02/2014 Dopo le “primavere arabe”:
Islam, politica e democrazia
a cura di Rosita Di Peri
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Rivista
di Politica
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Diretta da Alessandro Campi
La sinistra italiana
alla prova della leadership:
le sfide di Matteo Renzi
Mauro Calise
Il problema teologico-politico
in Charles Péguy:
una rilettura
Pierre Manent
L’Islam politico tra
estremismo e moderazione: il
caso dell’Egitto
Pietro Longo,
Marco Di Donato
La transizione infinita
della Russia: dal socialismo
reale alla democrazia
autoritaria di Putin
Cristina Baldassini
Neutralità e politicità
della politica estera:
i dilemmi dell’Italia
sulla Siria e l’Ucraina
Emidio Diodato
Il potere del leader
come impresa collettiva:
la vicenda italiana,
le esperienze europee
Sofia Ventura,
David Allegranti
Giovanni Gentile
tra Hegel e Hobbes:
alle radici della modernità
politico-filosofica
Daniela Coli
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Rivista
di Politica
Rivista
di Politica
Rivista di Politica
Trimestrale di studi, analisi
e commenti
Numero 2
Aprile-Giugno 2014
CONGETTURE E CONFUTAZIONI
Comitato di Direzione
Leonardo Allodi, Giovanni Belardelli,
Danilo Breschi, Riccardo Cavallo,
Michele Chiaruzzi, Alessandro
Colombo, Valter Coralluzzo,
Luigi Cimmino, Emidio Diodato,
Stefano De Luca, Giovanni Dessì,
Stefano B. Galli, Alessandro Grossato,
Damiano Palano, Spartaco Pupo,
Maurizio Serio, Pasquale Serra,
Francesco Tuccari, Roberto Valle,
Angelo Ventrone, Sofia Ventura
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ISLAM, POLITICA E DEMOCRAZIA
I movimenti islamisti in Medio Oriente:
dinamiche e prospettive alla luce della “primavera araba”
La variabile sciita e la politica regionale in Medio Oriente
Paola Rivetti
I movimenti islamisti radicali in Libano: non solo Hizbullah
Rosita Di Peri
Il salafismo in Egitto tra moderazione e pragmatismo:
i casi di al-Nur e Hizb al-Tahrir Pietro Longo, Marco Di Donato
Fratelli Musulmani e potere nell’Egitto del post-Mubarak
Daniela Pioppi
Il salafismo in Tunisia
Stefano Maria Torelli, Francesco Cavatorta
Le trasformazioni dei movimenti islamisti in Libia
dopo Gheddafi Giuseppe Dentice, Arturo Varvelli
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Comitato scientifico internazionale
Emanuele Cutinelli Rèndina (Université de Strasbourg), Richard Devetak
(University of Queensland), Damir
Grubisa (Sveučilište u Zagrebu-University of Zagreb), Juan J. Linz † (Yale
University), Pierre Manent (École des
hautes études en sciences sociales),
Jeronimo Molina Cano (Universidad
de Murcia), Julio Pinto (Universidad
de Buenos Aires), Dominique
Schnapper (École des hautes études
en sciences sociales), Catherine
Zuckert (University of Notre Dame)
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Direttore
Alessandro Campi
(
[email protected])
Ragioni, prospettive e incognite del voto europeo
Luigi Di Gregorio
D’Alema, la sinistra e l’Europa
Riccardo Cavallo
La politicità della politica estera. L’Italia tra Ucraina e Siria
Emidio Diodato
La (sempre più) difficile transizione russa verso la democrazia
Cristina Baldassini
La «transizione» è finita? Forse non è mai cominciata
Damiano Palano
La disgregazione di un sistema: questioni strutturali e mancate
riforme Francesco Paola
Le ragioni del potere
Aresh Vedaee
Il cammino interminabile: il ‘superamento’ degli ospedali
psichiatrici giudiziari Emilia Musumeci
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Comitato di Redazione
Daniele Bronzuoli, Antonio Campati,
Matthew D’Auria, Giulio De Ligio,
Federico Leonardi, Michele Marchi,
Chiara Moroni, Leonardo Varasano
Direzione e Segreteria
Rivista di Politica
Corso Cavour, 99
06121 Perugia
tel. 075-5733727
www.istitutodipolitica.it
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Gli articoli che compaiono sulla «Rivista di Politica» sono sottoposti a un processo di revisione paritaria secondo gli
standard adottati internazionalmente
dalle riviste o pubblicazioni di natura
scientifica.
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OSSERVATORIO ITALIANO
105 Le quattro sfide di Renzi per la leadership Mauro Calise
113 Matteo e i suoi. Il leader e il suo entourage
David Allegranti, Sofia Ventura
131 Il sindaco d’Italia e le sue narrazioni. Uno sguardo diacronico
al discorso politico di Matteo Renzi Marco Travaini
SAGGI
145 La politica e il sacro. Come rileggere Péguy Pierre Manent
159 Gentile e la “modernità” Daniela Coli
175 Notizie sugli autori
179 Abstracts
Matteo e i suoi.
Il leader e il suo entourage
David Allegranti,
Sofia Ventura1
Dal 1994 l’Italia ha co- La leadership politica non è mai un
nosciuto due leader, e esercizio solitario. È invece – come
due leadership, che nei dimostrano esperienze recenti tra le più
loro tratti hanno rea- significative (da Tony Blair a Nicolas
lizzato una cesura netta Sarkozy) un’impresa collettiva, che si
con la tradizione con- sviluppa lungo dinamiche che coinvolgono
sensuale dell’Italia Re- il leader, i suoi stretti collaboratori,
pubblicana e hanno as- contesti strutturali più distanti (partito,
sunto una fisionomia istituzioni di governo, pubblica
per alcuni aspetti simi- amministrazione) e infine il pubblico dei
le, o più simile, rispetto simpatizzanti e dei cittadini. Non c’è
alla tradizione italiana, leader senza squadra, composta da
ad altre leadership oc- collaboratori per quanto possibile devoti
cidentali. Il riferimento all’uomo e dediti alla sua causa. E non c’è
è a Silvio Berlusconi e squadra senza che al suo interno
Matteo Renzi. In soli insorgano conflitti, tensioni e forme di
cinque anni Renzi è pas- competizione, spesso alimentate ad arte
sato dalla sfida per il dallo stesso leader. Quali sono, alla luce di
comune di Firenze, av- queste premesse, le caratteristiche
viata a partire dallo dell’inner circle di Renzi? Come ha
scontro con il suo stes- selezionato in questi anni i suoi uomini,
so partito, il Pd, alla prima da Sindaco ora da Presidente del
Presidenza del Consi- Consiglio? Quali sono le dinamiche che
glio. A quest’ultima ca- hanno portato, nel suo entourage,
rica è giunto dopo esse- all’allontanamento di alcuni collaboratori
re divenuto – attraverso della prima ora e all’emergere di una
un’elezione aperta ai nuova cerchia di fedelissimi?
simpatizzanti – segretario del partito, ma senza un successivo passaggio elettorale. Non è semplice analizzare una leadership che si è sviluppata in un tempo relativamente breve, attraverso brusche rotture e passaggi inconsueti e che da così poco tempo si sta misurando con il governo nazionale. È possibile, però, tentare di avanzare alcune prime riflessioni sulla base delle evidenze empiriche che si sono
accumulate sino ad oggi. In questo saggio non sarà l’intero fenomeno “leadership Renzi” ad essere analizzato, ma più modestamente un suo aspetto, comunque importante per comprendere il fenomeno più generale, ovvero il rapporto tra il leader e il suo entourage. Un rapporto che nel “caso Renzi” appare piuttosto particolare rispetto ad altre esperienze straniere e la cui particolarità
è probabilmente da attribuire, tra le altre cose, alla situazione di crisi del sistema politico italiano, che è anche una crisi del suo ceto politico, nonché della classe dirigente del paese, da un lato, e alla natura locale (fiorentina) del-
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OSSERVATORIO
ITALIANO
1. I contenuti del saggio sono
stati discussi insieme dagli autori. La redazione della parte
introduttiva e del primo paragrafo è di Sofia Ventura, del secondo paragrafo di David Allegranti, del paragrafo conclusivo di entrambi gli autori.
113
RIVISTA DI POLITICA 2
la nascita e dello sviluppo della leadership renziana, dall’altro. Senza naturalmente dimenticare che, quando si affronta l’analisi di una leadership, non
si può tralasciare l’aspetto della personalità del leader.
La leadership come impresa collettiva
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2. T. POGUNTKE E P. WEBB (a cura
di), The Presidentialization of
Politics: A comparative Study
of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford
2005.
