Luca Piantoni
LA RAPPRESENTAZIONE DEL NORD
NEL ROMANZO ITALIANO DEL SEICENTO*
Le storie settentrionali fanno sentire il loro fascino misterioso fra le
pagine della Dianea, del Coralbo, del Cavalier Perduto, della stessa Gondola, dove, non foss’altro che per un attimo, viene concessa un’occhiata a
quelle terre che già Olao Magno e il Tasso avevano contribuito a sottoporre alla curiosità dei lettori del secondo Cinquecento.1
Cosí, scritto tra parentesi, ho trovato in Giovanni Getto lo spunto per l’indagine che segue e che si propone di porre attenzione
su alcuni dei modi in cui l’esotismo nordico entra a far parte della
favola di alcuni romanzi barocchi presi opportunamente a campione, per soffermarmi in particolare sul rapporto tra verosimile
e meraviglioso e sul dato di progressivo realismo, secondo una
linea di tendenza che esclude il rigore di una successione temporale, che connota il percorso della scrittura romanzesca del secolo; realismo entro cui, infine, quel rapporto sembra venire a risolversi.
Alla lista dei titoli proposta dallo studioso torinese ho aggiunto
quello dell’opera di Giovan Francesco Biondi La Donzella Desterrada, apparsa per i tipi di Pinelli in Venezia nel 1627, e mediana
di una trilogia «che, secondo la critica piú autorevole, svolge la
funzione di aprire la stagione romanzesca in Italia».2 Tenuto con* Alla cara memoria di mio padre, Paolo Piantoni, e a quelle terre nordiche
che il destino ha voluto meta irrealizzata, ancorché, sia pur di fantasia, vi siamo
approdati piú e piú volte con l’affiatato entusiasmo di viaggiatori in procinto di
partire.
1. G. Getto, Il romanzo veneto nell’età barocca (1961), ora in Id., Il Barocco letterario in Italia, prem. di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori, 2000, pp. 246-69,
a p. 246.
2. A. Asor Rosa, La narrativa italiana del Seicento, in Letteratura italiana, dir. A.
Asor Rosa, Torino, Einaudi, vol. ii 1983, p. 724.
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to che «la vita di questo genere letterario barocco dura un cinquantennio, dal 1624 al 1670»,3 per l’indagine in questione una nota
preliminare riguarderà alcuni elementi la cui interazione costituisce un punto di partenza fondamentale per l’orientamento della
ricerca. Anzitutto un avvertimento di carattere formale: il Nord
di cui si parla è compreso all’incirca al di sopra del 50° parallelo, e
include dunque la Gran Bretagna, ma soprattutto, e sono i luoghi
deputati di Olao Magno, la Scandinavia, la Norvegia e l’Islanda.
In secondo luogo, se il 1624 è assunto come data convenzionale dell’inizio di un genere, coincidendo con l’uscita della prima
opera del Biondi, Eromena, si dovrà altresí considerare che la sua
elaborazione avrà ovviamente occupato gli anni precedenti, e ciò
soltanto perché risulti piú insistita ed evidente la cornice storica entro la quale si appunta la nostra attenzione: sotto un profilo storiografico, infatti, lo sfondo cui si allude è quello turbolento
della guerra dei Trent’anni, in cui si assiste ad un vero e proprio
«spostamento del baricentro politico continentale»4 in direzione, per l’appunto, di un’Europa settentrionale ricostituita nei suoi
punti di forza in virtú dell’emergere di nuove potenze come la
Svezia di Gustavo II Adolfo. Notazione, questa, tesa a riflettere
l’indubbio rifrangersi dell’eco di tali vicende sul piano letterario:
nella scrittura di un Biondi, come subito vedremo, o di un Girolamo Brusoni.
Infine, è da valutare il perdurare dell’apporto, non tanto di una
letteratura di viaggi in cui, dai resoconti dei navigatori spesso approdativi fortunosamente, si poteva apprendere qualcosa sulle
estreme regioni del Nord «a quei dí mal note in Occidente»5 (e
3. A.M. Pedullà, Il romanzo barocco ed altri scritti, Napoli, Liguori, 2004, p. 1.
4. G. Galasso, L’egemonia spagnola in Italia, in Storia della letteratura italiana, dir.
E. Malato, vol. v. La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno Editrice,
1997, pp. 371-411, a p. 371.
5. P. Amat di S. Filippo, Biografia dei viaggiatori italiani con la bibliografia delle
relazioni di viaggio dai medesimi dettate, Roma, Tipografia romana, 1881, p. 26. Sul
tema, vd. inoltre D. Perocco, Viaggiare e raccontare: narrazione di viaggio ed esperienza di racconto tra Cinque e Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997.
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pensiamo alle relazioni di un Sebastiano Caboto, spintosi «fino
ad incontrare i grandi ghiacci galleggianti»6 delle regioni artiche,
e autore di un Mappamondo di Anversa uscito nel 1544, oppure ai
Commentarii pubblicati da Niccolò Zeno nel 1556, e relativi alle avventure nordiche dei suoi antenati giunti prima in Norvegia e
poi in Svezia a cavallo tra i secoli XIV e XV, o ancora alle Navigazioni del Ramusio, edite nel 1559 e contenenti, tra l’altro, le descrizioni delle terre scandinave poste oltre il circolo polare, redatte da Pietro Querini quando vi giunse nel 1431); ma di un testo
come la Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno, il cui
successo editoriale, a partire dalla seconda metà del secolo XVI,
spiega la quantità di suggestioni che, nella scrittura romanzesca,
operano secondo mirabilia piegate al modello narrativo del viaggio quale pretesto per innescare nuovi ambienti e nuove azioni
dei personaggi.
L’inserto nordico nella Donzella desterrada del Biondi si colloca
entro una trama narrativa in cui la categoria del “viaggio” s’impone strutturalmente «con una storia di mare, di splendide navi che
trasportano da un’isola all’altra guerrieri e fanciulle rapite, di tempeste e di pirati, di lotte tra principi fratelli, di amori e di gesta
cavalleresche, di sanguinose contese di potere»,7 e proprio di queste ultime rappresenta un esempio eloquente. Introdotto nel piú
ampio contesto della favola in funzione di scioglimento di una
vicenda che, nell’economia intricatissima dell’opera, costituisce
«il racconto senza dubbio piú spaventoso di tutta la trilogia»,8
ossia quello dell’incesto e omicidio di tre dei cinque figli del re di
Norgales, tale inserto è la storia delle conseguenze del tentativo
di Teutone, re di Scandinavia, di avere in sposa Doricrene figlia
di Irinico re della Gaula Belgica, e chi la riferisce è un cavaliere
6. Cfr., s.v. Artiche, regioni, in Enciclopedia italiana, Roma, Ist. Poligrafico dello
Stato, vol. iv 1929, p. 680.
7. Q. Marini, La prosa narrativa, in Storia della letteratura italiana, dir. Malato
cit., vol. v pp. 989-1056, a p. 1028.
8. J.-M. Gardair, I romanzi di Gio. Francesco Biondi, in « Paragone », xix 1968,
pp. 63-87, alle pp. 81-82.
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che cerca in questo modo, assolvendo la missione per la quale è
stato incaricato dal proprio sovrano, di persuadere uno dei due
figli rimasti a quel re, Feredo, a ritornare finalmente in patria, dalla
quale era fuggito per districarsi dalle aborrite attenzioni amorose
della sorella poi suicida.
