L'USUCAPIONE DEI BENI EREDITARI DA
PARTE DEL COEREDE
di EMANUELE TEDESCO
Approfondimento del 13 marzo 2019
ISSN 2420-9651
Utente: GIUSTIZIA CIVILE UTENZA EDITOR
giustiziacivile.com - n. 3/2019
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Approfondimento di Emanuele Tedesco
La Suprema Corte di Cassazione torna con la decisione n. 966, depositata
il 16 gennaio 2019, su un tema noto: l'usucapione del bene ereditario
indiviso da parte del coerede. Il tema non può di certo dirsi nuovo. E,
infatti, già sotto la vigenza del codice civile del 1865 era cospicuo il
dibattito sul rapporto tra usucapione dei beni ereditari e interversione del
possesso.
SOMMARIO: 1. L’usucapione da parte del coerede: la sentenza. - 2. L’usucapione:
presupposti e ratio. - 3. L’interversione del possesso. - 4. Compossesso e interversione.
- 5. Compossesso ereditario: l’art. 714 c.c. e la giurisprudenza. - 6. Il possesso
esclusivo. - 7. Conclusioni.
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1. L’usucapione da parte del coerede: la sentenza.
La Suprema Corte di Cassazione torna con la decisione n. 966, depositata il 16 gennaio
2019 [1],su un tema noto: l’usucapione del bene ereditario indiviso da parte del
coerede.
Il tema non può di certo dirsi nuovo. E, infatti, già sotto la vigenza del codice civile del
1865 era cospicuo il dibattito [2] sul rapporto tra usucapione dei beni ereditari e
interversione del possesso [3].
In merito, la giurisprudenza di legittimità è monolitica nell’affermare che il coerede,
rimasto nel possesso del bene ereditario dopo la morte del de cuius, può, prima della
divisione, usucapire la quota relativa agli altri eredi, senza necessità di interversione del
titolo del possesso [4].
La decisione in esame s’innesta perfettamente in questo trend giurisprudenziale,
peraltro ormai consolidato. L’iter processuale e i fatti oggetto di causa sono così
sintetizzabili.
Aperta la successione ereditaria, uno dei coeredidomanda la divisione giudiziale della
comunione ereditaria. Uno dei due convenuti resiste in giudizio proponendo domanda
riconvenzionale per l’accertamento dell’intervenuta usucapione del bene ereditario.
Accolta in primo grado la domanda riconvenzionale, viene proposto appello avverso la
sentenza del tribunale [5].
La corte d’appello rigetta con sentenza non definitiva [6] la domanda di usucapione e,
successivamente, provvede con sentenza definitiva [7] allo scioglimento della
comunione ereditaria e alla conseguente divisione.
Avverso entrambe le sentenze, il coerede rimasto soccombente propone ricorso per
cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, la violazione e la falsa applicazione degli
artt. 714, 1102, 1141 e 1164 c.c., in quanto – a suo dire – la corte d’appello avrebbe
erroneamente rigettato la domanda di usucapione per mancanza di un atto di
interversione del possesso.
La Corte di Cassazione, però, ricostruito correttamente l’iter logico della sentenza
impugnata, rigetta il ricorso. Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la
domanda volta all’accertamento dell’usucapione era stata respinta non per mancanza di
un atto di interversione del possesso, ma perché il coerede non era riuscito a dimostrare
il possesso ad excludendum, ossia l’esistenza di uno specifico rapporto con il bene
ereditario tale da escludere gli altri coeredi.
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Nel decidere in tal senso, la Corte ha ritenuto di non discostarsi dal principio, ormai
consolidato, secondo cui il coerede, il quale già possiede uti condominus, può usucapire
il bene senza necessità di una formale opposizione, purché estenda inequivocabilmente
il preesistente possesso in termini di esclusività.
La decisione in commento conferma che, ai fini dell’usucapione di un bene ereditario
da parte del coerede, il fulcro dell’accertamento, stante l’irrilevanza di una
interversione nel possesso, riguarda il carattere esclusivo del possesso.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto adeguata la motivazione resa dalla
corte d’appello, in quanto le prove fornite dal coerede non erano sufficienti a dimostrare
il possesso esclusivo. In particolare, il bene in questione, un immobile inizialmente di
proprietà del padre dei coeredi, è stato abitato, dapprima, dal coerede che ha reclamato
l’intervenuta usucapione e dalla madre di tutti i coeredi (ossia la de cuius) e, dopo la
morte di quest’ultima, dal solo coerede. Tuttavia, secondo il giudice di merito, la
coabitazione del coerede con la madre, prima, e la successiva possibilità per gli altri
coeredi di accedere all’immobile, dopo, hanno dimostrato che il possesso in questione
non era tale da escludere quello degli altri coeredi.