3. B. MANIN, Principes du governement représentatif, Flammarion, Paris 1995.
4. L. CAVALLI, Governo del leader
e regime dei partiti, il Mulino,
Bologna 1992.
5. M. WEBER, Économie et société. 1. Les catégories de la sociologie, Plon, Paris 1995, p.
321.
6. M. WEBER, La scienza come
professione. La politica come
professione, Einaudi, Torino
2004, pp. 83-84.
7. J. MCGREGOR BURNS, cit. in J.
BLONDEL, J.-L. THIÉBAULT, Political Leadership. Parties and
Citizens, Routledge, Abingdon
2010, pp. 30-31.
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Il leader, i follower e la squadra
È ormai divenuta una costante dell’analisi sulle trasformazioni delle democrazie contemporanee la riflessione sul rapporto diretto che sempre più è venuto instaurandosi tra i leader politici, di partito e di governo, e i cittadini.
Parte del più generale fenomeno della presidenzializzazione della politica, ovvero la concentrazione dei poteri di decisione nelle mani di figure monocratiche2, questo nuovo rapporto tra leader e cittadini, insieme al drastico indebolimento delle mediazioni tradizionali esercitate da partiti e corpi intermedi e al nuovo contesto di mediatizzazione e spettacolarizzazione della politica che lo hanno reso possibile, è stato con grande efficacia messo a fuoco attraverso il concetto di “democrazia del pubblico” proposto dal sociologo francese Bernard Manin3. Ma ancora prima, all’inizio degli anni Novanta, l’italiano Luciano Cavalli, studioso della leadership – e del pensiero weberiano –
aveva affrontato il tema dell’affermazione della “democrazia con leadership
personalizzata”, profondamente diversa dalla democrazia “acefala” che aveva contraddistinto l’esperienza repubblicana dell’Italia4.
Le più generali trasformazioni delle democrazie odierne e il tema della leadership, dunque, inevitabilmente si intrecciano ed è l’analisi weberiana della leadership, nella forma della leadership carismatica, che ci consente di meglio specificare un aspetto rilevante del modo in cui questa particolare forma
di esercizio del potere si concretizza. La leadership implica una relazione tra
leader e seguaci, a diversi livelli, che non si esaurisce nel condizionamento del
primo sui secondi, ma che comporta dinamiche complesse di adesione dei secondi agli obiettivi indicati dal primo, rese possibili dalla capacità del leader
di produrre un’identificazione con la visione da lui incarnata. Il carisma, spiegava Max Weber5, poggia su una qualità che non è individuabile in modo oggettivo, ma che è riconosciuta come tale dai seguaci. Sempre Weber, trattando della democrazia plebiscitaria, compiva un ulteriore passo ponendo l’accento sulla macchina del partito come strumento necessario dei leader di governo6.
La letteratura successiva non ha cessato di rilevare la centralità di queste due
dimensioni. Da un lato, la relazione leader-seguaci come fattore necessario
per la stessa esistenza della leadership. «Come il potere – ha scritto McGregor Burns – la leadership è relazionale, collettiva e finalizzata. Ma la portata
e l’ambito della leadership sono (…) più limitati di quelli propri del potere. I
leader non cancellano le motivazioni dei seguaci… Essi guidano altre creature,
non cose». I leader si differenziano, in questo modo, dai meri detentori del
potere e l’essenza della relazione con i seguaci, che li contraddistingue, è costituita dalla «interazione di persone con diversi livelli di motivazioni e potenziale di potere» 7. Proprio perché non cancellano le motivazioni dei follower, essi sono in grado di creare consenso, e quindi mobilitazione, attorno ai
propri progetti, facendo di quelle stesse motivazioni una risorsa, ovvero, divenendo, in un contesto ove le identità degli individui sono sempre più non
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solo multiple, ma anche mescolate e sovrapposte, «imprenditori delle identità che accrescono il proprio potere stimolando e mobilitando alcune delle
molte identità dei propri seguaci, a scapito di altre»8.
Dall’altro lato, gli strumenti della leadership, ovvero, soprattutto, le forme più
o meno istituzionalizzate di collaborazione delle quali il leader si avvale, dall’inner circle ad assetti più strutturati come il partito, il gabinetto o la pubblica amministrazione. Di particolare importanza sono i collaboratori più vicini al leader, i quali possono o meno ricoprire ruoli formali. Trattando della presidenzializzazione della politica al livello del partito politico, Poguntke
e Webb avevano messo in evidenza come questa portasse in particolare non
tanto al maggior controllo del leader sul partito, comunque probabile anche
se problematico, quanto all’autonomizzazione del leader medesimo rispetto
ad esso. È proprio questa maggiore autonomia che si traduce nel, e richiede
la, creazione di un team che trae la propria legittimazione e autorevolezza dal
leader, più che dal partito, e che in talune situazioni (come ad esempio le campagne elettorali) può collocarsi anche al di fuori del partito medesimo. Non
a caso, tra gli indicatori dei cambiamenti strutturali che investono un partito che si presidenzializza, i due autori avevano individuato lo sviluppo della
segreteria del leader in termini di risorse e personale. In un suo ormai classico volume sulla leadership del 1987, Jean Blondel notava a questo proposito come una delle qualità necessarie al leader, l’“intelligenza”, fosse particolarmente rilevante nelle fasi di analisi dei problemi e elaborazione delle soluzioni e come essa dovesse operare all’interno della dinamica tra il leader e
i suoi consiglieri: al leader è dunque richiesto innanzitutto di operare una scelta appropriata di quei consiglieri e quindi di essere in grado – anche per non
dipendere completamente da essi – di valutare le soluzioni proposte e di metterne in discussione le basi per cogliere eventuali pregiudizi ed errori9. Analogamente, in uno studio dedicato alla presidenza americana, Greenstein osservava come tra le qualità del Presidente si collochi l’abilità «di unire i propri collaboratori e strutturare la loro attività in modo efficace»10.
D’altro canto, a proposito del rapporto tra il leader e il suo team, diversi studi hanno messo in evidenza come, da un lato, il leader, sebbene responsabile della decisione finale, abbia il potere di coinvolgere i subordinati nel processo di decision-making, dall’altro, le dinamiche personali che si instaurano all’interno dell’inner circle e concernenti in particolare l’apporto di expertise
e il flusso di informazioni, abbiano ricadute importanti sulla performance del
gruppo; in particolare, vi è chi ha ipotizzato come situazione ottimale quella ove le conoscenze passano attraverso i membri del gruppo ristretto dei collaboratori, uniti al leader da un maggiore rapporto di fiducia, a fronte di un
expertise esterno o di un inner circle con componenti non competenti11.
Se la contemporanea democrazia del pubblico rafforza la tendenza verso un
rapporto più diretto tra leader e cittadini-elettori, essa non comporta, dunque, che uno dei due poli del rapporto si esaurisca nella figura individuale del
leader. La leadership, in quanto particolare forma di esercizio del potere e al
tempo stesso elemento che dà particolare forma al processo decisionale, ruota attorno alla figura del leader, che ne è naturalmente conditio sine qua non,
ma è al contempo impresa collettiva, che si sviluppa lungo dinamiche che coinvolgono il leader, i suoi stretti collaboratori, contesti strutturali più distanti
(partito, istituzioni di governo, pubblica amministrazione) e infine il pubblico dei simpatizzanti e dei cittadini. La stessa costruzione dell’immagine del
8. J.S. NYE Jr. Leadership e
potere. Hard, soft, smart power (2008), Laterza, Bari-Roma
2009, p. 55.
9. J. BLONDEL, Political Leadership, Routledge, London and
Los Angeles 1987, p. 139.
10. F. I. GREENSTEIN, The Presidential difference, Leadership
Style from FDR to Barack Obama, Princeton University Press,
Princeton 2009, p. 5.
11. E. R. BURRIS e altri, Playing
Favorites: The Influence of
Leader’s Inner Circle on Group
Processes and Performance, in
«Personality and Social Psychology Bulletin», v. 35, 2009.
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RIVISTA DI POLITICA 2
A differenza delle altre forme di potere – scrive Panebianco – il potere
carismatico dà luogo a una organizzazione di rapporti sociali che non
conosce “regole”, né “carriere” al suo interno, né una chiara e definita divisione del lavoro. Le lealtà dirette da una parte e la delega dell’autorità da parte del capo dall’altra su basi personali e arbitrarie sono gli unici criteri che informano il funzionamento dell’organizzazione. L’organizzazione carismatica quindi sostituisce alla stabilità delle aspettative che regola le organizzazioni burocratiche così come le organizzazioni tradizionali, l’incertezza e l’instabilità più totali: la scelta del capo e
la sua continua dimostrazione di fiducia nei confronti dei subordinati
sono gli unici criteri da cui dipende la “struttura delle opportunità” per
i singoli operanti entro l’organizzazione, gli unici criteri che informano la gerarchia (informale) interna12.