Se la delittuosa vicenda qui molto parcamente riportata rivela
il gusto del Biondi per l’analisi di situazioni spinte oltre i confini
del lecito,9 con un indugio di sapore tragico senecano su di una
torbida fenomenologia delle passioni che porta al sangue e al lutto, l’accennata narrazione che la segue testimonia di quella vocazione, o per dirla con Capucci, «mania»10 storiografica, che sul piano della scrittura romanzesca si traduce, come già ebbe a notare
Francesco Fulvio Frugoni, nell’abile inclinazione dell’autore lesinese a «vestir il romanzo da storia».11
Lo stralcio che ora riprendo nel dettaglio, confermando il tratto «storico-politico, cioè a chiave»,12 come caratteristico della narrativa biondiana, stempera nel particolare quel giudizio di eccessiva finezza, o “diplomaticità”, che Adolfo Albertazzi, nel suo
ormai datato studio dedicato al romanzo, estendeva all’arte intera dell’autore,13 e tenuto conto dell’ovvia impossibilità di istituire
una corrispondenza minuziosa col dato del reale, rivela l’uso del
travestimento romanzesco come atto a recepire e modellare «l’eco
degli sconvolgimenti politici dell’Europa del XVII secolo».14
Teutone, re di Scandinavia, poi che fu respinta la sua richiesta
di matrimonio nei confronti della figlia del re della Gaula Belgica,
Doricrene (sposalizio che gli avrebbe consentito di rafforzare la
9. Cfr. D. Ortolani, Potere e violenza nel romanzo italiano del Seicento, Catania,
Pellicanolibri, 1978.
10. M. Capucci, Alcuni aspetti e problemi del romanzo del Seicento, in « Studi secenteschi », ii 1961, pp. 23-44, a p. 35.
11. F.F. Frugoni, Il Cane di Diogene, in Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di
E. Raimondi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 919-1067, a p. 1030.
12. B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1931,
p. 33.
13. A. Albertazzi, Il romanzo, Milano, Vallardi, 1902, p. 89.
14. Gardair, I romanzi di G.F. Biondi, cit., p. 81.
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propria monarchia), induce per vendetta il nipote Durislao, regnante sui Sarmati, e che a sua volta aveva avanzato pretensioni
analoghe e ricevuto analoghi rifiuti, ad armarsi contro il re d’Ulmigaria che era stato eletto da Irinico suo futuro genero. A complicare l’intreccio compaiono i nomi di Celene ed Elimanto, figli
rispettivamente di Teutone e di Irinico, che pur amandosi decidono di anteporre ai loro desideri la ragion di Stato dei relativi
genitori, e cioè di separarsi in segno di fedeltà alle posizioni dei
padri.
A questo punto il narratore interrompe il suo racconto e rivela
di provenire dalla Norvegia, paese che, egli dice, per l’ingenuità
del suo re, Gimislavo, è caduto nelle mani del re di Scandinavia,
e prima di tacere esprime un pensiero che ci sembra costituire un
dato interessante per la nostra indagine, poiché rivela una modalità di rappresentazione del nordico in cui traspare l’intenzione di
riferirsi ad alcune delle vicende correnti all’epoca in cui l’Autore
di Lésina elaborava la sua opera. Riportiamo15 per esteso il passo:
Questo è il periodo in che siamo. Il mondo da quella parte ha un nemico solo, superiore a ciascheduno, inferiore a tutt’insieme. Il sappiamo.
Con tutto ciò chi può ostargli non vuole. Chiude gli occhi e corre alla
rovina a seconda dei rovinati, stimandosi piú offeso dalla beccata d’una
pulce che gli salti nella camicia, che dal velenoso fiato e da’ rabbiosi denti del dragone che gl’infetta e devora lo stato. Vi sono principi, che per
certe regole non possono lasciar lo Scandinavo, benché sicuri d’esser
oppressi infine, o al men male, di liberi fatti soggetti e schiavi. Altri stimano felicità dover essere gli ultimi a perire. Non abbiamo prudenza
alcuna. Siamo portati all’azione (se operiamo) da spiriti di confusione,
giunti al termine, nel quale, volendo gli dei punire, levano l’intendimento ai mortali.16
15. In questa, e nelle citazioni che seguono, abbiamo ammodernato alcuni elementi della grafia, distinguendo la u dalla v, sostituendo con e la et, uniformando in i la j in posizione intervocalica e finale, trascrivendo ti e tti davanti a vocale
con zi, seguendo, per quanto riguarda l’accentazione, l’uso corrente, ecc.
16. G.F. Biondi, La donzella desterrada, Venezia, Antonio Pinelli, 1628, p. 57.
L’edizione da cui cito non è la prima (1627), e si trova nella Biblioteca Palatina di
Parma, coll. PAL 9770.
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Buona parte della biografia del Biondi, come è noto,17 è documentabile in relazione ai tentativi operati per entrare stabilmente alla
corte inglese di Giacomo I, al servizio del quale, soprattutto per
intercessione dell’amico e protettore l’ambasciatore Henry Wotton, si era impiegato indirettamente fin dagli inizi del 1609. Tuttavia, è solo a partire dal 1622, quando otterrà dal re un riconoscimento in titoli e una discreta pensione che gli consentirà di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria, che l’obiettivo faticosamente perseguito si trasformerà in un approdo stabile e pressoché definitivo, fino alla decisione di lasciare Londra nel 1640 per
Aubonne, in Svizzera, dove morirà quattro anni dopo.
Considerata l’effettiva stima di cui senz’altro godeva il Biondi per essere stato affidatario di non poche e delicate missioni,18 si
potrebbe pensare che il tono esortatorio del passo riportato testimoni la volontà di influire sulla politica inglese e sulle disposizioni prese nello scacchiere degli affari internazionali. Tuttavia, in
un’epoca in cui la proficua e del tutto “rinascimentale” collaborazione tra potere e intellettuali è rovinosamente venuta meno, e
in cui la storia, specie se assunta dai romanzieri, è, per dirla con
Benzoni, riportata sempre a posteriori, «di seconda mano»,19 credo
17. Per ulteriori ragguagli rimandiamo a A. Bacotich, Giovanni Francesco Biondi
da Lesina (1572-1644), in « Archivio storico per la Dalmazia », s. x, vol. xix 1935,
pp. 106-34; A. Just Vertus, Gian Francesco Biondi. Romanziere e storiografo, in « Atti
e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria », v 1966, pp. 149-61; G. Benzoni, Giovanni Francesco Biondi un avventuroso dalmata del ’600, in « Archivio veneto », lxxx 1967, pp. 19-37, e Id., Biondi, G.F., in Dizionario Biografico degli Italiani,
Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, vol. x 1968, pp. 528-31; G. Scotti, Gianfrancesco Biondi, in « La Battana. Rivista trimestrale di cultura », xxxvii 2000, n. 137
pp. 97-103.
18. Basti considerare l’incarico avuto nel 1612, a seguito del Wotton, volto a
sondare la possibilità che Carlo Emanuele garantisse l’autonomia di fronte all’eventualità di un ravvicinamento tra Francia e Spagna, o la rappresentanza che
egli fece di Giacomo I all’assemblea dei calvinisti di Grenoble nel 1615, con il
proposito di spingere gli ugonotti ad appoggiare il principe Enrico III di Condé,
allora impegnato nel tentativo di destituire di potere la reggente di Francia Maria de’ Medici. Cfr. Benzoni, Biondi, G.F., cit.
19. G. Benzoni, Istoriar con le favole e favoleggiar con le istorie, in Girolamo Brusoni.
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vi si debba riconoscere piú semplicemente un’attestazione di parte,
una manifestazione di schieramento, ossia un modo di certificare
la propria adesione ad un orientamento la cui linea doveva essere
chiara nel contesto che ospitava il Biondi in quegli anni.
E sono anni, quelli che precedono l’uscita dell’opera, di molti e
gravi scompigli per l’equilibrio tradizionale delle forze politiche.
Una stagione storica in cui il Settentrione esce alla ribalta movendo dalle quinte di una coscienza mediterranea che lo considerava prevalentemente sotto il profilo del commercio (costituendo l’area dei traffici alternativa a quella piú tradizionale di collegamento con l’Africa e con l’Asia), e s’impone all’attenzione europea soprattutto con la Svezia di Gustavo II Adolfo, sovrano il
cui vigore condusse in poco tempo il Paese ad essere «la massima
potenza politica».20
Ciò detto, e tenuto conto che la Scandinavia può senza dubbio
indicare la Svezia, noi crediamo di ravvisare proprio in Gustavo
II Adolfo quel Teutone «superiore a ciascheduno, inferiore a tutt’insieme» di cui si parla nell’inserto storico-politico del romanzo del Biondi. A convincerci sono le considerazioni che seguono.