L’orientamento giurisprudenziale in cui s’innesta la decisione in commento è
generalmente condiviso dalla dottrina. Infatti, è pacifico che la situazione possessoria in
cui si trova il coerede non “permette” alcun mutamento del titolo, sussistendo già un
possesso pieno, sebbene a titolo di comproprietà [8].
Tuttavia, nonostante l’attenzione dedicata e le numerose decisioni giurisprudenziali,
restano ancora alcune zone d’ombra.
Nella specie, una volta esclusa la necessità di un formale atto di intervisione del titolo
possessorio, resta da chiarire quali presupposti debbano sussistere ai fini del possesso ad
usucapionem.
Infatti, nonostante la granitica giurisprudenza sul punto, non è chiaro il contenuto che il
possesso deve assumere per definirsi “esclusivo” [9]. In merito, anche la sentenza in
commento afferma che il possesso integrale di un bene ereditario e, dunque, il suo
godimento solitario non sono, da soli, sufficienti a determinare il possesso ad
excludendum e, per ciò, a far decorrere il termine per l’usucapione.
La necessità di definire con esattezza il presupposto in questione è particolarmente
rilevante perché, pur non dovendo il coerede porre in essere atti di natura oppositiva (in
quanto, come detto, è già possessore, sebbene insieme agli altri coeredi [10]), è
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importante tenere distinte le ipotesi in cui si configura l’esercizio di un vero e proprio
possesso esclusivo da quelle in cui, al contrario, vi è una situazione di mera tolleranza
da parte degli altri coeredi; tolleranza che, com’è noto, è tutt’altro che “eccezione” nei
rapporti familiari.
Per chiarire ciò s’impone, però, un passo indietro, essendo necessario partire da una
ricostruzione, per quanto sintetica, della ratio e dei presupposti dell’istituto
dell’usucapione.
2. L’usucapione: presupposti e ratio.
L’usucapione, com’è noto, è un modo di acquisto della proprietà e degli altri diritti
reali, avente come presupposto il possesso continuato di un bene per un determinato
lasso di tempo [11].
La ratio dell’istituto è quella di dare una risposta alle esigenze di certezza connesse al
protrarsi di una situazione di fatto non (più) rispondente alla formale realtà giuridica
[12]. Inoltre, alla base di tale modo d’acquisto della proprietà, si può ravvisare una
logica di carattere premiale volta a favorire chi utilizza il bene nel tempo, ossia il
possessore, a fronte del proprietario, che invece lo trascura [13].
Gli elementi costitutivi dell’usucapio sono, come detto, il possesso [14] e il tempo.
Il possesso è la situazione di fatto corrispondente all’esercizio di un potere su una cosa,
indipendentemente dal diritto di esercitare tale potere [15]. La tutela di tale signoria di
fatto trova fondamento, fin dal diritto romano [], nell’esigenza di salvaguardare la pace
tra i consociati. Pertanto, chi ritenga abusivo l’altrui possesso, perché lesivo di un
proprio diritto, dovrà necessariamente agire in giudizio, non potendo farsi giustizia da
sé [].
Il possesso rilevante ai fini dell’usucapione è, ai sensi dell’art. 1163 c.c., quello che non
sia stato conseguito in modo violento o clandestino [18].
Tale possesso deve perdurare – dice l’art. 1158 c.c. – in modo «continuato». La
continuità implica il costante esercizio dei poteri corrispondenti al possesso ed è,
dunque, un attributo che dipende dalla condotta del possessore.
Oltre che continuo, il possesso deve essere, ai sensi dell’art. 1167 c.c., «non interrotto»
per oltre un anno. L’interruzione, al contrario del precedente attributo, non dipende dal
fatto del possessore, ma da eventuali atti, leciti o illeciti, naturali [19] o civili [20],
compiuti dai terzi [21].
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È dibattuto, invece, se, ai fini dell’usucapione, sia necessario anche lo specifico intento
del possessore di usucapire la res. Prevalente è la tesi negativa, anche se, in realtà, tale
problema si collega alla più generale questione relativa alla presunta necessità del c.d.
animus possidendi come elemento costitutivo del possesso.
L’idea che la volontà di possedere una cosa come propria sia necessaria per instaurare
un valido possesso risale alla Pandettistica tedesca e, nella specie, a Savigny [22], il
quale riteneva che tale elemento soggettivo servisse per distinguere il possesso dalla
detenzione.