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12. A. PANEBIANCO, Modelli di
partito, il Mulino, Bologna
1982, p. 265.
13. Joseph Nye ha definito questa combinazione smart power: cfr. Leadership e potere,
cit., p. 51.
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leader, il suo rapporto con i media, la rappresentazione che di questi emerge dal sistema mediatico, costituiscono nell’esperienza delle grandi democrazie
occidentali l’esito di un lavoro complesso attorno al leader, che dipende dalla personalità, dalle qualità e dalle inclinazioni del leader medesimo, nonché
dalle sue decisioni finali, ma che presuppone l’attivazione di una pluralità di
competenze e dipende dalle intelligenze, dall’inventiva, dall’impegno di
quanti ponendosi al servizio del leader partecipano dell’impresa della leadership.
Tornando all’analisi weberiana dalla quale si era partiti, vale, in conclusione,
richiamare il carattere personale della relazione che si instaura tra il leader
e i membri della sua ristretta cerchia, che tale può rimanere anche se alcuni
di questi vengono investiti di ruoli formali. Tale carattere appartiene alla tipica dinamica innescata dal carisma. Il tema è stato sviluppato in particolare da Angelo Panebianco nella sua analisi dell’organizzazione del partito carismatico.
Anche senza scomodare l’impegnativo concetto di carisma, se ci si sofferma
sulle esperienze di leader forti, che sono stati in grado di farsi imprenditori
di identità attraverso un abile uso della combinazione tra soft power (la capacità di convincere attraendo, seducendo, influenzando le stesse preferenze dei seguaci) e hard power (il più tradizionale insieme di sanzioni ed incentivi)13, le dinamiche di tipo personale che si creano con l’entourage appaiano
cruciali. Ciò che appare di notevole interesse per la comprensione del funzionamento e degli output dell’insieme “leader-cerchia del leader” è il modo
in cui tali dinamiche si producono, in particolare con riferimento alla tendenza del leader, evidenziata da Panebianco, di creare situazioni di incertezza
che impediscano il formarsi di situazioni consolidate che possano essere viste come una sfida al suo potere. In altri termini, ciò che rileva, in questa prospettiva, è la dialettica tra questa tendenza e l’esigenza di circondarsi di persone capaci e competenti in grado di contribuire positivamente alle performance della leadership. Ovvero, nel gruppo, il leader privilegia il criterio della fedeltà o quello della competenza? Il primo criterio può oscurare il secondo?
Che rapporto si instaura tra instabilità e competenza? Tali questioni sono di
non poco conto e possono avere ripercussioni sulle performance del gruppo,
se – come si è sopra notato – proprio le competenze interne alla cerchia degli uomini di fiducia costituiscono una delle più importanti risorse della leadership.
OSSERVATORIO ITALIANO
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Blair, Sarkozy, Obama
Una delle leadership politiche che più ha attirato l’attenzione in questo ultimo ventennio, quella di Tony Blair, è stata definita una “leadership collettiva”, non diversamente da quella conservatrice di Margareth Thatcher, seguendo
la lettura di Bulpitt della leadership politica britannica – che prende corpo in
un sistema parlamentare di tipo maggioritario, dove diviene leader di governo
il leader del partito vincitore di una competizione bipartitica – come arte di
governo (statecraft), ovvero l’«arte di vincere le elezioni e raggiungere una parvenza di capacità di governo una volta giunti al potere». Un’arte per comprendere la quale è necessario accompagnare l’analisi della figura del leader
con quella di altre figure, come i senior party leaders, i consiglieri e coloro che
ricoprono ruoli apicali nell’amministrazione pubblica14.
A proposito di Blair, Buller e James hanno recentemente osservato come le
innovazioni messe in campo dal leader britannico furono percepite dall’opinione pubblica come innovazioni riguardanti sia l’immagine del leader politico, sia del partito laburista. Inoltre, sia nell’ambito delle competizioni elettorali, sia in quello della competenza di governo (e nelle corrispondenti profonde trasformazioni del partito), cruciali furono figure che lo hanno a lungo accompagnato nella sua avventura politica, come quelle di Peter Mandelson, Phillip Gould e Gordon Brown, così come i passi compiuti dai suoi predecessori alla guida del Labour Party Kinnock e Smith15. Nemmeno va dimenticato lo sforzo di “professionalizzazione” compiuto dal partito laburista
ancor prima dell’arrivo di Blair e la rilevanza di figure impegnate anche nella costruzione dell’immagine, della messa a punto di efficaci campagne e più
in generale di strategie di marketing politico, come i già citati Mandelson e
Gould e Alastair Campbell16.
Il sodalizio con Mandelson e Brown, cominciato a metà degli anni Ottanta e
non privo – come ben noto – di tensioni, costituisce, poi, l’esempio di un piccolo gruppo, composto di personalità, ognuna, a proprio modo, eccezionale,
cementatosi attorno ad un grande progetto di cambiamento. Scrive Mandelson nel suo racconto politico e autobiografico The Third Man: «noi tre eravamo diventati un’impresa politica, convinti che il partito dovesse trasformare
sé stesso se voleva avere una qualche speranza di tornare al governo»; «nella fase iniziale del nostro progetto di modernizzazione, i giornalisti ci soprannominarono ‘I tre moschettieri’ e lo straordinario legame che univa Tony,
Gordon e me fu al cuore di tutto ciò che realizzammo e di ciò che non riuscimmo
a realizzare»17.
La prima preoccupazione di Blair arrivato alla guida del partito, nel ’94, fu
quella di formare la squadra, a partire dai compagni di strada già accanto a
lui, e una delle prime decisioni fu quella di coinvolgere nel team Alaistar Campbell. E la prima grande battaglia, quella per trasformare radicalmente i contenuti della Clause IV dello statuto del Labour, fu una battaglia nella quale si
forgiò lo stile di una leadership con una guida indiscussa e capace di trancher
e al tempo stesso basata su continui scambi e riflessioni comuni: «Fu durante
il lungo periodo dell’opposizione che il lavoro fatto da me, Gordon e altri collaboratori iniziò a dare risultati»18.
Una volta al governo, Blair creò una forte struttura centrale per cercare di esercitare influenza e dirigere la macchina del governo, avvalendosi di un gruppo fedele di consiglieri. Sebbene fortemente personalizzata, infatti, la sua leadership di governo è stata esercitata grazie anche allo sviluppo di una strut-
14. J. BULLER. T. S. JAMES, Statecraft and the Assesment of National Political Leaders: the
Case of New Labour and Tony
Blair, in «The British Journal
of Politics and International
Relations», v. 14, pp. 538-539.
15. Ivi, pp. 534-555.
16. F. FAUCHER-KING, The Party is Over: The “Modernization” of the British Labour Party, in T. CASEY (a cura di), The
Blair Legacy, Palgrave Macmillan, London 2009, pp. 39-51.
17. P. MANDELSON, The Third
Man, Harper Collins, London
2010, p. 116; Introduzione.
18. T. BLAIR, Un viaggio (2010),
Rizzoli, Milano 2010, p. 110.
Sul ruolo svolto da un altro degli stretti collaboratori di Blair,
Philip Gould, e sul rapporto che
questi intrattenne con un altro
membro di spicco della squadra, David Miliband, in quel
periodo si veda P. GOULD, The
Unfinished Revolution. How
New Labour Changed British
Politics for Ever, Hachette,
London 2011 (Nuova edizione).
117
RIVISTA DI POLITICA 2
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19. M. BENNISTER, Tony Blair as
Prime Minister, in T. CASEY (a
cura di), The Blair Legacy, cit.,
pp. 167-168.
20. T. BLAIR, Un viaggio, cit., p.
23.
21. J. BLONDEL, J.-L. THIÉBAULT,
Political Leadership, cit., p.
142.
22. Così il giornalista francese
Michael Darmon, cit, in S. VENTURA, Il Racconto del capo. Berlusconi e Sarkozy, Laterza,
Bari-Roma 2012, p. 41.
23. F. VIELCANET, La fabrique
des présidents, Éditions de la
Martinière, Paris 2011, p. 21.
24. Un’interessante lettura per
comprendere la visione di
Guaino e l’influenza avuta su
Sarkozy è H. GUAINO, La nuit et
le jour, Plon, Paris 2012.