Nello stralcio citato si dice: «Il mondo da quella parte ha un nemico solo […]. Con tutto ciò chi può ostargli non vuole. Chiude
gli occhi e corre alla rovina a seconda dei rovinati, stimandosi piú
offeso dalla beccata d’una pulce […], che dal velenoso fiato che
gl’infetta e devora lo Stato». Proviamo un confronto con il quadro degli eventi determinatosi nel corso della seconda decade del
secolo XVII, per quanto riguarda il contesto nord-europeo.
La Danimarca di Cristiano IV sta accrescendo progressivamente
la propria potenza: la guerra di Kalmar e la pace di Knöred del
1613 imposta alla Svezia ne sono un episodio significativo. L’incremento di forza danese, tuttavia, desta preoccupazioni e calcoli
tali da perturbare gli equilibri fino allora stabiliti: Olanda e città
Avventure di penna e di vita nel Seicento veneto. Atti del xxiii Convegno di studi
storici, Rovigo, 13-14 novembre 1999, a cura di G. Benzoni, Rovigo, Minelliana,
2001, pp. 9-28, a p. 20.
20. Cfr. s.v. Svezia, in Enciclopedia italiana, cit., vol. xxxiii 1937, p. 53.
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anseatiche cominciano a guardare alla Svezia come ad un possibile contrappeso da opporre e, causa religionis, i luterani della Germania rispondono all’indifferenza di Cristiano rispetto ai loro appelli d’ordine confessionale virando verso Gustavo i propri orizzonti d’attesa. Risultato: 1614, alleanza Svezia-Olanda; 1617, ripresa da parte della Svezia della guerra con la Polonia, forte ora degli
appoggi “tedeschi”; 1620, matrimonio di Gustavo II Adolfo con
Eleonora di Brandeburgo; 1621, guerra svedese in Livonia e conquista dell’importante Riga; 1624, rinnovata crisi diplomatica tra
Svezia e Danimarca e ulteriore indebolimento di quest’ultima; 1626
(e qui mi fermo, perché la data della pubblicazione della Donzella
desterrada del Biondi è dell’anno successivo), invasione della Prussia e vittoria di Wallohf.
Insomma, «chi può ostargli – leggere Olanda, città anseatiche,
ecc. – non vuole», e cosí preferisce correre «alla rovina a seconda
dei rovinati», schierandosi con, o appoggiando, chi potenzialmente
era già rovinato. Per di piú, essendo le ragioni economiche, legate al dominio del Baltico, causa, se non prima, preponderante
dello squilibrio ivi prodottosi, lo «stimarsi piú offeso dalla beccata d’una pulce» che dal «velenoso fiato» potrebbe alludere al gioco di interessi particolari delle varie forze in questione che, per
non avere considerato gli effetti sotto il profilo di una gittata maggiore di quella misurata entro i limiti delle rispettive “municipalità”, tale situazione hanno reso realizzabile.
Piú che di una geografia mitica, qui intesa come rivisitazione
fantastica di un immaginario ereditato attraverso i canali di una
letteratura dell’inconsueto e del mirabile, che avrebbe potuto in
vario modo «lusingare la fantasia del lettore con la presenza di
paesaggi remoti e favolosi»,21 oppure offrire – e si pensi al Tasso
del Torrismondo e all’utilizzo dell’esotico come apertura di uno
«spazio per l’originalità creativa» – 22 ambientazioni e argomenti
21. Viaggiatori del Seicento, a cura di M. Guglielminetti, Torino, Utet, 1967,
p. 9.
22. V. Martignone, Introduzione a T. Tasso, Il Re Torrismondo, Parma, Fonda-
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volti alla fascinazione di un meraviglioso piú o meno dialogante
con le istanze della verosimiglianza aristotelica, è opportuno parlare per quest’opera del Biondi di una rappresentazione totalmente assunta in chiave, appunto, storico-politica, ma in cui, tuttavia,
sorprende l’assoluta mancanza del benché minimo tratto di “colore” paesaggistico in relazione ad uno sfondo che non poteva, in
quegli anni, aver esaurito nel già noto la propria disposizione ad
incuriosire il lettore.
Può essere allora significativo raffrontare La donzella desterrada
con l’opera successiva della trilogia in cui essa s’inserisce come seconda, Coralbo, edita in Venezia nel 1632, perché il Nord vi compare adesso alla luce di una caratterizzazione topografica assente
nella precedente. A movimentare la macchina narrativa che conduce a siffatti “luoghi deputati” è, come di frequente, l’elemento
strutturale del viaggio forzatamente deviato da un agente atmosferico ben noto ai lettori del romanzo seicentesco (ma in uso, ancor prima, in quello greco-ellenistico),23 vale a dire la tempesta.
L’antefatto è il seguente: Feredo, cui già si era accennato nella sintetica introduzione al brano sopra riportato, partito in nave dalla
regione di Feacia in cui si trovava, la mitica e omerica terra dei
Feaci che il Biondi sembra identificare con la Sicilia, è improvvisamente tratto alla mercé di venti che lo sospingono con impeto
verso l’Artico.
Con un’agilità di penna, o, diremmo meglio, con una disinvoltura nel controllo della scansione spazio-temporale degli eventi
che portano ad un rinnovato mutamento di scena – disinvoltura
e asciuttezza che fanno pensare all’apporto e alla trasposizione
nel campo del romanzo di modalità proprie della scrittura drammatica24 (si pensi alla funzione della didascalia in rapporto ai dizione Pietro Bembo-Guanda, 1993, pp. ix-lxiii, a p. xx. E il rinvio dello stesso a
T. Tasso, Discorsi del poema eroico, in Id., Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a
cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 61-258, a p. 109.
23. In realtà, com’è noto, non andrebbe dimenticato l’utilizzo del topos della
tempesta da parte del Tasso autore del Torrismondo (cfr. vv. 500-56).
24. Pur non soffermandosi su questo rapporto, vi allude, in riferimento al ro-
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versi “quadri” che introduce) –, il Biondi narratore sorvola velocemente sul tragitto fortunosamente compiuto dal protagonista,
e sembra piuttosto intenzionato a farlo giungere al piú presto alla
meta dove collocare il nuovo spazio delle sue vicende:
Giunto nell’Oceano, i venti statigli fin’allora favorevoli gli si fecero nimici,
spingendogli la nave con tanta violenza che, riuscitogli impossibile l’imboccar il mare d’Ibernia per andare in Norgales, gli fu forza lasciarsi
trasportare nel canale tra le Gaule e l’Albione. Né la perdita sarebbe stata
grande, quando egli avesse potuto porre il pie’ a terra, ma necessitato
scorrer oltre, fu cacciato, con tanta violenza di turbini, pioggie e grandini, che ’l nocchiere, stimatosi perduto, si lasciava portare dove piú gradiva alla rabbia dell’incostante elemento. Lasciò la volante nave dalla sinistra in poco tempo i Bertoni, i Pitti, gli Scoti, l’Orcadi tutte e alla destra le Gaule, i Batavi, i Germani e i Cimbri.25
In questo stralcio compaiono in carrellata, e in una forma latinizzata che può in tal modo rivelare un fermo «desiderio di dignità letteraria»,26 alcuni nomi di popoli antichi che hanno la
funzione metonimica di significare all’incirca le terre che Feredo
oltrepassa: i «Bertoni», con metatesi per Bretoni, per intendere
le coste della Francia nord-occidentale; le «Gaule» per il Belgio;
i «Batavi» per l’Olanda; i «Cimbri» per lo Jutland danese; i «Pitti»
e gli «Scoti» per riferirsi alle «Orcadi» e quindi alla Scozia. È un
esempio che assevera senz’altro l’intervento di Giovanni Getto
sulla natura pretestuosa e poco interessante del viaggio in sé, il
cui unico fine è creare, tra un percorso e l’altro, le «pause» in cui
possano svilupparsi «le storie dei personaggi o le loro conversazioni».27
manzo del Seicento come « genere senza confini », Capucci in Alcuni aspetti, cit.,
pp. 25-26. Quella del “teatro”, del resto, è una categoria le cui suggestioni, nel
XVII secolo, sanno promanarsi in modo vasto e multiforme.