Tuttavia, si notò, grazie soprattutto al contributo di Jhering [23], che la distinzione tra
possesso e detenzione non dipende dalla volontà del soggetto, ma è oggettivamente
individuata dal titolo della situazione possessoria e, in particolare, dalla norma giuridica
su cui il titolo si fonda.
Nonostante tale riflessione e malgrado non si faccia alcuna menzione dello stato
soggettivo del possessore nel codice civile, gran parte della dottrina [24] e della
giurisprudenza [25] aderisce ancora oggi alla tesi soggettiva dell’animus possidendi.
Tuttavia, è bene rilevare che ciò che distingue il possesso dalla detenzione non è tanto
l’animus, possidendi o detinendi, quanto, piuttosto, il titolo in base al quale il soggetto
ha la disponibilità della cosa [26]. Argomentare diversamente, dando rilievo al c.d.
animus, significherebbe ammettere che un soggetto, che ha già la disponibilità di una
cosa a titolo di detenzione, possa automaticamente diventare possessore per il solo fatto
che egli intenda tenere tale cosa come propria [27].
Oltre al possesso, l’altro requisito rilevante ai fini dell’usucapione è il tempo. Di
regola, ai sensi dell’art. 1158 c.c., la proprietà e gli altri diritti reali sui beni immobili si
usucapiscono in venti anni. Il medesimo tempo è necessario, ex art. 1160 c.c., per
usucapire le universalità di mobili.
Inoltre, fuori dall’ambito di operatività della regola del «possesso vale titolo» di cui
all’art. 1153 c.c., i beni mobili acquistati in mala fede si usucapiscono in venti anni,
mentre quelli acquistati in buona fede in dieci.
Peculiari sono poi le ipotesi di usucapione decennale (recte: abbreviata), ai sensi
dell’art. 1159 c.c. [28]. Al ricorrere dei presupposti, aggiuntivi rispetto al possesso e al
tempo, previsti da tale disposizione, il tempo necessario per usucapire si riduce a dieci
anni. Tali presupposti sono: i) l’acquisto di un bene immobile da parte di un soggetto
non legittimato ad alienare tale bene; ii) la buona fede soggettiva dell’acquirente; iii)
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l’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà (o di altro
diritto reale) e, da ultimo, iv) la trascrizione del titolo.
Precisati i requisiti necessari ai fini dell’usucapione – i quali, chiaramente, devono
ricorrere anche nel caso di usucapione di un bene ereditario da parte del coerede –,
occorre definire gli effetti che l’usucapione produce.
Anzitutto, bisogna rammentare che l’usucapione è un modo d’acquisto della proprietà
(e degli altri diritti reali) a titolo originario [29]. Ciò comporta che al nuovo titolare non
sono opponibili gli atti dispositivi eventualmente compiuti dal precedente proprietario
durante il periodo di tempo in cui il primo ha posseduto il bene. [30]
La natura originaria dell’acquisto importa, inoltre, che l’usucapione, al ricorrere dei
presupposti di cui supra, si verifichi automaticamente ex lege. Il che significa che un
eventuale giudizio instaurato per far dichiarare l’intervenuta usucapione sarà di
accertamento mero e la relativa sentenza avrà, dunque, natura dichiarativa.
Ferma la natura originaria e automatica dell’acquisto, più controverso, sia in dottrina
che in giurisprudenza, è il problema relativo all’efficacia liberatoria dell’usucapione.
La giurisprudenza [31] e una parte della dottrina [32] propendono per la soluzione
negativa, argomentando dal rilievo che l’effetto liberatorio è preso in considerazione
esclusivamente dall’art. 1153 c.c. in materia di «possesso vale titolo».
Tuttavia, tale argomento non è sufficiente per escludere l’effetto liberatorio
dell’usucapione. Più propriamente, in mancanza di un chiaro dato normativo, il
problema deve essere risolto in base al principio per cui il contenuto dell’acquisto per
usucapione si determina in ragione del possesso.
Pertanto, deve concludersi che, una volta perfezionato l’acquisto per usucapione, si
estingueranno i diritti che non limitavano, durante il precedente periodo, il possesso
pieno dell’usucapente. Al contrario, non si estingueranno i diritti, come le servitù, che
già in precedenza limitavano il possesso [33].
3. L’interversione del possesso.
«Nemo sibi causam possessionis mutare potest» è l’antico brocardo, ripreso dall’art.
1141, secondo comma e, per quello che a noi interessa, dall’art. 1164 c.c., secondo cui
chi ha la detenzione di una cosa, o possiede in base a un determinato titolo, non può
mutare il titolo del suo possesso, se non al verificarsi di determinate circostanze di fatto
[34].
