabo”, DDI, Serie V, 1914 – 1918, vol. VII, n. 436, L’agente diplomatico e Console generale al Cairo, L. Negrotto Cambiaso, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Cairo, 8 marzo 1917. 99 E. Rogan, La grande guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 548. 100 Ibidem 101 Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur James Balfour, scrisse una lettera a lord Edmond Rothschild, vice presidente onorario dell’organizzazione sionistica mondiale, in cui faceva riferimento alla possibilità di costituire un focolare nazionale ebraico in Palestina, a condizione che fossero garantiti i diritti, in particolare quelli religiosi, delle popolazioni presenti sul territorio palestinese. La lettera del 2 novembre è comunemente nota con il nome di Dichiarazione Balfour: “His Majesty's Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavors to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country.”. La Dichiarazione è disponibile online http://www.jewishvirtuallibrary.org/text-of-the-balfour-declaration (consultato in data 7 marzo 2018). 102 Sulla questione ebraica nelle sue prime manifestazioni si v. DDI, Serie V, 1914 – 1918, vol. X, n. 49, L’ambasciatore a Washington, V. Macchi di Cellere, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Washington, 7 gennaio 1918; n. 478, Il Ministro degli Esteri, S. Sonnino, agli Ambasciatori a Londra, G. Imperiali, a Parigi, L. Bonin, a Washington, V. Macchi di Cellere, al Ministro a l’Aja, G. Sallier de la Tour, e al Console a Salonicco, G. B. Dolfini; n. 689, Il Ministro degli Esteri, S. Sonnino, al Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, V. E. Orlando, Roma, 14 maggio 1918; n. 716, L’Ambasciatore a Washington, V. Macchi di Cellere, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Washington, 19 maggio 1918; DDI, Serie V, 1914 – 1918, vol. XI, n. 110, Il Sottosegretario agli esteri, L. Borsarelli di Rifreddo, all’Ambasciatore a Londra, G. Imperiali; Roma, 23 giugno 1918; n. 154, l’Ambasciatore a Washington, V. Macchi di Cellere, al Ministro degli esteri, S. Sonnino; n. 159, L’Ambasciatore a Parigi, L. Bonin, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Parigi, 30 giugno 1918. 103 ASMAE, Archivio Politico, 1915 – 1918, b. 184, f. Parte generale Siria Palestina, Riservatissimo n. 1915/265, dal Console Generale al Cairo, L. Negrotto Cambiaso, al Ministro affari esteri, S. Sonnino, Bulkeley Ramleh, 19 luglio 1918. 98 influenza in Palestina senza creare eccessivi sospetti diffidenze e recriminazioni da parte dei terzi104. Già nel 1918 erano abbastanza chiare, quantomeno agli osservatori italiani, le conseguenze di una così spregiudicata politica britannica delle promesse con riferimento alla Palestina: “la opposizione araba contro il sionismo è fortissima. L’aperta parzialità inglese verso i sionisti, il continuo loro contatto col Governo, specie nei primi mesi della occupazione e la dichiarazione ‘Palestina agli ebrei’ ingenerano angoscia e ira raffreddano assai il fervore verso gli inglesi, notabilità arabe notoriamente anglofile e coprenti cariche pubbliche si esprimono amaramente contro la politica del Governo inglese a tale riguardo. […] Si teme tuttora la possibilità di un regime completamente ebraico […]. Anche escluso questo pericolo diretto temesi una prossima futura gran compera di terreni case per la fondazione di colonie, la immigrazione di importanti masse e l’attività bancaria con prevalenza assoluta impediscono di esprimere malcontento nella stampa o pubbliche manifestazioni. […] Arabi cristiani sono in pieno accordo con i maomettani.”105. La profonda dicotomia tra speranze e fatti, tra promesse e menzogne, tra interessi europei e sogno arabo, sarebbe stata una delle principali caratteristiche del primo dopoguerra. Alla fine della guerra l’azione politico-diplomatica britannica tramite la quale si erano promessi gli stessi territori a francesi, arabi ed ebrei, avrebbe mostrato tutte le sue contraddizioni generando il tristemente noto mosaico di rivendicazioni inestricabili e irrisolvibili che ancora oggi caratterizza la regione. Il grande sogno arabo, il diritto dei palestinesi e il sionismo 106 sarebbero stati i grandi temi di tutto il XX secolo e, del resto, la loro importanza continua a rimanere immutata anche nel XXI. Nonostante le discussioni interne al mondo arabo, nonostante la poco chiara posizione britannica e le aspirazioni francesi il nazionalismo arabo era ormai pienamente maturo per poter essere riposto pacificamente il quel vaso di Pandora ormai scoperchiato. Tra il giugno 1916 e l’ottobre 1918, sulla scia del sentimento nazionalista e anti-turco e delle promesse fatte dai britannici si sviluppò quella che è stata definita la Rivoluzione araba o la Grande rivolta araba la quale mirava a creare, sotto la guida dello Sceriffo della Mecca, Hussein ibn Ali, e dei suoi figli, uno stato arabo unificato che si estendesse da Aleppo al golfo di Aden. Se il Congresso di Parigi del 1913 può essere considerato come il momento fondatore del nazionalismo arabo, la rivolta del 1916 ne è la prima battaglia sul campo. Il 10 giugno del 1916 lo sceriffo Hussein, dal suo palazzo nella città sacra della Mecca, sparò un colpo di fucile contro le caserme ottomane dando il via alla sollevazione araba. Le notizie della rivolta si diffusero in tutto il mondo arabo e generarono un crescente eccitamento fra quanti erano rimasti delusi dalla condotta degli ottomani. Tuttavia, non si registrò la partecipazione, soprattutto in termini di diserzioni dall’esercito ottomano, che Hussein e i britannici, si sarebbero aspettati. Alleandosi con gli imperialisti britannici per ottenere l’indipendenza, lo sceriffo aveva infatti esposto il mondo arabo alla dominazione europea. Molti ufficiali arabi avrebbero preferito restare in seno a 104 Ibidem DDI, V Serie, 1914 – 1918, vol. XI, Il Segretario Generale agli Esteri, G. De Martino, all’incaricato d’Affari a Londra, L. Borghese, Roma, 11 settembre 1918; v. anche DDI, V Serie, 1914 – 1918, vol. XI, n. 353, L’Ambasciatore a Londra, G. Imperiali, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, 7 agosto 1918. 