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tura di supporto. Blair trasferì il proprio team degli anni dell’opposizione al
governo, creando per i suoi collaboratori posizioni chiave come consiglieri e
mantenendo con essi, ben più che i suoi predecessori a Downing Street, rapporti fortemente personali: l’impatto dei diversi consiglieri veniva così a dipendere, ad ogni momento dato, più che dalla posizione ricoperta, dalla prossimità con il leader19. Narrando del suo esordio a Downing Street, Tony Blair,
a proposito del suo team, in transito dall’“unità di assalto dell’opposizione” al
“palazzo del potere”, ha scritto: «Il mio staff personale era uno straordinario
gruppo di persone, tutti individui molto diversi fra loro ma uniti come un reggimento fedele, intrisi di uno spirito comune con un’anima d’acciaio»20.
Anche nell’esperienza del “presidenzialismo alla francese”, dove il partito è
rilevante perché solo con una maggioranza a lui prossima il Presidente può
essere un “Presidente governante”, si riscontra la compresenza di una marcata personalizzazione unita al ruolo cruciale della squadra, anche se l’elezione diretta del Presidente tende a far emergere maggiormente il carattere individuale della leadership rispetto a quello collettivo. Come hanno osservato Blondel e Thiébault21, l’esperienza gollista nella V Repubblica ha rafforzato l’autonomia del candidato rispetto al partito (secondo il modello già
visto della presidenzializzazione) e conseguentemente indotto la formazione di un team attorno al candidato che in parte transita all’Eliseo in caso di
vittoria, e questo fenomeno ha progressivamente coinvolto anche i socialisti francesi.
L’importanza del gruppo di collaboratori fedeli e capaci è apparsa evidente
nell’esperienza di una forte leadership come quella di Nicolas Sarkozy. La sua
lunga carriera politica è stata costellata di alcune importanti amicizie, collaborazioni e condivisioni di esperienze che lo hanno accompagnato sino all’Eliseo,
attraverso le sue esperienze di governo. Come scriveva nel 2004 lemagazine.info
(5 luglio 2004), sin dalla conquista del comune di Neully, attraverso il suo sostegno a Balladur nelle presidenziali del ’95, la sua seguente emarginazione
nel partito e la sconfitta alle europee del ’99, la sua successiva scalata verso il
potere e il partito, Sarkozy ha consolidato attorno a lui un gruppo di uomini
fedeli. Primo tra tutti Brice Hortefeux, già direttore del suo gabinetto a Neully, poi arrivato ai vertici del partito e più volte ministro durante la presidenza Sarkozy. Quindi Patrick Devedjian, accanto a lui e a Balladur nel ’95 e successivamente segretario generale dell’Ump tra il 2007 e il 2008 e ministro tra
il 2008 e il 2010. Particolarmente importante è anche la figura di Frank Louvrier, già direttore della comunicazione di Sarkozy e componente della cellula
di esperti e fedelissimi costituita da Sarkozy sin dal 2002 al Ministero degli
Interni e incaricata di pianificare «la gestione strategica della sequenza della battaglia delle idee»22 e che si sarebbe poi ritrovato direttore della comunicazione all’Eliseo23. All’Eliseo, nel 2007, giunge anche Claude Guéant, nel
ruolo cruciale di Segretario generale (che con la presidenza Sarkozy assume
le vesti di una sorta di primo ministro ombra), dopo essere stato capo di gabinetto con Sarkozy al ministero degli Interni e suo direttore di campagna alle
presidenziali del 2007. Non va infine dimenticata la collaborazione particolare avviata nel 2006 dall’ex Presidente francese con Henri Guaino, politico,
alto funzionario e prima di allora già impegnato nelle campagne di importanti
figure del gollismo. Guaino24 dal 2006 diverrà la plume e lo spin doctor di Sarkozy, l’autore dei suoi più importanti discorsi, ai quali fornirà un’impronta nuova con l’adozione delle tecniche dello storytelling e il richiamo alla grande sto-
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ria francese, e che accompagnerà il presidente nella funzione di consigliere
speciale all’Eliseo25.
L’importanza che Sarkozy attribuisce alla creazione di un ristretto gruppo di
collaboratori emerge anche dalla sua azione dentro il partito, dove crea (dopo
la sua ascesa alla presidenza dell’Ump e analogamente a quanto già fatto nelle vesti di ministro) una «piccola cellula molto discreta»26 dove spiccano, oltre ai già citati Louvrier e Gueant, Fréderic Lefebvre, suo incaricato dei rapporti con il Parlamento, accanto a lui dal 1993 e per un periodo imprenditore nel campo della comunicazione e dell’attività di lobbying, Jérôme Peyrat,
direttore generale dell’Ump, Jean-Michel Goudard, noto pubblicitario francese, di lunga esperienza e già collaboratore di Chirac per la campagna del 1995,
Emmanuel Mignon, incaricata del programma dell’Ump, già membro del Consiglio di Stato e accanto al futuro presidente dal 2002, Laurent Solly, proveniente dalla carriera prefettizia, con Sarkozy al ministero degli Interni e poi
dell’Economia e suo capo di gabinetto alla presidenza del partito.
L’attenzione del Sarkozy presidente per il lavoro di squadra, d’altro canto, è
testimoniata anche dalla pratica della riunione mattutina e quotidiana con i
suoi collaboratori più stretti dell’Eliseo durante gli anni della sua presidenza, un gruppo che fu indicato da osservatori e studiosi come un vero e proprio governo parallelo27.
Si è già fatto cenno, all’inizio di questo paragrafo, al fatto che anche nella leadership presidenziale americana la capacità del leader-presidente di organizzare
efficacemente il proprio team sia considerata essenziale. A questo proposito,
vale la pena di riportare le parole del Presidente Barack Obama a proposito
dei pericoli insiti nell’assunzione di decisioni non rigorosamente discusse. Parole che illustrano molto chiaramente il perché della sua scelta di collaboratori con idee e visioni nette: «Uno dei pericoli alla Casa Bianca, sulla base delle mie letture storiche, è che tu venga preso in un pensiero di gruppo (groupthink) ed ognuno è d’accordo su ogni cosa e non c’è discussione, non ci sono
opinioni dissenzienti. Ma capisci. Sarò io come Presidente a impostare le politiche. Io sarò responsabile della visione di cui il gruppo si farà portatore e
mi attendo che tale visione venga implementata una volta che le decisioni sono
prese»28. Obama, sin dalla sua corsa per il seggio di senatore (2004), si è circondato di un ristretto gruppo di collaboratori, alcuni dei quali lo hanno accompagnato attraverso i due passaggi presidenziali del 2008 e 2012 e lo hanno seguito alla Casa Bianca29.
E vale altresì la pena, in conclusione e rimanendo all’esperienza dell’attuale
presidente americano, rammentare che la visione di Obama, così come la sua
storia, forse non si sarebbero imposte con tanto successo alla platea americana (e non solo) se non vi fosse stato l’incontro con David Axelrod e se il noto
consulente e spin doctor non avesse deciso di lavorare, a partire dalla campagna per il Senato, per colui che sarebbe divenuto il primo presidente nero
degli Stati Uniti30, facendo di quella storia un prodotto sempre più professionale,
accuratamente alimentato e comunicato, facendo di una star potenziale una
star di successo31.
Axelrod, come Mandelson e Campbell, come Guaino, come tanti altri che a
diverso titolo hanno contribuito a forgiare alcune delle leadership più importanti
degli ultimi decenni. A riprova che il leader non è solo e il suo appello agli elettori e ai cittadini non è soltanto l’appello di un uomo, ma soprattutto la manifestazione di un progetto. Così come il governo del leader è il governo con
25. S. VENTURA, Il racconto del
capo, cit., pp. 41-44.
26. G. OTTENHEIMER, Le sacre de
Nicolas, Seuil, Paris 2007.
27. S. VENTURA, Nicolas Sarkozy, l’iperpresidenza e la riforma
delle istituzioni, in «Quaderni
costituzionali», XXIV, n. 1,
2009, p. 149.
28. F. L. GREENSTEIN, The Presidential difference, cit., p. 216.
29. http://www.cbsnews.com/
news/obamas-inner-circleshares-in/; http://bigstory.ap.
org/article/look-presidentbarack-obamas-in
30. F. VIELCANET, cit. pp. 171173; D. MENDELL, Obama. From
Promise to Power, Amistad,
New York 2008, p. 163.
31. G. DA EMPOLI, Obama. La
Politica nell’era di Facebook,
Marsilio, Venezia 2008, pp.
94-95.
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una guida forte e un forte traino, una forte ispirazione, necessari per rendere concreta un’impresa che in fin dei conti è collettiva, anche se forgiata e orientata dalla personalità di un individuo fuori dal comune.