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Sebbene sia stato rilevato che le due disposizioni si riferiscono a due situazioni
differenti, riguardando l’art. 1141 c.c. il mutamento della detenzione in possesso e l’art.
1164 c.c. il mutamento del possesso relativo a un diritto reale nel possesso pieno o nel
possesso di un diritto reale maggiore [35], le circostanze che permettono il mutamento
del titolo possessorio sono le medesime. E cioè: i) un atto di opposizione, ovvero ii) una
causa proveniente da un terzo.
Il legislatore, dunque, ammette che possa mutare la situazione di fatto relativa al
rapporto tra un soggetto e un determinato bene, ma, affinché ciò avvenga, richiede un
quid pluris rispetto al mutamento volitivo interno (il c.d. animus) [36]; e ciò a conferma
del fatto che, ai fini dell’instaurazione di un valido possesso, rilevano esclusivamente
gli elementi oggettivi [37].
Tale quid pluris può essere, anzitutto, un atto di opposizione al legittimo titolare, o al
legittimo possessore, del bene.
Ad esempio, chi è detentore di un bene a titolo di locazione non può limitarsi a non
pagare i canoni di locazione al fine di acquistare il possesso; al contrario, è necessario
che la nuova situazione di fatto risulti da un atto che renda giuridicamente – e,
soprattutto, socialmente – riconoscibile il mutamento del titolo. L’atto di opposizione è,
infatti, al contempo atto di affermazione del possesso proprio e atto di negazione del
possesso o del diritto altrui [38].
Tale contenuto deve risultare in modo inequivoco da una dichiarazione [39], non
necessariamente resa in forma orale [40]. Al riguardo, la giurisprudenza [41] ha
affermato che l’opposizione può altresì constare da un’attività materiale che valga a
manifestare in modo indubbio il nuovo stato di fatto.
L’altra circostanza idonea a consentire l’interversione del possesso è la c.d. «causa
proveniente dal terzo», ossia un titolo astrattamente idoneo a trasferire il possesso. Non
è necessario che l’atto in questione sia valido ed efficace e sia, per ciò, effettivamente
idoneo a trasferire la proprietà (o un altro diritto reale), potendo anche provenire da un
non dominus. Ciò che conta, infatti, è che vi sia un titolo, ancorché viziato, idoneo a
giustificare l’acquisto della situazione di fatto de qua.
Le considerazioni sopra svolte confermano che la dimensione in cui si inquadra la tutela
del possesso è essenzialmente oggettiva. Pertanto, solo qualora intervenga un atto
esteriore ed inequivocabile che valga a negare il titolo preesistente, il soggetto,
precedentemente detentore (o possessore minore), diventa possessore (o possessore
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pieno) [42].
La ragione per cui si richiede un atto esteriore ed inequivocabile è evidente. Infatti, così
come l’ordinamento tutela le situazioni di fatto indipendentemente dall’effettiva
titolarità di un corrispondente diritto, allo stesso modo, affinché possa aversi la tutela di
una (nuova) situazione di fatto, è necessario che tale (nuova) situazione venga resa
socialmente riconoscibile. E ciò soprattutto ai fini dell’usucapione.
4. Compossesso e interversione.
Parlando di compossesso e, in particolare, di compossesso ereditario, è necessario
svolgere alcune considerazioni ulteriori in merito al tema dell’interversione del
possesso.
Infatti, per costante dottrina [43] e giurisprudenza [44], la regola dell’interversione del
possesso, di cui all’art. 1141, comma 2, c.c. (e, dunque, anche all’art. 1164 c.c.) non
trova applicazione nei casi di compossesso. E ciò perché, nei rapporti tra comproprietari
(o compossessori), affinché uno di essi possa estendere il proprio possesso in danno
degli altri, non è necessaria una formale interversione del titolo possessorio, bastando
che colui che invoca il possesso esclusivo (solitamente proprio ai fini dell’usucapione)
abbia goduto del bene con modalità tali da escludere gli altri contitolari.
La ragione per cui, nei casi di compossesso, non vi è la necessità di una formale
interversione del titolo del possesso è intuitiva. Infatti, se, come detto, è vero che
l’ordinamento riconosce tutela alla nuova situazione possessoria purché tale situazione
sia formalmente esteriorizzata in modo tale da rendere riconoscibile il mutamento del
titolo del possesso, allora è altrettanto vero che, nel caso di compossesso, è sufficiente
che sia resa manifesta la volontà di estendere, in modo esclusivo, il possesso sul bene,
fino ad allora com-posseduto.
