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Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico

2020, in «E così face a questo amore amare». Dante e la filosofia del ‘900, a c. di M. Marianelli, Pièdimosca edizioni, Perugia 2020, ISBN 979-12-80289-04-9 (SEMI | Athena), pp. 13-37

à cette époque j'avais l'amour du théâtre, amour platonique, car mes parents ne m'avaient pas encore jamais permis d'y aller, et je me représentais d'une façon si peu exacte les plaisirs qu'on y goûtait que je n'étais pas éloigné de croire que chaque spectateur regardait comme dans un stéréoscope un décor qui n'était que pour lui, quoique semblable au millier d'autres que regardait, chacun pour soi, le reste des spectateurs.» Molto probabilmente Marcel Proust ignorava -tracciando, in questa breve pagina del primo volume della Recherche 1 , il ricordo della sua prima intuizione adolescenziale sulla relazione dinamica tra singolarità e universalità del conoscere -che la sua idea era la medesima che sostiene, con una solida sistematicità raramente riemersa nella storia del pensiero occidentale, la concezione dantesca del paradiso. Fin dai primi versi della terza cantica della Commedia la rappresentazione più veritiera possibile del divino, causa onnipresente dell'universo, è unitariamente incardinata alla capacità coniugativa della figura più spontanea e semplice che si affaccia alla mente quando prova a parlare o a disegnare Dio: l'immagine della luce, la prima delle creature, e quindi la creatura più simile a Lui (se somiglianza potrà mai esserci tra il Primo e i suoi effetti), che "muove" ogni cosa singolare esistente con lo splendore di una gloria che si irradia in ciascuna "parte" del mondo, producendo dal proprio inesauribile Sé innumerevoli, diversificate partecipazioni, derivazioni e intenzioni. 1 M. Proust, Du côté de chez Swann, Première partie -Combrai, II.

LUCE INTELLETTUALE DANTE E IL PENSIERO EIDETICO Giulio d’Onofrio «à cette époque j’avais l’amour du théâtre, amour platonique, car mes parents ne m’avaient pas encore jamais permis d’y aller, et je me représentais d’une façon si peu exacte les plaisirs qu’on y goûtait que je n’étais pas éloigné de croire que chaque spectateur regardait comme dans un stéréoscope un décor qui n’était que pour lui, quoique semblable au millier d’autres que regardait, chacun pour soi, le reste des spectateurs.» Molto probabilmente Marcel Proust ignorava – tracciando, in questa breve pagina del primo volume della Recherche1, il ricordo della sua prima intuizione adolescenziale sulla relazione dinamica tra singolarità e universalità del conoscere – che la sua idea era la medesima che sostiene, con una solida sistematicità raramente riemersa nella storia del pensiero occidentale, la concezione dantesca del paradiso. Fin dai primi versi della terza cantica della Commedia la rappresentazione più veritiera possibile del divino, causa onnipresente dell’universo, è unitariamente incardinata alla capacità coniugativa della figura più spontanea e semplice che si affaccia alla mente quando prova a parlare o a disegnare Dio: l’immagine della luce, la prima delle creature, e quindi la creatura più simile a Lui (se somiglianza potrà mai esserci tra il Primo e i suoi effetti), che “muove” ogni cosa singolare esistente con lo splendore di una gloria che si irradia in ciascuna “parte” del mondo, producendo dal proprio inesauribile Sé innumerevoli, diversificate partecipazioni, derivazioni e intenzioni. 1 M. Proust, Du côté de chez Swann, Première partie - Combrai, II. 13 E così face a questo amore amare La gloria di Colui che tutto move per l’universo penetra e risplende in una parte più e meno altrove.2 Come il numero incalcolabile di palchi, di seggi e poltrone, la cui irripetibilmente singola posizione negli spazi dell’edificio teatrale diversifica, ma insieme incrementa e consolida, agli occhi del giovane Proust e di tutti i suoi co-spettatori, l’unitaria essenzialità dell’opera rappresentata, così ogni infinitesima particella che contribuisce con la sua diversità al compimento dell’ordinatissimo cosmo di Dante restituisce, concorrendo al finale stabilizzarsi, appagante e inesauribile della più condivisibile beatitudine eterna, l’essenziale identità del Principio che giustifica in sé ogni cosa3. Ogni luogo dell’universo è raggiunto e penetrato dai raggi del suo splendore, che tanto più si moltiplicano spingendosi verso l’estremo limite dell’universo, quanto più l’essere Uno si avvantaggia del partecipare dei molti alla sua infinita e perfetta capacità di accoglierli tutti. Di tale visione unitaria dell’insieme dei suoi effetti può godere infatti soltanto la Causa stessa che li muove e alla quale tutti orientano il proprio desiderio per potervi ritrovare, partecipandone, la completezza che manca ai loro sguardi singoli, particolari e imperfetti. Così tale dottrina è spiegata da Beatrice un attimo prima di introdurre Dante all’ultima sfera dello spazio reale, il “ciel velocissimo” le cui parti sono a tal punto «vicinissime» ed eccelse da tendere quasi all’assoluta «uniformità»4. D. Alighieri, Par. I, 1-3. Nelle note seguenti le citazioni dalle opere di Dante saranno sempre abbreviate, come in questo caso, e prive di indicazione dell’autore; i corsivi nelle citazioni dantesche sono miei. 3 Cfr. Par. I, 103-105: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante». 4 Cfr. Par. XXVIII, 100-101: «Le parti sue vicinissime e eccelse / sì uniforme son…» 2 14 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico La natura del mondo, che quieta il mezzo e tutto l’altro intorno move, quinci comincia come da sua meta; e questo cielo non ha altro dove che la Mente divina, in che s’accende l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove. Luce e amor d’un cerchio lui comprende, sì come questo li altri; e quel precinto colui che ’l cinge solamente intende.5 L’unità della Mente divina è il luogo-non luogo, il cielo soggetto spirituale, privo di estensione, che racchiude in sé tutti i cieli eterei (e dunque materiali) e tutto ciò che in essi è contenuto6. E a differenza di tutte le cose che esso comprende non è mai obbligato a muoversi dal bisogno di effettuare una a Lui non necessaria ricerca di se stesso. Questo principio, invisibile ma onnipresente, disegna per prima cosa dentro di sé, ma senza esserne in qualsiasi forma