106 “Sionismo – Cristiani e musulmani vanno rendendosi conto del significato del movimento e lo guardano con diffidenza e con mal celata preoccupazione. Temono che gli ebrei diventino in grazia dell’appoggio inglese e americano e dei larghi mezzi di cui dispongono, i padroni assoluti della Palestina, che se ne accaparrino le risorse economiche e non lascino loro la possibilità di vivere e di svilupparsi. I cristiani vi sono anche contrari per ragion sentimentali e di religiose, come conseguenza i due elementi sono adnati riavvicinandosi per non rimanere sommersi.”, ASMAE, AP, 1915 – 1918, b. 184, f. Parte generale Siria Palestina, Riservatissimo n. 1915/265, cit. 105 un Impero ottomano riformato, che desse una maggiore autonomia alle province arabe, sostenendo l’idea di una doppia monarchia turco-araba sul modello dell’Impero austro-ungarico. Nelle dinamiche interne al movimento nazionalista arabo, riemergeva cioè quella stessa frattura che aveva caratterizzato il Congresso di Parigi del 1913. Con lo scoppio della rivolta araba nello Hedjaz nel giugno del 1916, gli strateghi militari Alleati puntarono la loro attenzione sul territorio siriano: la strategia militare immaginata era quella di creare un unico fronte rivoluzionario arabo congiungendo la provincia dell’Hedjaz con il territorio siriano. La Siria restava la grande posta in gioco nonché il vero punto debole dell’Impero turco; Cemal con pochi uomini avrebbe dovuto affrontare un attacco portato avanti contestualmente dai britannici in Palestina e dall’irregolare esercito arabo proveniente dall’Hedjaz, dovendo per di più gestire le difficili dinamiche interne di un esercito composto soltanto per metà da turchi e curdi e per l’altra metà anche da arabi107. Sarebbe stato proprio l’insieme dei combattenti arabi irregolari, ad avanzare, poco alla volta per tutta la regione, facendosi strada da sud a nord, dalla Mecca verso Damasco, tramite il deserto, ad arrivare nel settembre del 1918, anche grazie all’azione del celebre Thomas Edward Lawrence108, alle porte di Damasco portando con sé il grande sogno di fondare il Regno arabo. Il 1° ottobre le truppe arabe, al comando di Faysal e T. E. Lawrence, e quelle britanniche guidate dal Generale Allenby entrarono a Damasco, aprendo quello che è stato definito il periodo “chérifienne”: Faysal venne proclamato re del Regno arabo di Siria con il nome di Faysal I mentre si procedeva a formare un governo. Si inaugurava così la prima esperienza parlamentare araba, esperienza che sarebbe stata di fondamentale importanza per le successive generazioni poiché per la prima volta il progetto politico arabo, teorico fino a quel momento, assumeva una sua forma concreta al di fuori del quadro imperiale ottomano 109. Il 31 ottobre del 1918, con il completamento della conquista della Mesopotamia, della Palestina e della Siria ebbero fine quattro secoli di dominio ottomano sui territori arabi: “non si sparsero molte lacrime per il ritiro dalle province arabe degli eserciti ottomani sconfitti. Con la fine del dominio ottomano iniziò per i popoli del mondo arabo un periodo di intensa attività politica considerarono i quattro secoli di governo ottomano come un lungo periodo di oppressione e di sottosviluppo. Erano esaltati dall’idea di un mondo arabo che poteva rinascere, come stato indipendente e unificato, nella comunità delle nazioni.”110. Nella consapevole impossibilità di analizzare nel dettaglio tutte le dinamiche che si svilupparono durante il Primo conflitto mondiale con riferimento alla regione del Vicino Oriente, occorre DDI, V serie, 1914 – 1918, vol. VII, n. 363, Il Capo del Servizio Informazioni del Comando Spremo, G. Garruccio, al Ministro degli Esteri, S. Sonnino, Roma, 23 febbraio 1917. 108 Una lettura fortemente critica della figura di T. E. Lawrence viene fatta da S. McMeekin che lo descrive più come un arrivista dedito a macchinazioni e intrighi. Una simile lettura stride fortemente con la tradizionale immagine tramandata da gran parte della storiografia e che vede in Lawrence il grande eroe della rivolta araba e soprattutto il sincero interprete dei desiderata arabi, v. S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 345 ss. In generale sulla figura di T. E. Lawrence v. C. Boccazzi, Lawrence d’Arabia. L’avventuriero dell’Assoluto, Bompiani, Milano, 2001; E. J. Mack, A Prince of Our Disorder: The Life of T. E. Lawrence, Harvard University Press, Boston, 1998; M. J. Fabio Amodeo, Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente, Feltrinelli, Milano, 2016; F. Cardini, Lawrence d’Arabia, Sellerio Editore, Palermo, 2006. 109 L. Dakhli, Une génération d’intellectuels arabes. Syrie et Liban, 1908-1940, Editions Karthala-IISMM, Parigi, 2009; M. Rey , Un parlementarisme oriental ? Éléments pour une histoire des assemblées au Moyen-Orient des années 1850 aux années 1970, in “Revue d’histoire politique”, 2012/1 n° 17, p. 162-176. 110 E. Rogan, Gli arabi, Bompiani, Milano, 2016, p. 207. 