Matteo Renzi e i suoi
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32. In questo e nei successivi
sotto-paragrafi, per le ricostruzioni si fa riferimento, in
particolare, a D. ALLEGRANTI,
Matteo Renzi. Il rottamatore
del Pd, Vallecchi, Firenze 2011
e D. ALLEGRANTI, The Boy. Matteo Renzi e il cambiamento dell’Italia, Marsilio, Venezia 2014.
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Il Matteo Renzi comunicatore è una spugna, assorbe suggerimenti, spunti, battute, storie e poi li ripropone (senza copyright) nel dibattito pubblico, via interviste, tweet, dichiarazioni, comizi. Sembra quasi abbia a disposizione un
Google personalizzato dove pescare la citazione più azzeccata per un intervento all’assemblea del Pd o in Parlamento. Prepara da solo (spesso li abbozza
soltanto) i suoi discorsi e interventi, come si è più volte vantato lui stesso e come
sostengono persone a lui vicine. Non vi è dubbio che, nonostante improprie
attribuzioni, Renzi sia lo spin doctor di se stesso. E sa perfettamente come si
veicola un messaggio, quali sono le parole d’ordine più appropriate per raggiungere rapidamente il pubblico degli elettori.
Questa sua attitudine a fare da sé sembra dunque giustificare talune espressioni utilizzate per designarlo, come “uomo solo al comando”. Definizioni che,
in realtà, non riguardano solo la sua comunicazione, ma più in generale il modo
in cui esercita la sua leadership. Peraltro, basta vedere l’attuale esecutivo: si
tratta di una sorta di giunta Renzi, ove non solo il capo del governo spicca,
ma sovrasta tutti gli altri componenti che nella maggior parte dei casi assumono una dimensione politica solo in virtù del suo riconoscimento (con la vistosa eccezione del ministro dell’economia Padoan, che, non a caso, non è stato scelto da Renzi ma, di fatto, dal Presidente Napolitano). Parrebbe, quella
di Renzi, una leadership dove la dimensione individuale prevale con nettezza sul lavoro di insieme. È davvero così?
Le giunte Renzi32
Negli anni in cui Renzi ha ricoperto i ruoli di Presidente della Provincia e poi
di Sindaco di Firenze, le sue giunte sono cambiate spesso. Da presidente della Provincia ed esponente di un partito molto piccolo, la Margherita, non ebbe
remore nell’allontanare assessori dei Democratici di sinistra, a quell’epoca il
partito più forte della sinistra fiorentina. Ma anche in Comune non sono mancati rotture, licenziamenti e spostamenti. La prima ad andarsene fu Barbara
Cavandoli, legata a Lapo Pistelli, un tempo mentore del giovane Renzi, e con
delega allo sport, che nel gennaio 2010 salutò tutti con una lettera scritta nella notte — «Caro Matteo, è notte fonda, ne adoro il silenzio e il buio che ora
mi rende i pensieri chiari e ben delineati» — mentre Renzi era a New York,
in polemica con il sindaco per la trattativa con la Fiorentina sulla gestione dei
“campini”, il centro sportivo accanto allo stadio della città. Poi venne il turno
di Cristina Scaletti, assessore all’ambiente, arrivata a Palazzo Vecchio dopo aver
mandato un curriculum via internet all’Italia dei Valori, compulsato personalmente da Antonio Di Pietro, che si dimise perché promossa in Regione.
Renzi colse al volo l’occasione per non rendere il posto ai dipietristi e estrometterli definitivamente dalla giunta. Angelo Falchetti fu mandato alla Mercafir, “promosso” quindi con la presidenza di una partecipata controllata dall’assessorato di cui era stato prima titolare. Elisabetta Cianfanelli, assessore
socialista, disse che le deleghe le erano state tolte a sua insaputa — «nemmeno
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io conosco i motivi per i quali mi verranno ritirate» — scatenando le ire del
segretario del Psi Riccardo Nencini (oggi viceministro alle Infrastrutture del
governo Renzi).
Una delle personalità più significative tra quelle che Renzi ha incontrato lungo la sua strada e di maggior spessore, Giuliano Da Empoli, lasciò l’assessorato alla cultura per riprendere la via della scrittura e, quando arrivarono le
primarie del 2012, della politica attiva, ancora accanto a Renzi. Poi fu il turno di Claudio Fantoni, assessore al bilancio, a causa di divergenze sui conti
di Palazzo Vecchio: «Ho sempre pensato che chi è chiamato a governare Firenze sia a servizio della città e non che la città, Firenze, sia a servizio e uno
strumento utile al perseguimento di ambizioni personali». L’assessore Massimo Mattei fu costretto ad andarsene dopo che era venuto alla luce un episodio, all’interno di un’inchiesta su un giro di prostituzione, di un incontro
tra un impiegato e una escort a Palazzo Vecchio. Il vicesindaco Stefania Saccardi traslocò invece in Regione, dov’è diventata vice del governatore Enrico
Rossi (in questo caso nessuna divergenza: solo la necessità di tenere sotto osservazione il presidente, un tempo feroce avversario politico), In uno degli ultimi rimpasti di giunta, a Palazzo Vecchio, sono arrivati invece i “professori”.
Un modo per rispondere alle critiche sulle scarse competenze delle giunte Renzi. Tra questi il filosofo Sergio Givone e l’economista Alessandro Petretto.
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L’ascesa nella politica nazionale
Il passaggio dalla campagna elettorale del 2012 per le primarie contro Pier
Luigi Bersani a quella del 2013 per il congresso del Pd è emblematico delle
dinamiche che si sviluppano tra Renzi e quanti entrano nella sua orbita. Nel
2012, contro Bersani, Renzi schierò un gruppo di collaboratori (più o meno
ufficiali) solido e politicamente orientato. C’erano, fra gli altri, Giuliano da Empoli, il giuslavorista Pietro Ichino, l’economista liberale Luigi Zingales, Giorgio Gori, noto ex direttore di Canale 5 e produttore televisivo. Questa squadra rifletteva un’impostazione economica e sulle tematiche del lavoro molto
più sbilanciata a “destra”. “Il liberismo è di sinistra”, diceva citando un libro
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Un anno dopo la squadra era già stata smantellata: da Empoli in “esilio” a Parigi; Ichino aveva abbandonato il Pd
ed era entrato nel partito montiano di Scelta Civica; Zingales (nominato dal
governo Renzi nell’aprile 2014 nel consiglio di amministrazione dell’Eni) era
tornato all’Università, a Chicago; Gori si era candidato a sindaco nella sua città, Bergamo.
Definito da più parti, nel 2012, come lo spin doctor di Renzi, Gori non aveva in realtà questo ruolo così centrale (lo spin doctor è una figura che non appare nell’organigramma renziano), come da lui stesso riconosciuto33. Il suo
contributo riguardò soprattutto la campagna del 2012 e il format portato in
tournée da Renzi. E uno dei motivi per cui fu allontanato dall’ex sindaco di
Firenze riguarda la sua tendenza a prendere iniziative personali – trattative
politiche a Roma – non concordate.
Da Empoli, invece, ha svolto un ruolo più consistente. In virtù del ruolo che
ha svolto può essere considerato una sorta di “Peter Mandelson” del segretario del Pd. Fu lui, nel 2012, a elaborare il programma delle primarie. Ma già
nel 1996, a ventidue anni aveva scritto un libro che non passò inosservato,
un’analisi impietosa di un’Italia che aveva compromesso il futuro delle nuove generazioni, alla quale senza dubbio Matteo Renzi deve molto. Alcuni epi-
33. Giorgio Gori, rispondendo
a una specifica domanda sul
tema, in occasione del suo intervento agli “Stati Generali
della Comunicazione”, Luiss,
28 maggio 2013.
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sodi hanno però segnato negativamente il rapporto con il suo leader. Uno riguarda la visita, saltata, dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Renzi, che sarebbe servita a quest’ultimo per accreditarsi a livello internazionale nella sfida con Bersani. La visita non si tenne perché la notizia finì sulla stampa e da Empoli fu accusato, ingiustamente, di essere la fonte della notizia. In
un’altra occasione, invece, da Empoli rilasciò un’intervista al «Corriere Fiorentino» nella settimana della sconfitta di Renzi alle primarie, nella quale sostenne che sarebbe servito un movimento (in altri termini una corrente) nel
Pd per non disperdere il lavoro fatto alle primarie. L’allora sindaco di Firenze non gradì. Ma quelle parole non piacquero neanche ai vertici del Pd, Bersani e Vasco Errani, che ottennero piuttosto facilmente da Renzi l’esclusione
del suo “ideologo” dalle liste del Parlamento.