affetto, il centro (il “mezzo”) dell’universo; lascia quindi da esso dipartire tutte le molteplicità che si muovono singolarmente, perché inadeguate, andando in cerca del loro bene, ossia della loro vita, desiderandola in Lui ma trovandola solo in forme limitate nella propria più o meno perfetta o più o meno imperfetta esistenza. Egli traccia il non misurabile perimetro circolare (il “precinto”) di tutto ciò che guarda alla sua inalterabile stabilità come al Fine cui tutti i fini tendono7. E tutti gli osservatori che, nella loro singolare e finita posizione, contemplano la sacra rappresentazione della pienezza del Pensiero di Dio conseguono attualmente tale felicità infinita: perché in paradiso Ibid., 106-114. Cfr. il mio saggio I loci della mente: l’essenza dello spazio nel primo Medioevo (e in Dante Alighieri), in Locus - Spatium, Lessico Intellettuale Europeo, XIV Colloquio Internazionale (Roma, 3-5 gennaio 2013), Atti del Convegno, D. Giovannozzi – M. Veneziani (a cura di), Firenze - Roma 2014, pp. 149-194. 7 Cfr. Ibid., pp. 115-226: «Non è suo moto» (cioè il movimento nel Primo Mobile) «per altro distinto, / ma li altri son mensurati da questo». 5 6 15 E così face a questo amore amare ciascuno vede insieme il vedere proprio e quello altrui, dato che tutti, cioè ogni singolo «io» dalla propria prospettiva parziale, si immergono con desiderio nella comune partecipazione al sincero vedere assoluto, che è quello proprio della sola “Mente divina”. Nella posizione più vicina a Lui e (sempre nell’alveo della metafora ultima e qui più adeguata) allo splendore originario del suo lume, luogo, o cielo, o parte dell’universo che per prima trasmette al vedere della seconda ogni raggio che se ne distacca, lì il gaudio è maggiore, perché lì gli sguardi degli innumerevoli partecipanti si unificano, ma senza rinunciare alla loro preziosa individualità. Da ogni parte dell’universo creato e molteplice, tutti guardano e condividono con maggiore o minore concordia la luce che tutti illumina, per ritornare a essa e in essa vivere. Al poeta ancora vivente, cui la fede ha concesso di accedere anticipatamente, prima che fosse giunto il tempo segnato per il suo ritorno definitivo8, a quel proscenio privilegiato, simultaneo e concorde della divinità dove è attualmente collocata solo la Madre del Salvatore, non viene consegnata più che una fragile memoria di ciò che – eccezionale pellegrino incaricato di riportare agli uomini la propria esperienza – egli vi ha visto e saputo. Se infatti è vero che il suo intelletto ha penetrato ciò che la volontà desidera sopra ogni altra cosa, tale accostamento non ha potuto compiersi come appropriazione conoscitiva della natura ultima dell’oggetto: per una grazia singolare, che ha infranto i termini della natura per motivazioni che solo Dio apprezza, egli ha potuto accostarsi ad essa come verità che si sa, ma non si intende; che si conosce, con l’evidenza dei primi princìpi, ma non si comprende9. Nessuna parola, infatti, nessuna scienza o Cfr. Inf. XXXI, 128-129, dove Virgilio dice di Dante al gigante Anteo «ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta / se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». 9 Cfr. Par. II, 43-44: «Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per se noto». Similmente, cfr. Ibid., XX, 88-90: «Io veggio che tu credi queste cose / perch’io le dico, ma non vedi come; / sì che, se son credute, sono ascose». 8 16 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico filosofia, può raccontare correttamente, senza reimmergerla e frantumarla nella molteplicità dei diversificati spazi di ciascuna singolare visione, quella immagine piena della divinità che solo la Mente di Dio conosce. Nel ciel che più de la sua luce prende fu’io, e vidi cose che ridire né sa, né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire.10 Più avanti però, in conclusione dell’opera, la memoria e la fantasia del personaggio-poeta Dante trovano proprio nell’inversione di questo processo l’adeguata sollecitazione dell’ingegno che lo incoraggia a descrivere almeno il ricordo della gioia che è esito dello sprofondare dell’intelletto nell’appagamento del suo più naturale appetito di sapere. La sua vista si fa piena, ascendendo dalla percezione della luce negli oggetti illuminati alla luce che illumina solo se stessa, ed è quindi forma di sé e non di altro, e può essere effettivamente ‘veduta’ solo da sé e non da altro. E si avvia lungo il «raggio» primo che ne scaturisce, che con uniformità costante, dal primo giorno della creazione fino al chiudersi della storia, dà origine e vita alle cose illuminate: illuminando solo la propria lucentezza, infatti, accende in ogni cosa che è fuori di essa, nelle più diversificate e complementari posizioni particolari, l’amore comune con cui tutte le attira. Ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera.11 10 11 Par. I, 4-9. Par. XXXIII, 52-54. 17 E così face a questo amore amare Questa strumentale inversione di immagini è stata forse suggerita a Dante dagli scritti di non pochi autori di area monastica e di ispirazione mistica che si sono impegnati per descrivere con la similitudine (piuttosto che simbolo) del raggio luminoso la trama di atti di pensiero, sempre più diretti e sempre meno circostanziati e dettagliati, lungo la quale l’intelligenza terrena è sospinta a risalire all’incontro ultimo e decisivo con la fonte di ogni cosa: tale luce è infatti anteriore, e quindi diversa da qualsiasi luminosità secondaria che da essa si origina, e al tempo stesso è causa di ogni luminosità particolare che dà verità a ogni cosa12. È dunque sempre accolto tra gli spettatori del paradiso – che sia per un solo istante, o in un tempo determinato, oppure per tutta l’eternità – colui che spinge l’occhio verso l’impenetrabilità onnipervasiva della luce divina: ad essa si può giungere, infatti, solo concordando con gli occhi di altri spettatori. Non sarà solitario nella beatitudine (che sarebbe un controsenso), anzi potrà goderne solo partecipando generosamente, senza distanziamenti retrospettivi, dello sguardo comune e amante degli effetti della condivisa luce causale. Ma non ne ha – né alcuna mente creata potrebbe mai averne – una conoscenza definitoria, analitica e completa, del genere che nel Medioevo si dice notitia e che i moderni chiamerebbero piuttosto Si veda a titolo esemplificativo questo ispirato testo (sul quale ringrazio Maria Borriello di avere portato la mia attenzione), di Isacco di Stella, Sermones, 24, PL 194, 1770C-1771A, A. Hoste – G. Raciti (a cura di), 3 voll., Paris 1967-1987 (SC, 130-207-339), II, p. 106: «Exsultans itaque, et gaudens in sua luce lux vera (Gv 1, 9), quid eguit nostris tenebris, ut videret foris obscurum, quod intus habebat tam lucidum? Nam si lux erat, lucens utique erat. Quid enim est aliud lucere quam lucem de se gignere? Sed quam lucem de se gignit lux, dum lucet, nisi quod ipsa est quae lucet? Nunquid lux et lucens duas luces significant? Verumtamen nec indifferenter eamdem. “Lux” enim solam lucis essentiam significat; “lucens” vero de luce lucem esse declarat: nec tamen aliam de alia, sed aliter eamdem significat, ut alia sit proprietas, non alia lucis veritas. Lucere vere quid est, nisi lucem praebere?» 