LUCE INTELLETTUALE
DANTE E IL PENSIERO EIDETICO
Giulio d’Onofrio
«à cette époque j’avais l’amour du théâtre, amour platonique,
car mes parents ne m’avaient pas encore jamais permis d’y
aller, et je me représentais d’une façon si peu exacte les plaisirs
qu’on y goûtait que je n’étais pas éloigné de croire que chaque
spectateur regardait comme dans un stéréoscope un décor
qui n’était que pour lui, quoique semblable au millier d’autres
que regardait, chacun pour soi, le reste des spectateurs.»
Molto probabilmente Marcel Proust ignorava – tracciando,
in questa breve pagina del primo volume della Recherche1, il
ricordo della sua prima intuizione adolescenziale sulla relazione
dinamica tra singolarità e universalità del conoscere – che la
sua idea era la medesima che sostiene, con una solida sistematicità raramente riemersa nella storia del pensiero occidentale,
la concezione dantesca del paradiso. Fin dai primi versi della
terza cantica della Commedia la rappresentazione più veritiera
possibile del divino, causa onnipresente dell’universo, è unitariamente incardinata alla capacità coniugativa della figura più
spontanea e semplice che si affaccia alla mente quando prova a
parlare o a disegnare Dio: l’immagine della luce, la prima delle
creature, e quindi la creatura più simile a Lui (se somiglianza
potrà mai esserci tra il Primo e i suoi effetti), che “muove” ogni
cosa singolare esistente con lo splendore di una gloria che si
irradia in ciascuna “parte” del mondo, producendo dal proprio
inesauribile Sé innumerevoli, diversificate partecipazioni, derivazioni e intenzioni.
1
M. Proust, Du côté de chez Swann, Première partie - Combrai, II.
13
E così face a questo amore amare
La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.2
Come il numero incalcolabile di palchi, di seggi e poltrone,
la cui irripetibilmente singola posizione negli spazi dell’edificio
teatrale diversifica, ma insieme incrementa e consolida, agli
occhi del giovane Proust e di tutti i suoi co-spettatori, l’unitaria essenzialità dell’opera rappresentata, così ogni infinitesima
particella che contribuisce con la sua diversità al compimento
dell’ordinatissimo cosmo di Dante restituisce, concorrendo al
finale stabilizzarsi, appagante e inesauribile della più condivisibile beatitudine eterna, l’essenziale identità del Principio che
giustifica in sé ogni cosa3. Ogni luogo dell’universo è raggiunto
e penetrato dai raggi del suo splendore, che tanto più si moltiplicano spingendosi verso l’estremo limite dell’universo, quanto
più l’essere Uno si avvantaggia del partecipare dei molti alla sua
infinita e perfetta capacità di accoglierli tutti. Di tale visione
unitaria dell’insieme dei suoi effetti può godere infatti soltanto la
Causa stessa che li muove e alla quale tutti orientano il proprio
desiderio per potervi ritrovare, partecipandone, la completezza
che manca ai loro sguardi singoli, particolari e imperfetti.
Così tale dottrina è spiegata da Beatrice un attimo prima di
introdurre Dante all’ultima sfera dello spazio reale, il “ciel velocissimo” le cui parti sono a tal punto «vicinissime» ed eccelse da
tendere quasi all’assoluta «uniformità»4.
D. Alighieri, Par. I, 1-3. Nelle note seguenti le citazioni dalle opere
di Dante saranno sempre abbreviate, come in questo caso, e prive di
indicazione dell’autore; i corsivi nelle citazioni dantesche sono miei.
3
Cfr. Par. I, 103-105: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e
questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante».
4
Cfr. Par. XXVIII, 100-101: «Le parti sue vicinissime e eccelse / sì
uniforme son…»
2
14
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
La natura del mondo, che quieta
il mezzo e tutto l’altro intorno move,
quinci comincia come da sua meta;
e questo cielo non ha altro dove
che la Mente divina, in che s’accende
l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove.
Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.5
L’unità della Mente divina è il luogo-non luogo, il cielo soggetto spirituale, privo di estensione, che racchiude in sé tutti i
cieli eterei (e dunque materiali) e tutto ciò che in essi è contenuto6. E a differenza di tutte le cose che esso comprende non
è mai obbligato a muoversi dal bisogno di effettuare una a Lui
non necessaria ricerca di se stesso. Questo principio, invisibile
ma onnipresente, disegna per prima cosa dentro di sé, ma senza
esserne in qualsiasi forma affetto, il centro (il “mezzo”) dell’universo; lascia quindi da esso dipartire tutte le molteplicità che si
muovono singolarmente, perché inadeguate, andando in cerca
del loro bene, ossia della loro vita, desiderandola in Lui ma trovandola solo in forme limitate nella propria più o meno perfetta
o più o meno imperfetta esistenza. Egli traccia il non misurabile
perimetro circolare (il “precinto”) di tutto ciò che guarda alla sua
inalterabile stabilità come al Fine cui tutti i fini tendono7. E tutti
gli osservatori che, nella loro singolare e finita posizione, contemplano la sacra rappresentazione della pienezza del Pensiero di Dio
conseguono attualmente tale felicità infinita: perché in paradiso
Ibid., 106-114.
Cfr. il mio saggio I loci della mente: l’essenza dello spazio nel primo Medioevo (e
in Dante Alighieri), in Locus - Spatium, Lessico Intellettuale Europeo, XIV Colloquio
Internazionale (Roma, 3-5 gennaio 2013), Atti del Convegno, D. Giovannozzi
– M. Veneziani (a cura di), Firenze - Roma 2014, pp. 149-194.
7
Cfr. Ibid., pp. 115-226: «Non è suo moto» (cioè il movimento nel Primo
Mobile) «per altro distinto, / ma li altri son mensurati da questo».
5
6
15
E così face a questo amore amare
ciascuno vede insieme il vedere proprio e quello altrui, dato che
tutti, cioè ogni singolo «io» dalla propria prospettiva parziale, si
immergono con desiderio nella comune partecipazione al sincero
vedere assoluto, che è quello proprio della sola “Mente divina”.