25. G.F. Biondi, Coralbo, Venezia, Giovanni Pinelli, 1632, pp. 117-18. L’edizione da cui cito si trova nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, coll. V
5 74.
26. C. Jannaco, Il Seicento, Milano, Vallardi, 1963, p. 532.
27. Getto, Il romanzo veneto nell’età barrocca, cit., p. 248. Inoltre, con l’evitare
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Ritornando all’analisi in questione, è interessante rilevare come
in quest’opera traspaia la filigrana di un’istanza paesistica che, sia
pure «dilettantesca»,28 come è stata definita in genere la convenzionale geografia dei romanzi seicenteschi, ci sembra tuttavia
indicativa, per quanto riguarda il Biondi, di una rilassatezza e di
un abbandono maggiore alle ragioni del romanzesco che denotano forse lo stato di tranquillità indotto, rispetto agli anni della
Donzella desterrada, dal sentirsi ormai integrato in un contesto verso il quale non c’era piú bisogno di provare la propria parzialità.
Feredo, in balia della tempesta, giunge finalmente in Norvegia. Ecco come l’autore ce ne presenta un primo scorcio all’arrivo
del protagonista:
Si fermò due volte il travagliato vasello. La prima allo scoglio del Druido
e la seconda nel porto delle anella di ferro. Ha questo scoglio una maravigliosa virtú, porto sicuro a’ naviganti, e viene cosí chiamato dal parer vestito (a chi ’l mira) dell’abito somigliante a quello di che si vestono
i druidi. Il porto delle anella di ferro è un luogo chiuso da venti: dove le
rupi perpendicolarmente tagliate dalla natura s’ergono quasi con pretensione di toccarne il cielo. Non vi si truova fondo, onde l’ancore prima e lo scandaglio poi (benché giunti spaghi a spaghi) non poterono
posarsi mai su la rena; cagione che gli antichi re norvegi avessero fatto
impiombare all’intorno grossissime anella di ferro, acciocché i canapi
assicurati alle anella facessero quell’effetto che non potevano l’ancore in
cosí profondo abisso.29
Il dato che subito si nota è l’attenzione rivolta ad alcuni degli
aspetti che piú caratterizzano la natura dei luoghi di questa terra:
scogli, fiordi titanicamente descritti come rupi che «s’ergono quasi
inutili digressioni, tale rapidità di spostamenti può servire a rinforzare l’unità e
la compatezza della favola, agevolando cosí la capacità decifratoria del lettore:
cfr. P. Fasoli, Procedimenti narrativi di Giovan Ambrosio Marini, in « Quaderni d’Italianistica », vol. xii 1991, pp. 199-213.
28. M. Zoric, Due romanzieri veneti del Seicento e il mondo slavo, in Culture regionali e letteratura nazionale. Atti del vii Congresso A.I.S.L.L.I., Bari, 31 marzo-4 aprile 1970, Bari, Adriatica, 1973, pp. 423-45, a p. 425.
29. Biondi, Coralbo, cit., p. 119.
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con pretensione di toccarne il cielo», insenature poste al riparo
dai venti, fondali. Tuttavia, se acconsentiamo al giudizio dell’autorevole Capucci, per il quale gli scenari paesistici sarebbero dal
Biondi «tratteggiati in modo asciutto e persino avaro»,30 assumiamo inoltre la puntualità del Guglielminetti quando chiosa la fattura puramente letteraria, «che non deriva da un’autentica esperienza»,31 di simili fermate descrittive.
Una puntualità confermata, testi alla mano, dal riscontro di
ciascuno dei passi salienti del brano riportato con quella fonte di
vigorose suggestioni che è l’Historia de gentibus septentrionalibus di
Olao Magno. È schiacciante l’evidenza dell’attingimento: dapprima quello «scoglio del Druido», che riprende quasi testualmente il «monte che i naviganti, alludendo alla sua forma, chiamano
“il monaco” [poiché] sembra indossare una cappa»;32 poi la «maravigliosa virtú» del golfo da esso formato, consistente nel «confortare ed accogliere in luogo sicuro tutti coloro […] che si rifugino presso di lui» (p. 54), e perciò definito, esattamente come in
Olao Magno, «porto sicuro»; poi quelle «anella di ferro», «impiombate all’intorno» delle pareti dei monti – si potrebbe continuare con l’autore dell’Historia – «affinché anche le grandi navi,
se incalzate dal fortunale o dalla tempesta, vi si possano ormeggiare con le gomene» (ivi, cap. xiii p. 59); o la profondità del fondale marittimo, ad attestare la quale è macroscopico il parallelismo tra l’immagine dello scandaglio composto dall’unione di «spaghi a spaghi», e quell’altro «scandaglio di piombo, calato in acqua
mediante tutte le funi di cui può essere fornita una grande nave»
(ivi, cap. xii p. 58), e che però «non tocca il fondo», dice lo Svedese, cui il Biondi fa senz’altro eco con «non vi si truova fondo».
30. M. Capucci, Introduzione a Romanzieri del Seicento, a cura dello stesso, Torino, Utet, 1974, pp. 9-63, a p. 17.
31. Viaggiatori del Seicento, cit., p. 9.
32. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali. Usi, costumi, credenze, a cura di
G. Monti, Milano, Rizzoli, 2001, cap. v p. 54. Per praticità preferiamo citare da
una traduzione dal testo latino (le successive indicazioni di pagina saranno date
dir. a testo, qui e dove sarà possibile nel resto della trattazione).
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il nord nel romanzo italiano del seicento
Ed infine l’ergersi di quei monti, che anche nell’indubbia fonte
consultata «si slanciano verso l’alto» a dichiarare la straordinaria
ed imperiosa «potenza della natura» (ibid.).
Ma la falsariga seguita dall’Autore di Lésina sopra il testo di
Olao è patente anche nell’estratto che segue, un inserto di carattere tenebroso in cui, dopo l’attenzione appuntata su fenomeni
di carattere naturale e morfologico, la suggestione si apre ad elementi del folklore e del leggendario locale, con una vera e propria «evasione nel mirabile»33 e nell’irrazionale. Feredo, questa volta impressionato dal «perpetuo giorno»34 dell’estate artica, approda nella mitica terra di Tule, dopo un viaggio la cui durata è calcolata assumendo il sole a naturale indicatore di tempo:
Aveva fatto tre diurni circoli visibilmente il sole non tramontato mai
avanti che le si scoprisse terra alcuna; nel quarto, apparitale l’ultima
Tile, vi ci prese porto senza impedimento veruno.35
Sull’identificazione di «Tile», la virgiliana «ultima Thule»36 delle Georgiche, con l’Islanda è novamente il testo di Olao Magno a
fornirci una pista plausibile, e ciò per mezzo di un confronto tra
i seguenti brani presi dall’opera del Biondi, in cui Feredo è protagonista di una sequenza di incontri lugubri e spettrali:
E montata ch’egli ebbe la parte superiore del porto si maravigliò non
vedervi niuno, quando poco lungi da là scorse una dama riccamente
vestita la quale, incapperucciata di negro, gli faceva cenno la seguisse,
avviatasi oltre come per aspettarlo […]. Feredo, che vedutala gli parve
esser Gelinda, s’arrestò, arricciatiglisi i capeli. Di che avvisatasi ella, con
voce roca e spaventevole gli disse: Seguimi Feredo, non temere. Mi sovvegno ancora e di soverchio ch’i’ ti fui sorella. Queste ultime parole diedero, con lo spavento, qualch’ardire al cavaliere, il quale, vergognatosi di se stesso, le s’accostò. Essa, presolo per la mano, replicandogli con
33. M. Guglielminetti, Introduzione a T. Tasso, Teatro, a cura dello stesso,
Milano, Garzanti, 1983, pp. vii-xliii, a p. xxxi.