12 18 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico una acquisizione “scientifica” e “disinteressata”, fredda e certa, che possa essere fatta oggetto di comunicazione intellettuale, e quindi di insegnamento. Lo sguardo della creatura, come si ferma con l’immaginazione rappresentativa alla metafora della luce, così si arresta con la ragione argomentativa e dimostrativa dinanzi all’essenza divina, ultimo gradino del sapere creaturale, al quale convergono ma nel quale ancora non si unificano, come solo in Dio può accadere, le innumerevoli “stereoscopie” di tutte le menti create e particolari. Per questo Beatrice nel Canto XXX, ferma con Dante sulla non locabile soglia dell’empireo, pur indovinando l’ansioso desiderio di sapere che, via via che aumenta la vicinanza, si rafforza («turge») e lo accende, lo invita ad attendere ancora, a rallentare, a ritardare in sé la bramosia del beato ormai vicinissimo alla felicità13. Nessuno è o sarà beato da solo: il bene è tale soltanto nella condivisione. Per questo, per accostarsi ancora di più a Dio conoscitivamente, egli dovrà accendersi del massimo desiderio d’amore. Gli sarà dunque, prima, ancora di aiuto soffermarsi su ulteriori raffigurazioni metaforico-liriche che, come “umbriferi prefazi”, appaganti ombre ristoratrici nella calura dell’amore, anticipino per la sua mente, ristorandola con piccoli ultimi sorsi di metafora poetica il conforto della grande «festa di paradiso»14: immagini esperibili e comunicabili, ancora, che non sono Dio, ma anteprime, adatte al nostro pensare, del suo apparire. Fiore15 e rosa16, dunque, cerchio17, sciame18, fiume e 13 Cfr. Par. XXX, 70-75: «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, / d’aver notizia di ciò che tu vei, / tanto mi piace più quanto più turge; / ma di quest’acqua convien che tu bei / prima che tanta sete in te si sazi’: / così mi disse il sol de li occhi miei». 14 Par. XIV, 37-38. 15 Cfr. Par. XXXI, 1-24. 16 Par. XXX, 117 e 124. 17 Ibid., 103-105. 18 Cfr. Par. XXXI, 7-12. 19 E così face a questo amore amare cascata di pietre preziose19 o volo di innumerevoli vite festanti, giardino20. E, non ultima immagine, un doppio anfiteatro21: dai cui diversificati seggi22 ciascuno dei beati contribuisce a consolidare la gloria di tutti, contemplandola, come in cordata, dalla propria posizione e riportandone dentro di sé uno spiraglio al tempo stesso comune e singolare. La ragione evidente di questa ultima cautela “poetica” è la certezza che la natura di tale oggetto potrà essere svelata solo alla convergenza piena di tutte le luci contemplanti previste dall’Ordinatore supremo. Il limite conoscitivo è dunque proprio e peculiare del soggetto creato, anzi è la cifra stessa di identificabilità eterna di ciascun individuo umano nella solitudine conoscitiva in cui è precipitato distaccandosi, con l’intero genere contaminato in Adamo, dall’unità concorde della Sapienza divina. Non sono imperfette (“acerbe”) le cose in sé e le necessarie relazioni fra le cose quando sono colte con diverse gradualità, secondo le capacità variamente messe in opera dall’anima umana (senso, senso interno, ragione argomentativa o intelletto intuitivo); ma è il «difetto» necessario della «parte», ossia della parzialità e discordanza dell’io condizionato, empirico, che lo priva ancora della capacità di guardare in alto (di avere “viste… tanto superbe”): Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe.23 Par. XXX, 76-77. Par. XXXII, 39. 21 Par. XXX, 130: «Vedi nostra città quant’ella gira». 22 Cfr. Par. V, 115-116: «li troni / del triunfo etternal»; XXX, 131: «li nostri scanni»; XXXI, 16: «di banco in banco»; XXXII, 13-14: «di soglia in soglia / giù digradar»; XXXII, 21: «le sacre scalee»; XXXII, 26: «i semicirculi». 23 Cfr. Par. XXX, 79-81. 19 20 20 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico La rappresentazione dell’empireo nella coscienza di Dante perviene in effetti alla massima intenzionalità oggettivante, quasi già di ordine puramente spirituale, solo dopo che il suo sguardo ha incontrato quello di Bernardo, «colui» che nel mondo mortale ha saputo sperimentare la «pace» del paradiso ed ha insegnato quali vie deve percorrere l’anima credente desiderosa di condividere tale sapere24. Così Dante scorge accanto a sé il «santo sene»25, sollecitato ad accostarsi a lui, perché possa raggiungere la propria «perfezione», da preghiere esaudibili ispirate dall’amore, forse di Beatrice, forse dell’intero pubblico festante del paradiso26. E lo vede che si “volge” e che, insieme, lo “rivolge” allo sguardo, il più amato da Dio, della Vergine Madre, che guarda gli occhi di entrambi e li unifica a sé, ulteriormente “volgendoli” verso l’alto, con la forza motrice che l’amore imprime a tutta la creazione27. Ciò che guardano gli occhi di Maria, per portare a “perfezione” il “cammino” di Dante, ancora una volta viene significato introducendo tacitamente la pur disviante metafora sottilissima della luce. Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l’etterno lume s’addrizzaro.28 24 Cfr. Par. XXXI, 110: «La vivace / carità di colui che ’n questo mondo, / contemplando, gustò di quella pace». 25 Ibid., 94. 26 Cfr. Ibid., 94-95: «Acciò che tu assommi / perfettamente», disse, «il tuo cammino, / a che priego e amor santo mandommi». 27 Cfr. Ibid., 139-142: «Bernardo, come vide li occhi miei / nel caldo suo caler fissi e attenti, / li suoi con tanto affetto volse a lei, / che ’miei di rimirar fé più ardenti». 