È evidente che, in caso di instaurazione del possesso esclusivo su un bene da parte di
uno dei compossessori, non vi sarà formalmente alcun mutamento del titolo del
possesso. Infatti, il compossessore che diventa possessore esclusivo del bene cambia
esclusivamente il modus possidendi, ma non anche il titolo del suo possesso, che rimane
il medesimo.
Più in particolare, il compossessore, possedendo in nomine proprio, è già titolare di un
possesso pieno, sebbene uti condominus, ossiacondiviso con altri compossessori.
Divenendo possessore esclusivo, egli continua a possedere in nomine proprio (il titolo
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rimane per l’appunto lo stesso), ma uti dominus (e non più uti condominus). Pertanto,
non mutando il titolo del possesso, non vi è la necessità che ricorra una delle circostanze
indicate nell’art. 1141, comma 2, c.c. per l’interversione.
Tale conclusione è frutto dell’elaborazione dottrinale maturata negli anni antecedenti
all’entrata in vigore dell’attuale codice civile; e, non a caso, trova conferma nella
Relazione del Guardasigilli allo stesso codice civile [45]. In particolare, in tale
Relazione si dice espressis verbis che, ai fini dell’instaurazione delle possesso ad
usucapionem da parte di uno dei comunisti, non è necessario che questi proceda ad un
formale atto di opposizione nei confronti degli altri partecipanti alla comunione [46].
Di diverso ordine di idee, era invece la dottrina sotto la vigenza del codice civile del
1865 [47]. L’assenza di una matura elaborazione in merito alla distinzione tra
detenzione e possesso aveva, infatti, portato a sviluppare la tesi della c.d. natura mista
del compossesso ultra quota [48]. In particolare, si riteneva che il compartecipe che
eccedeva i limiti del suo possesso instaurasse una detenzione in nomine alieno per gli
atti ultra quota.
Oggigiorno, tale tesi non è più sostenibile perché, una volta inquadrata la detenzione tra
i rapporti di diritto [49], il compossesso ultra quota non può essere ricostruito in termini
di detenzione; con la conseguenza che il compossessore, per usucapire il bene comune,
non è costretto a tenere alcuna delle condotte di cui all’art. 1141, comma 2, c.c. [50].
5. Compossesso ereditario: l’art. 714 c.c. e la giurisprudenza.
La considerazioni svolte valgono anche nel caso di instaurazione del possesso esclusivo
da parte di uno dei coeredi.
Al riguardo, l’art. 714 c.c. detta una specifica disciplina, che è, per l’appunto,
derogatoria rispetto alla disciplina generale dell’interversione del titolo del possesso, di
cui agli artt. 1141, comma 2, e 1164 c.c. [51]. Nella specie, tale disposizione esplicita,
rispetto al possesso instaurato sui beni ereditari da parte dei coeredi, quanto appena
detto in termini generali, chiarendo alcuni profili.
L’art. 714 c.c., anzitutto, contrappone al possesso esclusivo dei beni ereditari il c.d.
godimento separato degli stessi. Il c.d. godimento separato non impedisce agli altri
coeredi di chiedere la divisione dell’asse ereditario; inoltre, non eliminando il regime di
compossesso, non vale ad instaurare un valido possesso ad usucapionem. Il possesso
esclusivo invece, corrispondendo al possesso ad usucapionem, preclude la divisione del
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compendio ereditario qualora, al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, si sia
già compiuta l’usucapione.
Per consolidata giurisprudenza, il coerede si limita a un godimento separato quando il
suo rapporto con il bene ereditario non è tale da escludere gli altri coeredi. E ciò può
verificarsi anche qualora il coerede amministri e utilizzi il bene ereditario provvedendo
alla manutenzione e all’anticipazione delle spese. Infatti, si ritiene che in tali ipotesi il
coerede si limiti ad amministrare e utilizzare il bene nell’interesse comune di tutti i
coeredi, assumendo la veste di mandatario tacito degli altri compartecipi [52].
Inoltre, poiché la comunione ereditaria si svolge tra persone legate da vincoli familiari,
occorre considerare che molte situazioni, in apparenza idonee a instaurare un possesso
esclusivo, in realtà, restano nell’alveo della mera tolleranza. Per questo motivo, la
giurisprudenza precisa che gli atti consentiti al singolo per mera gestione o, comunque,
familiarmente tollerati non sono idonei a dar luogo al possesso esclusivo sul bene [53].
Tale principio è ripreso anche dalla sentenza in commento, nella quale, i giudici di
Cassazione affermano che il possesso integrale dei beni ereditari non è di per sé
sufficiente a fondare un valido possesso ad usucapionem qualora manchi la prova che
tale possesso escluda in concreto gli altri coeredi [54].
