Un ventennio di vita e teatro goliardico torinese
L'autobiografia di
Ovidio Borgondo detto ‘Cavur’
Torino 1921 – 1942
a cura di Marco Albera
Lo Scaffale di Abelardo 16
In Copertina: Foto di scena della rivista “Bella se vuoi venire...”,
messa in scena a Torino per il carnevale 1927, al Teatro Odeon di via
Viotti. Cavur è a destra, mentre al centro compare Paolo Beccaria,
studente di farmacia e autore di riviste goliardiche con il nome di
“Paulbeck”, nelle vesti di Dante.
Ovidio Borgondo detto Cavur <1899-1961>
Un ventennio di vita e teatro goliardico torinese: L'autobiografia di
Ovidio Borgondo detto “Cavur” – Torino 1921 - 1942 / studio e trascrizione a cura di Marco Albera <1954>;
edizione e note a cura di Umberto ‘Kociss’ Volpini <1955>;
– Padova: Edizioni A.C.C.A. 2021 – 320 p. : ill.; 21 cm –
(Lo Scaffale di Abelardo 16)
Un ventennio di vita e teatro goliardico torinese
L'autobiografia di Ovidio Borgondo
detto ‘CAVUR’, Torino 1921-1942
a cura di Marco Albera
Indice generale
L’autore
Vent’anni di Goliardia
Cavur
CAVOUR - VENT’ANNI DI GOLIARDIA
La mia trasvolata Genova - Buenos Aires (Mario Luino)
Fra Gonne e Colonne. Rivista
Inno dei Goliardi del 1848 (Gabriele Melani)
La leggenda del lascito dello zio a Cavur
Come me la godo! Rivista
Don Rodrigo. Rivista
Dall’Inferno al Paradiso. Rivista
La crociera dei GUF in America (Carlo Filogamo)
Nota sulle canzoni ‘a couplet’ nelle riviste goliardiche
Ricordando G.L. Marianini ovvero vivere nella parte di sé stessi
Giovanotti in aula Rivista
Filastrocca Goliardica
Amore in tandem da “Giovanotti in aula”
Cavur si è laureato
La notte del fatal 11 giugno....
Appendice Biografica. Conclusione.
Professorello Bischero
Epistolario
Bibliografia
A.C.C.A. Padova
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Il testo ovvero la Tesi di Laurea di Marco Albera
(Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino.
Relatore: Guido Davico Bonino, A.A. 1990-91)
ci è stato gentilmente fornito dall’autore, che è proprietario di
ogni diritto, ed ha approvato l’editing da noi realizzato e
concesso la pubblicazione per i sottoscrittori della collana.
Il testo originale di Ovidio Borgondo,
riportato inalterato nell’edizione della tesi, è stato sottoposto a
un leggero editing, per correggere alcuni errori, grammaticali e
di scrittura, che potevano risultare fastidiosi alla lettura,
mentre sono stati lasciati inalterati diversi vocaboli,
anche se arcaici, in disuso o legati al vernacolo piemontese.
Per l’iconografia si è anche utilizzato l’album Facebook di
Paolo Benevelli dedicato a Cavur, in particolare utilizzando
le accuratissime didascalie delle fotografie.
Edizioni A.C.C.A – Padova
Associazione Culturale Calzae Academia –
A. C. Studentesca senza scopo di lucro
c/o Umberto Volpini via dei Colli 147 – 35143 Padova
tel. 049.830.6089
[email protected]
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© Studio Metropolis / A.C.C.A. Pd
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L’autore
Marco Albera nasce a Torino nel giugno del 1954, da una vecchia
famiglia piemontese. Il padre, dirigente commerciale della Fiat, lo porta
in giro per l’Italia, a causa dei frequenti spostamenti di filiale, fino a
giungere Padova, dove sosta per un decennio, frequentando il liceo classico Tito Livio e l’Antonianum dei gesuiti per la cultura e lo spirito,
nuotando alla Rari Nantes per il fisico, cattolico militante e coinvolto
nei primi comitati politici, con un indirizzo monarchico decisamente
fuori degli schemi per l’epoca.
Molte di queste attività proseguono tuttora, poiché Albera non ha
mai smesso di interessarsi di cultura e formazione, di essere coinvolto
in mille iniziative che l’hanno spesso condotto in prima fila alla guida
di associazioni e istituzioni culturali, benefiche, religiose nella sua Torino, dall’Accademia Albertina di Belle Arti, di cui è stato Presidente,
al Circolo degli Artisti.
Da universitario ha partecipato attivamente alla vita del Corno,
fondando l’Ordine dei Tarocchi, che sviluppa due dei suoi interessi: la
storia e la musica, pubblicando degli almanacchi e dei canzonieri, iniziando allora a raccogliere il materiale che decenni dopo in parte cederà
sia al MEUS di Bologna (Museo dell’Università e degli Studenti) sia
all’Archivio Storico della
Università di Torino, andando a costituire l’attuale
Archivio Marco Albera.
Nel pontificato del
Corno è da decenni conosciuto come il Cardinal Conservatore, inesausto raccoglitore di memorabilia goliardiche e universitarie, torinesi e
italiane. Naturale che sia
opera sua il monumentale volume realizzato per il Sesto
centenario dell’Ateneo Torinese.
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Vent’anni di Goliardia
Nell’ambito dell’ultradecennale ricerca che vado conducendo
sulle origini e la storia della goliardia italiana e torinese, il ritrovamento delle memorie autobiografiche di Ovidio Borgondo detto Cavur
è stato l’avvenimento più rilevante ed entusiasmante.
Penso che lo studio di verifica e di commento critico, che è l’oggetto dì questa tesi, possa giustificare un interesse più generale che
travalica senz’altro la passione che mi viene da un’antica militanza
goliardica. Non soltanto perché negli anni fra le due Guerre Mondiali
la goliardia era un fenomeno sociologicamente molto rilevante nella
nostra città, ma perché, nella vita di Cavur, sono fortemente coinvolte
vicende interessanti: dall’affermarsi del Futurismo a quello del nascente Teatro di Varietà e di Rivista, dal contrastato e vorace espandersi del totalitarismo del G. U. F. (Gioventù Universitaria Fascista)
al dipanarsi di una vita universitaria tanto diversa da quella dei tempi
attuali.
In queste note introduttive cercherò di approfondire tali interessanti temi toccando dapprima quelli riguardanti lo stato, le vicende e
i contenuti dell’inedito, per passare successivamente a meglio inquadrare il personaggio che ne è protagonista in prima persona.
L’inedito in mio possesso era stato affidato da Ovidio Borgondo,
nell’imminenza della sua definitiva emigrazione in Argentina, al più
fedele dei suoi compagni di goliardia e di teatro, il Dottor Aldo Luino.
Questi, da me contattato qualche anno fa, me ne aveva consentita la
riproduzione fotostatica e, dopo la sua morte, la sorella me ne ha affidata definitivamente la cura.
L’autobiografia di Cavur consiste in un dattiloscritto su carta tipo
velina in seconda copia da carta carbone. (L’originale è tutt’ora in
possesso di Glauco Borgondo a Buenos Aires, figlio dell’autore). È
composto di 114 pagine numerate più due di copertina e una di retrocoperta, nel formato inusuale di 34,5 mm per 22 mm. È stato dattiloscritto fittissimamente (il tempo di guerra consigliava certe economie
di carta) con una media di 65/75 battute per riga per oltre 70 righe a
pagina. Mediamente ognuna di queste ha quasi 5.000 battute. Non
compaiono note, aggiunte o correzioni al testo, pur nella provvisorietà
della stesura.
L’edizione che ho curato per la tesi è pienamente rispettosa
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dell’originale, sia per la suddivisione e titolazione dei capitoli, sia per
quanto concerne sintassi ed ortografia. Mi sono permesso di aggiungere soltanto pochi elementi di orientamento, fuori margine ed in neretto, come lo sono le date o i nomi di alcuni personaggi. [Da noi evidenziati in italico/grassetto allineato a destra all’inizio di paragrafi e
capitoli. ndr]
Tutto il complesso di informazioni di complemento, siano esse
illustrazioni o dati di ricerca sui temi toccati dall’autore, sono riprodotti
separatamente, incorniciati ed in altro carattere di stampa, per evidenziarne l’estraneità rispetto al testo proprio del Borgondo. Con questo espediente credo di raggiungere due scopi: quello di separare le
mie ricerche ed interpretazioni dal testo autentico con la necessaria
chiarezza e, nel contempo, di non relegare, nell’ambito modesto delle
note, la parte più cospicua del mio lavoro.
La documentazione di complemento appare, a tanti anni di distanza, come una chiave indispensabile di comprensione di una gran
parte di situazioni e luoghi di perduta memoria, ed anche il modo più
diretto ed irrinunciabile per poter ricreare il clima della narrazione. A
mio avviso, questa trova il suo merito maggiore nell’essere un completo spaccato di vita torinese, più ancora che teatrale e studentesca,
di un arco di tempo compiutamente epocale.