107 quantomeno analizzare un ultimo e fondamentale aspetto della questione. Nonostante la proclamazione del jihad111 da parte del Sultano ottomano, la Prima guerra mondiale non si configurò mai come una guerra di religione; per i musulmani arabi fu, esattamente come per i cristiani europei, una guerra tra Stati mossa da aspirazioni politiche. Certamente vero è, però, che il richiamo all’elemento religioso venne adoperato come deliberata strategia di guerra nell’intento di far sollevare contro il nemico le popolazioni musulmane. La dichiarazione del jihad contro gli infedeli, termine che venne ovviamente utilizzato con riferimento limitato ai nemici in guerra, da parte del Sultano Mehmet V era stata contestuale all’entrata in guerra dell’Impero Ottomano nel novembre del 1914 112. Le cinque fatwa113, elaborate da un gruppo di ventinove esperti di legge, che autorizzavano il jihad furono formalmente ratificate dal sultano e presentate alle autorità politiche, militari e religiose in una sessione a porta chiuse che si tenne l’11 novembre. In particolare il terzo parere richiesto riguardava proprio il comportamento che i musulmani avrebbero dovuto tenere nei confronti delle tre Potenze macchiatesi del crimine di aver attaccato il Califfato: “Or, étant avéré que la Russie, l'Angleterre et la France, qui s'attaquent aujourd'hui au Khalifat [califat] et à l'Empire ottoman avec leurs flottes et leurs armées, visent à anéantir - qu'à Dieu ne plaise - la lumière sublime de l'islamisme, tous les musulmans vivant sous l'administration de ces états et des gouvernements qui les appuient ont-ils également le devoir religieux de déclarer la guerre sainte contre ces gouvernements et de prendre effectivement part à la lutte sacrée ?”114. Tre giorni più tardi, il 14 novembre, l’appello ai musulmani di tutto il mondo affinché si unissero nel jihad contro Inghilterra, Francia e Russia, fu letto in pubblico, a nome del sultano, davanti a una grande folla riunitasi all’esterno della Moschea di Fatih115. L’intento strategico-militare era evidentemente quello di utilizzare l’enorme presenza musulmana nell’impero coloniale franco-britannico, il quale si estendeva dal Marocco fino alle Indie, per erodere dall’interno la forza degli europei. I musulmani presenti negli imperi coloniali europei erano decine di milioni; una loro rivolta contro l’Intesa, logorandone le posizioni, avrebbe potuto segnare definitivamente le sorti della guerra. Soprattutto nei piani tedeschi, l’arma del jihad era stata una delle costanti prese in considerazione nei piani bellici116, rifacendosi a quello spirito che aveva segnato, nel 1898, il lungo pellegrinaggio del Kaiser Guglielmo II lungo tutto l’Impero ottomano. A Damasco, visitando la tomba di Saladino, l’imperatore aveva dichiarato: “Possa il sultano e i suoi trecento milioni di sudditi musulmani che lo venerano come loro califfo, essere certo che il Kaiser sarà loro 111 In generale, sul concetto di jihad v. D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, Einaudi, Torino, 2007; G. Vercellin, Jihad: l’Islam e la guerra, Giunti, Firenze, 2001; P. Branca, ‘L’Islam delle origini e la guerra. Analisi del concetto di jihad nel Corano e nella Carta di Medina, in Studi arabi e islamici in memoria di Matilde Gagliardi, IsMEO, Milano, 1995; G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Carocci, Roma, 2011. 112 Sulla proclamazione del jihad nella Prima guerra mondiale v. T. Luedke, L’islam, une arme stérile aux mains de l’Allemagne, in “Orient XXI”, 16 septembre 2015, disponible online https://orientxxi.info/l-orient-dans-la-guerre-19141918/l-islam-une-arme-sterile-aux-mains-de-l-allemagne,1019 (consultato in data 7 marzo 2018). 113 Nel diritto musulmano la fatwa è la risposta data da un esperto della legge islamica ad un quesito posto con riferimento ad una determinata questione giuridica. 114 Le cinque fatwa di autorizzazione al jihad sono disponibili, in traduzione francese, online http://www.imprescriptible.fr/documents/djihad.htm (consultato in data 7 marzo 2018). 115 E. Rogan, La grande guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 83. 116 Il grande architetto di questa costruzione “islamica” della Guerra fu il barone Max von Oppenheim il quale fu uno dei primi a chiedere al Kaiser di stringere rapporti con l’Impero ottomano per poter utilizzare come arma i milioni di musulmani presenti sul territorio delle colonie anglo-francesi. amico per sempre”117. I militari e i politici tedeschi speravano di poter sfruttare il ruolo del sultano ottomano e il suo titolo di califfo, capo di tutta la comunità musulmana; molti esponenti dell’alto comando tedesco ritenevano, anzi, che il più grande contributo allo sforzo bellico che potesse provenire dall’Impero Ottomano non sarebbe stato tanto nello spiegamento del suo esercito quanto, appunto, nella proclamazione del jihad. Partendo da questa prospettiva strategica l’impegno di proclamare un jihad universale venne inserito nel trattato segreto di alleanza del 2 agosto 1914118 tra l’Impero ottomano e la Germania 119. I Giovani Turchi sostennero l’idea e le insistenti richieste tedesche non tanto per una qualsivoglia idea romantica di un jihad globale che avesse nell’elemento religioso la sua più profonda essenza, quanto piuttosto per rafforzare il supporto dei musulmani nei territori ottomani. Del resto, dal punto di vista religioso, la proclamazione del jihad strideva fortemente con la politica di stampo laico che i Giovani turchi avevano portato avanti fin dal loro arrivo al potere. Nonostante sfruttasse il sentimento religioso, dunque, il jihad proclamato durante la Prima guerra mondiale rispondeva ad una chiara strategia propagandistica piuttosto che a irrazionali motivi religiosi volti a combattere gli “infedeli”. Alla proclamazione del jihad si affiancò, infatti, la più generale opera di propaganda condotta sia dagli ottomani che dai tedeschi. In Egitto, soprattutto a Il Cairo, numerosi erano gli agenti tedeschi e turchi infiltrati con il compito di fomentare il risentimento musulmano naturalmente esistente dopo circa trent’anni di protettorato britannico. Ma la vera forza della propaganda fu l’azione della Confraternita dei senussi nella regione della Tripolitania la quale continuava a lottare senza sosta contro gli invasori italiani. Nel novembre del 1916 in un proclama di Enver Pascià, Ministro della guerra, diretto ai rivoluzionari libici