Alla luce di ciò, la questione principale in materia di usucapione dei beni ereditari è la
dimostrazione che il coerede abbia instaurato un valido possesso esclusivo sul bene
ereditario, senza limitarsi a un mero godimento separato dello stesso. Problema,
quest’ultimo, non di poco conto, anche in considerazione degli orientamenti ormai
consolidati in materia.
E, infatti, in tema di usucapione dei beni ereditari, vi è un diffuso filone
giurisprudenziale che, ai fini dell’instaurazione del possesso esclusivo sui beni comuni,
richiede che sia dimostrata l’inequivoca volontà del coerede di possedere uti dominus, e
non più uti condominus [55]. Non a caso, anche la decisione della Cassazione, 16
gennaio 2019, n. 966 del fa riferimento alla necessità di provare «l’inequivoca volontà
del coerede di possedere uti dominus e non più uti condominus».
Tuttavia, tale orientamento, oltre ad essere ingiustificatamente gravoso nei confronti del
coerede usucapente [56], non trova alcun riscontro nei dati normativi. Infatti, come già
detto supra in termini generali per il possesso, allo stesso modo, l’art. 714 c.c., ai fini
dell’instaurazione del possesso esclusivo, non richiede alcun accertamento rispetto
all’animus e, più in genere, allo stato soggettivo del coerede. Conta esclusivamente che
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vi sia un possesso esclusivo del bene ereditario e che tale possesso esclusivo sia
riscontrabile ab externo.
6. Il possesso esclusivo.
ereditari riguarda principalmente la prova che il coerede è tenuto a fornire per
dimostrare la sussistenza del possesso esclusivo. Come detto, è necessario che il
coerede dimostri di aver effettivamente instaurato un possesso esclusivo sul bene
ereditario e di non essersi limitato, ai sensi dell’art. 714 c.c., a un mero godimento
separato dello stesso.
Sul punto, però, il confine tra possesso esclusivo e godimento separato è più labile di
quanto si possa pensare. E, molto spesso, quello che sembra possesso esclusivo, in
realtà non lo è.
Ad esempio, la nostra giurisprudenza ritiene che il mero pagamento delle utenze
domestiche non sia di per sé sufficiente a dimostrare il possesso ad usucapionem [57].
Allo stesso modo, non è ritenuta decisiva neppure l’esecuzione di lavori di
ristrutturazione di un immobile; e ciò, sempre secondo la nostra giurisprudenza, anche
qualora il coerede domandi personalmente il rilascio della relativa autorizzazione
amministrativa e, poi, sostenga le spese dei lavori [58].
È bene riflettere sul fatto che tali condotte, se poste in essere da un terzo estraneo,
sarebbero idonee a dimostrare l’instaurazione del possesso ad usucapionem. Tuttavia, la
rigidità della prova richiesta ai fini dell’usucapione da parte del coerede ha una
ragionevole spiegazione.
Infatti, come già detto, qualora il coerede utilizzi ed amministri un bene ereditario
(provvedendo, ad esempio, ad eseguirvi lavori od opere), sussiste una presunzione iuris
tantum che egli agisca quale mandatario degli altri coeredi, anticipando le spese [59].
Affinché il coerede possa provare l’instaurazione del possesso esclusivo è, dunque,
necessario vincere tale presunzione, fornendo un quid pluris rispetto alla prova richiesta
al terzo possessore non compartecipe.
Al riguardo, la giurisprudenza ha sottolineato che, ai fini dell’usucapione dei beni
comuni a discapito degli altri coeredi, è necessario che il compossessore adduca una
prova «ridondante e diversa»da quella richiesta per l’usucapione da parte del terzo.
Infatti, è evidente che il terzo estraneo, che usucapisce, già manifesta, attraverso
l’estromissione del vero proprietario, il suo inequivoco rapporto con il bene. Al
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contrario, nell’usucapione a favore dei coeredi si ha una situazione equivoca; sicché, in
questo caso, non possono considerarsi sufficienti né il godimento separato da parte di
uno dei coeredi né l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune,
essendo altresì necessario che chi usucapisce manifesti il proprio dominio esclusivo
sulla res mediante attività contrastanti e incompatibili con il possesso degli altri
compartecipi [60].
Tale quid pluris è solitamente individuato dalla giurisprudenza [61], così anche nella
decisione della Cassazione, 16 gennaio 2019, n. 966, nella prova di elementi che
rendano evidente all’esterno « l’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non
più uti condominus».