34. Biondi, Coralbo, cit., p. 120.
35. Ivi, p. 121.
36. Virg., Geor., i 30. Ma si veda anche Plin., Nat. Hist., ii 187, 246; iv 104; vi 219.
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luca piantoni
disdegnoso sorriso che non temesse, lo menò fuor del cammino a pie’
d’una montagna assediata da stridenti fiamme d’ogn’intorno.37
Prima di passare al brano successivo, bisogna dire che è questo
il primo dei sinistri casi in cui si imbatte il giovane principe di
Norgales, il quale si trova alle prese col fantasma di quella sua sorella che, nella Donzella desterrada, si era suicidata per l’amore incestuoso da lui non ricambiato. E valga notare un’altra ripresa alla lettera dal testo di Olao Magno, a proposito di quella «montagna assediata da stridenti fiamme d’ogni intorno» che ricalca l’annotazione, registrata dall’Arcivescovo di Uppsala, degli effetti indotti dalla naturale abbondanza di zolfo nella conformazione geologica di quei luoghi, per cui «certe vene sulfuree […], quando si
accendono, diffondono il fuoco tutt’intorno».38
Gelinda, però, non è il solo morto che Feredo incontra in quella
circostanza:
Mossosi dunque per andarsene udí dall’altro canto della montagna un
gran strepito di cani, e mentre s’avvanzava per guadagnar l’angolo che
gliene toglieva la vista, vide spuntare due giovanetti cavalieri ben a cavallo, la memoria de’ quali (non iscancellata dal tempo) gli rappresentava i due defunti principi suoi fratelli. Se le non attese presenze gli furono d’orrore, c’è di che scusarlo, massimamente che, giuntiglisi da presso
mentre stava in procinto il primo di ferir un cervo che gli correva innanzi, fu con la spada trafitto dall’altro, facendolo traboccar da cavallo,
nell’istesso tempo co’l cervo urtando lui senza fargli altro danno, il gittò lungi piú di vinti braccia: la terra apertasi là, dov’egli era prima, ed
inghiottitone il cervo, i cani e i cavalli, con tanto suo terrore che, senza
badar piú oltre, se ne tornò addietro, incontrato da suoi, senza conoscere né intendere cosa che gli si dicesse.39
Insomma, il posto che il Biondi ci presenta è precisamente quel
«luogo di pena e di espiazione per le anime peccatrici »40 che Olao
37. Biondi, Coralbo, cit., p. 122.
38. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. i p. 52.
39. Biondi, Coralbo, cit., pp. 124-25.
40. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. iii p. 53.
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il nord nel romanzo italiano del seicento
Magno, dando ascolto alle credenze popolari della sua gente, individuava presso uno dei promontori dell’Islanda dove si riteneva che comparissero «le ombre degli annegati o dei morti di morte violenta».41 E infatti l’autore del Coralbo, facendo commentare
l’episodio ai suoi personaggi, fa dire loro di credere «vero quello
ch’altre volte avevano stimato favola: che l’isola da quella parte
fusse disabitata: albergo di gente morta di ferro, di naufragio, o
d’altre simili disaventure».42
Il caso della Dianea di Giovan Francesco Loredan, «romanzo
che ebbe subito gran voga»43 quando uscí per Giacomo Sarzina
nel 1635, risulta interessante per l’ipotesi che, oltre al testo di Olao
Magno, altre fonti abbiano concorso ad esercitare un’influenza sull’autore. È anche vero, comunque sia, che l’Historia de gentibus septentrionalibus costituisce il luogo di attingimento piú importante
per l’esotismo settentrionale che connota le vicende di uno dei
personaggi agenti nella trama44 dell’opera. Dell’Islanda, intanto,
che è la patria d’origine di un cavaliere di nome Ossirdo, il quale
sta spiegando perché la sua sventura si leghi alla persona di Dianea,
viene subito detta l’estrema lontananza che la rende ignota persino «all’ambitione di quei monarchi che, per desiderio d’allargar’
i confini dell’imperio, ardirebbero di muover guerra alle stelle»:45
Islanda è la mia patria isola situata sotto al polo artico frà l’Austro e ’l
Borea vicina al mar Glaciale, altre volte per la sua lontananza avendo
sortito il nome d’isola perduta.46
Dove è interessante notare che il sintagma «isola perduta» si ri41. Ibid.
42. Biondi, Coralbo, cit., p. 126.
43. I. Mattozzi, Nota su G.F. Loredan, in « Studi urbinati », n.s. B, xl 1966, pp.
257-91, a p. 257.
44. Per un succinto riassunto del romanzo, non sempre puntualmente corretto e tuttavia essenziale, cfr. A. Albertazzi, Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, Bologna, Zanichelli, 1891, pp. 237-44.
45. G.F. Loredan, Dianea, Venezia, Giacomo Sarzina, 1635, p. 184. L’edizione
da cui cito si trova nella Biblioteca Comunale di Bologna, coll. IX 18 45.
46. Ibid.
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luca piantoni
trova nell’Orlando Furioso nelle ottave 51, 52 e 55 del canto xxxii,
ottave inerenti all’episodio di Ullania:
questa donna, mandata messaggiera
fin di là dal polo artico, è venuta
per lungo mar da l’Isola Perduta.
Altri Perduta, altri ha nomata Islanda
l’isola […].
Questi tre, la cui terra non vicina,
ma men lontana è all’Isola Perduta
(detta cosí, perché quella marina
da pochi naviganti è conosciuta),
[…].47
Ossirdo, dunque, s’innamora della figlia del re di Norvegia, Doricia, e ne è ricambiato, ma a contrastare i sentimenti dei due interviene il duca di Gotlandia,48 che cerca di uccidere Ossirdo venendone però a sua volta ferito mortalmente in duello. Il re di
Norvegia concede quindi Doricia al suo corrisposto amante, e si
dispongono i preparativi della festa nuziale. Tuttavia, ad interferire nell’esito della vicenda giunge inaspettata una lettera da parte di Dianea, la quale, pur non conoscendolo se non di fama, vi
esprime l’intenzione di sposarlo, al fine di unire «la vostra fortezza al mio bello», e «godere la protetione d’un tanto Principe».49
In realtà, la corrispondenza è fatta partire dalla stessa Doricia,
che in tal modo vuol mettere alla prova la fedeltà del suo promesso sposo, ed è interessante, a questo punto, seguire lo scambio di battute che accompagna il palesamento di tale espediente,
poiché vi compaiono elementi di una geografia nordica retoricamente piegata a rappresentare dei giudizi di valore sulle rispetti47. L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di L. Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi,
1954, xxxii 51 6-8 - 52 1-2, 55 1-4, pp. 836-37.
48. Gotlandia, come è noto, è semplicemente la forma latinizzata di Gotland,
provincia storica della Svezia meridionale comprendente, oltre all’omonima, alcune isole minori situate nel Mar Baltico ad est di Öland.
49. Loredan, Dianea, cit., p. 190.
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il nord nel romanzo italiano del seicento
ve persone coinvolte. Dapprima Doricia, la quale cosí dichiara in
forma di “dialogismo”:
Infelice Doricia, a chi hai obbligato l’animo? Ad uno che non sa amare
se stesso e che è nato sotto ad un cielo ove il mare s’agghiaccia (p. 191).