si leggeva: “Agli incliti mugiahid (combattenti) zelanti e valorosi, fiore delle tribù e dei popoli, nostri fratelli ulema e sceikh della Tripolitania. Dopo il saluto e l’implorazione delle misericordie divide su di voi, sappiate che il mondo musulmano è stupito della vostra ammirevole opera e la nazione ottomana è orgogliosa delle vostre incessanti vittorie. Sappiate che il Signor nostro, il Principe dei credenti in grande Califfo Mohamed Rasciad 120 – lo rende Iddio sempre più forte – è assai soddisfatto del valore che avete dimostrato dal principio della guerra della Tripolitania sino ad oggi e del vostro forte attaccamenti cinsero e fedele verso S.M. e l’Augusto califfato dell’Islam. Sono fiero di cogliere la presente occasione per congratularmi con voi del nome glorioso che sapeste acquistare grazie al vostro gran gihad e alla vostra ferma perseveranza ciò che rimarrà imperituro sulle pagine della storia perché ne vadano fieri i vostri posteri nelle future generazioni […]”121. Nell’ottobre del 1916 Vincenzo Bernabei, da poco divenuto Console a Gedda, rendeva noto che da fonte ineccepibile era stato riferito dell’organizzazione di un convegno di propagandisti panislamici a Berlino, con lo scopo di intensificare la propaganda panislamica diretta a far nascere un’insurrezione generale fra i musulmani nei paesi sotto il protettorato dell’Inghilterra, della Francia, dell’Italia e S. McMeekin, The Berlin-Baghdad Express: The ottoman Empire and Germany’s Bid for World Power, 1898 – 1918, Allen Lane, Londra, 2010, p. 14. 118 Il testo del trattato è disponibile online http://avalon.law.yale.edu/20th_century/turkgerm.asp (consultato in data 7 marzo 2018). 119 F. Fischer, Les Buts de guerre de l’Allemagne impériale (1914-1918), Paris, Éditions de Trévise, 1970, p. 654. 120 Mohamed Rasciad sarebbe diventato sultano con il nome di Mehmet V. 121 ASMAE, AP 1915 – 1918, b. 213 (Turchia), f. Agitazione panislamica, Allegato al Telegramma n. 9855, Ministero delle Colonie a MAE, Roma, 29 novembre 1916. 117 della Russia nonché in quelli governati da Principi musulmani autonomi. Il convegno, indetto dalla Società germanica di Cultura Islamica, aveva avuto luogo il 10 settembre sotto la presidenza del Prof. Orson, orientalista tedesco, e del ministro ottomano della guerra, Enver Pascià122. Secondo quanto veniva riferito il Congresso aveva stabilito: “1) vista l’intensa azione spiegata con larghezza di mezzi dai governi delle potenze nemiche allo scopo di abbattere la potenze e l’influenza dell’islam, si rende necessaria la promulgazione da parte dello Sceikh ul Islam, a nome del Califfo, di nuove ‘fetva’ dirette ad autorizzare legalmente la ribellione a mano armata delle popolazioni musulmane nei paesi dipendenti delle Potenze stesse; 2) in conformità alle disposizioni dello Sceri-Scerif che contemplano la pena di morte contro i fedifraghi e traditori dell’Islam, il Comitato direttivo dei propagandisti panislamici disporrà per l’invio all’estero di un congruo numero di emissari ‘fedai’ da reclutarsi fra i giovani nazionalisti egiziani ed indiani col mandato segreto di assassinare i capi dei governi musulmani che agiscono in favore e a nome dei governi delle Potenze nemiche” 123. Gli effetti del jihad e della propaganda religiosa degli Imperi centrali a favore di una sorta di “guerra santa” si dimostrarono, alla fine dei conti, molto meno travolgenti di quanto ottimisticamente sperato soprattutto dai tedeschi, risolvendosi nella maggior parte dei casi in sporadiche e irrilevanti manifestazioni di piazza. In realtà tutti i riferimenti al “religioso” sembrarono fallire nella Prima guerra mondiale: a giugno del 1916, quando la rivolta araba esplose, anche Hussein, esattamente come i Giovani turchi avevano fatto con la proclamazione del jihad, ammantò la sua rivolta del “pio abito dell’Islam”124 ricordando al popolo arabo che il governo de Giovani turchi aveva respinto: “la parola di Dio, “Un uomo dovrà avere due volte la parte di una donna”, e li ha resi uguali. Sono andai oltre e hanno rimosso una delle cinque pietre angolari della fede […] facendo sì che i soldati a presidio della Mecca, a Medina e Damasco interrompessero il loro digiuno [Ramadan] per nuove e sciocche ragioni […] Hanno reso debole la persona del sultano, privandolo del suo onore e vietandogli di scegliere da solo il capo del suo gabinetto personale. Altre azioni simili hanno compiuto per fiaccare le fondamenta del califfato”125. Come la propaganda del jihad da parte degli Imperi centrali anche quella di Hussein cadde nel vuoto non riuscendo ad innescare quel meccanismo tanto desiderato di galvanizzazione dell’opinione pubblica musulmana appartenente all’Impero ottomano126. Se infatti non vi fu il moto rivoluzionario contro gli europei, non si verificarono neanche le diserzioni in massa immaginate da Hussein tra i soldati musulmani turchi i quali, nella maggior parte dei casi, continuarono a servire l’esercito imperiale. Se il jihad proclamato dal Sultano non ebbe l’effetto desiderato di far rivoltare i milioni di credenti musulmani contro gli europei, esso tuttavia ebbe almeno altri due importanti effetti: uno di questi riguardò il morale delle truppe musulmane imperiali mentre l’altro ebbe a che fare con le percezioni europee. Il riferimento ad una guerra voluta da Allah, una sorta di nuova crociata contro gli infedeli anglo-francesi, contribuì sicuramente a rafforzare il morale tra le truppe turche, soprattutto quando le ASMAE, AP 1915 – 1918, b. 213 (Turchia), f. Agitazione panislamica, N. 241/107, Vincenzo Bernabei, Console a Gedda, al Ministro degli Affari esteri, S. Sonnino, Losanna, 3 ottobre 1916. 123 Ibidem 124 S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 308. 125 Dichiarazione riportata in S. McMeekin, ibidem. 