28 Par. XXXIII, 40-45. 21 E così face a questo amore amare Giunge così al culmine, ancora entro il perimetro dell’essere creaturale, la triangolazione degli sguardi conoscitivi, tra conoscente, conosciuto, e conoscenza in sé come fusione di conoscente e conosciuto, di conoscente che si fa conosciuto e di conosciuto che si apprende in quanto conoscente, il cui tutto è compattamente congiunto in un unico e unitario atto di contemplazione. O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi!29 *** Nell’incessante convalida dinamica tra il conoscere dividente dei tanti e il conoscere totalizzante dell’Uno si distendono le creature tutte, come lungo gli esiti proporzionali di due scienze complementari, che nel loro reciproco distinguersi, contrastarsi e convergere, fondano la verità, l’una in quella dell’altra, ed entrambe in quella dell’oggetto divino che si svela proprio nel nascondersi in esse: il sapere della stabilità delle essenze, in cui il divenire si riversa nell’essere, quale esito di un «etterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ell’è diventa»30; e la circostante percezione della complessità dei dati, nel dividersi di molteplicità particolari che piovono dall’identità come scorie luminose che sfuggono alla sorgente di luce. Il paradiso, al di là del suo manifestarsi empiricamente agli occhi corporei di Dante in ordinata disposizione nelle gradinate ancora materiali delle sfere celesti, non è altro che la sussistenza stessa delle essenze pensate da Dio nel proprio Verbo (o Intelletto). La molteplicità dei dati in cui tali essenze si mostrano a noi, 29 30 Ibid., 124-126. Par. XX, 77-78. 22 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico risultanti dalla deviazione degli sguardi, dai punti di vista, dagli atti di partecipazione alla luce e alla gloria dell’unico Principio e Fine dell’intera realtà, è dunque in questo iperuranio di Dante tutt’altro che il permanere di gradualità imperfette, incompiute, e quindi insoddisfatte nella loro ricerca del Vero-Bene e ancora obbligate a percorrere un lungo processo di ritorno verso la sua originarietà fontale31: al contrario, la pienezza della beatitudine eterna è concepita dal poeta come talmente piena della sua stessa assoluta perfezione da essere implementata, e non contrastata, da tutte le limitazioni particolari, perfette proprio in quanto volute dal Creatore stesso come ulteriori rispetto ad essa e che dalla sua stessa sovrabbondanza scaturiscono. E poiché questo Principio è pienezza di ogni virtù, di conoscenza, di amore, di essenza, è chiaro che tutte le menti finite ne godranno solo secondo modalità parziali e diversificate: ciascuna di esse trova infatti in modo peculiare la propria singolare gioia nella pace del tutto. Per Dante dunque l’empireo (o meglio il paradiso) è la condivisione della piena gioia dei tanti beati che contemplano se stessi e Dio, ma «diversamente», dalle loro singolari prospettive, tutti felici per la felicità di tutti e di ciascuno: Lo rege per cui questo regno pausa in tanto amore e in tanto diletto, che nulla volontà è di più ausa, le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente; e qui basti l’effetto.32 Anche illustrando la dottrina dell’immediata partecipazione degli angeli santi, appena creati, alla bontà divina, fin dai primi attimi della creazione, Beatrice annuncia che pure in essi, come 31 32 Cfr. Inf. II, 71: «Vegno del loco ove tornar desio». Par. XXXII, 61-66. 23 E così face a questo amore amare in tutte le creature felici, l’amore si configura “diversamente”, in migliaia di distinti e difformi, dolcissimi ardori; tutte queste bramosie amano la fonte comune e in essa amano il piacere di ciascuno: come nei frammenti innumerevoli di uno specchio infranto si riflette in miriadi di luci tanto la visione dell’intero, quanto quella di ogni particella, che tutte le altre è disponibile a catturare, in tutte le creature è riflessa la medesima realtà, di tutte e di ciascuna, ed è acceso il medesimo desiderio; ma per innumerevoli diverse attuazioni, che fecondano al massimo la potenza condivisa da ciascuna mente beata, in ciascuna e in tutte insieme33. L’illustrazione dottrinaria che di questa beatitudine fornisce Piccarda Donati (fin dal primo cielo del paradiso, e dunque tra le anime beate meno “vicine” a Dio) è la più semplice possibile e forse proprio per questo la meno equivocabile. Chiave dell’adesione universale delle creature intelligenti all’amore che le ha create è il desiderio della bontà delle essenze di tutte le cose, volute buone da Dio, che altro non è se non il versante pratico della contemplazione delle loro verità, pensate vere da Dio. E come la conoscenza essenziale è l’Intelletto divino o la sua Verità, così tale desiderio si chiama Amore o Carità. La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte.34 Amare la volontà di Dio significa amare la disposizione che Dio ha dato al creato e dunque, insieme, significa fondare la propria beatitudine sulla beatitudine dell’intera realtà cosmica, cioè Cfr. Par. XXIX, 140-145: «D’amar la dolcezza / diversamente in essa ferve e tepe. / Vedi l’eccelso omai e la larghezza / de l’etterno valor, poscia che tanti / speculi fatti s’ha in che si spezza, / uno manendo in sé come davanti». 34 Par. III, 43-45. 33 24 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico sul modo, e i modi, secondo cui essa è voluta da Dio. Desiderare qualcosa di diverso da ciò che è consacrato dall’Amore stesso che distribuisce la vita a ciascun essere secondo la propria volontà significherebbe rinunciare a una felicità che è stata così congegnata solo per accendere la carità, in modo specifico, in ciascuno e per ciascuno di noi35. La forma della beatitudine è plasmata sulla divina Volontà stessa, e non può dunque che essere una e condivisa da tutti i suoi effetti. Cosicché l’uniformità della visione nella molteplice armonia delle contemplazioni si accorda felicemente nella stabilità dell’eterno con l’uniformità del desiderio nel diversificato appagamento dei voleri particolari36. Ciascuna individualità – come spiega Beatrice glossando l’incontro con Piccarda e i suoi compagni – è destinata, fin dalla creazione, a fare bello, con altre anime beate, uno tra i ‘cerchi’ paradisiaci (il “primo giro”, nel loro caso), partecipando della sua bontà in grado diverso ma in