Poi Ossirdo, la cui risposta, che contiene un rinvio alla natura vulcanica dell’«isola perduta», è resa nota in stile indiretto:
Le lagrime le fermarono le parole, ond’io attestandole con l’imprecazioni
de gli dei il mio amore e la mia fede, la supplicavo a non pregiudicare a
se stessa co’l dichiararmi reo prima che fosse conosciuta la mia causa:
che le regole dei mari non si confanno con quelle del cuore, tanto piú
che le montagne d’Islanda, benché ricoperte di perpetua neve, nutrivano però ancora perpetuo il fuoco (ibid.).
Ma è il prosieguo della trama a volgere per noi verso il punto in
cui è maggiore la densità del riferimento ad una ambientazione
nordica impiegata a suggestionare chi legge, e ciò è quando Ossirdo conduce Doricia nel proprio Paese facendole vedere «le maraviglie dell’isola» (p. 204). L’occasione è data da una pesca, «delle quali abbonda piú che d’ogn’altra cosa l’Islanda» (ibid.), proposta per distrarre Doricia dalla delusione provata a causa di un
atteggiamento poco “cavalleresco” di Ossirdo.
Era infatti accaduto, ancora in Norvegia, che si fosse presentato il principe d’Hibernia Hidraspe, con l’intenzione di sfidare a
duello tutti coloro che non affermassero la superiorità della bellezza di Dianea sopra le altre donne, e tra i molti cavalieri partecipanti alla giostra, Ossirdo fu quello assente, provocando con ciò
il riaccendersi della gelosia e dello sconforto di Doricia, che ne
vedeva la conferma dei suoi autoprodotti e mal sedati sospetti.
È qui interessante notare come la fantasia del Loredan voglia
farsi congrua all’ambiente che ospita la scena del torneo, a partire
da quel nome, «Hidraspe», che ben si confà, per via etimologica,
all’evocazione delle acque che contornano l’isola da cui proviene
la latinizzata Irlanda; ma si pensi ai nomi di alcuni partecipanti
come il conte di Lupponia, oppure alle insegne che, «in un pre413
luca piantoni
ziosismo quasi calligrafico e in una continua ricerca coloristica»,50
identificano le armature dei cavalieri e le bardature dei rispettivi
destrieri: un duca di Scandia «che avendo come insegna un Icaro,
ne fece la stessa fine» (p. 197), o un cavaliere sconosciuto il cui
stemma raffigura un «orologio da sole» (ibid.), e dove per entrambi è forse l’idea di un Settentrione evocativo di una classica e
mitica luminosità (Icaro, il sole) ad aver ispirato la scelta descrittiva dell’autore.
In Islanda, dunque, Ossirdo tenta di svagare l’animo inquieto
della sua imminente consorte ricorrendo alle caratteristiche per
lei esotiche del luogo:
I corvi là si veggono bianchissimi e ’l ghiaccio manda da fuori voci
umane. Tiene l’Islanda tre eccelsi monti, che nella sommità conservano
perpetuamente le nevi e nelle radici nudriscono continuamente il foco.
Vi sono quattro fontane l’una vicina all’altra un tiro di mano tutte di
contraria qualità. L’acqua d’una è piú calda del fuoco, e dell’altra è cosí
fredda che non può sofferirsi. La terza è ottima al gusto e medicinale, e
la quarta veleno mortifero. Cedono però tutte queste maraviglie, delle
quali se ne può gloriare la natura ad una voragine profondissima nella
sponda della quale appariscono gli uomini che sono periti da morte
violenta (pp. 204-5).
Ecco il punto in cui traspare la filigrana di Olao Magno: i corvi
che «si veggono bianchissimi», con superlativo rispetto alla qualificazione a grado zero della fonte presunta, potrebbero essere
quelli «assai feroci nell’uccidere gli agnelli e i porcellini»51 di cui
parla lo Svedese, mentre il ghiaccio che «manda fuori voci umane» sembra mutuato dal capitolo in cui Olao parla dei « terribili suoni»52 prodotti all’interno delle grotte situate lungo le coste
islandesi.
50. G. Quaglino, La realtà fantastica de ‘La Dianea’ di G.F. Loredan, in « Critica
letteraria », iv 1976, pp. 89-116, a p. 107.
51. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. xv p. 105.
52. Ivi, cap. iv p. 54. La nota che vi si riferisce, a cura del già menzionato Giancarlo Monti, parla piú tecnicamente di « effetto sifone ».
414
il nord nel romanzo italiano del seicento
Su quest’ultimo confronto, tuttavia, è interessante notare che
pure Saxo Grammatico, nelle sue Saxonis Gesta Danorum, allude
evidentemente al medesimo fenomeno, quando spiega che all’avvicinarsi all’isola di un’enorme massa di ghiaccio
si odono risuonare sulla scogliera come delle voci fragorose provenienti
dalle profondità marine, e il frastuono di moltissime strane grida.53
E ne fa razionalmente derivare la credenza, che invece in Olao è
riportata con un taglio meno evemeristico e senza dubbio piú psicolgicamente coinvolto, per cui si pensa che tali rumori siano i gemiti delle «anime condannate dopo una vita scellerata a scontare
i loro crimini lí, nel freddo piú intenso».54
Ma non c’è dubbio, a proposito di questa notizia, che il Loredan,
cosí come, del resto, il Biondi (il che è riprova che il riferimento doveva costituire la suggestione piú forte tra quelle offerte dal
testo di Olao), abbia derivato il racconto direttamente dall’autore dell’Historia, laddove si parla appunto delle ombre dei «morti
di morte violenta» (cap. iii p. 53) con un’espressione che ricorre
ugualmente nello scrittore veneziano. Ed ancora da Olao è certamente attinta la peculiarità dei monti, eco quasi letterale del dato
per cui «sulla loro sommità c’è neve perenne, mentre alla base
fuoco sulfureo che arde continuamente» (cap. ii p. 52).
Una differente congettura, invece, ci porta ad avere quel riferimento alle «quattro fontane […] tutte di contraria qualità». Esse,
infatti, non compaiono55 nell’opera dell’Arcivescovo settentrionale, dove però si fa menzione di «un lago limaccioso», «nella Gotia meridionale», le cui acque verrebbero utilizzate «come blanda
medicina» (cap. i p. 52), mentre nell’opera di Saxo si riporta l’esistenza di «una sorgente d’acqua talmente malsana, che chi ne
53. Saxo Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, a cura di L. Koch e M.A.
Cipolla, Torino, Einaudi, 1993, p. 15.
54. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. iv p. 54.
55. In realtà, ad essere precisi, non compaiono nella versione antologizzata da
cui stiamo citando. Ma ci riserviamo di verificarlo su una delle edizioni disponibili al tempo del Loredan.
415
luca piantoni
beve muore come avvelenato».56 Lo storico danese, tuttavia, aggiunge dell’altro:
Esistono anche altre fonti dall’acqua, si dice, con un sapore simile a
quello di una bevanda di cereali. E anche dei fuochi che, pur non essendo in grado di bruciare il legno, si nutrono di un fluido simile all’acqua
(p. 16).
A questo punto, la nostra ipotesi (che ci proponiamo di verificare
attraverso uno spoglio della probabile biblioteca a disposizione
del Loredan nel periodo precedente la stesura dell’opera) è che
l’autore della Dianea abbia consultato entrambe le opere, per rielaborarne poi i rispettivi dati in una forma piú libera rispetto ai
singoli riferimenti di partenza.
E allora quell’acqua «ottima al gusto e medicinale» avrà raccolto, per la prima metà della frase, uno spunto da Saxo, per la
seconda da Olao, e cosí la locuzione «piú calda del fuoco», che
rinvia a fenomeni di natura vulcanica secondaria, come «pozze
di fango ribollenti per emissione di metano»,57 avrà dietro sí il
«lago limaccioso» di Olao, ma congiunto all’osservazione riportata da Saxo di «fuochi che, pur non essendo in grado di bruciare
il legno, si nutrono di un fluido simile all’acqua».58 Mentre il solo Saxo Grammatico, visto che non se ne trova accenno in Olao,
avrà fornito l’indicazione per la qualità velenosa e mortifera di
una delle sorgenti del Loredan.