Tuttavia, come già detto, il riferimento allo stato soggettivo (recte: all’animus) del
coerede non è condivisibile. Infatti, come sottolineato da attenta dottrina [62],
coerentemente con la disciplina generale in materia di possesso e di usucapione, «il
carattere dell’esclusività del possesso richiesto dall’art. 714 c.c. non dipende da un
animus domini o possidendi di chi esercita il potere sulla cosa, bensì dalle
caratteristiche oggettive del suo rapporto con il bene, che potrebbe non limitarsi al
godimento separato dei beni, e così non contrastare con la volontà e gli interessi degli
altri coeredi, e deve invece essere tale da escluderli da ogni possibilità di intervento e di
godimento (se anche questi ultimi lo volessero) del bene».
Non a caso, la stessa giurisprudenza che, ai fini della dimostrazione del possesso
esclusivo, fa riferimento all’animus del coerede, finisce poi per porre l’attenzione non
tanto sulla volontà del coerede (la cui prova, in realtà, risulterebbe impossibile), quanto
piuttosto sullo specifico rapporto tra il coerede e il bene.
Alcune decisioni possono chiarire meglio quanto appena rilevato.
Ad esempio, con riferimento alla domanda di usucapione di un fondo coltivato da parte
di uno dei coeredi, è stato ritenuto che sono elementi utili ad integrare un possesso
pieno ed esclusivo (non riconducibile, quindi, all’uso uti condominus): i) una missiva
contenente le doglianze degli altri coeredi esclusi materialmente dal compossesso, ii)
l’attività di coltivazione autonomamente esercitata, iii) l’apprendimento di ogni frutto, e
iv) tutti gli atti di piena disponibilità sul bene, tra l’installazione di una recinzione sul
fondo [63].
In modo coerente con quanto appena detto, sono stati ritenuti idonei a provare il
possesso esclusivo del coerede anche la stipula di contratti e la realizzazione di opere di
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ristrutturazione o di bonifica, purché espressione di dominio singolo e non, al contrario,
compiuti nell’interesse comune [64].
Inoltre, la Corte di Cassazione [65] ha rilevato che, se è vero, per costante
giurisprudenza, che non sono idonei a dimostrare il possesso esclusivo del coerede né
l’espletamento delle pratiche inerenti alla successione né l’amministrazione e la
manutenzione del bene, dall’altro lato, un diverso valore può assumere la sostituzione
della serratura, qualora si dimostri che la stessa sia stata effettuata al fine di escludere
gli altri coeredi dal possesso e non per ragioni di ordinaria amministrazione ovvero di
migliore custodia del bene comune.
Dagli esempi sopra riportati emerge con chiarezza che la prova che il coerede è tenuto a
fornire è particolarmente rigorosa. Probabilmente, è per tale ragione che, in pieno
contrasto con quanto detto fino ad ora, un orientamento giurisprudenziale [66], tuttavia
sempre minoritario e ormai superato, richiedeva al coerede, ai fini dell’usucapione, una
formale interversione del titolo possessorio. È bene ribadire, però, che per quanto il
possesso esclusivo debba risultare in modo rigoroso, il coerede non è mai tenuto a
compiere alcuno degli atti di interversione del titolo del possesso, di cui all’art. 1141,
comma 2, c.c.
Al contrario, l’attuale orientamento della giurisprudenza è nel senso di richiedere al
coerede la (seppur rigorosa) dimostrazione di una relazione socialmente riscontrabile
con i beni ereditari e, più propriamente, lo svolgimento di una specifica attività
materiale idonea a escludere gli altri coeredi.
A conferma di ciò, la Suprema Corte [67] ha affermato che non è necessario provare il
possesso esclusivo qualora sia già intervenuta una divisione amichevole (ossia, in fatto)
tra i coeredi. In tal caso, infatti, il possesso esclusivo risulta già dall’attribuzione di fatto
del bene e, dunque, ai fini dell’usucapione, è sufficiente che il coerede continui a
esercitare il possesso per il tempo necessario.
La decisione da ultimo riportata conferma che, ai fini dell’usucapione del bene
ereditario da parte del coerede, non occorre alcun atto formale (ad esempio,
un’opposizione rivolta agli altri coeredi); al contrario, è necessario che il coerede
svolga una specifica attività materiale che renda evidente, in modo molto più rigoroso
rispetto a quanto richiesto per l’usucapione da parte di un terzo estraneo,
l’instaurazione di un possesso esclusivo in danno degli altri compartecipi.
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7. Conclusioni.
Al termine di queste brevi considerazioni, è possibile evidenziare gli aspetti positivi e le
criticità dell’orientamento giurisprudenziale a cui aderisce la decisione della
Cassazione, 16 gennaio 2019, n. 966. In linea di massima, il trend assunto dalla nostra
giurisprudenza in materia di usucapione dei beni ereditari appare condivisibile.