Nella posizione più vicina a Lui e (sempre nell’alveo della
metafora ultima e qui più adeguata) allo splendore originario
del suo lume, luogo, o cielo, o parte dell’universo che per prima
trasmette al vedere della seconda ogni raggio che se ne distacca,
lì il gaudio è maggiore, perché lì gli sguardi degli innumerevoli
partecipanti si unificano, ma senza rinunciare alla loro preziosa
individualità. Da ogni parte dell’universo creato e molteplice,
tutti guardano e condividono con maggiore o minore concordia
la luce che tutti illumina, per ritornare a essa e in essa vivere.
Al poeta ancora vivente, cui la fede ha concesso di accedere
anticipatamente, prima che fosse giunto il tempo segnato per il
suo ritorno definitivo8, a quel proscenio privilegiato, simultaneo
e concorde della divinità dove è attualmente collocata solo la
Madre del Salvatore, non viene consegnata più che una fragile
memoria di ciò che – eccezionale pellegrino incaricato di riportare agli uomini la propria esperienza – egli vi ha visto e saputo.
Se infatti è vero che il suo intelletto ha penetrato ciò che la
volontà desidera sopra ogni altra cosa, tale accostamento non ha
potuto compiersi come appropriazione conoscitiva della natura
ultima dell’oggetto: per una grazia singolare, che ha infranto
i termini della natura per motivazioni che solo Dio apprezza,
egli ha potuto accostarsi ad essa come verità che si sa, ma non
si intende; che si conosce, con l’evidenza dei primi princìpi, ma
non si comprende9. Nessuna parola, infatti, nessuna scienza o
Cfr. Inf. XXXI, 128-129, dove Virgilio dice di Dante al gigante Anteo «ch’el
vive, e lunga vita ancor aspetta / se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
9
Cfr. Par. II, 43-44: «Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato,
ma fia per se noto». Similmente, cfr. Ibid., XX, 88-90: «Io veggio che tu credi
queste cose / perch’io le dico, ma non vedi come; / sì che, se son credute,
sono ascose».
8
16
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
filosofia, può raccontare correttamente, senza reimmergerla e
frantumarla nella molteplicità dei diversificati spazi di ciascuna
singolare visione, quella immagine piena della divinità che solo
la Mente di Dio conosce.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’io, e vidi cose che ridire
né sa, né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.10
Più avanti però, in conclusione dell’opera, la memoria e la
fantasia del personaggio-poeta Dante trovano proprio nell’inversione di questo processo l’adeguata sollecitazione dell’ingegno che lo incoraggia a descrivere almeno il ricordo della gioia
che è esito dello sprofondare dell’intelletto nell’appagamento
del suo più naturale appetito di sapere. La sua vista si fa piena,
ascendendo dalla percezione della luce negli oggetti illuminati
alla luce che illumina solo se stessa, ed è quindi forma di sé e non
di altro, e può essere effettivamente ‘veduta’ solo da sé e non da
altro. E si avvia lungo il «raggio» primo che ne scaturisce, che
con uniformità costante, dal primo giorno della creazione fino
al chiudersi della storia, dà origine e vita alle cose illuminate:
illuminando solo la propria lucentezza, infatti, accende in ogni
cosa che è fuori di essa, nelle più diversificate e complementari
posizioni particolari, l’amore comune con cui tutte le attira.
Ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.11
10
11
Par. I, 4-9.
Par. XXXIII, 52-54.
17
E così face a questo amore amare
Questa strumentale inversione di immagini è stata forse suggerita a Dante dagli scritti di non pochi autori di area monastica
e di ispirazione mistica che si sono impegnati per descrivere
con la similitudine (piuttosto che simbolo) del raggio luminoso
la trama di atti di pensiero, sempre più diretti e sempre meno
circostanziati e dettagliati, lungo la quale l’intelligenza terrena è sospinta a risalire all’incontro ultimo e decisivo con la
fonte di ogni cosa: tale luce è infatti anteriore, e quindi diversa
da qualsiasi luminosità secondaria che da essa si origina, e
al tempo stesso è causa di ogni luminosità particolare che dà
verità a ogni cosa12. È dunque sempre accolto tra gli spettatori
del paradiso – che sia per un solo istante, o in un tempo determinato, oppure per tutta l’eternità – colui che spinge l’occhio
verso l’impenetrabilità onnipervasiva della luce divina: ad essa
si può giungere, infatti, solo concordando con gli occhi di altri
spettatori. Non sarà solitario nella beatitudine (che sarebbe
un controsenso), anzi potrà goderne solo partecipando generosamente, senza distanziamenti retrospettivi, dello sguardo
comune e amante degli effetti della condivisa luce causale. Ma
non ne ha – né alcuna mente creata potrebbe mai averne – una
conoscenza definitoria, analitica e completa, del genere che nel
Medioevo si dice notitia e che i moderni chiamerebbero piuttosto
Si veda a titolo esemplificativo questo ispirato testo (sul quale ringrazio
Maria Borriello di avere portato la mia attenzione), di Isacco di Stella,
Sermones, 24, PL 194, 1770C-1771A, A. Hoste – G. Raciti (a cura di), 3
voll., Paris 1967-1987 (SC, 130-207-339), II, p. 106: «Exsultans itaque,
et gaudens in sua luce lux vera (Gv 1, 9), quid eguit nostris tenebris, ut
videret foris obscurum, quod intus habebat tam lucidum? Nam si lux erat,
lucens utique erat. Quid enim est aliud lucere quam lucem de se gignere?
Sed quam lucem de se gignit lux, dum lucet, nisi quod ipsa est quae lucet?
Nunquid lux et lucens duas luces significant? Verumtamen nec indifferenter
eamdem. “Lux” enim solam lucis essentiam significat; “lucens” vero de luce
lucem esse declarat: nec tamen aliam de alia, sed aliter eamdem significat,
ut alia sit proprietas, non alia lucis veritas. Lucere vere quid est, nisi lucem
praebere?»
12
18
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
una acquisizione “scientifica” e “disinteressata”, fredda e certa,
che possa essere fatta oggetto di comunicazione intellettuale,
e quindi di insegnamento. Lo sguardo della creatura, come si
ferma con l’immaginazione rappresentativa alla metafora della
luce, così si arresta con la ragione argomentativa e dimostrativa
dinanzi all’essenza divina, ultimo gradino del sapere creaturale,
al quale convergono ma nel quale ancora non si unificano, come
solo in Dio può accadere, le innumerevoli “stereoscopie” di tutte
le menti create e particolari.