Un altro caso, a proposito della campagna elettorale del 2012, riguarda Roberto Reggi, a quel tempo coordinatore dello staff. Reggi, ex sindaco di Piacenza e in passato vicino a Enrico Letta, assunse un atteggiamento molto ostile nei confronti della vecchia dirigenza del Pd e questo costò pure a lui il posto in Parlamento alle elezioni politiche del 2013. Renzi, per la verità, non fece
molto per proteggere uno degli uomini che più aveva lavorato al suo fianco.
E per la campagna elettorale per il congresso, il posto di Reggi fu preso da Stefano Bonaccini, segretario regionale del Pd emiliano e oggi responsabile enti
locali della segreteria nazionale al Nazareno, che durante le primarie del 2012
era stato preso di mira da Reggi proprio a causa del suo impegno per irregimentare il Pd dell’Emilia-Romagna dietro la candidatura di Bersani. Reggi
è stato poi recentemente “ripescato”, dopo che Renzi è divenuto Presidente del
Consiglio, con la nomina di sottosegretario all’Istruzione. Si potrebbe dire, dalla rottamazione al riciclo.
Al posto di Ichino (che aveva lasciato il Pd convinto che la sua “agenda” avrebbe trovato più ascolto nel partito di Mario Monti) invece è arrivato Yoram Gutgeld, ex direttore della multinazionale McKinsey. Anche lui, come nel caso di
Gori, ha sfidato Renzi con una eccessiva autopromozione, conquistando – con
l’aiuto di numerose interviste – la fama di “guru di Renzi”. Se in occasione delle elezioni del febbraio 2013 fu premiato con un posto in parlamento, nella composizione della squadra della segreteria del Pd, dopo la vittoria di Renzi, quello che si riteneva avrebbe dovuto essere il suo posto, è stato preso dal civatiano Filippo Taddei, attuale responsabile economia del partito. Come nel caso
di Reggi, però, Gutgeld è stato poi ripagato con un posto a Palazzo Chigi, dove
svolge il ruolo di consigliere economico per la presidenza del Consiglio.
Ma prima ancora delle personalità sin qui nominate, nel 2010, accanto a Renzi, spiccava la figura di Pippo Civati. I due avevano organizzato insieme la prima Leopolda (2010), la prima di quelle tappe che hanno accompagnato ogni
anno l’ascesa e la costruzione della narrazione renziana. Civati era, di fatto,
il suo vice (ruolo che il premier non gradisce, come si evince dal fatto che al
governo non ci sono vice e al Nazareno, sede del Pd, ne ha collocati due a fine
marzo 2014 solo per tamponare la sua inevitabile scarsa presenza). L’incompatibilità fra i due, politica, ma anche caratteriale e probabilmente acutizzata da ambizioni incompatibili, ha portato alla rottura, preceduta da incomunicabilità e accuse: Civati scoprì solo dai giornali che Renzi era andato
a trovare Berlusconi ad Arcore; Renzi invece attribuì a Civati l’intenzione di
voler mettere in piedi una corrente, anzi “uno spiffero”. (Quasi) co-protagonista della prima Leopolda ha poi preso una strada diversa, così come è ac-
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caduto a figure di spicco che avevano animato la seconda Leopolda (2011), come
i già citati Gori, Zingales e Ichino.
Più recentemente, un altro “vice”, meno ufficiale di Civati, è stato messo da parte. È Matteo Richetti, già presidente del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna, oggi deputato. Nel 2011 era sul palco della Leopolda a ricoprire, di fatto, il ruolo che un anno prima era stato di Civati. Oggi è più in ombra. Ha i
voti, e questo lo rende indipendente, e mantiene una certa autonomia di pensiero. Due elementi, questi, che costituiscono potenzialmente motivo di attrito con Renzi.
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Il Giglio Magico
Già nel 2012 si intravedevano, anche al di là delle vicende che avevano coinvolto personaggi come Ichino e da Empoli, i limiti geopolitici della squadra
renziana. È allora che inizia a prendere forma il “giglio magico”, il ristretto cerchio di fedelissimi di cui Renzi si fida e che sono gli unici a passare indenni
– per ora – dalla sindrome del braccio destro: Luca Lotti, braccio ambidestro
di Renzi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi,
ministro per le Riforme, Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, tutti provenienti
dall’esperienza fiorentina. Per un anno in Parlamento c’è stato anche Dario
Nardella, prima di tornare a Firenze nelle vesti di successore di Renzi a Palazzo Vecchio. Promoveatur ut amoveatur? Lotti, Boschi e Bonifazi sono le persone più vicine al presidente del Consiglio. Nell’ultimo anno le loro posizioni dentro il gruppo dei renziani (tutte le sfumature comprese: quelli della prima ora, quelli avvicinatisi nelle tappe successive) si sono rafforzate. Boschi,
avvocato, specializzata in diritto societario, dopo aver appoggiato l’avversario di Renzi alle primarie fiorentine del 2009, diviene consigliere giuridica del
nuovo sindaco e quindi, nel 2012, coordinatrice dei comitati “Adesso!” e nel
2014 organizzatrice dell’ultima Leopolda. Per un periodo ha condiviso la scena insieme a Simona Bonafè e Sara Biagiotti. Appena diventata deputata, la
Bonafè era stata indicata da Renzi e i renziani quale volto televisivo. In una
fase successiva è stata scalzata dalla Boschi, oggi donna di punta del “renzismo” e suo principale volto mediatico. La Biagiotti è stata assessore nella giunta Renzi e poi candidata sindaco a Sesto Fiorentino. Lotti è il plenipotenziario di Renzi, capo dei renziani in Parlamento, l’unico titolato a parlare per conto del presidente del Consiglio. È con lui dall’inizio dell’avventura, dai tempi in cui Renzi era Presidente della Provincia. Bonifazi, invece, è arrivato a Renzi insieme alla Boschi (un tempo erano entrambi dalemiani). Fra i dispensatori di consigli c’è anche Marco Carrai, il “sottosegretario ombra”, un altro di
cui Renzi si fida davvero. Sono amici. Carrai è un imprenditore grevigiano che
ha ricoperto e ricopre incarichi pubblici ed è molto presente, nelle vesti di consigliere, nei rapporti di alto livello, per esempio nella gestione delle nomine
per le partecipate dello Stato. E quando Renzi va per la prima volta a incontrare la Merkel, nel 2013, ad accompagnarlo c’è proprio lui34.
Dal punto di vista della comunicazione, invece, ci sono stati due passaggi. Il
primo riguarda il portavoce. Dalle primarie fiorentine del 2009 in poi, Renzi ha avuto con sé Marco Agnoletti, ex responsabile comunicazione dei Ds toscani, che lo ha seguito fino alle prime settimane del 2014. Il ruolo di Agnoletti, specie a Firenze, è stato prezioso, perché ha aiutato Renzi ha costruire
una rete di riferimento di giornalisti. Con la conquista della segreteria del Pd
e quindi la salita a Palazzo Chigi, Renzi ha cambiato portavoce, scegliendo Fi-
34. Sulla figura e il ruolo di
Marco Carrai si veda M. DAMILANO, Ecco chi è Marco Carrai,
il Gianni Letta di Matteo Renzi, in «L’Espresso», 1 novembre
2013.
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I “professoroni”
Renzi, come Berlusconi, sembra condividere il disprezzo per le élite e gli intellettuali. Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, rispondendo a chi muoveva critiche ai progetti costituzionali renziani, aveva affermato che se negli ultimi trent’anni non si è fatto nulla in Italia la colpa era dei “professoroni” che hanno per tutto quel tempo bloccato il Paese. Un esercizio retorico efficace, perché
i professoroni vengono messi sullo stesso piano della burocrazia, delle soprintendenze, di tutto ciò che secondo Renzi e i suoi blocca lo sviluppo e l’innovazione. In generale è meglio ciò che è pop, per Renzi: Alessandro Baricco, Oscar
Farinetti, con i quali per comunicare basta una telefonata o uno scambio di sms.
I professoroni però in alcuni casi servono. Come nel caso della legge elettorale, anche se da queste collaborazioni talvolta possono sorgere situazioni contraddittorie. La trattativa sulla legge elettorale è stata portata avanti da più persone. Renzi stesso, naturalmente, ma anche Nardella e Boschi. La parte “professorale” era coperta da Roberto D’Alimonte, ordinario di Scienza Politica alla
Luiss, confrontatosi dal punto di vista tecnico con l’esponente di Forza Italia Denis Verdini (non un professore, ma piuttosto preparato sui sistemi elettorali).