La memoria inizia con l’anno scolastico 1920/21, subito dopo le
famose “maturità di guerra 1919/20”, per giungere ai bombardamenti
terroristici della nostra città nel novembre 1942.
L’epoca della stesura, per implicita ammissione dell’autore, va
ricondotta all’immediato dopoguerra, verso la fine del 1945 o al massimo ai primi del 1946. Così scrive Ovidio: “Senza contare che non
tutti gli episodi vissuti sono qui raccontati, ma solo quelli che la memoria riesce ancora a ricordare alla bella distanza di venticinque anni”
(p. 33 ms.)
Lo stesso Cavur ammette scherzosamente nelle prime pagine
l’intenzione di vedere pubblicate le sue memorie: “Ovidio se incominciava a raccontare le proprie prodezze studentesche, non si fermava
più; era il suo difetto, anzi la sua mania, che ingigantita con l’ammucchiarsi dei ricordi, gli farà più tardi stampare le sue memorie goliardiche, raccontando al pubblico i propri fatti personali. Cose che al lettore non interessano affatto, come del resto tutte le autobiografie. Ma
i personaggi più o meno illustri, o i paranoici che si credono tali (com’è
il caso di Ovidio), giunti a una certa età sentono il bisogno di fare il
loro canto del cigno, tramandando ai posteri la loro vita privata, e si
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Cavur diviene l’infaticabile e indispensabile pilastro del Teatro
degli Studenti tanto che il genere non verrà travolto, come si può leggere nell’appendice biografica, nemmeno dalla guerra.
Nel frammezzo Borgondo si afferma sempre più come macchiettista di varietà, resistendo sulle scene del Maffei e di tanti altri
teatri italiani, per oltre il decennio 1930-1940 con il ‘Trio Cavur’, costituito assieme a Piero Busca e Dea Lolette.
Queste memorie hanno ancora un merito, quello di farci incontrare molti personaggi celebri come il Principe Umberto di Savoia,
Dino Segre, famoso scrittore sotto lo pseudonimo di Pitigrilli, l’esordiente, terribile, matricola Gian Luigi Marianini, senza dimenticare il
già citato F.T. Marinetti, per restituirci il quadro vivace del mondo torinese a cavallo fra le due guerre, nel quale muovono ancora, comprimari non meno importanti, studenti e sartine, professori e i primi
jazzisti, e tanti altri ancora.
Il memoriale di Cavur costituisce un “unicum” meritevole di pubblicazione in quanto capace di salvare, nella freschezza di tanti particolari, un mondo definitivamente annientato dall’evento bellico (si
pensi al tragico destino della più gran parte dei teatri torinesi) aiutando la nostra memoria storica nella sua ricostruzione.
Se la goliardia antecedente la Prima guerra mondiale, fra i pochi che ancora la ricordano, è connotata indissolubilmente dal binomio “Camasio & Oxilia” e dalla loro “Addio giovinezza!”, possiamo riconoscere ad Ovidio Borgondo detto Cavur la paternità goliardica del
periodo a cavallo delle due guerre.
Mi permetto, a questo punto delle considerazioni preliminari, di
ricordare al lettore che questa tesi è la terza e conclusiva parte di un
articolato programma di studio del fenomeno goliardico.
Essa è stata preceduta da un primo saggio sulle espressioni
teatrali del mondo universitario e studentesco torinese dalla fine
dell’800 al secondo dopoguerra che ha preso in esame manifestazioni artistiche fra loro diversissime come il balletto, l’azione coreografica, l’operetta e la rivista, spaziando su oltre una quindicina di
testi teatrali.
A questo primo studio è succeduto l’approfondimento del tema,
per certi versi complementare, dei canti degli studenti raccolti, per lo
stesso periodo, in modo cronologico nel cospicuo numero di oltre
duecento con la pubblicazione dei testi originali, di canzonieri integrali
unitamente alla discografia ed alle registrazioni esistenti.
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Cavur
Ovidio Borgondo nasce nel 1899 a Buenos Aires dove il padre,
un medico originario di Crescentino in provincia di Vercelli, era emigrato con la moglie ed il figlio primogenito Sigismondo detto Mondino.
A Buenos Aires Ovidio rimane sino ai dieci anni frequentando le
scuole elementari presso la “Cangajo Schule”, locale scuola tedesca.
Successivamente, con il trasferimento della famiglia a Genova nel
1910, frequenta le scuole medie presso la scuola Svizzera del capoluogo ligure. Con il rientro definitivo a Torino affronta gli studi ginnasiali
e quelli del liceo classico, interrotti dallo scoppio della grande guerra
che lo vede, giovanissimo volontario, impegnato sul fronte del Carso
dalla fine del 1917. Servendo la Patria si conquista i gradi di Sottoufficiale di artiglieria.
Per una straordinaria coincidenza storica egli fu quasi diretto testimone, essendo nell’immediata retrovia del Monte Tomba, dell’eroica fine di Nino Oxilia, episodio tanto importante nel suo immaginario
goliardico.
Al rientro dal fronte riprende gli studi interrotti e consegue la maturità di guerra nel 1921, iscrivendosi immediatamente all’università ad
anno accademico iniziato.
Di qui in poi ha inizio il racconto memorialistico.
Mi sembra doveroso aggiungere alcune considerazioni sul personaggio attingendo brani di particolare importanza dal testo riprodotto.
L’ambizione maggiore di Ovidio Borgondo, fondamento primo del
suo agire, fu senza dubbio quella di divenire un personaggio quasi mitico in campo goliardico. A questo scopo consacra tutte le sue energie:
“Il Goliardo modello ‘91: questo, secondo Ovidio, era modestamente
lui, era la sua unica ambizione. Tutti gli artisti, per cani che siano, si
credono degli Apollo, delle Tersicori, delle Tulie, delle Melpomene; egli,
come artista si stimava un cane, ma come goliardo pretendeva di essere Golia in persona” (p. 110 ms.).
Per mantenersi eternamente agli studi affrontava una dura battaglia esistenziale che metteva a seria prova le qualità goliardiche, per
questo ebbe ad affermare che: “... gli studenti carichi di soldi, i figli di
papà, coloro che a vent’anni hanno già il libretto degli assegni, non
potranno mai essere dei veri goliardi. Sono “studenti” ma non “goliardi”.
Ci tengo molto alla distinzione dei due termini” (p. 46 ms.).
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Il mito di Cavur si fonda ancora oggi sulla leggenda del lascito
dello zio che egli ha l’occasione di smentire nel memoriale rivelando la
dignitosa povertà nella quale si dibatteva: “Ma intanto tu hai il lascito
dello zio prete finché sei studente.” “Col cavolo! È ora di finirla con
questa leggenda. Se avessi un tale lascito andrei proprio nei varietà di
barriera a fare il pagliaccio per guadagnarmi la vita! E poi credi veramente che i preti siano così stupidi (proprio loro!) da fare un testamento
simile che spinge un giovane a mai laurearsi e a fare il poltrone tutta la
vita? Quelli ti lasciano i soldi solo a condizione che tu studi da prete.”
“Allora non è vera questa storia? Eppure tutti la credono vera.” “E tu
lasciala credere perché ciò mi crea un’aureola leggendaria, è meglio
che mi credano un ricco ereditiero che fa l’artista per divertirsi che non
un povero goliardo che lo fa per la pagnotta. È una storia vecchia come
le università medioevali. Già mio padre mi raccontava che ai suoi tempi
c’era uno che continuava a prendere lauree su lauree. In qualunque
università tu vada ti raccontano una storiella simile, è una tradizione
che ogni ateneo vuole avere, a Torino per ora ci sono io, lascia che la
bevano, anch’io la racconto in giro” (p. 90 ms.).
Eterna goliardia in una visione ideale altissima, così come altissimo era il suo rispetto per il copricapo degli studenti, divisa sentita ed
oltremodo amata, la feluca.
Ma il berretto goliardico, secondo Ovidio, nobilitava qualsiasi
abito. “Puoi essere vestito da coolies indiano – egli diceva – da uomo
cavallo conduttore di risciò e di girmkiska [jinrikisha è il termine giapponese originale, letteralmente ‘veicolo a trazione umana’ (sha-rikijin)], puoi essere vestito da ... analfabeta, sarai sempre uno studente
universitario. È il berretto che fa il monaco. Perciò col berretto goliardico in testa puoi andare a un ricevimento ufficiale al palazzo reale,
puoi andare dal sommo pontefice, anche vestito di rosso, non lo si deve
togliere per salutare e non lo si dovrebbe togliere nemmeno in chiesa
perché è come una divisa.” Ed egli fu l’unico che ebbe il coraggio di
andare al funerale di uno studente col berretto in testa e, ai compagni
che trovavano da ridire, rispose indignato: “Già ... per voi il berretto
goliardico è il berretto a sonagli del giullare e lo si deve solo mettere
per andare sulle giostre di carnevale o a fare sbronza nei veglioni. Vi
vergognate di portarlo se non siete in compagnia e appena lasciate gli
amici lo nascondete sotto il paltò. Vi attaccate sopra tutte le patacche
che vi capitano sottomano e tutte le cianfrusaglie più sconce, lo mettete
in testa alla bagascia, e appena avete finito l’università lo buttate nella
pattumiera. Eh, no, cari signori! Il berretto goliardico è una cosa sacra,
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ha una tradizione antichissima, vanta sei secoli di gloriosa vita. È stato
battezzato col sangue studentesco nel 1821 e forato dal piombo nemico a Curtatone e Montanara quando i goliardi pisani, che non si vergognavano ma si gloriavano di portarlo anche in battaglia, ne tagliarono le lunghe punte perché impedivano di mirare bene col fucile e, in
omaggio al glorioso ricordo, parecchie università portano ancora il berretto goliardico senza punta. Esso è la nostra bandiera, la nostra fede,
il simbolo della nostra magnifica stirpe goliardica, l’emblema della gioventù di tutti i secoli che mai non muore ma incessantemente si rinnova
passando giocosamente nel mondo come un soffio profumato di primavera” (p. 125 ms.).