Per questo Beatrice nel Canto XXX, ferma con Dante sulla
non locabile soglia dell’empireo, pur indovinando l’ansioso desiderio di sapere che, via via che aumenta la vicinanza, si rafforza
(«turge») e lo accende, lo invita ad attendere ancora, a rallentare, a ritardare in sé la bramosia del beato ormai vicinissimo
alla felicità13. Nessuno è o sarà beato da solo: il bene è tale soltanto nella condivisione. Per questo, per accostarsi ancora di
più a Dio conoscitivamente, egli dovrà accendersi del massimo
desiderio d’amore. Gli sarà dunque, prima, ancora di aiuto soffermarsi su ulteriori raffigurazioni metaforico-liriche che, come
“umbriferi prefazi”, appaganti ombre ristoratrici nella calura
dell’amore, anticipino per la sua mente, ristorandola con piccoli
ultimi sorsi di metafora poetica il conforto della grande «festa
di paradiso»14: immagini esperibili e comunicabili, ancora, che
non sono Dio, ma anteprime, adatte al nostro pensare, del suo
apparire. Fiore15 e rosa16, dunque, cerchio17, sciame18, fiume e
13
Cfr. Par. XXX, 70-75: «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, / d’aver
notizia di ciò che tu vei, / tanto mi piace più quanto più turge; / ma di
quest’acqua convien che tu bei / prima che tanta sete in te si sazi’: / così
mi disse il sol de li occhi miei».
14
Par. XIV, 37-38.
15
Cfr. Par. XXXI, 1-24.
16
Par. XXX, 117 e 124.
17
Ibid., 103-105.
18
Cfr. Par. XXXI, 7-12.
19
E così face a questo amore amare
cascata di pietre preziose19 o volo di innumerevoli vite festanti,
giardino20. E, non ultima immagine, un doppio anfiteatro21: dai
cui diversificati seggi22 ciascuno dei beati contribuisce a consolidare la gloria di tutti, contemplandola, come in cordata, dalla
propria posizione e riportandone dentro di sé uno spiraglio al
tempo stesso comune e singolare.
La ragione evidente di questa ultima cautela “poetica” è la
certezza che la natura di tale oggetto potrà essere svelata solo
alla convergenza piena di tutte le luci contemplanti previste
dall’Ordinatore supremo. Il limite conoscitivo è dunque proprio
e peculiare del soggetto creato, anzi è la cifra stessa di identificabilità eterna di ciascun individuo umano nella solitudine
conoscitiva in cui è precipitato distaccandosi, con l’intero genere
contaminato in Adamo, dall’unità concorde della Sapienza
divina. Non sono imperfette (“acerbe”) le cose in sé e le necessarie relazioni fra le cose quando sono colte con diverse gradualità, secondo le capacità variamente messe in opera dall’anima
umana (senso, senso interno, ragione argomentativa o intelletto
intuitivo); ma è il «difetto» necessario della «parte», ossia della
parzialità e discordanza dell’io condizionato, empirico, che lo
priva ancora della capacità di guardare in alto (di avere “viste…
tanto superbe”):
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe.23
Par. XXX, 76-77.
Par. XXXII, 39.
21
Par. XXX, 130: «Vedi nostra città quant’ella gira».
22
Cfr. Par. V, 115-116: «li troni / del triunfo etternal»; XXX, 131: «li
nostri scanni»; XXXI, 16: «di banco in banco»; XXXII, 13-14: «di soglia
in soglia / giù digradar»; XXXII, 21: «le sacre scalee»; XXXII, 26: «i
semicirculi».
23
Cfr. Par. XXX, 79-81.
19
20
20
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
La rappresentazione dell’empireo nella coscienza di Dante
perviene in effetti alla massima intenzionalità oggettivante,
quasi già di ordine puramente spirituale, solo dopo che il suo
sguardo ha incontrato quello di Bernardo, «colui» che nel
mondo mortale ha saputo sperimentare la «pace» del paradiso
ed ha insegnato quali vie deve percorrere l’anima credente desiderosa di condividere tale sapere24. Così Dante scorge accanto a
sé il «santo sene»25, sollecitato ad accostarsi a lui, perché possa
raggiungere la propria «perfezione», da preghiere esaudibili
ispirate dall’amore, forse di Beatrice, forse dell’intero pubblico
festante del paradiso26. E lo vede che si “volge” e che, insieme,
lo “rivolge” allo sguardo, il più amato da Dio, della Vergine
Madre, che guarda gli occhi di entrambi e li unifica a sé, ulteriormente “volgendoli” verso l’alto, con la forza motrice che l’amore imprime a tutta la creazione27.
Ciò che guardano gli occhi di Maria, per portare a “perfezione” il “cammino” di Dante, ancora una volta viene significato
introducendo tacitamente la pur disviante metafora sottilissima
della luce.
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro.28
24
Cfr. Par. XXXI, 110: «La vivace / carità di colui che ’n questo mondo,
/ contemplando, gustò di quella pace».
25
Ibid., 94.
26
Cfr. Ibid., 94-95: «Acciò che tu assommi / perfettamente», disse, «il tuo
cammino, / a che priego e amor santo mandommi».
27
Cfr. Ibid., 139-142: «Bernardo, come vide li occhi miei / nel caldo suo
caler fissi e attenti, / li suoi con tanto affetto volse a lei, / che ’miei di
rimirar fé più ardenti».
28
Par. XXXIII, 40-45.
21
E così face a questo amore amare
Giunge così al culmine, ancora entro il perimetro dell’essere
creaturale, la triangolazione degli sguardi conoscitivi, tra conoscente, conosciuto, e conoscenza in sé come fusione di conoscente
e conosciuto, di conoscente che si fa conosciuto e di conosciuto
che si apprende in quanto conoscente, il cui tutto è compattamente congiunto in un unico e unitario atto di contemplazione.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!29
***
Nell’incessante convalida dinamica tra il conoscere dividente
dei tanti e il conoscere totalizzante dell’Uno si distendono le
creature tutte, come lungo gli esiti proporzionali di due scienze
complementari, che nel loro reciproco distinguersi, contrastarsi
e convergere, fondano la verità, l’una in quella dell’altra, ed
entrambe in quella dell’oggetto divino che si svela proprio nel
nascondersi in esse: il sapere della stabilità delle essenze, in cui il
divenire si riversa nell’essere, quale esito di un «etterno piacere,
al cui disio / ciascuna cosa qual ell’è diventa»30; e la circostante
percezione della complessità dei dati, nel dividersi di molteplicità
particolari che piovono dall’identità come scorie luminose che
sfuggono alla sorgente di luce.