Un mese dopo l’uscita della legge elettorale, sui giornali, però, D’Alimonte ha
preso le distanze dal testo licenziato. «La fretta ha prodotto un processo non ordinato, troppe persone hanno messo mano al testo…», ha detto il professore in
un’intervista al «Corriere della Sera». Anche in altre circostanze, Renzi si è avvalso delle competenze di docenti universitari. Roberto Perotti della Università Bocconi di Milano, ad esempio, ha coordinato un gruppo di lavoro della segreteria di Matteo Renzi sulla spesa pubblica. Anche se non sempre le collaborazioni sono così esplicite e chiare. Spesso, infatti, il presidente del Consiglio si
avvale di collaborazioni informali che sono il frutto di suoi rapporti personali.
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35. In realtà, anche il rapporto
con DotMedia non si è interrotto. L’agenzia è stata, ad
esempio, coinvolta nella Leopolda 2014.
36. Per l’elaborazione di questo
paragrafo si è tenuto conto anche di una serie di conversazioni, per alcune delle quali
gli interlocutori hanno richiesto l’anonimato.
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lippo Sensi (noto come Nomfup su Twitter), vicedirettore del quotidiano di
area Pd «Europa», che possiede una certa conoscenza del mondo anglosassone e solidi rapporti in Inghilterra con il Labour Party e negli Stati Uniti con
i Democrats. Dopo essersi per lungo tempo affidato a DotMedia, agenzia di
comunicazione che ha realizzato, fra le altre cose, il suo sito internet, Renzi
ha ingaggiato Proforma, l’agenzia di comunicazione che aveva seguito in passato le campagne elettorali di Michele Emiliano e Nichi Vendola. È soprattutto Proforma che ha lavorato al congresso del 2013 che ha portato Renzi alla
guida del partito. In altre occasioni, successivamente, Renzi si è rivolto a loro
occasionalmente35. Ad esempio, per la ormai celebre conferenza stampa da
Palazzo Chigi del marzo scorso (alla quale ormai ci si riferisce come “televendita”), quando il presidente del Consiglio ha usato uno split screen con se
stesso in video e slide con cui presentare all’elettorato, o per meglio dire al pubblico, i progetti del suo governo. Nelle due campagne elettorali, quella del 2012
e quella del 2013, nella casella “comunicazione” c’è stato anche Luigi De Siervo, dirigente della Rai, che fra le altre cose elaborò il manifesto di “Adesso!”,
lo slogan utilizzato alle primarie contro Bersani.
Conclusioni: “Avanti quelli bravi”, ma una strana idea di squadra36
«Con me andranno avanti quelli bravi, non quelli fedeli». Questa è una affermazione più volta ripetuta da Renzi, che in più occasioni ha fatto intendere
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di voler costruire una classe dirigente basata sul merito. Nella formazione della segreteria del Pd dopo la vittoria delle consultazioni di partito per l’elezione
del segretario e poi nella formazione del governo nel febbraio 2014, però, ha
mostrato di preferire in molti casi profili carenti di un’autonoma autorevolezza
nei rispettivi campi. E in generale, nella sua breve storia di leader politico, come
abbiamo visto, Renzi non ha profuso nella costruzione di una vera e propria
squadra di collaboratori molto impegno.
«Il consiglio che ho dato a Renzi dopo che è diventato leader del Pd – ha affermato Peter Mandelson in una recente intervista37 – è stato, aspetta, recluta la migliore squadra sulla piazza, riforma e ricostruisci il partito, prenditi
il tempo necessario per mettere in piedi il tuo programma politico. In questo modo sarai pronto per il governo (…). La sua risposta fu che la crisi italiana era troppo grave per aspettare, che la coalizione di governo stava dimostrando un’inerzia, un immobilismo dannoso per l’Italia. Si può dargli torto?». In realtà, è lecito chiedersi se solo l’urgenza, l’immobilismo del governo Letta, siano alla base della scelta di Renzi di presentarsi al governo sprovvisto di un vero e proprio gruppo di lavoro pronto a divenire operativo. O se,
come farebbe presupporre la ricostruzione sopra presentata, in realtà creare
un gruppo di lavoro con il quale condividere un percorso e strutturare i processi decisionali, non appartenga al suo stile. Non appartenga al suo stile, in
altri termini, «istruire una causa», secondo le parole di Mandelson, che nell’intervista citata, ricordando il modo di procedere di Blair, ha affermato di
non aver compreso se a Renzi si possa attribuire la stessa abilità strategica di
Blair, la stessa abilità di sezionare «ogni situazione con il pensiero»: «ha sempre considerato tutte le angolature possibili e quanto ciascuna opzione
avrebbe potuto avvicinare o ritardare i suoi obiettivi strategici. Se Renzi abbia questa capacità è ancora da vedere». In effetti, ancora il giudizio rimane
sospeso, anche se è difficile immaginare che una tale abilità possa prodursi
al di fuori di un confronto continuo con i collaboratori.
Renzi sembra procedere in modo diverso. Innanzitutto, sembra attribuire valore e riconoscimento a persone la cui principale virtù appare quella di essere fedele e il venir meno, anche apparente, di questa fedeltà (che può assumere anche la forma dell’espressione di una certa autonomia) è fatto pagare
con l’allontanamento. I suoi collaboratori più stretti e fedeli, si pensi ai pochissimi che ha portato prima nella segreteria del Pd e poi a Palazzo Chigi,
appaiono all’esterno soprattutto come rigidi custodi della linea, adottando la
cifra comunicativa della ripetizione continua di alcune parole d’ordine ‘renziane’. Si tratta per lo più di persone che si sono legate all’attuale Presidente
del Consiglio negli anni fiorentini della sua presidenza della Provincia o degli inizi della sua guida di Firenze e che devono alla decisione di Renzi di costruire loro un ruolo il proprio percorso pubblico (perlomeno sulla ribalta nazionale). Al tempo stesso, questi collaboratori più prossimi paiono svolgere
ruoli più operativi (ancorché rilevanti), piuttosto che di elaborazione o di supporto alla messa a punto di idee e progetti38. O comunque, laddove si esercita un condizionamento anche sui contenuti, esso parrebbe emergere da confronti personali sugli input provenienti da Renzi, più che da un comune percorso, ancorché guidato e orientato dal leader. Nell’interazione con i collaboratori sembra prevalere un approccio top-down (come nelle riunioni di giunta a Firenze, dove – secondo alcune testimonianze – sostanzialmente Renzi
“interrogava” sulle cose fatte e poi dettava la linea) o un confronto limitato ad
37. Intervista di David Allegranti del 14 marzo 2014, in D.
ALLEGRANTI, The Boy, cit., pp.
43-47.
38. L’eccezione più significativa appare quella dell’ex sindaco di Reggio Emilia e ex Presidente dell’Anci Graziano del
Rio, già ministro del governo
Letta e oggi sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio,
che presenta un proprio profilo autonomo.
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39. P. DI BLASIO, Renzi promuove il cerchio magico, in «Il
Quotidiano Nazionale», 16
aprile 2014.
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aspetti specifici. Interessante, a questo proposito, è quanto sostenuto da un
anonimo componente del “Giglio magico”, così definito per l’analogia con la
forma del fiore, dove “le punte non hanno la possibilità di dialogare tra loro,
devono passare dal centro”: «Renzi è una spugna che assorbe i consigli di tutti e poi li filtra. Non sopporta gli staff chiusi nelle war room a dialogare tra
loro e partorire documenti. Lui preferisce i rapporti interpersonali»39. Siamo,
dunque, di fronte ad una particolare dinamica, che vede un’interazione tra il
leader e “i suoi”, ma non un coordinamento orizzontale, non la creazione di
un vero e proprio spirito di gruppo, di un’azione di gruppo, che hanno preso
forma in talune occasioni spontaneamente, ma non sono mai stati favoriti, bensì ostacolati (così è ad esempio stato in occasione delle primarie del 2012) dal
leader.
Renzi, ascolta e assorbe, dunque, anche se l’impressione che si ha è che discuta
poco, che il filtro sia principalmente lui stesso, più che un gruppo di persone che insieme “istruiscono la causa”. Oltre che di pochi fidati, si avvale anche di personalità con esperienza, autorevolezza e indubbio spessore intellettuale, che però mantiene al di fuori della cerchia ristretta, o che intersecano quella cerchia per poi uscirne in tempi brevi e magari ritornare nell’orbita, però a maggiore distanza.