Berretto sacro che gli fa prendere una durissima e rischiosa posizione contro il regime fascista: “E in questi anni si suole anche relegare nella lontana leggenda il berretto goliardico, il fascismo vuole sopprimerlo. Ma Ovidio tiene un comizio nel cortile dell’Università e, schierandosi a spada tratta contro il Guf, grida che lo storico e glorioso berretto non può essere “relegato in soffitta” come vogliono gli ortodossi,
ma deve vivere in eterno attraverso le generazioni goliardiche che eternamente si rinnovano. Il berretto non viene abolito, non è condannato
a morte, ma peggio... all’ergastolo: esso viene a far parte integrante
della divisa universitaria fascista e non lo si può indossare in borghese.
Così il fatidico berretto che era il simbolo della spensieratezza ventenne, della gioventù irrefrenabile, della libertà di pensiero e d’associazione, diventa l’uniforme della disciplina, della gerarchia, del partito obbligato, dell’unica idea. Ovidio lo relega davvero in soffitta e non lo metterà mai più: anche se volesse metterlo non può perché non è iscritto
al Guf. Così un vecchio soldato come lui è privato della sua bandiera,
è come se si proibisse a un veterano garibaldino di indossare la camicia rossa perché è stata adottata come divisa dei figli della lupa” (p.
183 ms.).
Cavur fu un uomo certamente semplice e sincero, “buono come
il pane” per dirla con chi lo ha conosciuto, capace tuttavia di straordinari
estremismi tanto da farlo ritenere di essere in possesso di una duplice
anima: “Anch’egli come il conte Lallo aveva una doppia personalità!
Quella volgare che lo faceva parlare sboccato, blasfemare, scrivere le
canzoni pornografiche e fare tutti i versacci più brutti e quella sentimentale che lo faceva adorare sua madre, innamorare delle bionde madonnine, piangere al suono dell’inno goliardico e scrivere poesie romantiche” (p. 146 ms.).
La goliardia fu l’amato tarlo di tutta la sua vita, più ancora del
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teatro: “...ma le vecchie abitudini goliardiche sono più forti della serietà
professionale e ogni tanto affiorano come i postumi di un’antica malattia. La goliardia è una malattia incurabile, il bacillo delta beffa è indistruttibile, lo stafilococco della spensieratezza non si uccide nemmeno
colla penicillina” (p. 208 ms.).
Per questo, quando l’amico Michele gli chiese: “Ma allora perché
non ti laurei?” gli rispose con la battuta: “E tu perché non ti fai circoncidere?”
Chiudo facendo mia questa amara, ma rivelatrice, osservazione
del mitico Cavur: “Nell’università si entra da matricole come un leone
e si esce da laureati come un castrato. Meglio quattro anni da leone
che tutta la vita da pecora. Per questo motivo Ovidio prolungò quei
quattro anni fino a venti” (p. 204 ms.).
Ovidio Borgondo è tutto qui. Per questo ho amato, “fino alla tesi”,
se mi si passa una battuta che non vuole essere tale, quest’uomo che
ho avuto la fortuna di incontrare in tracce quasi definitivamente scomparse, ma vive. Spero che un tale patrimonio non vada del tutto perduto, affinché altri possano ritrovare il senso di quell’eterna giovinezza
intelligente, che dovrebbe essere la Goliardia.
Cavur nel trio con Pietro Busca e la soubrette Dea Lolette (1930-42).
Collaborarono, come maestri e coreografi, alle riviste goliardiche.
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CAVOUR
VENT’ANNI DI GOLIARDIA
Chiassate, veglioni, scioperi, beffe,
recite, crociere, esami, ecc.
Indice dell’autobiografia
Foglio di servizio goliardico
I.
Un papiro originale
II.
Il battesimo del fuoco
III.
Faseolus foetentissimus
IV.
Laureando
V.
Il profumiere
VI.
Il macchiettista
VII.
La vita riprende
VIII.
La nave ammiraglia
IX.
Si salpa
X.
Sette mesi sopra una pedana
XI.
Il jazz di pernacchi
XII.
Il caffè goliardico
XIII.
Padova città goliardissima
XIV.
Crociere
XV.
Goliardi dell’altro mondo
XVI.
Anni senza storia
XVII. Si ricomincia: di nuovo matricola
XVIII. Anziano
XIX.
La laurea
XX.
La seconda laurea
XXI.
Si parte per la terza laurea
Epilogo
18
20
28
35
59
72
81
84
94
121
138
163
185
196
214
227
251
261
273
284
292
296
299
FOGLIO DI SERVIZIO GOLIARDICO
Asilo infantile italiano
2
Scuola elementare argentina
1
Scuola elementare tedesca
4
Scuola media svizzera
1
Ginnasio
5
Liceo
5
Università:
Scienze commerciali
17
Legge
3
Scienze politiche
1
_________________________________________________
Totale anni universitari
21
Totale anni scolastici
Inizio 1902 – Fine 1941
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Avrei perciò dovuto intitolare
“Ventun anni di goliardia”,
ma i numeri storici
sono sempre rotondi:
“I 300 delle Termopili”,
“I 1000 di Garibaldi”,
“La guerra dei 100 anni”.
Ci rimetto un anno di università...
ma passo alla storia!
Ovidio Borgondo Cavur
(Buenos Aires 1899-1961)
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Capo I
UN PAPIRO ORIGINALE
Ottobre Novembre 1921
"Ed ora passiamo alla firma!” disse Giorgio colla serietà d’un ministro che si rivolga al suo sottosegretario. Gli anziani e i laureandi sbarazzarono la tavola della bettola dei fiaschi e delle bottiglie vuote, afferrarono i due matricolini e li coricarono bocconi. “Giù i pantaloni!”
continuò Giorgio che, essendo fuori corso, aveva preso il comando della
brigata. Gli avventori della bettola incominciarono a guardare incuriositi, ma gli studenti fecero una siepe umana attorno alla tavola per impedire che sguardi di non iniziati profanassero il loro rito misterioso.
Giorgio estrasse la stilografica e per primo mise la propria firma su... le
retrovie delle matricole, poi passò la penna a un laureando e così di
seguito, per ordine di anzianità, tutti firmarono. Finita la severa cerimonia si potevano ammirare due... lapidi marmoree coperte di firme. Giorgio ammirò compiaciuto il proprio capolavoro. “Guardate - esclamò –
non vi ricordano quei monumenti nei giardini pubblici sui quali tutti gli
innamorati scrivono i propri nomi?” Tutti risero fragorosamente, le matricole furono alfine mollate e si rialzarono. Uno era tutto confuso, l’altro arrabbiatissimo. “E ricordatevi – disse loro Giorgio in tono apocalittico – mementote foetentissimae matriculae che il papiro deve essere
esibito ad ogni richiesta degli anziani.” “Sono curioso di vedere –
esclamò un laureando – come faranno a esibire le nostre firme di giorno
per la strada.” Un’altra risata generale accolse questa osservazione. Poi
ripresero i canti goliardici. “Non c’è più da bere!” esclamarono parecchie voci. “Pagate ancora un fiasco” ordinò Giorgio alle matricole.
“Non abbiamo più un soldo!” “Perquisiteli!” Parecchie mani frugarono
le tasche dei due matricolini. “Cosa avete trovato?” “Le chiavi, il fazzoletto.” “I portafogli e i portamonete sono purtroppo vuoti!” “Allora –
disse Giorgio – visto che non c’è più da bere, possiamo andare.” Tutti
si alzarono e, intonando il coro “e sempre sia lodato quel fesso che ha
pagato”, si avviarono verso l’uscita. Solo Ovidio indugiò ancora un
poco a indossare il suo vasto mantello e il cappellaccio a larghissime
falde e a pettinarsi la barba. Quando vide che tutti erano usciti, cacciò
una mano sotto la tavola, ne tirò fuori un fiasco pieno e, nascostolo sotto
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Capo VI
IL MACCHIETTISTA
Ottobre 1924
Stava per iniziare il nuovo anno scolastico. Gli studenti non calcolano il tempo in anni solari ma in anni scolastici e a novembre dicono:
“L’anno scorso” parlando del mese di luglio. Del resto mi pare più logico parlare cosi, dato che sono passati quattro mesi di vacanze nei quali
non ci si è più visti, che non dire, a mezzanotte e un minuto del 31 dicembre “l’anno scorso” riferendosi a due minuti prima.