Infatti, la superfluità di un formale atto di interversione del possesso, ai sensi degli artt.
1141, secondo comma, e 1164 c.c., ai fini dell’usucapione del bene ereditario, è
pacifica. E ciò perché, essendo il coerede già possessore pieno del bene ereditario
(sebbene in maniera condivisa con gli altri coeredi), qualora egli intenda instaurare un
possesso esclusivo su tale bene, non vi sarà (recte: potrà essere) alcun mutamento del
titolo possessorio.
Ciò che muta, invece, è il modo con cui il coerede possiede. Se, infatti, prima,
possedeva il bene ereditario infra quota, e dunque uti condominus, dopo, egli possiederà
tale bene in modo esclusivo, ossia uti dominus.
Tuttavia, pur non essendo necessario che il coerede tenga uno dei comportamenti
previsti dall’art. 1141, comma 2, c.c. per l’interversione del titolo possessorio, egli è
comunque tenuto a provare, unitamente agli altri elementi costitutivi dell’usucapione, il
possesso esclusivo.
E, come visto, la nostra giurisprudenza è al riguardo particolarmente rigida. Infatti, sulla
base del rilievo che l’art. 714 c.c. distingue il c.d. godimento separato dei beni ereditari
dal possesso esclusivo degli stessi, si ritiene che gli atti compiuti dal coerede sulla res
commune, anche se ultra quota, siano more solito tollerati dagli altri compossessori. Al
riguardo, infatti, sempre secondo la nostra giurisprudenza, sussiste una vera e propria
presunzione iuris tantum per cui, di regola, ogni atto relativo ai beni ereditari si
considera compiuto nell’interesse di tutti i coeredi [68].
Pertanto, affinché il coerede dimostri di aver instaurato il possesso esclusivo sul bene
che intende usucapire, è necessario vincere tale presunzione. In merito, la prova
richiesta al coerede è, come rilevato, particolarmente rigorosa. Infatti, proprio a causa
della presunzione suddetta, non sono sufficienti quelle condotte che, se poste in essere
da un terzo estraneo, integrerebbero il possesso esclusivo e consentirebbero, per ciò,
l’usucapione. Il coerede è, invece, tenuto a un quid pluris.
Secondo la nostra giurisprudenza, tale quid pluris è rappresentato dalla sussistenza di
uno specifico rapporto, incompatibile col permanere del compossesso degli altri
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coeredi, che sia tale da vincere la presunzione di mera tolleranza degli altri
compossessori. Tuttavia, per quanto rigida sia la prova del rapporto tra il coerede e il
bene, non è richiesto un formale atto di opposizione nei confronti degli altri
compossessori, essendo sufficiente un’attività materiale che renda evidente il possesso
esclusivo. Il che comporta che, a differenza degli atti di interversione, aventi natura
recettizia, l’attività (recte: gli atti) da cui risulta il possesso esclusivo può anche essere
ignorata dagli altri coeredi [69].
Su quanto rilevato fin qui, non si può che essere concordi con la nostra giurisprudenza.
Al contrario, l’orientamento giurisprudenziale in parola – e a cui aderisce la decisione
della Cassazione, 16 gennaio 2019, n. 966 – non convince totalmente nella parte in cui
richiede, ai fini dell’usucapione dei beni ereditari, una valutazione dello stato
soggettivo (il c.d. l’animus) del coerede.
Infatti, nonostante i continui riferimenti all’animus del coerede, deve essere chiaro che
ciò che rileva ai fini dell’usucapione del bene ereditario è esclusivamente la sussistenza
di una specifica attività materiale che renda evidente, per altro in modo molto più
rigoroso rispetto a quanto richiesto per l’usucapione da parte di un terzo estraneo,
l’instaurazione di un possesso esclusivo in danno degli altri coeredi [70].
Dunque, pur condividendo, in termini generali, l’orientamento giurisprudenziale a cui
aderisce la decisione in commento, è necessario ribadire, se ancora ve ne fosse la
necessità, che la volontà del coerede di estendere il proprio possesso in termini di
esclusività non ha (recte: può avere), di per sé, alcun valore ai fini dell’usucapione dei
beni ereditari. E, pertanto, non si può che auspicare che, in coerenza con alcune isolate
decisioni [71], la nostra giurisprudenza riconosca maggiore rilievo alla relazione
materiale tra il coerede e il bene, e alle modalità con cui è esercitato il possesso,
piuttosto che al concetto “sfuggente” di animus possidendi.
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