Il paradiso, al di là del suo manifestarsi empiricamente agli
occhi corporei di Dante in ordinata disposizione nelle gradinate
ancora materiali delle sfere celesti, non è altro che la sussistenza
stessa delle essenze pensate da Dio nel proprio Verbo (o Intelletto). La molteplicità dei dati in cui tali essenze si mostrano a noi,
29
30
Ibid., 124-126.
Par. XX, 77-78.
22
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
risultanti dalla deviazione degli sguardi, dai punti di vista, dagli
atti di partecipazione alla luce e alla gloria dell’unico Principio
e Fine dell’intera realtà, è dunque in questo iperuranio di Dante
tutt’altro che il permanere di gradualità imperfette, incompiute,
e quindi insoddisfatte nella loro ricerca del Vero-Bene e ancora
obbligate a percorrere un lungo processo di ritorno verso la sua
originarietà fontale31: al contrario, la pienezza della beatitudine
eterna è concepita dal poeta come talmente piena della sua stessa
assoluta perfezione da essere implementata, e non contrastata,
da tutte le limitazioni particolari, perfette proprio in quanto
volute dal Creatore stesso come ulteriori rispetto ad essa e che
dalla sua stessa sovrabbondanza scaturiscono. E poiché questo
Principio è pienezza di ogni virtù, di conoscenza, di amore,
di essenza, è chiaro che tutte le menti finite ne godranno solo
secondo modalità parziali e diversificate: ciascuna di esse trova
infatti in modo peculiare la propria singolare gioia nella pace
del tutto. Per Dante dunque l’empireo (o meglio il paradiso) è la
condivisione della piena gioia dei tanti beati che contemplano se
stessi e Dio, ma «diversamente», dalle loro singolari prospettive,
tutti felici per la felicità di tutti e di ciascuno:
Lo rege per cui questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
che nulla volontà è di più ausa,
le menti tutte nel suo lieto aspetto
creando, a suo piacer di grazia dota
diversamente; e qui basti l’effetto.32
Anche illustrando la dottrina dell’immediata partecipazione
degli angeli santi, appena creati, alla bontà divina, fin dai primi
attimi della creazione, Beatrice annuncia che pure in essi, come
31
32
Cfr. Inf. II, 71: «Vegno del loco ove tornar desio».
Par. XXXII, 61-66.
23
E così face a questo amore amare
in tutte le creature felici, l’amore si configura “diversamente”,
in migliaia di distinti e difformi, dolcissimi ardori; tutte queste bramosie amano la fonte comune e in essa amano il piacere
di ciascuno: come nei frammenti innumerevoli di uno specchio
infranto si riflette in miriadi di luci tanto la visione dell’intero,
quanto quella di ogni particella, che tutte le altre è disponibile
a catturare, in tutte le creature è riflessa la medesima realtà, di
tutte e di ciascuna, ed è acceso il medesimo desiderio; ma per
innumerevoli diverse attuazioni, che fecondano al massimo la
potenza condivisa da ciascuna mente beata, in ciascuna e in
tutte insieme33.
L’illustrazione dottrinaria che di questa beatitudine fornisce
Piccarda Donati (fin dal primo cielo del paradiso, e dunque tra
le anime beate meno “vicine” a Dio) è la più semplice possibile
e forse proprio per questo la meno equivocabile. Chiave dell’adesione universale delle creature intelligenti all’amore che le ha
create è il desiderio della bontà delle essenze di tutte le cose,
volute buone da Dio, che altro non è se non il versante pratico della contemplazione delle loro verità, pensate vere da Dio.
E come la conoscenza essenziale è l’Intelletto divino o la sua
Verità, così tale desiderio si chiama Amore o Carità.
La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.34
Amare la volontà di Dio significa amare la disposizione che
Dio ha dato al creato e dunque, insieme, significa fondare la propria beatitudine sulla beatitudine dell’intera realtà cosmica, cioè
Cfr. Par. XXIX, 140-145: «D’amar la dolcezza / diversamente in essa
ferve e tepe. / Vedi l’eccelso omai e la larghezza / de l’etterno valor,
poscia che tanti / speculi fatti s’ha in che si spezza, / uno manendo in sé
come davanti».
34
Par. III, 43-45.
33
24
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
sul modo, e i modi, secondo cui essa è voluta da Dio. Desiderare
qualcosa di diverso da ciò che è consacrato dall’Amore stesso che
distribuisce la vita a ciascun essere secondo la propria volontà
significherebbe rinunciare a una felicità che è stata così congegnata solo per accendere la carità, in modo specifico, in ciascuno
e per ciascuno di noi35. La forma della beatitudine è plasmata
sulla divina Volontà stessa, e non può dunque che essere una e
condivisa da tutti i suoi effetti. Cosicché l’uniformità della visione
nella molteplice armonia delle contemplazioni si accorda felicemente nella stabilità dell’eterno con l’uniformità del desiderio nel
diversificato appagamento dei voleri particolari36.
Ciascuna individualità – come spiega Beatrice glossando l’incontro con Piccarda e i suoi compagni – è destinata, fin dalla
creazione, a fare bello, con altre anime beate, uno tra i ‘cerchi’
paradisiaci (il “primo giro”, nel loro caso), partecipando della sua
bontà in grado diverso ma in armonia con il tutto. Non il più alto
tra gli angeli, talmente prossimo a Dio da trovare direttamente e
coscientemente in Lui la ragione stessa della propria sussistenza
(“colui che più s’in-dia”), nessuno dei patriarchi, dei santi, dei profeti, degli apostoli, e neanche la stessa madre del Salvatore sono
posti – spazialmente o ontologicamente – in un cielo o in un qualsiasi luogo della creazione diverso dagli altri; e tuttavia ciascuno
di essi vive “differentemente” una porzione, o una scintilla della
comune «dolce vita»: non però secondo un frammentarsi disordinato e increscioso di partecipazioni corporee che potrebbe
mettere gli esseri dotati di intelligenza e volontà in concorrenza
reciproca e riaccendere in loro pulsioni di cupidigia, che comprometterebbero la complessiva consonanza dei loro amori.