Dunque eravamo in ottobre e Ovidio, stanco del suo diuturno
peregrinare da una profumeria a una merceria, decise di cambiare mestiere attuando il sogno che egli perseguiva da dodici anni: fare il comico nei teatri di varietà. Da quando, a quattordici anni, aveva incominciato a frequentare il varietà Maffei, si era messo in mente di fare
il macchiettista e nulla l’aveva più distolto da quell’idea fissa. Andò a
offrirsi in un locale di infimo ordine ma centralissimo, dove facevano
il loro esordio tutti i cosiddetti “artisti” della città. Il proprietario subodorò subito l’affare. Conosciuto come era nell’ambiente goliardico,
e per riflesso anche nella cittadinanza, non poteva mancare di procurare delle piene al suo locale. Lo scritturò senz’altro a lire venti giornaliere: vi erano tre spettacoli al giorno e cinque alla domenica! “Che
nome d’arte devo prendere?” chiese Ovidio all’impresario. “Come,
che nome? Ma se l’hai già: Cavour. Io ti scritturo solo se conservi
questo nome.” E così fu che l’onorato nome del grande statista divenne sinonimo di pagliaccio di caffè concerto. “Meno male, pensava
Ovidio, che Cavour non ha dei discendenti diretti che portino ancora
questo nome, se no chissà che querela!”
Novembre Dicembre 1924
Quindici giorni di tirocinio e poi partenza. Trieste, Venezia, Verona. Ma Ovidio si accorge che non può vivere lontano dalla sua Torino,
dal suo ambiente goliardico, dai suoi amici. Ah! Quel mezzogiorno di
Natale sul molo di Trieste, lo sguardo smarrito nell’infinito mare, nella
mente la visione della tavola familiare cogli agnolotti fumanti e sul buffet
il grande panettone e le bottiglie di stravecchio, e uno stringimento al
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cuore, una nostalgia infinita che faceva groppo alla gola, un desiderio
immenso della mamma, delle sue carezze buone! Come ci si sente soli a
Natale quando si è lontani dalla famiglia!
A carnevale Ovidio non resistette più e tornò alla sua Torino.
Come si fa a passare il carnevale lontano da Torino? Per prima cosa,
giunto a casa, si comperò un berretto goliardico. In cinque anni di università non aveva mai avuto quindici lire disponibili per farsi quel regalo. Berretto goliardico, simbolo di giovinezza, insegna degli studenti,
sacro vessillo dei goliardi, scrigno d’indimenticabili ricordi! Il primo
amore vi ricama sopra il suo nome, ogni riga sull’ala racchiude un anno
di felicità, ogni macchia ricorda un’ora di spensieratezza. Giovinezza
che non ritorna più. Riposa vecchio berretto, compagno caro delle ore
più belle, un giorno mio figlio ti riporterà alla luce e rivivrai con lui una
nuova giovinezza.
Torino! Carnevale! Si riprendono i veglioni, le sbronze, le corse
pazze in via Po, si circondano le ragazze e sotto a chi tocca, assalto alle
giostre, in piazza Vittorio, nessuno vuole pagare, le giostre non girano
più, concordato con gli studenti: dalle 14 alle 15 di tutti i giorni feriali le
giostre, le altalene, i taboga, funzioneranno gratis per gli studenti purché
non rompano più le scatole nelle altre ore, stelle filanti, coriandoli, trombette, sirene, altoparlanti, gioventù, pazzia, “di canti di gioia, di canti
d’amore”, gioia di vivere, baci di passaggio alle sartine, cori a squarciagola “noi siamo le colonne”, mille luci, reclame luminose, ruote incandescenti che girano, kermes, luna-park, mazzetti di violette lanciati dalle
belle signore in vettura ai giovani più gagliardi, non vogliamo caramelle
e cioccolatini, le vecchie signore li accontentano, la vita è bella, vieni
biondina lasciati baciare, discesa a precipizio sul carrello dell’otto volante, stringiti a me ecco baciami mentre cadiamo nell’abisso, avanti signori venghino venghino, la donna cannone, taracin cincin musica maestro, pam pam di tiri a segno, ruggiti di leoni dal serraglio, òpla òpla crac
crac frrr ssss patatrac stp ... basta Marinetti per pietà!
Eppure ci volevano un po’ di parole in libertà alla futurista per
dare una pallida idea non solo della kermes carnevalesca ma delle miriadi di sensazioni che i giovani provano in quella bolgia dantesca.
Qui si cambia la divisa di Ovidio. In primavera posò il mantello e
il cappellone da bohémien e si fece confezionare un enorme cappello alla
Tom-Mix, una camicia a quadrettoni, un fazzoletto a tinte vive al collo,
82
un metro, coi suoi settant’anni, che non si lascia spaventare per niente
da quell’Ursus baffuto e nemmeno dalla sua divisa, né dalla autorità che
gliene proviene. Perché il maresciallo, non potendosi più sfogare col
“delinquente” sfuggito alle sue grinfie, si rivolse contro quella povera
donnetta... “Dov’è suo figlio?” “Non ne ho la minima idea” rispose lei
con un sorriso. “E questa cartolina dalla Francia cosa vuol dire?” “Probabilmente vuol dire che è in Francia.” “E come ha fatto ad andare
all’estero?” “Semplicissimo, basta passare la frontiera e ci si ritrova automaticamente all’estero.” “Ma il passaporto chi gliel’ha dato?” “Certamente qualche impiegato incaricato di rilasciare i passaporti.” “Basta!
Mi dia una sua fotografia.” “Non ne ho.” “Vorrà farmi credere che una
mamma non ha nemmeno una fotografia di suo figlio!” “Ah sì, ora mi
ricordo, ne ho ancora una se le serve...!” e gli consegnò una fotografia
di Mondino tutto nudo all’età di... sei mesi.
116
Fra Gonne e Colonne
Questa rivista, premiata al concorso indetto dal G.U.F. di Torino, fu
rappresentata per la prima volta il 20 marzo 1928, al teatro «Odeon»
di Torino
ELENCO ARTISTICO PER ORDINE ALFABETICO
FERRERO MARGHERITA (La Madonnina degli Sleepings).
BERTOLE' (Uno studente – un pettegolo).
BOBBIO ANTONIO (L'orologio – la Diva di Hollywood).
CAVOUR (Il poeta bambino – il letterato – lo Studente campagnolo –
il divo dello schermo).
CELORIA ADRIANO (Un vecchio – lo chauffeur).
DE BENEDETTI ENZO (Un vecchio – Mario di «Addio Giovinezza» –
lo studente Americano – Riberi).
DE SAN ROSAL AUGUSTO (Mario).
FALDA G. (Gustin – la mondana – il pianista – il barman).
FASSONE A. (Boncompagni).
117
gloriosa nave e si ritira in Lucania a fare il medico condotto in qualche
paesino di montagna. L’ammiraglio resta privato del suo braccio destro,
è il primo amico che lo abbandona ed egli si sente uno stringimento al
cuore: è un po’ di giovinezza che se ne va. Addio vecchio Michele,
compagno di spensieratezza, caro amico degli anni più belli, addio veglioni, allegria, canti di gioia, addio scioperi, dimostrazioni, lezioni marinate, addio gite al monte, orologi impegnati, vaglia di papà, bolletta
quotidiana, addio cagnare in trattoria, chiassate notturne, beffe goliardiche, e addio voi pure terribili esami, spauracchio biannuale, dolcissima tortura: snervante preparazione, incubo dell’attesa e sollievo indicibile della liberazione, addio piccole sartine sentimentali, languidis
sime serate al Valentino al chiar di luna mentre un olezzo di primavera
scendeva nell’anima e la fantasia lanciava i sogni in volo verso
l’infinito,
addio felicità
dei vent’ anni,
entusiasmi
giovanili,
sogni di poeta,
addio
giovinezza!
Torino
Feriae
Matricolarum
1924
Archivio
Marco Albera
194
Don Rodrigo
(sull’aria di ‘Ludovico‘ di Mascheroni)
Aveva una mania,
don Rodrigo,
d’essere amigo
di ogni intrigo
Per questo lo chiamava
impertinente
immantinente
tutta la gente.
Vedeva – putacaso –
due morosi?
Lui non voleva rivederli sposi
e scomodava un povero
curato
l’Innominato
ed altri ancor:
Lui si chiamava Renzo
Tramaglino,
cervello fino
di contadino.
Invece lei, un fior di verginella,
leggiadra e bella,
Lucia Mondella.
Sognava lei di averne una
nidiata
Sognava lui che ognor l’avrebbe
amata…
Ma a monte andò la tenera
promessa
per la scommessa
di don Rodrigo.
Refrain: Don Rodrigo,
sei proprio un vero amigo:
in ogni intrigo
ci sei tu sol
don Rodrigo,
gli amanti ti han nemigo.
Chi se ne briga?
Chi se ne duol?