armonia con il tutto. Non il più alto tra gli angeli, talmente prossimo a Dio da trovare direttamente e coscientemente in Lui la ragione stessa della propria sussistenza (“colui che più s’in-dia”), nessuno dei patriarchi, dei santi, dei profeti, degli apostoli, e neanche la stessa madre del Salvatore sono posti – spazialmente o ontologicamente – in un cielo o in un qualsiasi luogo della creazione diverso dagli altri; e tuttavia ciascuno di essi vive “differentemente” una porzione, o una scintilla della comune «dolce vita»: non però secondo un frammentarsi disordinato e increscioso di partecipazioni corporee che potrebbe mettere gli esseri dotati di intelligenza e volontà in concorrenza reciproca e riaccendere in loro pulsioni di cupidigia, che comprometterebbero la complessiva consonanza dei loro amori. «Se disiassimo esser più superne, / foran discordi li nostri disiri / dal voler di colui che qui ne cerne; / che vedrai non capere in questi giri, / s’essere in carità è qui necesse, / e se la sua natura ben rimiri» (Ibid., 73-78). 36 «Anzi è formale ad esto beato esse / tenersi dentro a la divina voglia, / per ch’una fansi nostre voglie stesse; / sì che, come noi sem di soglia in soglia / per questo regno, a tutto il regno piace» (Ibid., 79-83). 35 25 E così face a questo amore amare D’i serafin colui che più s’india, Moïse, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti che mo t’appariro, né hanno a l’esser lor più o meno anni; ma tutti fanno bello il primo giro, e differentemente han dolce vita per sentir più e men l’etterno spiro.37 La perfezione della natura umana sarà, nella Mente di Dio, il ricomporsi di tutto ciò che è vero nelle menti singolari confrontando la rappresentazione di ciascuno con quella di ciascun altro, tutti con tutti, condividendo nel linguaggio assoluto della preghiera, che non può esprimere altro se non la lode del Principio, il progressivo venire ad atto particolare, nella storia del finito, di tutte le potenzialità create latenti nell’essentia divina in quanto parti delle singolari essentiae creaturali. Conoscibili dalla mente umana come princìpi di tutte le realtà, tali essentiae sono le ideae o formae intelligibili dei filosofi, nelle quali si comprende la manifestazione puramente spirituale, ossia il pensare eidetico, delle cose che riusciamo a ricondurre dalla fratturata diversità corporea entro l’unità della specie, dalle specie nei generi, e da ogni universalità nelle intelligenze celesti che tutto il vero risolvono simbolicamente nel contemplare l’Uno, ovvero la Mente divina. *** Nella sua ricorrente celebrazione del bivalente comandamento fondamentale della carità (amare il prossimo e amare Dio), riconosciuto come legge, e insieme via e strumento della 37 Par. IV, 28-36. 26 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico condivisione di desideri e conoscenze, Dante ha tracciato una chiara anticipazione della nozione del «regno dei fini» kantiano, quale «unione sistematica di diverse razionalità, secondo leggi universali», per una condivisione di volontà fondata sulla convergenza delle molteplici ragioni create, nell’unificazione amorosa dei singoli moventi38. La partecipazione della mente empirica individuale alla fondazione di una legislazione universale dell’intera realtà creata viene espressa nella Commedia sotto le forme poetiche di una rappresentazione dell’al di là come convergenza di molteplici soggetti etico-razionali in un sistema di molteplici bontà condivise. L’intera umanità appare, in questa prospettiva, chiamata dal poeta al dovere di fondazione di una unità pacifica, comunicabile, condivisibile e consenziente, di cui tutti, se solo lo vogliono, possono essere felici fruitori, proprio in ragione del loro esserne i co-fondatori amorosi, quali soggetti etici diversamente partecipi dell’intera uniformabilità di tutto il reale. A ben vedere si può cogliere questa importante intuizione, che sostiene l’intera opera dantesca, già ex contrario nelle parole vere e minacciose a un tempo che si leggono iscritte, all’inizio del Canto III della prima cantica, «al sommo» della porta della cavità infernale: dinanzi a me non fvor cose create se non etterne, e io etterna dvro lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.39 Prima delle cose temporali, che hanno cioè avuto un inizio nel tempo, tanto quelle destinate a esistere senza fine (i cieli, la materia, gli angeli), quanto quelle mortali, Dio ha creato cose eterne, esistenti nella sua Mente, senza inizio, senza fine, senza durata che Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Gesammelte Schriften, Berlin 1900, IV, pp. 433 sgg. 39 Inf. III, 7-9. 38 27 E così face a questo amore amare attraversi diversificazioni e successioni di istanti. Se anche l’inferno, come la porta che lo separa dalla vita degli uomini ancora mortali e da quella dei redenti, è stato creato in un determinato momento del tempo, e anzi nel momento stesso in cui il tempo ha cominciato a scorrere, anch’esso è una cosa finita, che dura senza fine, ma non sussiste come qualcosa di veramente eterno nell’eternità. L’esistenza autentica di ogni cosa creata è infatti assicurata, fuori del tempo, dalla realtà della sua essenza universale nel Pensiero di Dio (tra le cose “create” ma “eterne”). Anche i dannati godranno dunque, nella loro partecipazione all’essenza umana, di una sussistenza eterna; ma in quanto la ottengono come solitari soggetti senza amore, separati da Dio e dalla bontà della loro natura – che è la medesima humanitas in sé che viene invece raggiunta e condivisa da tutti i beati –, tale partecipazione sarà una durata senza stabilità e senza fine, priva di speranza e solo fonte di dolore. Lontani dalla Mente di Dio, da Lui non riceveranno più la capacità dell’esistenza. La loro eternità sarà una «perfezione non vera» a partire dal momento in cui i cieli si chiuderanno e la morte resterà separata dalla vita, e Dio non avrà più – perché non vorrà averla ed essi non vorranno che la abbia – alcuna conoscenza del loro sussistere separati dalla propria essenza. Nel Canto VI dell’Inferno, dopo avere conosciuto già le pene che tormentano i primi che si incontrano tra gli eternamente dannati (lussuriosi e golosi), Dante chiede a Virgilio una spiegazione sulla natura dei tormenti che li puniscono, la cui esplicazione richiede come presupposto l’adesione a uno sfondo speculativo di metafisica eidetica. «Maestro, esti tormenti crescerann’ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran sì cocenti?» Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza. 28 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta.»40 La questione posta dal Dante personaggio in questa pausa di transito tra un girone e l’altro della cavità infernale riguarda l’intero al di là dei dannati: quando sarà compiuto il tempo della storia e pronunciato il giudizio finale (la “gran sentenza”) che fisserà eternamente la condizione delle anime dell’intera umanità uscita dalla vita terrestre nella riunione finale di ciascuna con il proprio corpo risorto, la natura così compiuta, nel male, dei peccatori, soffrirà di più o di meno o in pari grado rispetto alla condizione attuale che ora Dante può vedere e valutare? Significativamente, Virgilio invita Dante a cercare la risposta entro i parametri della sua dottrina filosofico-teologica: «Ritorna a tua scienza». La dottrina filosofica della «perfezione» insegna infatti che a ogni creatura è assegnato da Dio, fin dalla nascita, un grado di attuabilità di potenze naturali che essa dovrà cercare di perseguire come fine nel corso dell’esistenza terrena41. Tutti gli individui umani con la resurrezione porteranno al grado di “perfezione” che la loro singola esistenza ha determinato come peculiare e definitivo l’esito del processo che sviluppa in ogni uomo la singolare formazione della sua essenza, dai neonati vissuti un attimo solo ai patriarchi mantenuti in questa vita per centinaia di anni. È però evidente come nei dannati tale “perfezione” non sia “vera”, e sia destinata a essere eternamente una ‘compiuta incompiutezza’, che li condannerà, nella ricongiunzione finale di anima e corpo, a soffrire di più di quanto soffrano attualmente: Inf. VI, 103-111. Cfr. il mio saggio «Nobilissima perfezione». La gioventute di Dante e la dottrina della perfectio nel Convivio, in Religione e politica da Dante alle prospettive teoriche contemporanee, Atti del Convegno (Parma, 30 novembre 1 dicembre 2011) B. Centi – A. Siclari (a cura di), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013 (Temi e testi, 121), pp. 41-83. 40 41 29 E così face a questo amore amare avranno infatti “più essere”, ovvero una maggiore aderenza ontologica all’essenza universale, ma insaziabile e dolorosa dopo che sarà stato definitivamente fissato il confine a ogni ulteriore ‘perfezionamento’ della loro singolare partecipazione ad essa. Tanto i beati quanto i dannati (e solo transitoriamente i penitenti) parteciperanno dunque della contemplazione finale della verità nella Mente di Dio, i primi per compiacersene e condividerla eternamente nella massima «letizia», i secondi per riconoscere la propria luttuosa solitudine e lontananza dalla sua luce. Una sola verità è partecipata e gratificante per gli uni, irraggiungibile e causa di inesaudibile e tormentoso desiderio per gli altri: «per ben letizia, e per male aver lutto»42. Dopo avere tragicamente constatato, nel veloce incontro con Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido, nel Canto X dell’Inferno, che i dannati hanno la capacità di conoscere e predire il futuro ma ignorano le realtà presenti e il loro svolgimento nell’immediato, Dante chiede spiegazione di tale infelice e contraddittoria condizione all’ombra di Farinata degli Uberti, rimasto in posizione eretta nell’avello infuocato che, con Cavalcante, lo imprigiona per l’eternità. La risposta non può essere interpretata come una “strana” e poco argomentabile congettura dantesca. I dannati vedono la verità delle cose future perché ancora sussiste in parte, ma si fa sempre più lontana dalla loro malvagia coscienza, la fondatezza del loro conoscere sull’adesione, naturale in ogni uomo, alla verità delle essenze e delle regole del sapere eternamente progettate e volute da Dio fin dalla creazione. Come colui che, essendo immerso nel buio, guarda e intende da distante ciò che si trova in un lontano luogo illuminato mentre ignora ciò che gli è vicino, così i dannati vedono le cose lontane in quanto poco a poco da loro si allontana la luce dell’Intelletto di Dio. Quando le cose future si avvicinano, e si fanno presenti, sprofondano per loro nel buio della lontananza da Dio, e divengono ignote al loro 42 Cfr. Par. XVI, 72. 30 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico intelletto. La conseguenza, veramente spaventosa quanto ontologicamente necessaria, è che dopo il giudizio finale, quando sarà chiusa e sigillata la porta dell’inferno, la loro conoscenza sarà definitivamente privata dell’ormai remotissimo e per loro inefficace splendore della luce divina del sapere e dell’essere, che li ha posti e mantenuti in vita e il cui oscuramento li confina ormai per l’eternità nel non essere. L’impossibilità di vivere un futuro che desiderano pur non potendolo vedere, e quindi la morte della conoscenza, è per loro il più insopportabile “bene”, il più inimmaginabile “vero” della dannazione. «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta.»43 Poiché vive solo ciò che è conosciuto, pensato e voluto dalla Mente divina, e nella Mente divina, quando dopo il giudizio universale i dannati non saranno più conosciuti da Dio, e in Dio, non conosceranno più nulla né di sé, né di Lui, né degli altri esseri umani che essi non hanno mai voluto, da Caino in poi, apprendere ad amare. E dunque non esisteranno più, non avranno più vita. Perché solo chi conosce e ama condivide l’essere, ed esiste veramente. Talmente diffuso e ricco è l’amore che unirà le singole partecipazioni al sommo del Volere che regge l’intero paradiso, che nessuna volontà particolare potrà “permanere” ad esso contraria e inappagata: dovrà infatti volgersi, convertirsi alla luce, ovvero spegnersi per sempre. 43 Inf. X, 100-108. 