«Se disiassimo esser più superne, / foran discordi li nostri disiri / dal
voler di colui che qui ne cerne; / che vedrai non capere in questi giri, /
s’essere in carità è qui necesse, / e se la sua natura ben rimiri» (Ibid., 73-78).
36
«Anzi è formale ad esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia,
/ per ch’una fansi nostre voglie stesse; / sì che, come noi sem di soglia in
soglia / per questo regno, a tutto il regno piace» (Ibid., 79-83).
35
25
E così face a questo amore amare
D’i serafin colui che più s’india,
Moïse, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
né hanno a l’esser lor più o meno anni;
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l’etterno spiro.37
La perfezione della natura umana sarà, nella Mente di Dio,
il ricomporsi di tutto ciò che è vero nelle menti singolari confrontando la rappresentazione di ciascuno con quella di ciascun
altro, tutti con tutti, condividendo nel linguaggio assoluto della
preghiera, che non può esprimere altro se non la lode del Principio, il progressivo venire ad atto particolare, nella storia del
finito, di tutte le potenzialità create latenti nell’essentia divina in
quanto parti delle singolari essentiae creaturali. Conoscibili dalla
mente umana come princìpi di tutte le realtà, tali essentiae sono
le ideae o formae intelligibili dei filosofi, nelle quali si comprende
la manifestazione puramente spirituale, ossia il pensare eidetico,
delle cose che riusciamo a ricondurre dalla fratturata diversità
corporea entro l’unità della specie, dalle specie nei generi, e da ogni
universalità nelle intelligenze celesti che tutto il vero risolvono
simbolicamente nel contemplare l’Uno, ovvero la Mente divina.
***
Nella sua ricorrente celebrazione del bivalente comandamento fondamentale della carità (amare il prossimo e amare
Dio), riconosciuto come legge, e insieme via e strumento della
37
Par. IV, 28-36.
26
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
condivisione di desideri e conoscenze, Dante ha tracciato una
chiara anticipazione della nozione del «regno dei fini» kantiano,
quale «unione sistematica di diverse razionalità, secondo leggi
universali», per una condivisione di volontà fondata sulla convergenza delle molteplici ragioni create, nell’unificazione amorosa
dei singoli moventi38. La partecipazione della mente empirica
individuale alla fondazione di una legislazione universale dell’intera realtà creata viene espressa nella Commedia sotto le forme
poetiche di una rappresentazione dell’al di là come convergenza
di molteplici soggetti etico-razionali in un sistema di molteplici
bontà condivise. L’intera umanità appare, in questa prospettiva,
chiamata dal poeta al dovere di fondazione di una unità pacifica, comunicabile, condivisibile e consenziente, di cui tutti, se
solo lo vogliono, possono essere felici fruitori, proprio in ragione
del loro esserne i co-fondatori amorosi, quali soggetti etici diversamente partecipi dell’intera uniformabilità di tutto il reale.
A ben vedere si può cogliere questa importante intuizione,
che sostiene l’intera opera dantesca, già ex contrario nelle parole
vere e minacciose a un tempo che si leggono iscritte, all’inizio
del Canto III della prima cantica, «al sommo» della porta della
cavità infernale:
dinanzi a me non fvor cose create
se non etterne, e io etterna dvro
lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.39
Prima delle cose temporali, che hanno cioè avuto un inizio nel
tempo, tanto quelle destinate a esistere senza fine (i cieli, la materia, gli angeli), quanto quelle mortali, Dio ha creato cose eterne,
esistenti nella sua Mente, senza inizio, senza fine, senza durata che
Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Gesammelte Schriften,
Berlin 1900, IV, pp. 433 sgg.
39
Inf. III, 7-9.
38
27
E così face a questo amore amare
attraversi diversificazioni e successioni di istanti. Se anche l’inferno, come la porta che lo separa dalla vita degli uomini ancora
mortali e da quella dei redenti, è stato creato in un determinato
momento del tempo, e anzi nel momento stesso in cui il tempo ha
cominciato a scorrere, anch’esso è una cosa finita, che dura senza
fine, ma non sussiste come qualcosa di veramente eterno nell’eternità. L’esistenza autentica di ogni cosa creata è infatti assicurata,
fuori del tempo, dalla realtà della sua essenza universale nel Pensiero di Dio (tra le cose “create” ma “eterne”). Anche i dannati
godranno dunque, nella loro partecipazione all’essenza umana,
di una sussistenza eterna; ma in quanto la ottengono come solitari soggetti senza amore, separati da Dio e dalla bontà della loro
natura – che è la medesima humanitas in sé che viene invece raggiunta e condivisa da tutti i beati –, tale partecipazione sarà una
durata senza stabilità e senza fine, priva di speranza e solo fonte di
dolore. Lontani dalla Mente di Dio, da Lui non riceveranno più
la capacità dell’esistenza. La loro eternità sarà una «perfezione
non vera» a partire dal momento in cui i cieli si chiuderanno e
la morte resterà separata dalla vita, e Dio non avrà più – perché
non vorrà averla ed essi non vorranno che la abbia – alcuna conoscenza del loro sussistere separati dalla propria essenza.
Nel Canto VI dell’Inferno, dopo avere conosciuto già le pene
che tormentano i primi che si incontrano tra gli eternamente
dannati (lussuriosi e golosi), Dante chiede a Virgilio una spiegazione sulla natura dei tormenti che li puniscono, la cui esplicazione richiede come presupposto l’adesione a uno sfondo
speculativo di metafisica eidetica.
«Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?»
Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
28
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta.»40
La questione posta dal Dante personaggio in questa pausa
di transito tra un girone e l’altro della cavità infernale riguarda
l’intero al di là dei dannati: quando sarà compiuto il tempo della
storia e pronunciato il giudizio finale (la “gran sentenza”) che fisserà eternamente la condizione delle anime dell’intera umanità
uscita dalla vita terrestre nella riunione finale di ciascuna con
il proprio corpo risorto, la natura così compiuta, nel male, dei
peccatori, soffrirà di più o di meno o in pari grado rispetto alla
condizione attuale che ora Dante può vedere e valutare? Significativamente, Virgilio invita Dante a cercare la risposta entro i
parametri della sua dottrina filosofico-teologica: «Ritorna a tua
scienza». La dottrina filosofica della «perfezione» insegna infatti
che a ogni creatura è assegnato da Dio, fin dalla nascita, un
grado di attuabilità di potenze naturali che essa dovrà cercare di
perseguire come fine nel corso dell’esistenza terrena41. Tutti gli
individui umani con la resurrezione porteranno al grado di “perfezione” che la loro singola esistenza ha determinato come peculiare e definitivo l’esito del processo che sviluppa in ogni uomo
la singolare formazione della sua essenza, dai neonati vissuti un
attimo solo ai patriarchi mantenuti in questa vita per centinaia
di anni. È però evidente come nei dannati tale “perfezione” non
sia “vera”, e sia destinata a essere eternamente una ‘compiuta
incompiutezza’, che li condannerà, nella ricongiunzione finale di
anima e corpo, a soffrire di più di quanto soffrano attualmente:
Inf. VI, 103-111.
Cfr. il mio saggio «Nobilissima perfezione». La gioventute di Dante e la dottrina
della perfectio nel Convivio, in Religione e politica da Dante alle prospettive
teoriche contemporanee, Atti del Convegno (Parma, 30 novembre 1 dicembre 2011) B. Centi – A. Siclari (a cura di), Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2013 (Temi e testi, 121), pp. 41-83.
40
41
29
E così face a questo amore amare
avranno infatti “più essere”, ovvero una maggiore aderenza
ontologica all’essenza universale, ma insaziabile e dolorosa dopo
che sarà stato definitivamente fissato il confine a ogni ulteriore
‘perfezionamento’ della loro singolare partecipazione ad essa.
Tanto i beati quanto i dannati (e solo transitoriamente i penitenti) parteciperanno dunque della contemplazione finale della
verità nella Mente di Dio, i primi per compiacersene e condividerla eternamente nella massima «letizia», i secondi per riconoscere la propria luttuosa solitudine e lontananza dalla sua luce.
Una sola verità è partecipata e gratificante per gli uni, irraggiungibile e causa di inesaudibile e tormentoso desiderio per
gli altri: «per ben letizia, e per male aver lutto»42. Dopo avere
tragicamente constatato, nel veloce incontro con Cavalcante
Cavalcanti, il padre di Guido, nel Canto X dell’Inferno, che i
dannati hanno la capacità di conoscere e predire il futuro ma
ignorano le realtà presenti e il loro svolgimento nell’immediato,
Dante chiede spiegazione di tale infelice e contraddittoria condizione all’ombra di Farinata degli Uberti, rimasto in posizione
eretta nell’avello infuocato che, con Cavalcante, lo imprigiona
per l’eternità. La risposta non può essere interpretata come una
“strana” e poco argomentabile congettura dantesca. I dannati
vedono la verità delle cose future perché ancora sussiste in parte,
ma si fa sempre più lontana dalla loro malvagia coscienza, la fondatezza del loro conoscere sull’adesione, naturale in ogni uomo,
alla verità delle essenze e delle regole del sapere eternamente
progettate e volute da Dio fin dalla creazione. Come colui che,
essendo immerso nel buio, guarda e intende da distante ciò che
si trova in un lontano luogo illuminato mentre ignora ciò che gli
è vicino, così i dannati vedono le cose lontane in quanto poco a
poco da loro si allontana la luce dell’Intelletto di Dio. Quando
le cose future si avvicinano, e si fanno presenti, sprofondano per
loro nel buio della lontananza da Dio, e divengono ignote al loro
42
Cfr. Par. XVI, 72.
30
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
intelletto. La conseguenza, veramente spaventosa quanto ontologicamente necessaria, è che dopo il giudizio finale, quando
sarà chiusa e sigillata la porta dell’inferno, la loro conoscenza
sarà definitivamente privata dell’ormai remotissimo e per loro
inefficace splendore della luce divina del sapere e dell’essere, che
li ha posti e mantenuti in vita e il cui oscuramento li confina
ormai per l’eternità nel non essere. L’impossibilità di vivere un
futuro che desiderano pur non potendolo vedere, e quindi la
morte della conoscenza, è per loro il più insopportabile “bene”,
il più inimmaginabile “vero” della dannazione.
«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.»43
Poiché vive solo ciò che è conosciuto, pensato e voluto dalla
Mente divina, e nella Mente divina, quando dopo il giudizio universale i dannati non saranno più conosciuti da Dio, e in Dio, non
conosceranno più nulla né di sé, né di Lui, né degli altri esseri
umani che essi non hanno mai voluto, da Caino in poi, apprendere ad amare. E dunque non esisteranno più, non avranno più
vita. Perché solo chi conosce e ama condivide l’essere, ed esiste
veramente. Talmente diffuso e ricco è l’amore che unirà le singole partecipazioni al sommo del Volere che regge l’intero paradiso, che nessuna volontà particolare potrà “permanere” ad esso
contraria e inappagata: dovrà infatti volgersi, convertirsi alla
luce, ovvero spegnersi per sempre.
43
Inf. X, 100-108.
31
E così face a questo amore amare
Nel corso di tutta l’ascesa al paradiso viene più volte replicata,
come se fosse estratta da un copione condiviso, la scena dell’apprensione del pensiero di Dante da parte di Beatrice o dei beati
senza necessità di una comunicazione sensibile e prima ancora
che il poeta pronunci una sola parola. Appena iniziata l’ascensione ai cieli, prima che Dante manifesti il proprio stupore,
Beatrice previene la sua incertezza e gli spiega che egli è stato
sollevato con lei dal peso dell’accidentalità terrena: e la ragione
di questa capacità quasi divinatoria della donna è nel fatto che,
guardando ad ogni cosa nella verità essenziale del Verbo divino,
ella gode della piena coscienza del comune Sé nel quale è assorbita e condivisa da chiunque è beato la stessa autocoscienza di
Dante («vedea me sì com’io»)44. Nessun suo pensiero, nessun suo
desiderio può permanere nascosto nella sua mente ora che tutti
i santi con lui vivono nella condivisa interiorità della sapienza
divina45. E quanto più ascende verso la luce in sé, principio della
comunione di conoscenza e di amore di tutti i santi, tanto più il
pensiero di Dante diventa intelligibile per i beati che lo vedono
e lo intendono nella chiarezza della sua partecipazione alla loro
condizione eterna46. Giunto nel cielo di Venere, Dante ha ormai
compreso la natura pura e intellettuale del suo discorrere con i
beati e li invita apertamente a scrutare il suo pensiero per leggervi dentro, per la mediazione ormai consueta (anche per il lettore) dell’Amore divino: confidando in questa certezza, dunque,
si rivolge a Cunizza da Romano47; e in modo ancor più diretto
e teoricamente sostenuto invita Folchetto da Marsiglia a risponCfr. Par. I, 85-87: «Ond’ella, che vedea me sì com’io / a quïetarmi
l’animo commosso, / pria ch’io a dimandar, la bocca aprio».