Lui ti mette, se lo voglio
ipso fatto, in un imbroglio,
Tramaglin, Lucia Mondella,
Don Abbondio e·sua sorella.
Don Rodrigo
sei proprio un vero amigo:
in ogni intrigo
ci sei tu sol.
Refrain
Rodrigo aveva sempre prediletti
questi scherzetti
da cretinetti
Allor facevan tutti arcicontenti
questi innocenti
divertimenti.
Bisogna compatirli: allor non
c’era
nè il foot-ball, nè la radio, nè
Carnera
Al tempo di Don Rodrigo, molto
pochi
erano i giochi
di società.
Refrain
195
Capo XIII
PADOVA CITTA’ GOLIARDISSIMA
Ovidio, per non avere più a che fare con quella triste genia delle
affittacamere, si prende un alloggetto vuoto. Era situato in una vecchissima casa della vecchia via Roma e vi si accedeva attraverso un tetro
portone scurissimo, seguiva un cortiletto buio, poi un altro andito, una
specie di tunnel che sboccava in un secondo cortile e finalmente, al
fondo di questo, trovavi la scala. “Dove vai?” gli chiese qualcuno
quando veniva via dal bar. “Alle grotte. E questo nome si divulgò talmente che Favonio (il quale, come abbiamo visto, aveva il cervello rovesciato) viaggiando nel Veneto e vedendo la reclame lungo la strada
ferrata “Visitate le grotte di Postumia” esclamò distratto: “Come? Lo
sanno già anche qui?” Tutti gli amici sbronzi che passavano per quella
via centralissima sentivano il bisogno (il non farlo sarebbe stato mancare al proprio dovere) di salire a rendere omaggio al vecchio goliardo
nelle ore più impensate della notte. Il portone era sempre spalancato.
Ovidio aveva imbottito di stracci il campanello a cordone, ma quei mascalzoni bussavano strepitosamente alla porta e, se nessuno rispondeva,
scendevano in cortile a urlare “Cavour” e lanciare sassi contro le finestre, finché Ovidio, per non mettere in rivoluzione tutta la casa, era costretto a riceverli. C’era poi Carlo (il quale vestiva come Ovidio: mantello e cappellone nero, pantaloni coi tiranti sotto le scarpe e un barbone
in pieno) che viaggiava coi grimaldelli in tasca. Quante notti Ovidio,
svegliandosi di soprassalto per la luce che si accendeva, si trovava in
camera Carlo, il figlio del generale, i figli del capostazione di Crescentino, i quattro inseparabili delle sbornie notturne. “Dacci da bere!” gli
intimavano. “Non ne ho.” “Allora dacci dei soldi per andare a bere.” E
bisognava accontentarli, se no non c’era verso di liberarsene. Ovidio
aveva provato a lasciare la chiave nella toppa perché non potessero
usare il grimaldello: peggio che andare di notte! Gli avevano sfondato
la porta a spallate. Se poi non avevano più sete, dicevano: “Dacci da
dormire” e senza aspettare la risposta, si schiaffavano nel letto, sul sofà,
sulle poltrone. E fossero stati questi quattro i soli invasori del palazzo
Cavouriano! Tutti gli amici che dimenticavano le chiavi, o quelli che
perdevano l’ultimo tram, tutti gli antichi compagni di passaggio per
196
contava una barzelletta stupida e nessuno rideva? “4 Novembre” esclamava qualcuno come per dire che era finita. Per ordinare una nuova
bottiglia si faceva vedere quella vuota alla cameriera dicendole: “Caracalla, 4 Novembre!” e costei chiedeva: “24 Maggio?” come per dire: ne
volete un’altra? “No, 12 Maggio” ossia mezza bottiglia.
27 Gennaio 1932
Una nuova rivista goliardica e questa volta Ovidio ne è l’autore.
Nelle precedenti si era accontentato di arrangiarsi le sue parti o
magari di scriverle, ma questa volta scrive il copione con altri studenti.
La intitolano “Va all’inferno!” e tappezzano la città di manifestini con
queste sole tre parole, senza spiegare cosa significhino. I negozianti si
trovano appiccicate sulle vetrine queste invettive e non sanno spiegarsi
perché li mandino al diavolo, e il mistero perdura finché non compaiono
i manifesti teatrali. Lo spunto della rivista parte dal famoso bar goliardico. Due studenti arrivano all’inferno e a Satana che chiede loro “Cosa
venite a fare qui?” rispondono: “Ma... tutti i giorni stavamo davanti al
nostro bar e la gente che passava ci ripeteva: andate all’inferno, ma andate all’inferno una buona volta! Ce lo stamparono perfino sui giornali,
ce lo intimarono le guardie, e noi ci siamo venuti.” E in questo modo
lanciarono la prima frecciata contro i loro nemici. Poiché la scena avveniva all’inferno, non poteva mancarci Dante ed i suoi personaggi più
salienti, e Ovidio si sfogò con parodie dantesche per le quali aveva un
vero debole.
Sono Caronte dagli occhi di bragia
e sono bianco per antico pelo,
e una dama ai miei piedi s’adagia
più non mi scaldo ma resto di gelo.
Il Conte Ugolino, divenuto vegetariano, si presenta a Satana a
chiedere un cambiamento di vitto.
La bocca sollevò dal fiero pasto
con rabbia, poi sputando via i capelli,
quel cranio è vecchio ormai e sa di guasto.
198
“Amore di Studente”, canzone tango (parole di Beccaria (Paulbeck),
Laguzzi (Jack) e musica di Norberto Caviglia) fu il pezzo musicale di
maggior successo della rivista “Va' all'Inferno!", andata in scena
al teatro Balbo il 1° gennaio 1932; primo testo scritto da Cavur.
199
Deh, senti o re, perché mi rinnovelli
ogni dì quel dolor? Ché il ventre geme
mangiando solo e sempre dei cervelli!
Perché non mi prepari qualche seme
con insalata o vermicelli al brodo,
o bagna calda e cardi cotti insieme?
E Satana risponde:
Io non so far cucina in questo modo,
ma se ben vuoi mangiare, caro signore,
va al restaurant goliardo ch’io lodo.
E Ugolino, indignato:
Deh! Cessa o re! Nessun maggior dolore
ché andare al restaurant di goliardia
dove lo tuo appetito non si muore
e dopo il pasto hai più fame di pria!
Al che Satana replica:
Allora via di qui, più non seccare
ed all’albergo diurno va a mangiare.
Poi entra Dante in persona e canta, sul popolare motivo del sor
Capanna:
Oh Beatrice tu mi piaci molto
per le tue belle gambe e il tuo bel volto,
però la cosa che m’è più gradita:
nel mezzo del cammin di nostra vita
E scorti due studenti che visitano l’inferno, si scaglia contro colui
che è matricola perché porta il berretto goliardico sulla punta della testa:
Ahi! ria matricola con quel cappello,
tubino senza forma sulla testa,
non uomo, non goliardo, ma monello!
Perché tu non gli schiacci un po’ la cresta?
Perché lo porti duro e alla carlona
a guisa del cappel del dì di festa?
200
Muovansi la Capraia e la Gorgona
e faccian peso d’esso in sulla coppa
si da donargli forma un po’ più buona.
Cotal mi sembri un burattin di stoppa,
ma fa come gli anzian che dritti e fieri
procedon sempre con lo vento in poppa
e paiono sì al vento esser leggieri.
Ahi! Quanto ahimé qual’è mai cosa dura
veder sì rovinar lo bel cimieri,
e al sol pensarvi provasi paura.
Cappel ch’è sì gentil se un poco pende
lo schiaffi in sullo capo senza cura,
turgido, dritto, e il modo ancor m’offende.
Ma schiaccialo un pochino alli due poli
e ciò vedrai quanto più bel ti rende,
e se non schiacci che schiacciare suoli?
Ma non prendere quell’aria dignitosa
sì come soglion fare li fagiuoli
a guisa di leon quando si posa,
e lacrimar mi fanno tristo e pio
quando disprezzan te, gente orgogliosa.
Degli studenti sei quel ch’ha più brio,
più sono anziani e più diventan fessi,
figurati cotanto lo son io!
Ma calca il berrettin come fan essi,
scaltrisciti un pochino colle tote,
ubbriacati, fuma e fa progressi
mostrando ciò che in camera si puote.
In un’altra scena il cieco Omero, ridottosi a fare il cantante ambulante, spiega l’Iliade al colto e all’inclita coll’aiuto di quadri appesi a
un bastone: “Nel primo quadro si contempla con qual mente Menelao,
essendosi accorto d’essere fatto becco, decidesse di andare a Troia, ecc.
ecc.” il tutto raccontato col più schietto dialetto abbruzzese. E per
201
ritornello canta:
Cantami o diva del pelide Achille
l’ira funesta, l’ira funesta,
cantami o diva del Pelide Achille
l’ira funesta, lo strazio e il dolor.