Anche per il «poco fortunato»59 romanzo del vicentino Pace
Pasini, Historia del Cavalier Perduto, uscito una volta a Venezia, e
non piú ristampato, nel 1644 per Francesco Valvasense, Olao Ma56. Saxo Grammatico, Gesta dei re, cit., p. 16.
57. Cfr. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. ii p. 52.
58. Saxo Grammatico, Gesta dei re, cit., p. 16.
59. Capucci, Introduzione a Romanzieri del Seicento, cit., p. 23. Ad essa si rinvia
(pp. 19-21) per uno schema della trama. Per un resoconto piú dettagliato, si rimanda invece a M. Santoro, L’Istoria del Cavalier Perduto di Pace Pasini, in « La piú
stupenda e gloriosa macchina ». Il romanzo italiano del sec. XVII, a cura dello stesso,
Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981, pp. 163-230.
416
il nord nel romanzo italiano del seicento
gno si rivela l’unica risorsa utilizzata dall’autore per rappresentare uno scenario d’ambientazione nordica. Una delle molteplici
storie in cui il racconto si fraziona, entro «una narrazione sottoposta a forti spinte centrifughe»60 che è la cifra di questa scrittura
pasiniana, ha difatti come sfondo l’isola d’Islanda, terra in cui l’eroe,
«d’una in altra procella passando»,61 è tratto per la violenza di
una tempesta che ne ha deviato la traiettoria di partenza, spingendolo fin lí dallo stretto di Gibilterra in cui inizialmente si trovava a navigare.
Come nel romanzo del Loredan, la “terra del ghiaccio” è denominata «isola perduta» per via dell’estrema lontananza, ma se
ne dà un’ulteriore caratterizzazione indicandola altresí come «generatrice di zolfi» (p. 325), con evidente riferimento alle esalazioni
sulfuree del luogo, su cui la descrizione insiste:
Costà, per essersi troppo approssimati alle dense esalazioni di quelle
ferventi miniere, i naviganti sentirono qualche principio di soffocazione,
ma fatti accorti del pericolo dal grave e impedito respiro, si discostarono,
finché, trascorsa la costa delle vene sulpuree, presero poi comodo porto
nell’isola, dove, perché si mostravano ammirati di non avere il notturno riposo piú che due ore lungo, intesero che gli abitatori mediterranei
d’essa, come quelli che stanno sotto il circolo artico, all’entrata del sole
nel Cancro godono ventiquattr’ore di giorno, né allora altra notte vedono, se non che quando il sole invece di tramontare va radendo l’orizzonte, il dí a guisa di crepuscoli è a quanto men lucido (p. 326).
Il riscontro con alcuni passi presenti in Olao Magno è invece
evidente nel momento in cui l’autore inserisce una brevissima digressione su un aspetto della natura dell’isola che la rende ammirevole:
maravigliosa (se veritiera è la fama) per gli uccelli e pesci tanto della
musica vaghi che, quasi quegl’isolani abbiano ereditata la lira d’Orfeo, si
60. Capucci, Introduzione, cit., p. 19.
61. P. Pasini, Historia del Cavalier Perduto, Venezia, Francesco Valvasene, 1644,
p. 325. L’edizione da cui cito si trova nella Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, coll. Gonz. VIII 8 23.
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luca piantoni
lasciano dal concento d’essa in modo inebbriare, che rimangano facile e
stupida preda di chiunque prendere e cattivar gli vuole (ibid.).
Il rinvio ornitologico è infatti desunto da quei passi del testo di
Olao dove si dice che i cigni «si dilettano del dolce suono della
cetra e del flauto», di modo che i cacciatori,
costruito il falso simulacro di un bue o di un cavallo, o nascosti sotto
l’animale vivo, suonano la cetra, finché al cigno che si avvicina, intento
al dolce suono, conficcano nel petto un uncino di ferro fissato in cima
ad un’asta […].62
Ovvero, riguardo alle pernici, che «possono essere catturate anche da un suonatore di flauto» (cap. xli p. 304).
Il brano del Pasini, tuttavia, ci sembra molto piú significativo
per via di quell’inciso tra parentesi con cui l’autore si domanda «se
veritiera è la fama» di ciò che sta per scrivere. La frase, infatti, tradisce una preoccupazione che ci sembra testimoniare, come poi
diremo rinviando a Luisa Mulas, un conflitto che si rinviene frequentemente alla base della scrittura romanzesca, piú o meno indecisa se abbandonarsi con serenità al meraviglioso o attenersi, invece, ad un verisimile ritenuto piú pertinente al genere storico,
con cui la prosa narrativa, anche per distinguersi dalla tradizione
del poema cavalleresco, tendeva in molti casi a confrontarsi.63 Una
prova, dunque, di quel «processo quasi di riduzione, di allontanamento dall’impossibile verso il possibile»64 che secondo Claudio
Varese connota lo sviluppo del romanzo nel corso del secolo.
62. Olao Magno, Storia dei popoli settentrionali, cit., cap. xv p. 297.
63. Un’oscillazione cui rimandano anche le seguenti parole di Capucci: « Cosí,
da sempre, è viscerale il rapporto della narrazione con la scrittura storica, in una
connessione stringente nella quale tuttavia non sono mai chiari sino in fondo i
rapporti tra vero e falso, ideale e esemplare, certo e probabile, falso ma verosimile e cosí via » (cfr. M. Capucci, La narrativa del Seicento italiano, in I capricci di
Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno di Lecce, 23-26 ottobre
2000, Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 249-70, a p. 253).
64. C. Varese, Prosa, in Id., Teatro, Prosa, Poesia, in Storia della letteratura italiana,
a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1965, pp. 619-761, a p. 623.
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il nord nel romanzo italiano del seicento
Ultimo dei romanzi proposti, La gondola a tre remi di Girolamo
Brusoni uscí per Francesco Storti in Venezia nel 1657. In merito
al tema indagato, tuttavia, gli esempi a disposizione risultano esigui, poiché l’attenzione che l’autore dedica al Nord ha davvero,
per richiamare il brano di Giovanni Getto riportato in apertura del nostro lavoro, il respiro di un «attimo». Oltre ad una semplice allusione al mondo degli Iperborei,65 di cui è citato solo il
nome, e un avaro e piuttosto vago riferimento alla costumanza di
brindare secondo la regola di «votare tanti bicchieri, quante sono
le lettere del nome» della persona in onore della quale si beve (p.
175: pratica che però viene stemperata nella sua tipicità poiché
attribuita anche ad «altre nazioni d’Europa», sebbene, si afferma,
in misura minore), un fugace accenno ad Olao Magno esaurisce
la minuta serie dei casi.
L’antefatto che prepara il riferimento in questione è un gesto
di cortesia da parte di Glisomiro, protagonista delle vicende erotico-galanti, per utilizzare una delle categorie care all’Albertazzi,
che costituiscono la complessa trama del romanzo. Placido, che
è il personaggio cui tale gentilezza fu rivolta, cosí commenta il
fatto:
Se tutti i cavalieri avessero cosí buon giudicio di conoscere se medesimi
e la propria fortuna, non si vedrebbono a giornata tanti disordini, che
mettono in confusione il mondo.
Al che risponde Vincenzo, uno dei presenti:
Voi desiderate una cosa quasi impossibile, che di veder le aquile settentrionali d’Olao Magno, che portano gli elefanti per aria: perché quale è
quell’uomo che conosca intieramente se stesso, e la sua fortuna? (pp.
169-70).
Brevissimo accenno e, a differenza di tutti gli altri, esplicito, che
assume per noi una certa importanza, come si dirà meglio nelle
65. G. Brusoni, La gondola a tre remi, a cura di F. Lanza, Milano, Marzorati,
1971, p. 167.