126 La rivolta araba alla fine del 1916 sembrava essere soltanto una “puntura di spillo, una distrazione secondaria” per l’Impero; Ivi, p. 344. 122 sconfitte militari pesavano sull’unità e la fermezza dell’esercito, e ad aumentare il numero di arruolamenti volontari nell’esercito imperiale. Non si può dire in quale misura la propaganda del jihad, abilmente manovrata dai tedeschi, abbia contribuito a spingere i civili musulmani ad arruolarsi nell’esercito imperiale per cacciare gli “infedeli” dalle terre musulmane; tuttavia sicuramene l’idea di combattere per la propria fede, per un ideale più alto rispetto alle misere beghe terrene, infondeva coraggio in un esercito, quello ottomano, nettamente inferiore rispetto alle formidabili macchine da guerre europee. La propaganda turco-tedesca funzionava, poi, anche in una altro senso: creò paura e timori negli anglo-francesi i quali regolarono spesso le loro strategie anche sulla base di questo fantomatico terrore di un jihad universale. Fu la paura che il panislamismo jihadista alimentato dai tedeschi avrebbe potuto inghiottire la penisola del Sinai, il Canale di Suez e di conseguenza tutto l’Egitto, e la volontà di controbilanciare l’appello del sultano-califfo per il jihad, per esempio, a spingere i britannici a fare le loro promesse a Hussein127 e più in generale a indurre gli anglo-francesi a cercare incessantemente l’appoggio dei più forti esponenti della comunità musulmana. Questi timori, poi, aumentavano o diminuivano in maniera del tutto proporzionale alle vittorie e alle sconfitte sul campo: ad esempio, dopo la tragedia dei Dardanelli il timore franco-britannico per una sollevazione dell’intero mondo musulmano crebbe notevolmente. Sostenendo la figura dello Sceriffo della Mecca e la creazione di un Regno arabo sotto la sua guida, i britannici speravano di creare un contraltare al sultano ottomano, riducendo l’impatto che questo avrebbe potuto avere sul complesso della comunità musulmana: “Va da sé che ove riuscisse allo Sceriffo della Mecca di creare uno Stato che dal Golfo Persico si estendesse a tutta la penisola arabica, comprendendovi anche la Siria e la Palestina, la cosa assumerebbe un nuovo aspetto e potrebbe essere allora contrapposto al Califfo di Costantinopoli quello dell’Hedgiaz perché nelle sue mani verrebbe a trovarsi riunita una somma di potere e di autorità tale da imporsi alla obbedienza delle popolazioni arabe. Ma i tempi dell’espansione araba, ai quali ricorrono volentieri coloro che anelano al ritorno dello splendore dei Califfi di Damasco e di Bagdad, sono ormai tramontati e gli Arabi dei nostri giorni sembrano aver perduto completamente quelle doti di ardimento di coesione e di iniziativa che permisero ai loro antenati le grandi conquista del VII e del VIII secolo. Non credo poi che sia nell’intenzione e neppure nell’interesse dell’Inghilterra di favorire la formazione di un vasto Stato arabo alle porte dell’Egitto e sulla grande via di comunicazione con le sue colonie al di là del Golfo Persico. La spinta che essa ha dato alle rivendicazioni ed al movimento separatista dello Sceriffo della Mecca, il proclama lanciato dal Generale Maud dopo la presa di Bagdad, gli sforzi per conciliare le aspirazioni arabe con quelle della Francia ed attutirne gli attriti si spiegano benissimo con la necessità del momento. Ma terminato il conflitto mondiale, nel quale l’Hedgiaz rappresenta un elemento non disprezzabile, più morale che materiale, nella lotta contro i turchi-tedeschi, è da prevedere che l’interessamento inglese per il nuovo Stato si manifesterà molto più blandamente ed è per questo che il Rappresentante dell’Hedgiaz al Cairo insiste perché vengano date garanzie ed assunti impegni formali nell’attuale momento.”128. È questo forse il dato più interessante da notare: “di fronte alla chiamata del califfo, si [sono] dimostrati più reattivi gli Alleati che gli stessi musulmani”. “A distanza di un secolo – continua 127 S. McMeekin, Ivi, p. 299; v. anche E. Rogan, La grande Guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 423. DDI, V Serie, 1914 – 1918, Vol. VIII, n. 457, L’Agente e Console Generale al Cairo, Negrotto Cambiaso, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Cairo, 25 giugno 1917. V. anche n. 712, Il Ministro delle Colonie, G. Colosimo, al Ministro degli esteri, S. Sonnino, Roma 22 luglio 1917. 128 Eugene Rogan - il mondo occidentale non si è ancora liberato dall’idea che i musulmani possano agire collettivamente in modo fanatico”129 nonostante le esperienze successive le quali hanno emblematicamente dimostrato quanto il mondo musulmano sia profondamente diviso al suo interno tra correnti, sette, dottrine diverse. La partecipazione dell’Impero alla guerra e la sua sconfitta segnata nel 1920 dal trattato di Sévres e ribadita nel 1923 dal Trattato di Losanna determinarono necessariamente le sorti anche di quei territori per secoli sotto il dominio ottomano. Il trattato di Losanna, consacrando la dissoluzione dell’Impero ottomano, ridotto, nella nuova conformazione della Repubblica di Turchia, alla sola penisola anatolica, ha contestualmente mostrato ai popoli del Levante e dell’Oriente dell’ex Impero la strada verso l’indipendenza. Avvenimento storico di portata immensa, la caduta dell’Impero ha inoltre inaugurato una nuova era nei rapporti tra l’Europa colonialista e i paesi arabi. È proprio in questo clima spirituale, ideologico e fattuale che il Levante mediterraneo assunse pian piano la nuova configurazione di territorio sotto controllo diretto della Francia e della Gran Bretagna in qualità di potenze mandatarie. Alla fine della Prima guerra mondiale, gli anglo-francesi, che proprio con SykesPicot avevano tracciato, più o meno saggiamente, le future suddivisioni territoriali della regione, divennero de jure e de facto i successori dell'Impero Ottomano. L’armistizio di Mudros ebbe, infatti, come effetto