Virgilio, speaker del varietà dell’inferno, presenta i vari numeri
del programma; Farinata degli Uberti colla sua padella vende la farinata
fra il pubblico, Giulio Cesare racconta le sue avventure galanti a Parigi,
e così avanti di seguito. La scena di maggior successo era quella degli
esami. In tutte le riviste goliardiche vi è una scena di esami. Gli studenti
si sfogano coprendo di ridicolo quell’istituzione che forma il loro martirio, trasformandola in una pagliacciata. Finora avevano svolto le scene
degli esami con domande e risposte cantate con couplets umoristici e
piccanti, ma questa volta la trovata fu più originale: una scena completamente muta nella quale l’unico suono era il pernacchio. Uno studente,
fuori velario, sta leggendo delle dispense a suon di pernacchi. “Cosa
stai facendo?” gli chiede un amico. “Mi preparo per gli esami.” “In questo modo?” “Come? Non lo sai? dato il grande numero di studenti stranieri iscritti nella nostra università, il consiglio dei professori ha deciso
di fare gli esami in questa lingua internazionale.” “Sono curioso di vedere ci andiamo subito!” Si apriva il velario sull’aula degli esami, al
fondo della quale spiccava una ghigliottina (simbolo del martirio). Entravano i professori in toga e stocco, camminando al passo, austeramente, a suon di pernacchi. Si sedevano sincronicamente con un grande
pernacchio, poi uno di essi, scrutando la lista degli esaminandi, chiamava uno studente con un pernacchietto, facendogli il gesto con un dito
come per dirgli: “vieni un po’ qui tu.” Lo studente si avanzava timoroso
a passettini rituali con piccoli pernacchi. Un altro professore lo invitava
a sedere col solito suono e, sempre con questo linguaggio, gli chiedevano il libretto, si scandalizzavano dei suoi voti bassissimi e poi incominciavano l’interrogatorio.
Il libro di testo consisteva nell’elenco degli abbonati al telefono.
Ciò era dovuto a una dimenticanza del trovarobe che alla prima recita
non aveva provveduto un libro, e un professore, non trovando altro, era
andato in scena con quel po’ po’ di volume classico. Il pubblico, vedendo fare le domande sopra quel libro che tutti avevano riconosciuto
202
a dissodare glebe che giammai
saran di loro, a costruire strade
e ponti e case in estere contrade
che forse loro non godranno mai. …
Per questi nostri grandi, oscuri eroi,
quei figli della gran madre italiana
che un grand’amor di madre unisce a noi,
quei contadini, poveri artigiani
che portan le loro braccia di lavoro
a vender nei paesi più lontani,
che portan chiusa in cuor come un tesoro
la nostalgia della patria loro,
l’amor dei paesetti lor montani,
dei rivi che tra sponde in fior sen vanno,
della casetta, della mamma loro
che forse molti più non rivedranno.
Torino Feriae Matricolarum 1924 – Archivio Marco Albera
247
Copertina di Achille Beltrame per
la Domenica del Corriere n. 19 (13 maggio 1934)
“Festa della Gioventù – Littoriali dello sport”
248
La crociera dei GUF in America
di Carlo Filogamo
Nell’estate del 1934, avendo vinto il campionato nazionale universitario di sciabola ai Littoriali di Milano (l’anno prima a Torino vinsi quelli
a squadre della stessa arma), fui chiamato a partecipare (come tutti i
Littori) alla crociera dei Guf negli Stati Uniti, versando la cifra ridotta L.
500, di molto inferiore a quella pagata dagli iscritti volontari. In totale eravamo circa 300 .... “giovani e forti”. Il gruppo torinese era guidato dal
benamato Pallotta, mentre il comando generale venne affidato al Console Poli. Il viaggio, in partenza da Napoli con la M/n Saturnia, toccando
Algeri, Lisbona, Le Azzorre, sbarco e New York e successivo tour in bus
di 4.000 km. (Pittsburg, Cleveland, Washington, Chicago (Cascate Niagara), ritorno passando da Buffalo, Detroit, ecc, con visita a varie Università (Columbia, Yale, ecc.).
A scelta ci si poteva fermar a New York, alloggiati all’Hotel Lincoln, anche perché parecchi partecipanti dovevano intervenire ad incontri sportivi. Io ero incluso nella rappresentativa per l’incontro con la
“nazionale” americana alle tre armi, disputatosi al rientro (vittoria italiana nel famoso Athletic Club), così come nel grande Carosello in costume al Madison Square Garden) (io ero uno dei “paggi”).
All’imbarco il Console Blanc (quello di “Giovinezza”) che pativa il
mare si chiuse in cabina e non uscì più, se non per toccare terra. Ad
Algeri la nave doveva ripartire alle ore 16: mi trovavo in un “locale”
francese della Casbah, con altri tre universitari (due torinesi, Campanella e Toesca di Castellazzo, e il marciatore Silvia (mi pare) quando
sentimmo il suono della sirena della nave. Ci precipitammo giù per la
famosa scalinata (più veloci di Jean Gabin in “Pepe le Moko”), ma
giunti sul molo la nave era già salpata. Che fare? Ebbimo la ventura di
trovare un motoscafo, ma in cima alla scaletta della nave ecco il Console Poli, severissimo, il quale ci condannò al ritorno in patria all’arrivo
a Lisbona. Soltanto l’intervento del Console Blanc e soprattutto di Beccali (l’olimpionico di Los Angeles '32), proveniente direttamente da Torino dove si era imposto nei campionatì europei (disputati anche dal
nostro Rabaglino), riuscì a farci commutare la pena nel divieto di scendere nella capitale portoghese.
Allo sbarco a N.Y. vedendo un folto gruppo di ragazze sbracciarsi
in saluti, ci precipitammo in massa verso di loro, rimanendo sbacaliti
249
studiare un sacco di materie che non hanno nessuna utilità pratica (in
veterinaria fanno persino studiare la storia dei ferri da cavallo) e poi non
insegnano i primi elementi delle cose più indispensabili alla propria
professione: un dottore in scienze ·commerciali non sa scrivere una lettera a macchina, un avvocato non sa nemmeno come si comincia una
difesa.
Ma piantala, Ovidio, coi tuoi piagnistei, vorresti mica fare aggiungere delle materie all’università o introdurvi la disciplina delle scuole
medie? Bella figura ci fai come vecchio goliardo! Pensa piuttosto che
tu in quell’anno, avendo tanto tempo libero, appunto in grazia ai regolamenti di cui ora ti lagni, potesti scrivere una nuova rivista. Altro
nuovo collaboratore: Enzo, non il silurista, uno dei tanti frequentatori
del caffè goliardico era ammalato e Ovidio andava a trovarlo tutte le
sere. Una sera gli disse: “Perché non scriviamo una rivista goliardica
invece di passare le serate dicendo delle fregnacce. Scriviamole!” ed
Enzo accettò.
"Giovanotti in aula!” di Arnaldi e Cavur,
23 Febbraio 1939 - 4 dicembre 1939 Teatro Carignano
E così, tra uno scherzo e un altro, ne venne fuori “Giovanotti in
aula” che ottenne un successo strepitoso. Da allora Ovidio abbandona
il teatro di varietà e si dà alle riviste, sia come autore che come attore.
La rivista in parola era la presa in giro della leggenda dell’eredità dello
zio di Ovidio: uno studente, per non perdere il lascito di suo zio, continua a passare da un’università all’altra attraverso i secoli, dall’epoca
della pietra ai giorni nostri. Anche questa volta si sfrutta tutto ciò che si
è imparato a scuola e Ovidio ne approfitta per portare sulla scena le sue
recenti cognizioni di legge. E cosi il pubblico assiste alla lezione di diritto romano, a quella di economia politica, a quella di cultura militare.
I suoi professori vengono allo spettacolo e si divertono nel vedersi parodiati e i colleghi sfottono quelli che sono messi in scena. Ovidio,
preso di nuovo dalla mania drammatica di tutti i comici, vuole ritentare
la declamazione poetica e questa volta lascia il genere romantico per
darsi a quello eroico facendo l’apologia del valore goliardico.
(…)
Più tardi un inno nuovo a un tratto si ode,
riecheggian le canzon della vigilia,
275
ogni goliardo ridiventa un prode
e corre volontario alla frontiera.
Si immola il nostro eroe: Nino Oxilia.
Dolcemente si eleva verso sera
sù dall’acqua un’aureola soave:
luce dei prodi morti in riva al Piave.
(…)
Una sera giunge in teatro e trova una lettera per lui. “Che sia
un’ammiratrice?” – egli pensa – “Alla mia età non è più il caso!” Non
è un’insulsa lettera di un’ammiratrice, è un documento sacro per Ovidio, è uno scritto della sorella di Nino Oxilia che lo ringrazia
“dell’onore reso alla memoria del fratello.” Ovidio, che dall’età di quindici anni ha un vero culto per “Addio Giovinezza” e la stima il capolavoro della goliardia·contemporanea, che ha messo nella sua poesia quel
caro nome simbolo dell’eroismo goliardico della grande guerra, si
esalta leggendo quelle righe e
va in scena in uno stato di sovraeccitazione
spirituale.