45
Cfr. Par. II, 26-27: Beatrice è «quella / cui non potea mia cura essere
ascosa».
46
Cfr. Par. V, 7-9: «Io veggio ben sì come già resplende / ne l’intelletto tuo
l’etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende».
47
Cfr. Par. IX, 19-21: «“Deh, metti al mio voler tosto compenso, / beato
spirto’, dissi, ‘e fammi prova / ch’i’ possa in te rifletter quel ch’io penso!”»
44
32
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
dere al suo gioco verbale costruito sui verbi parasintetici che
esprimono la compenetrazione veritativa tra due o più soggetti
che equamente ne partecipano: «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», cioè il tuo vedere trova oggettività in Lui e nella sua luce, e
quindi in tutto lo stuolo delle menti beate; per questo non sarebbe
neanche necessario tra loro porsi delle domande, tanto è facile
avere certezza del pensiero dell’altro quando si gode di quella
del Pensiero divino: «già non attendere’io tua dimanda, / s’io
m’intuassi, come tu t’immii»48. Il personaggio Tommaso d’Aquino
dichiara, avviando il dialogo con Dante nel cielo del Sole, di
«sapere» bene senza che egli lo dichiari, ciò che vuole «sapere»,
ossia i nomi dei beati “sapienti” che danzano con lui49. E pur
sapendo quanto sia inutile parlare, domandare e rispondere
nel loro dialogare, lo spirito di Cacciaguida invita ugualmente
Dante a formulare il proprio pensiero – a lui già noto perché lo
vede riflesso nello «specchio» universale nel quale si dispiega e
dal quale si irradia il pensare umano prima di essere tradotto
in parole – perché il grande amore che prova per lui possa
meglio effondersi nell’affettuoso incontro tanto desiderato da
entrambi50. Ancora, dinanzi al dispiegarsi degli eserciti angelici,
Beatrice dichiara di essere sollecitata a parlare, per spiegarne il
mistero, dall’avere visto quale sia la “voglia” di sapere di Dante
nel Pensiero divino, nel quale non scorre più alcun tempo, non
Ibid., 73 e 80-81.
«Tu vuo’ saper…» (Par. X, 91).
50
Cfr. Par. XV, 55-69: «Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch’è
primo […].Tu credi ’l vero; ché i minori e ’grandi / di questa vita miran ne
lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi; / ma perché ’l sacro
amore in che io veglio / con perpetua vista e che m’asseta / di dolce disiar,
s’adempia meglio, / la voce tua sicura, balda e lieta / suoni la volontà,
suoni ’l disio, / a che la mia risposta è già decreta!» A conclusione di
questo preambolo pronunciato da Cacciaguida, Dante si volge a Beatrice
e le chiede conferma, e, nel farlo, ci confida ancora una volta: «e quella
udio / pria ch’io parlassi».
48
49
33
E così face a questo amore amare
si diffonde alcuna estensione spaziale, nessuna “circostanza” è
assoluta: perché in esso, come in un “punto”, tutto è presente e
ogni cosa è resa vera e buona dalla verità e dalla bontà di tutte, e
dalla sua relazione ordinata con tali bontà e verità51.
***
Alla luce di questa lettura della Commedia, è dato cogliere
(senza pregiudiziali che nascano da una mancata comprensione
del suo fondamento speculativo) i vantaggi di cui potrebbe beneficiare, per il consolidamento delle sue ipotesi, una filosofia fenomenologica pura. Ammettendo, sia pure solo strumentalmente, ma
come principio fondativo (e indiscutibile) di ogni sua indagine, la
sussistenza eidetica del vero nella immutabilità onnisciente di un
libero e causativo Pensiero divino, il principio fenomenologico
dell’empatia tra i singoli soggetti potrebbe risultare più solido e
operativo presupponendo il fissarsi di un rapporto di armonizzazione della singola intenzionalità non con altre singole soggettività “normali”, potenzialmente variabili e non universalmente
verificabili, ma con l’intendere immediato della totalità del vero
e della sua assolutezza da parte di un onnisciente e onnipresente
Intelletto divino52.
Se le circostanze del mondo creato, i dati, vengono dalla filosofia intenzionalmente confinate in una insanabile condizione di
estraneità rispetto all’irripetibile e non comunicabile singolo vissuto individuale, come tutti gli oggetti dei cinque sensi esteriori,
anche tali dati saranno condannati a un riconoscimento di esistenza solo intermittente, come un vissuto la cui reale sussistenza
51
Cfr. Par. XXIX, 10-12: «Io dico, e non dimando, / quel che tu vuoli
udir, perch’io l’ho visto / là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando».
52
Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica,
I, Introduzione generale alla fenomenologia pura, 1, 3, tr. it. di V. Costa, Einaudi,
Torino 2002, pp. 16-19.