31 E così face a questo amore amare Nel corso di tutta l’ascesa al paradiso viene più volte replicata, come se fosse estratta da un copione condiviso, la scena dell’apprensione del pensiero di Dante da parte di Beatrice o dei beati senza necessità di una comunicazione sensibile e prima ancora che il poeta pronunci una sola parola. Appena iniziata l’ascensione ai cieli, prima che Dante manifesti il proprio stupore, Beatrice previene la sua incertezza e gli spiega che egli è stato sollevato con lei dal peso dell’accidentalità terrena: e la ragione di questa capacità quasi divinatoria della donna è nel fatto che, guardando ad ogni cosa nella verità essenziale del Verbo divino, ella gode della piena coscienza del comune Sé nel quale è assorbita e condivisa da chiunque è beato la stessa autocoscienza di Dante («vedea me sì com’io»)44. Nessun suo pensiero, nessun suo desiderio può permanere nascosto nella sua mente ora che tutti i santi con lui vivono nella condivisa interiorità della sapienza divina45. E quanto più ascende verso la luce in sé, principio della comunione di conoscenza e di amore di tutti i santi, tanto più il pensiero di Dante diventa intelligibile per i beati che lo vedono e lo intendono nella chiarezza della sua partecipazione alla loro condizione eterna46. Giunto nel cielo di Venere, Dante ha ormai compreso la natura pura e intellettuale del suo discorrere con i beati e li invita apertamente a scrutare il suo pensiero per leggervi dentro, per la mediazione ormai consueta (anche per il lettore) dell’Amore divino: confidando in questa certezza, dunque, si rivolge a Cunizza da Romano47; e in modo ancor più diretto e teoricamente sostenuto invita Folchetto da Marsiglia a risponCfr. Par. I, 85-87: «Ond’ella, che vedea me sì com’io / a quïetarmi l’animo commosso, / pria ch’io a dimandar, la bocca aprio». 45 Cfr. Par. II, 26-27: Beatrice è «quella / cui non potea mia cura essere ascosa». 46 Cfr. Par. V, 7-9: «Io veggio ben sì come già resplende / ne l’intelletto tuo l’etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende». 47 Cfr. Par. IX, 19-21: «“Deh, metti al mio voler tosto compenso, / beato spirto’, dissi, ‘e fammi prova / ch’i’ possa in te rifletter quel ch’io penso!”» 44 32 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico dere al suo gioco verbale costruito sui verbi parasintetici che esprimono la compenetrazione veritativa tra due o più soggetti che equamente ne partecipano: «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», cioè il tuo vedere trova oggettività in Lui e nella sua luce, e quindi in tutto lo stuolo delle menti beate; per questo non sarebbe neanche necessario tra loro porsi delle domande, tanto è facile avere certezza del pensiero dell’altro quando si gode di quella del Pensiero divino: «già non attendere’io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’immii»48. Il personaggio Tommaso d’Aquino dichiara, avviando il dialogo con Dante nel cielo del Sole, di «sapere» bene senza che egli lo dichiari, ciò che vuole «sapere», ossia i nomi dei beati “sapienti” che danzano con lui49. E pur sapendo quanto sia inutile parlare, domandare e rispondere nel loro dialogare, lo spirito di Cacciaguida invita ugualmente Dante a formulare il proprio pensiero – a lui già noto perché lo vede riflesso nello «specchio» universale nel quale si dispiega e dal quale si irradia il pensare umano prima di essere tradotto in parole – perché il grande amore che prova per lui possa meglio effondersi nell’affettuoso incontro tanto desiderato da entrambi50. Ancora, dinanzi al dispiegarsi degli eserciti angelici, Beatrice dichiara di essere sollecitata a parlare, per spiegarne il mistero, dall’avere visto quale sia la “voglia” di sapere di Dante nel Pensiero divino, nel quale non scorre più alcun tempo, non Ibid., 73 e 80-81. «Tu vuo’ saper…» (Par. X, 91). 50 Cfr. Par. XV, 55-69: «Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch’è primo […].Tu credi ’l vero; ché i minori e ’grandi / di questa vita miran ne lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi; / ma perché ’l sacro amore in che io veglio / con perpetua vista e che m’asseta / di dolce disiar, s’adempia meglio, / la voce tua sicura, balda e lieta / suoni la volontà, suoni ’l disio, / a che la mia risposta è già decreta!» A conclusione di questo preambolo pronunciato da Cacciaguida, Dante si volge a Beatrice e le chiede conferma, e, nel farlo, ci confida ancora una volta: «e quella udio / pria ch’io parlassi». 48 49 33 E così face a questo amore amare si diffonde alcuna estensione spaziale, nessuna “circostanza” è assoluta: perché in esso, come in un “punto”, tutto è presente e ogni cosa è resa vera e buona dalla verità e dalla bontà di tutte, e dalla sua relazione ordinata con tali bontà e verità51. *** Alla luce di questa lettura della Commedia, è dato cogliere (senza pregiudiziali che nascano da una mancata comprensione del suo fondamento speculativo) i vantaggi di cui potrebbe beneficiare, per il consolidamento delle sue ipotesi, una filosofia fenomenologica pura. Ammettendo, sia pure solo strumentalmente, ma come principio fondativo (e indiscutibile) di ogni sua indagine, la sussistenza eidetica del vero nella immutabilità onnisciente di un libero e causativo Pensiero divino, il principio fenomenologico dell’empatia tra i singoli soggetti potrebbe risultare più solido e operativo presupponendo il fissarsi di un rapporto di armonizzazione della singola intenzionalità non con altre singole soggettività “normali”, potenzialmente variabili e non universalmente verificabili, ma con l’intendere immediato della totalità del vero e della sua assolutezza da parte di un onnisciente e onnipresente Intelletto divino52. Se le circostanze del mondo creato, i dati, vengono dalla filosofia intenzionalmente confinate in una insanabile condizione di estraneità rispetto all’irripetibile e non comunicabile singolo vissuto individuale, come tutti gli oggetti dei cinque sensi esteriori, anche tali dati saranno condannati a un riconoscimento di esistenza solo intermittente, come un vissuto la cui reale sussistenza 51 Cfr. Par. XXIX, 10-12: «Io dico, e non dimando, / quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto / là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando». 52 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, Introduzione generale alla fenomenologia pura, 1, 3, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 16-19. 