Proprio quella sera si dava
uno spettacolo di gala e vi
erano
i
rappresentanti
dell’esercito tedesco in un
palco. No, non allarmatevi,
siamo nell’aprile del 1939
perciò prima della guerra e
specialmente prima dell’8
settembre 1943. Non si tratta
d’uno spettacolo per le forze
armate germaniche e non potete perciò accusare Ovidio di
collaborazione. Tutt’altro,
ascoltate: Ovidio arriva ai soprascritti versi, alza il capo
verso la cupola del teatro e gli
pare di sentire aleggiare
l’anima dell’Eroe e allora,
276
fulminando collo sguardo il palco dei teutoni, declama con tanta foga
“Si immola il nostro eroe: Nino Oxilia” lanciando quel sacro nome
come uno schiaffo, come una sfida, che un applauso di tutto il teatro lo
costringe a interrompere per qualche istante la sua declamazione.
277
278
Elenco Artistico
Cavur – Goliardo – Prof. Economia Politica – Prof. di Diritto Romano
– Poppea – Buffalo Bill.
Rossi – Marzabotto – Messalina – Josephine.
Corti – Isacco – Gheisa – Waschington.
Valletti – Iettatore – Confucio Castruccio – Sergente di ferro.
Gallo – Conferenziere – Giacobbe –Studente – Boccaccio –
1° Gigolò.
Iacolli – Crapulone – Metropolitano – Macchiavelli – Jeckill –
Orfanella.
Orevillo – Zio.
Stuardi – Esau – Studente cinese – Studente fiorentino – Inserviente
– Gigolò.
Brero – Oste – Boxeur – Gigolò – Scocciatore.
Luisi – Segretario – Studente – Sciangai Lil – Scipione – Spadara –
Freed Astaire.
Milone – Generale Jen – Butterfly – Catone – Vecchio studente –
Uguccione.
Fresia – Bidello – 2° Studente cinese – Tam Mix – Gigolò.
Guglielminetti – Cavaliere – Messalina – Taylor – Gigolette.
Guerra – Professore – Studente romano – Studente cinese – Studente fiorentino – Al Capone – Orfanella.
100 Biutiful University Girls 100
Sorelle Primavera
Adattamento musicale del Maestro Palumbo.
Maestra coreografica: Dea Lolette.
Direttore di scena: Pietro Busca.
279
Filastrocca Goliardica
Il buon Dio che ha già creato
Il beone e lo spiantato
Oggi essendo più gagliardo
disse: mo’ ti fo’ il goliardo
Il vermouth deve pigliare
Poi, se può, deve calmare
L’appetito suo gagliardo
Alla mensa del goliardo
Presso un vaso si accostò
Ed a farlo incominciò:
Prese la sete del Dio Bacco
Prese la fregola di un
macacco,
Poi l’ignoranza del somarello
E mise pure un pipistrello
Un portafoglio vuotò e digiuno
In quanto a libri nemmeno uno
Dalle due alle tre
Alla Casa del Caffè
Che servizio deve fare
Discussion, pernacchie, urlare,
Mise del Monte alcune bollette
Marche da bollo e molte
marchette
Galoches di gomma, pompe,
sapone
E mise pure un po’ di cotone.
Mesta, mesta - gira gira
Per tre ore sempre lì
Mesta, mesta - gira gira
E il goliardo fuori uscì.
Ecco fatto qui il goliardo
Perciò addio tranquillità
Rompiscatole, gagliardo
Grida ognor per la città.
In famiglia è ognor bugiardo,
Conta balle a suo papà,
A lezion giunge in ritardo
Anzi meglio non ci va.
Il goliardo amici miei
Ma che vita per gli Dei
Deve alzarsi di buon’ora
Dopo pranzo verso un’ora.
Poi il povero goliardo
Deve andarsene a lezione:
La lezione di bigliardo
Ballo, boxe, rugby, pallone ...
Alla sera poi, che vita!
Di servizio con la «cita»:
Pur se soldi più non ha
Deve portarla al cinema.
Ecco fatto qui il goliardo
Perciò addio tranquillità!
Egli al padre suo vegliardo
Quanti dispiacer non dà!
Mai non studia l’infingardo
E pagar tasse gli fa,
Ma un bel dì che gran ritardo,
Cribbio! e il vaglia di papà?
Ecco fatto qui il goliardo
Perciò addio tranquillità,
Rompiscatole gagliardo,
Grida ognor per la città.
In famiglia ognor bugiardo
Conta balle a suo papà!
A lezion giunge in ritardo
O anzi meglio non ci va.
280
Da “Stampa Sera” del 5 dicembre 1939
CARIGNANO – Felice ritorno della rivista goliardica
Giovanotti in aula
Festoso ritorno ieri sera al Carignano, gremito di spettatori, della
rivista goliardica Giovanotti in aula di Arnaldi e Cavur, che, com’è noto,
riportò, nella passata stagione, allo stesso teatro e anche in provincia,
un successo che possiamo definire, senza tema di esagerare, addirittura clamoroso. Il divertente lavoro, arricchito di quadri d’attualità,
nuovi «fuori velario” e moderne canzoni, è stato ancora una volta assai
gradito dal pubblico che ha potuto nuovamente ammirare la sbrigliata
vivacità del lavoro stesso e la briosa interpretazione da parte della
Compagnia studentesca «Camasio e Oxilia» del G.U.F. torinese.
Ilarità continua hanno suscitato le numerose scene umoristiche
e la comicità di tutti gli improvvisati giovani attori, tra i quali ricordiamo,
al fianco dell’«asso” Cavur, «Lui-Si», Marini, «Orevillo», Guerra, Jacobbi, Corti, Gallo Conio, Loise, Fiore, Zaccagnini, Ubertalli. Particolarmente apprezzato il nuovo quadro di attualità: «Fra le due linee” e il
gruppo degli studenti – ballerine (questa volta molto più numeroso), di
cui otto hanno suscitato un vero entusiasmo col loro caratteristico
«can-can», che, anche nella passata stagione, è stato col trio dei «cantanti negri” tra i numeri d’attrazione più applauditi. Un terzetto d’eccezione, con Omero «rapsodo-cantastorie», è stato quello formato da
Cavur, Fania e il piccolo Luciano Busca, un bambino «scritturato» per
l’occasione, che ha, con la sua vocina, meravigliato il pubblico. Ha diretto con bravura il giovane maestro Palumbo. Serata lietissima, dunque, che, trascorsa tra intermittenti risate e applausi calorosi, avrà stasera la prima replica.
__________
Dal “Giornale di Genova” del 23 dicembre 1939
“Giovanotti in aula” al Teatro Margherita
Il palcoscenico del Teatro Margherita ha ospitato ieri la compagnia studentesca «Camasio e Oxilia» del Guf di Torino: compagnia
specialissima formata di soli uomini, e tutti giovanissimi, e tutti giocondi, e tutti pronti agli estri improvvisi nelle interpretazioni più buffe e
più esilaranti.
281
La compagnia ha presentato Giovanotti in aula, rivista goliardica
dalle intenzioni parodistiche, fornita di tutto quanto è necessario per
conquistare i pubblici più esigenti: quadri coloriti, invenzioni matte,
danze, satirette, cori. Si va dalla storia della bella Elena cantata da
Omero, al duetto di Messalina con Catone, dall’esibizione di un nuovo
Spadaro al girotondo del Can-can.
Il pubblico s’è divertito, ha riso, ha battuto le mani con calore;
molti quadri, molte pantomime. Questa sera lo spettacolo replica.
282
AMORE IN TANDEM
di CALZIA E CAVUR
dalla rivista “Giovanotti in aula”
RITMO ALLEGRO
Quando son triste e solo
col mio pensiero volo
alla bimba dei miei sogni d'or!
Monto su in bicicletta
corro dove m’aspetta
e ansimando canto a lei·così...
RIT. Sul tandem con me
vuoi venire Nenè,
soli soli andrem laggiù!
Laggiù dove c'è
un bel nido per te
che ridente sarà,
nel profumo di rose e lillà!
Ma quale invenzion, tandem!
Ci dà l’emozion, tandem!
Che dolce passion, tandem!
Ed il sogno diventa così realtà!
Sul tandem con me
vuoi venire Nenè
soli andremo laggiù,
dove il cielo è più terso e più blu!
Questa canzone si può anche ascoltare qui.
https://www.youtube.com/watch?v=suFSppnTYQE
283
Capo XIX
LA LAUREA
1939 / 1940
Si va a recitare “Giovanotti in aula” a Genova. Alla prima sera gli
studenti genovesi accolgono con sonori pernacchi e lancio di verdura i
colleghi di Torino. Il Guf dava di questi ordini ed anche peggiori: fece,
per esempio, fischiare “L’Elefante” di Sem Benelli. Malgrado ciò la rivista si replica per varie sere, dopo gli spettacoli, solite sbronze. Ovidio,
arrampicato sul monumento a Garibaldi, fa l’imitazione del Macrobo:
“Tasi, tasi, questo è niente, arrivemo a Trafalgar, salta su Nelson e el
dise: andemo da Napoleon a farsi pagar da ber. Che sbronza putei! Tasi,
tasi, ah!” La vigilia di Natale, in un ritrovo notturno, assistono a una
bella impresa della goliardia genovese: un gagà che faceva lo schizzinoso colla sua amica e che insultò il gruppo di studenti, venne preso,
tenuto fermo e gli vennero distaccati con un temperino tutti i bottoni
della giacca, del gilè e dei pantaloni. Il poveretto dovette andarsene reggendosi i calzoni colle mani.