giuridico quello di convertire la Siria, la Palestina e la regione della Mesopotamia, in Territori nemici occupati, posti di conseguenza sotto l’amministrazione dell’esercito britannico. Il problema di dare concreta applicazione agli Accordi di Sykes-Picot si presentò in realtà a partire dal 1918 ma diverse ragioni, quali l’assenza sulla scena orientale della Russia, l’atteggiamento sfavorevole degli Stati Uniti, ostili allo spirito colonialista europeo, le rivendicazioni degli arabi che cominciarono a ricordare agli Alleati gli impegni presi, fecero apparire come soluzione migliore il rinvio dell’esecuzione dell’accordo fino alla Conferenza di Pace. La successione anglo-francese negli ex territori dell’Impero venne definitivamente formalizzata dal Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 all’interno del quale venne inserito il Covenant della Società delle Nazioni che, all’art. 22130, sanciva la nascita dell’istituto del “mandato”. 129 E. Rogan, La grande guerra nel Medio Oriente, Op. cit., p. 617. “Art. 22: 1. I principi seguenti si applicano alle colonie e territori che, in seguito alla guerra, hanno cessato di essere sotto la sovranità degli Stati che li governavano precedentemente e che sono abitati da popoli non ancora capaci di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno. Il benessere e lo sviluppo di questi popoli formano una missione sacra di civiltà, e conviene incorporare nel presente Patto delle garanzie per il compimento di tale missione. 2. Il miglior metodo per realizzare praticamente questo principio è di affidare la tutela di questi popoli alle nazioni progredite che, in ragione delle loro risorse, della loro esperienza o della loro posizione geografica, sono meglio in grado di assumere questa responsabilità e che consentono ad accettarla: esse eserciterebbero questa tutela in qualità di Mandatarie e in nome della Società. 3. Il carattere del mandato deve differire secondo il grado di sviluppo, la situazione geografica del territorio, le sue condizioni economiche e tutte le altre circostanze analoghe. 4. Certe comunità, già appartenenti all’Impero ottomano (Siria, Palestina, Mesopotamia), hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere riconosciuta provvisoriamente, a condizione che i consigli e l’aiuto di un Mandatario guidino la loro amministrazione fino al momento in cui saranno capaci di reggersi da soli. I voti di queste comunità devono esser presi innanzitutto in considerazione per la scelta del Mandatario. 5. Il grado di sviluppo in cui si trovano altri popoli, specialmente quelli dell’Africa Centrale, esige che il Mandatario vi assuma l’amministrazione del territorio a tali condizioni che, con la proibizione di abusi quali la tratta degli schiavi, il traffico delle armi e quello dell’alcool, garantiranno la libertà di coscienza e di religione, senza altre limitazioni all’infuori di quelle che può imporre il mantenimento dell’ordine pubblico e dei buoni costumi, e la proibizione di stabilire fortificazioni o basi militari o navali e di dare agli indigeni una istruzione militare, se non per la polizia o la difesa del territorio, e che assicureranno parimenti agli altri Membri della Società condizioni di uguaglianza per gli scambi e il commercio. 6. Vi sono infine territori, quali il Sud-Ovest africano e certe isole del Pacifico australe, che, a causa della debole densità della loro popolazione, della loro esigua superficie, della loro lontananza dai centri di civiltà, della loro contiguità geografica al territorio del 130 3. Conclusioni: la decostruzione dell’impero Ottomano e i dilemmi del presente “Per essere un paziente terminale, il Malato d’Europa impiegò molto tempo a morire” 131: quello che infatti secondo molti storici è più impressionante delle vicende ottomane non è il crollo dell’Impero subito dopo la guerra quanto piuttosto la sua quasi innaturale sopravvivenza per decenni. La malattia terminale dell’Impero era cominciata molto prima di Mudros, Sevrès o Losanna, ed era passata per Berlino, per il risveglio nazionale greco, per l’Algeria, per l’Egitto, per gli accordi del Bardo, per la Libia e per le guerre balcaniche di inizio ‘900. La lentezza dell’agonia imperiale è stata probabilmente dovuta non tanto a meriti propri quanto all’incapacità delle potenze del Concerto europeo, Gran Bretagna e Russia soprattutto, di trovare un accordo sulla sua spartizione: “[…] l’unica cosa che teneva insieme il traballante Impero ottomano era l’attrito tra le potenze dell’Intesa che lo stavano avidamente sventrando. Per quasi un secolo, il destino della Turchia era dipeso probabilmente dall’incapacità di Gran Bretagna e Russia di accordarsi sui piani per la spartizione”132. Quando la Turchia entrò in guerra al fianco degli Imperi centrali e soprattutto quando Francia, Gran Bretagna e Russia misero da parte le proprie divergenze e cominciarono ad accordarsi sulla spartizione dell’Impero ottomano, le sue sorti erano definitivamente segnate. A quel punto furono Sèvres e Losanna a sancirne la definitiva caduta133: con essi terminavano quattro secoli di dominazione ottomana. Il margine di manovra della Turchia era talmente esiguo che nonostante l’ultimo anelito di difesa della propria proiezione imperiale, dovette alla fine abbandonare l’idea imperiale per limitarsi a continuare la sua esistenza in qualità di Stato-Nazione sotto la guida dell’emblematica figura del suo Padre fondatore, Mustafa Kemal Atatürk. Se la Turchia intraprese la sua strada verso la normalizzazione, fu nel resto dell’ormai finito Impero Ottomano che si sarebbero avuti i maggiori contraccolpi, destinati a mutare per sempre la storia dei singoli quadranti regionali. In particolare le conseguenze più durature si ebbero proprio nella regione del Vicino e Medio Oriente, nel quadrante orientale arabo della sponda mediterranea del continente asiatico. Fu questo il momento decisivo in cui gli arabi si trovarono a dover affrontare non soltanto il “lutto” ma anche l’enorme dilemma che si apriva sul loro futuro. Per quanto i turchi fossero stati a lungo poco amati, “sia come conquistatori sia come amministratori, e per quanto l’amministrazione ottomana fosse traballante nella pratica, l’impero aveva fornito un principio unificatore non settario e un’identità comune per milioni di persone”134 e per secoli. La caduta dell’Impero ottomano e ancor di più l’abolizione del Mandatario, o di altre circostanze, non potrebbero esser meglio amministrate che sotto le leggi del Mandatario, come parte integrante del suo territorio, con la riserva delle garanzie previste più sopra nell’interesse della popolazione indigena. 