34 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico non è verificabile se non in presenza dell’io conoscente, ossia almeno in un altro dei soggetti contenitori di tale conoscenza, che si dividono e si frammentano per accogliere la verità, perché non supera il limite della convalida sensoriale53. La sussistenza delle essenze in Dio non è invece soggetta a condizionamenti, variabilità e intermittenze: sono in Dio e godono della sua medesima eternità pur essendo create (in quanto da Lui pensate e volute), e sono per il nostro pensiero i fondamenti oggettivi, proprio in quanto stabilmente sussistenti nella Mente divina, della sussistenza di tutte le altre creature54. Aderendo al sistema di Dante, fondato sul principio della sussistenza eidetica di ogni cosa nel progetto divino eterno, si evidenzia la possibilità di risolvere del tutto il problema del condizionamento oggettivo e inter-soggettivo del conoscere, invocato da Husserl come presupposto (quasi un postulato, o un indiscutibile oggetto di fede) che renderebbe non ipotetica ma indubitabile la filosofia fenomenologica55. E la rivoluzione copernicana che essa presuppone nei rapporti tra soggetto e oggetto potrebbe trovare un valido supporto nel principio dell’unificazione caritatevole (ossia amorosa) del pensiero eidetico, già 53 Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., 1-2, pp. 13-16; A. Ales Bello, L’impossibile «reductio ad unum» dell’essere umano, in Archivio di filosofia, 78, 2010, pp. 217-227. 54 Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., 4-7, pp. 19-25. 55 Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, II, Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, 2, 1 (L’io puro), pp. 104-105: «L’io non può mai scomparire, continua a essere nei suoi atti, ma in modi diversi: se essi sono o diventano atti attuali, l’io, per così dire, si fa avanti con essi, viene in luce, esercita una funzione attuale evidente, si dirige attraverso un raggio attuale verso qualche cosa di oggettuale; se invece è, per così dire, un io nascosto, non rivolge lo sguardo attuale su qualche cosa, non esperisce, non agisce, non patisce attualmente. Tuttavia non si tratta della possibilità arbitraria di esistere e di farsi improvvisamente avanti nella realizzazione degli atti, bensi di una evoluzione fenomenologica del sempre presente riferimento puro dell’io con qualche cosa» (corsivi miei). 35 E così face a questo amore amare indicato da Dante quale criterio della convergenza di sussistere e di essere in tutti gli intelletti individuali, singolarmente operanti per natura, ma così resi capaci di operare come se fossero un unus intellectus: un intelletto unico onnipresente, eterno Terzo dialogante, esente da qualsiasi condizionamento e disarmonia interiore, guidato dal solo condizionamento causale delle sue forme essenziali che non mutano56. Dante, sublime teologo perché cerca di rendere comprensibile all’intelligenza creata il mistero della riconciliazione tra umano e divino, ha dunque intuito e consolidato nel proprio sistema di pensiero il ruolo epistemologicamente fondativo dell’esemplarismo teologico cristiano, entro la cui cornice ogni cosa conosciuta dall’uomo è vera quando la sua verità giace eternamente essenziale e formalmente voluta nella amorosa Mente Cfr. Ibid., I, 2, 83, pp. 206-208: «Quando lo sguardo dell’io puro coglie riflessivamente, e precisamente afferrando percettivamente, un qualunque vissuto, esso può anche – per una possibilità a priori – dirigere lo sguardo verso altri vissuti che siano in connessione con il primo. Ma per principio l’intera connessione non è e non può mai esser data in un unico sguardo puro; tuttavia, in certo modo, ma per principio ben diverso, è anche essa intuitivamente afferrabile, e precisamente nel modo della “illimitatezza nel progresso” delle intuizioni immanenti, cioè procedendo dal vissuto fissato a nuovoi vissuti appartenenti al suo orizzonte di vissuti, dalla sua fissazione a quella del suo rispettivo orizzonte, etc. […] In ciò si radicano delle possibilità eidetiche: la possibilità di rendere oggetto del puro sguardo ciò che non è osservato, di trasformare in elemento primariamente osservato ciò che è osservato soltanto lateralmente, di trasformare ciò che non risalta in un momento che risalta, di rendere chiaro e sempre più chiaro un elemento oscuro. Nel procedere continuativo da afferramento ad afferramento noi affermiamo – dicevo – in un certo modo anche la corrente dei visssuti in quanto unità. […] Dalle nostre considerazioni possiamo anche ricavare la proposizione eideticamente evidente secondo cui nessun vissuto concreto può essere considerato come qualcosa di pienamente indipendente. Ognuno di essi è ‘bisognoso di integrazione’ rispetto a una connessione di specie e di forma non arbitraria, ma vincolata» (corsivi originali). 56 36 Luce intellettuale. Dante e il pensiero eidetico creatrice di Dio. Il principio della diversificata partecipazione dei singoli soggetti alla medesima verità sostiene dunque l’articolato sistema di gradi di conoscenza che, per Dante, non soltanto caratterizza la vita terrena delle creature intelligenti ma governa anche l’organizzazione scalare dell’al di là e giustifica la distribuzione di dannati e beati in varie posizioni, rispettivamente negative e positive, nel rapporto con la Verità, che è Dio stesso. Senza implicare alcuna contaminazione o confusione di essenze, e proprio là dove le essenze sono vere, ossia nella Mente divina, si pone dunque per Dante anche la verità ultima della conoscenza creaturale, tale (cioè vera) solo in quanto compartecipata dall’umanità e dal suo provvidente Creatore. È su questa base, infatti, che nella finale convergenza in Dio delle anime che lo cercano, conoscendo e volendo ciò che Egli conosce e vuole, tutte le creature sante, che sono per i loro meriti così come Dio ha sempre voluto che fossero, tornando a Dio, “diventano” Dio. È questo il significato degli ultimi tre versi del poema, nei quali Dante scopre e rende noto all’intera comunità intellettuale degli uomini – che la beatitudine è “diventare” Dio conoscendo e volendo le cose che sono come Dio conosce e vuole che siano. Cosicché, chiudendo il «poema sacro»57 con l’effettiva concessione a Dante personaggio della visione beatificante – come chiesto da Beatrice, da Bernardo, da tutti i santi e, soprattutto, da Maria –, il suo amore felice, essenzialmente particolare ed eternamente individuale, viene finalmente condotto dall’Amore universale ed eterno a desiderare solo ciò che da Esso stesso è voluto e conosciuto, e fatto essere ed esistere in quanto è e sarà eternamente vero e buono: Ma già volgeva il mio disio e ’l velle […] l’amor che move il sole e l’altre stelle.58 57 58 Par. XXV, 1. Par. XXXIII, 143 e 145. 37