419
luca piantoni
conclusioni che seguono. È infatti notevole che il testo dell’autore svedese sia evocato, non solo espressamente, ma nei termini
quasi proverbiali di un’immagine la cui funzione è di marcare l’estrema rarità dell’attitudine auspicata. Inutile, quindi, è avvertire
che le aquile che solleverebbero sul dorso addirittura degli elefanti hanno il valore retorico dell’iperbole, e che nessuna intenzione descrittiva è riscontrabile in quelle righe.
Infine, per quanto riguarda la presenza di alcune allusioni storico-politiche relative alla situazione dei Paesi settentrionali, allusioni che risultano già ben chiarite e contestualizzate nelle note,
a cura di Franco Lanza, che corredano l’edizione da cui riportiamo, possiamo semmai notare la differenza che passa nella maniera di richiamarle rispetto al Biondi della Donzella desterrada. Infatti, se nell’opera di questi il rinvio alle vicende della contemporaneità è cifrato mediante la finzione di una storia inserita, mise en
abîme, a mo’ di racconto nel racconto, nel Brusoni nessuna dissimulazione è messa in atto per attenuare la qualità dei fatti raccontati o dei giudizi espressi.
A questo punto, sulla base dei passi finora esaminati, si possono proporre alcune conclusioni per rilevare certi aspetti e modalità che sembrano propri della scrittura romanzesca del periodo
in questione. Si può osservare che l’Historia de gentibus septentrionalibus è il testo di riferimento pressoché esclusivo per la resa delle ambientazioni nordiche qui raccolte, e questo, innanzitutto, testimonia senza dubbio della persistente fortuna di cui godeva in
quegli anni l’opera di Olao Magno.66 Piú che di suggestioni, o di
spunti, il riscontro dei brani mostra come tali recuperi siano stati
fatti in modo quasi letterale, tanto che si potrebbe parlare con il
Capucci di una «riproduzione passiva»67 del modello di partenza, una rappresentazione che al dato reale, all’esperienza vissuta
66. Una fortuna che fu immediata: cfr. I fratelli Giovanni e Olao Magno. Opera
e cultura tra due mondi. Atti del Convegno internazionale di Roma-Farfa (1996), a
cura di C. Santini, Roma, Il Calamo, 1999.
67. Capucci, Alcuni aspetti e problemi, cit., p. 26.
420
il nord nel romanzo italiano del seicento
personalmente, sostituisce la fedeltà ad un modello in cui il mondo
descritto già risulta mediato da un’elaborazione artificiosa. Il livello di letteralizzazione è pertanto elevato e, in questo senso, addirittura duplice.
L’esempio del Brusoni e quello del Pasini, tuttavia, presentano
delle differenze di cui bisogna tener conto, e ci riferiamo, per il
primo, alla funzione non piú mimetica ma caricaturale, di esagerazione volta a restringere per antifrasi il dato in rapporto al quale viene utilizzata; per il secondo, a quell’inciso («se veritiera è la
fama») che l’autore premette a ciò che sta per dire a proposito dell’Islanda. Quest’ultimo caso, infatti, può essere assunto quale momento rivelativo di una caratteristica frequente della scrittura romanzesca del secolo XVII, e che Luisa Mulas ha individuato nell’oscillazione «tra una distinzione dei generi rispettosa dei canoni (Historia vs Favola) e la loro mescolanza indulgente ai gusti
del secolo».68 Una perplessità che produce, dopo quello «fantastico» dell’Ariosto e quello «verisimile» del Tasso, un «meraviglioso vero»69 di cui, per l’appunto, sarebbe un segno la parentesi
introdotta dall’autore dell’Historia del Cavalier Perduto.
Per quanto riguarda il Biondi e il Loredan, invece, che questa
tentazione al fantastico ci sia è evidente, e nondimeno essa sembra sorvegliata proprio da quella stretta aderenza all’auctoritas di
un’opera che non rientrava nel genere delle «favolose narrazioni», per dirla con Girolamo Brusoni. Riproduzione alla lettera,
quindi, ma anche attenzione ad alcuni dettagli come, per esempio, lo scrupolo mimetico con cui, nella scelta dei nomi, è rispettata la tradizionale norma del “decoro”: Irinico, Teutone, e ancor
piú palesemente Gelinda, Doricia, o Hidraspe, sanno corrispon68. L. Mulas, Dalla Favola all’Historia e ritorno, in M.A. Cortini-L. Mulas,
Selva di vario narrare. Schede per lo studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 77-106, a p. 79. In contrasto, dunque, con le posizioni di chi asseriva un netto « partage entre ‘réalisme’ et ‘irréalisme’ », per cui cfr. N. Jonard,
Aux origines du roman. Positions et propositions, in « Studi secenteschi », xviii 1977,
pp. 59-80, a p. 79.
69. Mulas, Dalla Favola, cit., p. 97.
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luca piantoni
dere alle suggestioni relative all’ambiente in cui agiscono, rinviando in qualche modo chi alla luce (Irinico, Doricia), chi alla
storia locale (Teutone), chi al freddo glaciale di quei luoghi (Gelinda), chi, infine, all’acqua che contorna l’isola (l’Irlanda) da cui
proviene (Hidraspe).
Sembra dunque proficua la strada che invita a percorrere Davide Conrieri quando auspica che si dedichi «piú sottile attenzione […] alle relazioni intercorrenti tra i testi narrativi e altri testi
non narrativi», ovvero al «rilevamento di punti di contatto, di
intersezioni, di scambi tra vari generi o sottogeneri».70 Nel confronto, la possibilità di imprevisti chiarimenti. È in virtú di tali
incroci, infatti, che nasce il nostro piccolo contributo, il cui aspetto piú interessante emerge da questo rapporto di libro a libro in
cui il reale è totalmente assorbito nella convenzione, ossia in una
scrittura concepita al chiuso di un atelier all’interno del quale il
lavoro principale è assemblare, combinare, “montare” i dati che
la tradizione rende disponibili.
Disposti come gli oggetti preziosi di una delle tante “camere
delle meraviglie” cosí emblematiche di un’epoca e di uno stile,
questi scorci paesistici recuperati da Olao Magno, da un lato sembrano avere la funzione di «conquistare la complicità del lettore»71 con l’offrirgli situazioni “mirabili” e “dilettevoli”, per usare
un lessico appropriato alle poetiche del tempo, dall’altro confermano quell’elemento «catalizzatore»72 da piú voci riconosciuto
come proprio della narrativa barocca, strutturalmente composita
e propensa ad accogliere gli apporti piú diversi, sebbene stilizzandone e modificandone la qualità originaria.
E per quanto riguarda la scelta del Nord fra le geografie possibili verso cui orientare i «viaggi» degli eroi dei romanzi da noi
70. D. Conrieri, Sulla collocazione storica della narrativa secentesca, in I luoghi
dell’immaginario barocco. Atti del Convegno di Siena, 21-23 ottobre 1999, Napoli,
Liguori, 2001, pp. 501-11, a p. 508.
71. M. Romano, La scacchiera e il labirinto. Struttura e sociologia del romanzo barocco, in « Sigma », n.s., x 1977, pp. 13-72, a p. 13 n. 3.
72. Conrieri, Sulla collocazione storica, cit., p. 511.
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il nord nel romanzo italiano del seicento
presentati, un ultimo tratto ci sembra importante mettere in luce,
o ricordare, poiché se può dirsi oggettiva la sensazione di un semplice «trasporre in panni esotici persone, avvenimenti e modi di
vita europei»,73 secondo l’analisi di Martino Capucci, è ugualmente vero che a tali percorsi sembra affidato il compito, e questo è
uno dei loro grandi contributi, di estendere i confini avventurosi
del narrabile, imponendo un ribaltamento di quegli orizzonti
d’azione, mediterranei e orientali, che una lunga tradizione aveva fino a quel momento proposto.
73. Capucci, Alcuni aspetti e problemi, cit., p. 29.
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