7. In ogni caso, il Mandatario deve inviare al Consiglio un rapporto annuale, concernente i territori che gli sono affidati. 8. Il grado di autorità, di ingerenza e di amministrazione che dovrà essere esercitata dal mandatario sarà in ciascun caso esplicitamente determinato dal Consiglio, quando non sia stato preventivamente convenuto dai membri della Società. 9. Una commissione permanente sarà costituita per ricevere ed esaminare le relazioni annuali dei mandatari e dar parere al Consiglio in ogni materia relativa all’adempimento dei mandati.”. Il testo del Covenant della Società delle Nazioni è disponibile online all’indirizzo http://www.firstworldwar.com/source/leagueofnations.htm. (consultato in data 7 marzo 2018). 131 S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 11. 132 Ivi, p. 289 e 292. 133 Come precisa Salt, l’Impero ottomano non cadde, semplicemente, quanto piuttosto venne smembrato: “Questi predoni banchettarono con i resti di un immenso territorio affranto. L’Impero ottomano non ‘crollò’. Questo è un termine troppo passivo. Fu squarciato come si fa con un pollo per sventrarlo: nemmeno la Germania fu smembrata e sbudellata allo stesso modo.” J. Salt, La disfatta del Medio Oriente, Op. cit., p. 71. 134 S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 487. califfato nel 1923 voluta da Atatürk, distrusse anche l’ultima istituzione che univa i musulmani sunniti nel mondo. Dal punto di vista identitario questo rappresentò un momento di assoluto smarrimento per tutti quei musulmani che per secoli avevano vissuto in un impero in cui il Sultano aveva assunto anche il ruolo di califfo. La scomparsa dell’Impero apriva però anche un secondo spettro di problematiche: la presenza di un’entità politica forte come l’Impero ottomano aveva impedito, per quanto scalfita nelle sue periferie più estreme, la completa penetrazione coloniale occidentale nel Vicino e Medio Oriente. Ed era proprio su questo punto che si apriva la grande incognita del futuro: quale ruolo avevano intenzione di giocare gli europei? Quali che fossero queste intenzioni gli arabi si sarebbero trovati da soli, isolati e disorganizzati, senza più la protezione imperiale, ad affrontare le eventuali e presumibili ambizioni europee. Per un breve lasso di tempo, tra l’ottobre 1918 e il luglio 1920, l’indipendenza araba sembrò quasi raggiungibile 135, sostenuta teoricamente da quello che sembrava profilarsi come un nuovo ordine mondiale costruito sui principi wilsoniani piuttosto che sulla politica di potenza europea. Tuttavia, il sogno di far rinascere un nuovo grande regno arabo che poggiasse sulle ceneri imperiali ottomane e sul sacrificio arabo compiuto durante la Grande guerra si scontrò ben presto con la realtà delle trame europee, generando un brusco risveglio per gli illusi arabi. Gli anglo-francesi poco interessati a mantenere le promesse fatte nel contesto bellico, cominciarono ad esigere quei compensi territoriali che erano già stati chiaramente delineati nel 1916. Il Grande Regno Arabo promesso a Hussein venne smembrato, secondo gli interessi e i desiderata delle potenze vincitrici e seguendo il tradizionale principio del divide et impera, in tante e diverse formazioni statuali poste sotto il controllo di Francia e Gran Bretagna. Se l’opera di Mustafa Kemal, nella penisola anatolica fu “unificatrice”, nelle ex province arabe dell’Impero ottomano intervenne al contrario una pericolosa balcanizzazione geografica136 e politica in conseguenza soprattutto dell’azione europea. Forti del riconoscimento giuridico avuto dalla Società delle Nazioni tramite l’istituto mandatario, Francia e Gran Bretagna cominciarono materialmente a tracciare nuovi confini statuali nell’immenso territorio ex-imperiale; ognuna di quelle linee tracciate sulle carte geografiche europee toccava però inevitabilmente le pericolose corde dalla sensibilità religiosa, etnica e identitaria dei popoli della regione. Se come sostiene Henry Laurens la divisione del Vicino Oriente in vari entità statuali non fu di per sé condannabile, condannabile fu invece il fatto di aver effettuato tale divisione senza premura alcuna per “la volonté des populations et en utilisant une rhétorique libérale que l’utilisation de la force Il riferimento è all’esperienza del Congresso Nazionale siriano che il 7 marzo del 1920 votò l’indipendenza della Siria, nelle sue frontiere naturali comprendenti anche la Palestina e la Transgiordania, e proclamò l’Emiro Faysal ben Hussein re del Regno arabo di Siria con il nome di Faysal I. L’esperienza unitaria araba fondata sulle promesse del carteggio MacMahon-Hussein padre, durerà poco: forte del riconoscimento ufficiale del mandato da parte della Società delle Nazioni il 14 luglio 1920, il General Gouraud, Alto Commissario francese nel Levante, lancia un ultimatum a re Faysal I invitandolo a sottomettersi alle decisioni prese o, in alternativa, ad abdicare. A seguito di malintesi, ritardi più o meno voluti nell’accettazione delle clausole dell’ultimatum e un atteggiamento assai rigido e provocatorio del