34
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
non è verificabile se non in presenza dell’io conoscente, ossia
almeno in un altro dei soggetti contenitori di tale conoscenza, che
si dividono e si frammentano per accogliere la verità, perché non
supera il limite della convalida sensoriale53. La sussistenza delle
essenze in Dio non è invece soggetta a condizionamenti, variabilità e intermittenze: sono in Dio e godono della sua medesima
eternità pur essendo create (in quanto da Lui pensate e volute),
e sono per il nostro pensiero i fondamenti oggettivi, proprio in
quanto stabilmente sussistenti nella Mente divina, della sussistenza di tutte le altre creature54. Aderendo al sistema di Dante,
fondato sul principio della sussistenza eidetica di ogni cosa nel
progetto divino eterno, si evidenzia la possibilità di risolvere del
tutto il problema del condizionamento oggettivo e inter-soggettivo del conoscere, invocato da Husserl come presupposto (quasi
un postulato, o un indiscutibile oggetto di fede) che renderebbe
non ipotetica ma indubitabile la filosofia fenomenologica55. E la
rivoluzione copernicana che essa presuppone nei rapporti tra soggetto e oggetto potrebbe trovare un valido supporto nel principio
dell’unificazione caritatevole (ossia amorosa) del pensiero eidetico, già
53
Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit.,
1-2, pp. 13-16; A. Ales Bello, L’impossibile «reductio ad unum» dell’essere umano,
in Archivio di filosofia, 78, 2010, pp. 217-227.
54
Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit.,
4-7, pp. 19-25.
55
Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, II,
Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, 2, 1 (L’io puro), pp. 104-105: «L’io
non può mai scomparire, continua a essere nei suoi atti, ma in modi diversi:
se essi sono o diventano atti attuali, l’io, per così dire, si fa avanti con essi,
viene in luce, esercita una funzione attuale evidente, si dirige attraverso un
raggio attuale verso qualche cosa di oggettuale; se invece è, per così dire, un
io nascosto, non rivolge lo sguardo attuale su qualche cosa, non esperisce,
non agisce, non patisce attualmente. Tuttavia non si tratta della possibilità
arbitraria di esistere e di farsi improvvisamente avanti nella realizzazione
degli atti, bensi di una evoluzione fenomenologica del sempre presente riferimento puro
dell’io con qualche cosa» (corsivi miei).
35
E così face a questo amore amare
indicato da Dante quale criterio della convergenza di sussistere e
di essere in tutti gli intelletti individuali, singolarmente operanti
per natura, ma così resi capaci di operare come se fossero un
unus intellectus: un intelletto unico onnipresente, eterno Terzo dialogante, esente da qualsiasi condizionamento e disarmonia interiore, guidato dal solo condizionamento causale delle sue forme
essenziali che non mutano56.
Dante, sublime teologo perché cerca di rendere comprensibile all’intelligenza creata il mistero della riconciliazione tra
umano e divino, ha dunque intuito e consolidato nel proprio
sistema di pensiero il ruolo epistemologicamente fondativo
dell’esemplarismo teologico cristiano, entro la cui cornice ogni
cosa conosciuta dall’uomo è vera quando la sua verità giace eternamente essenziale e formalmente voluta nella amorosa Mente
Cfr. Ibid., I, 2, 83, pp. 206-208: «Quando lo sguardo dell’io puro coglie
riflessivamente, e precisamente afferrando percettivamente, un qualunque
vissuto, esso può anche – per una possibilità a priori – dirigere lo sguardo
verso altri vissuti che siano in connessione con il primo. Ma per principio
l’intera connessione non è e non può mai esser data in un unico sguardo
puro; tuttavia, in certo modo, ma per principio ben diverso, è anche essa
intuitivamente afferrabile, e precisamente nel modo della “illimitatezza
nel progresso” delle intuizioni immanenti, cioè procedendo dal vissuto fissato
a nuovoi vissuti appartenenti al suo orizzonte di vissuti, dalla sua fissazione
a quella del suo rispettivo orizzonte, etc. […] In ciò si radicano delle
possibilità eidetiche: la possibilità di rendere oggetto del puro sguardo ciò
che non è osservato, di trasformare in elemento primariamente osservato
ciò che è osservato soltanto lateralmente, di trasformare ciò che non
risalta in un momento che risalta, di rendere chiaro e sempre più chiaro
un elemento oscuro. Nel procedere continuativo da afferramento ad
afferramento noi affermiamo – dicevo – in un certo modo anche la corrente
dei visssuti in quanto unità. […] Dalle nostre considerazioni possiamo anche
ricavare la proposizione eideticamente evidente secondo cui nessun vissuto
concreto può essere considerato come qualcosa di pienamente indipendente. Ognuno di
essi è ‘bisognoso di integrazione’ rispetto a una connessione di specie e di
forma non arbitraria, ma vincolata» (corsivi originali).
56
36
Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico
creatrice di Dio. Il principio della diversificata partecipazione
dei singoli soggetti alla medesima verità sostiene dunque l’articolato sistema di gradi di conoscenza che, per Dante, non soltanto caratterizza la vita terrena delle creature intelligenti ma
governa anche l’organizzazione scalare dell’al di là e giustifica
la distribuzione di dannati e beati in varie posizioni, rispettivamente negative e positive, nel rapporto con la Verità, che è Dio
stesso. Senza implicare alcuna contaminazione o confusione di
essenze, e proprio là dove le essenze sono vere, ossia nella Mente
divina, si pone dunque per Dante anche la verità ultima della
conoscenza creaturale, tale (cioè vera) solo in quanto compartecipata dall’umanità e dal suo provvidente Creatore.
È su questa base, infatti, che nella finale convergenza in Dio
delle anime che lo cercano, conoscendo e volendo ciò che Egli
conosce e vuole, tutte le creature sante, che sono per i loro meriti
così come Dio ha sempre voluto che fossero, tornando a Dio,
“diventano” Dio. È questo il significato degli ultimi tre versi del
poema, nei quali Dante scopre e rende noto all’intera comunità intellettuale degli uomini – che la beatitudine è “diventare”
Dio conoscendo e volendo le cose che sono come Dio conosce
e vuole che siano. Cosicché, chiudendo il «poema sacro»57 con
l’effettiva concessione a Dante personaggio della visione beatificante – come chiesto da Beatrice, da Bernardo, da tutti i santi
e, soprattutto, da Maria –, il suo amore felice, essenzialmente
particolare ed eternamente individuale, viene finalmente condotto dall’Amore universale ed eterno a desiderare solo ciò che
da Esso stesso è voluto e conosciuto, e fatto essere ed esistere in
quanto è e sarà eternamente vero e buono:
Ma già volgeva il mio disio e ’l velle […]
l’amor che move il sole e l’altre stelle.58
57
58
Par. XXV, 1.
Par. XXXIII, 143 e 145.
37