È interessante, a questo proposito, notare anche come a questa fluidità di rapporti, che inevitabilmente non può mettere capo ad una squadra vera e propria, consolidata nel tempo e nella sua operatività, abbia corrisposto la creazione, prima di una segreteria, poi di una compagine di governo, dove sono
state coinvolte personalità avvicinatesi poco prima, magari dalla posizione di
convinti avversari, o sino a quel momento estranee al suo progetto e alla sua
‘corsa’. Non vi è dubbio che questa scelta sia stata in buona parte il frutto di
una risposta alla contingenza politica. Mentre nella costruzione della squadra di governo a Firenze ha potuto, sulla base del potere che la legge dà, molto più ampio rispetto a quello del presidente del Consiglio, decidere con autonomia i propri uomini e donne, quando è arrivato a Palazzo Chigi ha dovuto mediare con i piccoli partiti alleati e le correnti del suo partito. Un partito, sia detto per inciso, al quale ha imposto senza dubbio, e per il momento, una certa disciplina, ma sul quale ha fino ad oggi lavorato solo superficialmente e che rimane un punto di appoggio scivoloso. Ne è venuto fuori un
governo che non è quello che ci sarebbe potuti aspettare, un governo “della
Leopolda”. È, piuttosto, un governo di compromesso.
La sua forza trainante e il suo appeal di “vincente” possono costituire comunque
un forte collante dell’equipe di governo ed è ipotizzabile che questa consapevolezza agli occhi del Presidente del Consiglio abbia reso, tutto sommato,
poco problematica e costosa la necessità di accontentare più parti nella formazione del governo: nella sua prospettiva, forse, il suo potere si esplica proprio anche nella capacità di attrarre a sé figure fino a poco prima ostili o estranee, figure che oggi, si pensi a Dario Franceschini, sono ascoltate dal premier.
Se, però, la situazione nella quale è sorto il governo Renzi può giustificare le
scelte fatte, al tempo stesso non si può non osservare che Renzi non avrebbe
comunque avuto a disposizione un contingente con il quale fare del suo governo un governo “della Leopolda”. D’altro canto, nella scelta della segreteria del Pd, nel gennaio 2014, dopo la sua schiacciante vittoria, Renzi avrebbe potuto creare un gruppo più omogeneo. Ma anche qui hanno probabilmente
giocato la volontà di legare a sé diverse anime di un partito in buona parte an-
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cora diffidente40 e la convinzione di poterlo fare, mettendo in gioco il suo carisma, attraverso la cooptazione, così come la debolezza del suo entourage. In
entrambi i casi, utilizzando una metafora calcistica, si può parlare di una “panchina corta” della squadra di Renzi, probabilmente volutamente corta.
Quello che si osserva, comunque, è che solo in piccola parte l’arrivo al potere di Renzi si è tradotto in un arrivo al potere di una squadra consolidatasi
nel tempo e protagonista della costruzione di un progetto. Al tempo stesso,
giova ricordare che per Renzi non è stato possibile connotare in senso più innovativo il proprio esecutivo per il rifiuto di entrarvi a far parte di personaggi come Alessandro Baricco, Oscar Farinetti e Andrea Guerra, che rappresentano un altro tipo ancora di esponente della galassia renziana, ovvero figure note e di spicco, occasionali consiglieri e sponsor. Che però tali sono voluti rimanere.
La ricostruzione della leadership di Matteo Renzi con riferimento al rapporto
tra leader e “seguaci” richiama senza dubbio quel modello carismatico illustrato più sopra. Del forte ascendente di Renzi su coloro che vengono a contatto con lui vi sono diverse testimonianze. Ma ve ne sono altresì della sua
attitudine a “sparigliare”, a creare competizione tra chi lo segue, a innescare dinamiche che impediscano il consolidarsi di un vero e proprio lavoro di
gruppo. Naturalmente dinamiche simili, dissensi, rotture, ascese e allontanamenti legati al volere del leader, sono riscontrabili anche in altre esperienze
di leadership. Anzi, in certa misura sono connaturate ad ogni leadership che
si avvicini all’idealtipo carismatico. Ma si tratta, appunto, di misura, una misura che poi si riverbera anche nella qualità. L’esperienza della leadership di
Matteo Renzi, per come si è configurata sino ad oggi, sembra infatti spostare in modo significativo l’equilibrio tra fedeltà e competenza a favore della
prima. La volontà di tenere sotto controllo i processi, anche non concedendo troppo spazio a personalità forti e competenti, sembra andare a scapito
della preoccupazione di fare dell’insieme dei propri collaboratori un team efficace. Le dinamiche carismatiche appaiono, dunque, molto accentuate, con
un complesso gioco di traiettorie diverse attorno al leader, piuttosto che un
sistema di cerchi concentrici caratterizzati da diversi livelli di prossimità e
collaborazione.
La fluidità ed estemporaneità del mondo che circonda Renzi e che a diverso
titolo collabora con lui appare oggi analoga alla fluidità ed estemporaneità della sua azione di governo. Sarebbe semplicistico e probabilmente scorretto attribuire alla prima il ruolo di causa della seconda. Piuttosto siamo probabilmente di fronte ad una correlazione spuria, ovvero entrambe sono il risultato di una terza causa, cioè il modo di operare di Renzi, basato sulla velocità,
la scommessa, la sfida, più che il progetto41. Oggi, in Italia, non siamo di fronte a nessun blairiano “New Labour, New Britain”, bensì ad un’azione basata
su un insieme di specifici interventi (si pensi alle misure presentate alla conferenza stampa da Palazzo Chigi il 18 aprile attraverso dieci tweet e altrettanti
hashtag) disomogenei e di diversa portata, che nel loro insieme producono
però l’effetto del movimento. Non vi sono progetti organici, nel campo delle
riforme istituzionali come in quello del lavoro, dell’amministrazione o della
giustizia, ma singole misure che in un contesto bloccato da decenni sono proposte come coraggiose e di rottura (e non vi è dubbio che di rottura alcune lo
siano effettivamente), rappresentative di una nuova stagione che si apre e che,
al tempo stesso, consentono di individuare altrettanti nemici dell’innovazio-
40. La schiacciante vittoria del
Pd alle elezioni europee del 25
maggio 2014 parrebbe aver
messo da parte molte di queste
diffidenze, anche se il diffuso
allineamento alle posizioni del
segretario appare fortemente
condizionato da contingenti
motivi di opportunità (la sopravvivenza politica) e non corrisponde ad un reale rinnovamento nel partito e nella sua
organizzazione.
41. Bordignon ha osservato
come tra i tratti della personalità mediatica di Matteo Renzi
vi sia la tendenza a scommettere sulla propria forte personalità e come la sua retorica,
che fa ricorso al registro dell’antipolitica, incorpori l’idea
della politica come una cosa
semplice e conseguentemente
l’idea che le riforme debbano
informarsi al criterio della velocità, della semplificazione,
della decisione. Cfr. F. BORDIGNON, Matteo Renzi: A ‘Leftist Berlusconi’ for the Italian
Democratic Party?, in «South
European Society and Poitics»,
2014, pp. 1-25.
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RIVISTA DI POLITICA 2
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42. Ringraziamo Marco Damilano per aver attirato la nostra
attenzione sulla relazione tra
movimento, sfida e progetto.
43. Come ha osservato D. CAMPUS nel suo L’antipolitica al governo (il Mulino, Bologna,
2006), per i leader che fanno
propria la retorica antipolitica
(come Reagan, de Gaulle, Berlusconi e oggi certamente anche Renzi), far seguire alla
pars destruens una pars construens costituisce una delle
sfide più difficili.
Ru
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128
ne e difensori della conservazione. Al progetto si è sostituita, in qualche modo,
la sfida e la stessa sfida, che si incarna, oltre che nelle provocazioni-proposte,
nella stessa figura ‘guascona’ di Renzi, diventa essa stessa riforma42.
Semplificando ed estremizzando, ma volendo cogliere nella sua essenza il fenomeno, possiamo concludere che se ad un team solido e competente corrisponde il progetto, a una complessa e fluida rete di relazioni corrisponde il
movimento che diventa esso stesso progetto. Ricordando, però, che progetto (un progetto vero e proprio, sorretto da una visione) e movimento non sono
in quanto tali incompatibili (si pensi alle leadership delle quali abbiamo brevemente trattato in questo saggio). Tendere ad esaurire il progetto nel movimento, piuttosto che operare per far avanzare entrambi, è una scelta precisa, come è una scelta precisa fare dell’incertezza e dell’instabilità la cifra della propria ‘galassia’. Quali saranno le conseguenze di queste scelte sarà possibile valutarlo nel tempo a venire. Ma sin da oggi si può affermare che, se tali
scelte possono risultare efficaci rispetto all’obiettivo di creare sconcerto nel campo avversario (nel caso di Renzi, il campo della ‘conservazione’, quel mix di interessi corporativi, pratiche ed abitudini consolidate che ostacolano il cambiamento e l’innovazione e che in questa fase politica solo lo stesso Renzi appare nelle condizioni e capace di mettere in difficoltà), più difficilmente potranno porre basi solide per una fase positiva, di ricostruzione43.