generale Gouraud, fu impossibile risolvere la situazione creatasi tramite i classici canali negoziali-diplomatici arrivandosi di conseguenza allo scontro diretto. Il 24 luglio ebbe luogo la battaglia di Maysalūn, una località dell’Antilibano ai confini siro-libanesi attuali, fra le forze arabe di re Faysal, scarsamente e malamente armate, e le truppe francesi guidate dal generale Mariano Goybet in difesa di quanto deciso da Sykes-Picot e riconosciuto dalla Società delle Nazioni. Il 25 luglio le truppe francesi occuparono Damasco; il giorno seguente il Generale Goybet formò un nuovo governo sotto la presidenza di Ala-Uddine al-Droubi. La fuga dell’Emiro Faysal il 28 luglio 1920 pose definitivamente fine all’esperienza indipendente araba segnando contestualmente l’inizio, quanto meno ufficioso in quanto precedette di due anni la decisione formale dell’affidamento del mandato da parte della Società delle Nazioni, della storia del mandato siriano. 136 V. G. Corm, L’Europe et l’Oriente de la balkanisation à la libanisation, Editions la découverte, Parigi, 1989. 135 rendait vide de sens”137. In questo, del resto, gli anglo-francesi dimostrarono poca lungimiranza e saggezza: “Par rapport à l’évolution politique de la dernière décennie ottomane, où la cooptation des notables et l’établissement d’un système électoral, certes très imparfait, avaient tracé la voie à une vraie représentation politique, l’autoritarisme franco-anglais constitue une régression durable” 138. Se l’illusione di essersi liberati dal dominio imperiale ottomano per ricadere sotto quello europeo fu un duro colpo da affrontare per il nazionalismo arabo, tradito e deluso da coloro i quali avevano promesso loro la libertà, è pur vero che la ribellione contro l’Impero ottomano aveva ormai piantato il seme del nazionalismo. La fiamma nazionalista, ormai vivida e fervida, si sarebbe a quel punto rivolta in breve tempo contro il regime dei mandati e l’imperialismo europeo; esattamente come era successo con la repressione hamidiana e con il processo di turchizzazione dei Giovani turchi, anche l’azione imperialista degli europei finì per donare nuovo dinamismo al nazionalismo arabo. La delusione, il tradimento, la vergogna per aver seguito le false promesse europee, la voglia di révanche e la rabbia per il futuro infausto che si prospettava avrebbero funzionato da propellente per nuove rivolte e nuove contestazioni rese maggiormente pericolose dal fatto che ormai non vi era più alcuna autorità esistente legittima e legittimata a governare sul mondo arabo. Le remore che il nazionalismo arabo aveva nutrito fino all’ultimo nei confronti di un’azione di forza contro l’Impero ottomano sarebbero state del tutto inesistenti nel periodo dei mandati È, dunque, forse proprio nella regione araba del Levante mediterraneo che la Prima guerra mondiale ha più profondamente trasformato le società, portando a conseguenze e all’innescarsi di meccanismi i cui effetti si sarebbero dimostrati tra i più duraturi. Il dibattito attuale sulle frontiere ereditate dagli accordi di Sykes-Picot e più in generale la complessa situazione del Vicino Oriente, mostrano con una relativa chiarezza quanto tutte le dinamiche avviatesi con la Prima guerra mondiale siano ancora oggi i veri dilemmi della regione. Quei meccanismi attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono ancora oggi talmente vivi ed energici che non sarebbe azzardato sostenere che al di fuori dei confini della Turchia, “la guerra di successione ottomana continua a infuriare”139 senza che, dopo più di un secolo, vi sia speranza di intravedere una pace duratura. H. Laurens, Comment l’Empire ottoman fut dépecé, in “Le Monde Diplomatique”, aprile 2003, disponibile online https://www.monde-diplomatique.fr/2003/04/LAURENS/10102. 138 Ibidem 139 S. McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano, Op. cit., p. 492. 137 Indice dei nomi di persona Atatürk, Mustafa Kemal Abduh, Muhammad Abdul Hamid II Abdu Mejid I Afghani Jamal al-Din alAllenby Edmund Henry Hynman Anielli Lorenzo Avarna di Gultieri, Giuseppe Azm, Rafik alAzoury, Negib Balfour, Arthur James Beaufort d’Hautpoul, Charles de, Bernabei, Vincenzo Berthelot, Pierre-Eugène-Marcellin Bonin, Lelio Borghese, Livio Borsarelli di Rifreddo, Luigi Briand, Aristide Brin, Benedetto Cambon, Pierre-Paul Canevaro, Felice Benedetto Carlotti, Andrea Carrara, Stefano Cemal, Ahmed Pascià (Cemal) Chehab, Bechir II Clayton, Gilbert Colosimo, Gaspare De Courcel, Geoffroy Chodron De Gubernatis, Angelo De Martino, Giacomo di Bisio, Alessandro Dolfini, Giovanni Battista Droubi, Ala-Uddine alEdhem Pascià Enver, Ismail Pascià (Enver o Enver pascià) Fakhr al-Din II Faruki, SAyed Mohamed el Seerif el Fuad Pascià Garruccio, Giovanni Goybet, Mariano Grimani, Pier Luigi Halim, Said pascià Hanotaux, Gabriel Hussein, Ibn Ali (Hussein) Hussein, Faysal al- (Faysal I) Imperiali, Guglielmo Jazairi, Selim alKader, Abdel Kedourie, Elie Kitchener, Horatio Kress von Kressenstein, Friedrich Freiherr Laurens, Henry Lawrence, Thomas Edward Macchi di Cellere, Vincenzo Maude, Frederick Stanley McMahon, Henry Mehmet V Mihmisani, Muhammad alMuhammad Ali Pascià Nachâchibi, Ali Napoleone Bonaparte Napoleone III Nasser, Gamal Abd elNegrotto Cambiaso, Lazzaro Nicola I, zar Nigra, Costantino Oppenheim, Max von Orlando, Vittorio Emanuele Pansa, Alberto Picot, François George Prinetti, Giulio Rashid, Mustafa Pascià Rida, Muhammad Rashid Rogan, Eugene Rothschild, Edmond Said, Hafez alSalisbury, Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil Sallier de la Tour, Giuseppe Salt, Jeremy Salvago Raggi, Giuseppe San Giuliano, Antonino Paternò-Castello marchese di Sazonov, Sergej Shahbandar, Abd al-Rahman Sonnino, Sidney Sykes, Mark Talat, Mehmed pascià Tittoni, Tommaso Uraysi, Abd al-Ghani alVisconti Venosta, Emilio Zahraoui, Abdullhamid al-