A Pasqua la vecchia mamma si ammala gravemente. “Proprio ora,
a due mesi dalla laurea! Se mi muore non la prendo più. Me ne frego di
quel pezzo di carta, lo faccio per lei!” Ma una mamma non può dare un
tale dispiacere a un figlio che vive solo più per lei, e fa il miracolo di
guarire. Ella ha ancora un dovere materno da compiere: dare quest’ultima soddisfazione al figlio, permettergli di redimersi ai suoi occhi, concedergli di darle l’estrema e forse unica felicità. Ovidio ringrazia Iddio
per la prima volta in vita sua.
Scoppia la guerra. Nelle università regalano i diciotto e le lauree.
“Che fregata – esclama Ovidio – ho sgobbato per tre anni e ora tutti
crederanno che io mi laurei solo grazie alla guerra!” Aveva sognato per
quel giorno una grande cagnara, l’ultima pazzia goliardica. Aveva
ideato di affittare un somarello che lo attendesse nel cortile dell’università, di fare una cavalcata attraverso le vie centrali con una corona d’alloro sul capo alla moda patavina, seguito da un codazzo di studenti in
berretto goliardico ai quali egli avrebbe pagato (questa volta finalmente
toccava a lui) una solenne sbornia. Ma c’è la guerra, Torino ha già subito il primo bombardamento aereo la notte seguente alla delittuosa
284
“Addio Giovinezza”, l’ideale di Ovidio, ed egli viene assunto come organizzatore del battesimo delle matricole e d’una scena di rivista. “Faccio il consulente goliardico in un film” egli dice a chi gli chiede cosa
sta facendo dopo la laurea. “Ma come? Non pianti il teatro e non ti metti
a fare l’avvocato?” “Eh, no, mio caro. Se i diplomi di laurea fossero
stampati su carta igienica servirebbero a qualche cosa, ma quei fetenti
li fanno su pergamena, capirai...!”
Da “La Stampa” del 19 giugno 1940
Addio, giovinezza!
Cavur si è laureato
Alla verde età di 41 anni (addio, giovinezza!) colui che pareva un
goliardo a vita, Cavur (per l’anagrafe: Ovidio Borgondo) si è laureato.
È entrato nella vita – si dice così agli studenti che diventano dottori –
ieri alle 15,30. E la sua tesi ha avuto per tema «La delinquenza delle
folle». Discolpa? Ricerca di un alibi? Tentativo di generalizzare una
follia strettamente personale?
La laurea è la fine di questo strano e ormai inusitato personaggio,
che ci siamo trovati accanto sui banchi dell’Università, che abbiamo
visto sui palcoscenici in quelle brillanti, divertenti «conferenze» e serate futuriste, anche a fianco di Marinetti, che abbiamo rivisto comico
del varietà e protagonista quasi primo assoluto di tante riviste studentesche.
«È un po’ triste, per me!» ci ha detto in confidenza. Ed era commosso sul serio. Ha preso la laurea per dare una soddisfazione alla
sua vecchia mamma. È un toccante particolare, caro Cavur. Ed è bello
che almeno a 41 anni tu ti sia deciso a coronare i tuoi lunghi e brillanti
anni di studi (17 in Scienze economiche e 3 in Legge) con questa scusante di amor figliale. Ti abbiamo visto nel quadro dei laureandi di
legge e sotto il tuo nome vi era l’indicazione di origine «Argentina».
Tutti hanno riso perché tutti credevano che tu fossi molto più modestamente di Crescentino, il paese natale di tuo padre, un divertente uomo
la cui ricordanza non è peranco morta.
Tutti i torinesi si rammentano le tue stranezze: i tuoi discorsi in
piazza, la tua barba a corona che ti valse il soprannome e che tu dipingevi di verde o a tre colori nelle grandi ricorrenze, il tuo poncho e il tuo
289
cappellaccio, le tue canzoni e le tue sestine scapigliate…
Scapigliato! È un aggettivo che se n’è andato in solaio con tutte
le altre cianfrusaglie, insieme con l’apache, lo scettico blu, l’artista bohème e lo studente alla vecchia maniera. Ecco perché tu hai preso la
laurea.
Aprirai un ufficio legale? Può anche darsi. Un avvocato pazzerellone può trovare tra la folla, così varia e vasta, dei clienti pazzerelloni.
«Vestito della toga e con il tocco in capo andrò con un sacco e
la bilancia (della giustizia) per i cortili, come gli straccivendoli e griderò:
«Avvocato!». Mi chiameranno su per affidarmi le cause perse.»
Sebbene tu concluda la tua lunga vita di studente senza offrire ai
vecchi camerati un pranzo di laurea, grideremo lo stesso: lo studente
Cavur è morto! Viva il dottor Ovidio Borgondo!
a.n.
Il neo-dottore giunge a Crescentino, uscendo trionfante in bombetta dalla
stazione, dove è stato accolto dall’intero paese con la banda musicale.
290
La notte del fatal 11 giugno....
(da cantarsi sull’aria della canzone del Piave)
Torino se ne stava lieta senza un’arma in pugno
la notte del fatal 11 Giugno
La Dicat che ronfava come sempre, quella sera
aveva fatto ciucca di barbera!
E giunsero gli aerei rombanti,
lanciando molti razzi illuminanti
s’udiva allor qual di Dio le trombe
intorno il fragore delle bombe
quando, Torin fu mezzo un cimitero
la Dicat si svegliò: che sia lo straniero?
E dopo un’ora e mezza di fatal bombardamento
la Dicat diè l’allarme in sul momento
Ahi, quanta gente ho visto venir giù
lasciare i letti
e i militi dormire sopra i tetti!
Non c’era in ogni casa alcun rifugio
non c’era in Torino alcun pertugio
e vidi i capocasa per la rabbia
mangiarsi le cassette della sabbia!
e ognun conscio del suo dovere fiero,
tranquillo s’avviò diritto al cimitero!
Mai più tornò il nemico dopo quella notte infame
ma l’Unpa or sfoga tutte le sue brame:
ti obbliga ogni sera a un total oscuramento
e i tram ti fan scintille a cento a cento;
scava trincee profonde 100 metri,
incolla carta igienica sui vetri
di giorno i ‘dehors’ fa costruire
per poi farli levare all’imbrunire
e i Torinesi in quel tormento nero
non fan che esclamar: “È meglio lo stranieroooo!”
Cavur
notte 11 Giugno 1940 ore 23,30 Rifugio! di via Ospedale 57, Torino
Nota: DICAT era la Milizia per la Difesa Antiaerea Territoriale,
mentre UNPA era l’Unione Nazionale Protezione Antiaerea
291
Capo XX
LA SECONDA LAUREA
Ottobre 1940
Ricomincia l’anno scolastico e Ovidio non sa cosa fare. Scrive
delle riviste per una compagnia locale ma ciò gli occupa solo qualche
ora della giornata. Ormai egli si è abituato, da tre anni, ad alzarsi presto
(derogando dai suoi principi di omicidio per le sveglie mattutine), ad
andare a lezione, a frequentare l’ambiente universitario e ciò gli è divenuto indispensabile come il pane quotidiano. Perciò si iscrive in Scienze
Politiche. Bella facoltà questa! Se a legge sono molto pochi coloro che
frequentano le lezioni, qui più di quattro su cinque non si vedono mai.
C’era un professore che, quando trovava tre allievi, era tutto felice e
diceva: “Oggi va bene, siamo in quattro, si può fare una scopa.” Un
giorno capitò ad Ovidio (cosa mai accadutagli in ventun anni di università) di avere una lezione per lui solo. Era solo nell’aula quando entrò il
professore e costui gli disse: “Attendiamo ancora un po’ caso mai arrivasse qualcuno.” E intanto parlarono di riviste, di teatro e di ballerine.
Poi fece una lezioncina di un quarto d’ora e andarono al caffè insieme.
Anche gli amici si sono laureati tutti, ma le vecchie abitudini goliardiche sono più forti della serietà professionale e ogni tanto affiorano
come i postumi di un’antica malattia. La goliardia è una malattia incurabile, il bacillo della beffa è indistruttibile, lo stafilococco della spensieratezza non si uccide nemmeno colla penicillina. Un giorno il conte
Lallo, ormai celebre avvocato, va a trovare il dottor Aldo (l’uomo che
ride). “Il dottore è occupato – gli dice la cameriera – favorisca attendere
in salotto.” E il conte alzando la voce: “Quel bastardo ha dei clienti? E
chi è quel disgraziato che si fa curare da lui?” “Parli piano per l’amor
di Dio, sta visitando una signora!” “Ah, ah! Una signora da quel veterinario? Sarà una vacca!” Il dottor Aldo esce come una furia dallo studio
e corre a tappargli la bocca: “Sei impazzito? Mi rovini i clienti, è la
baronessa di Rubiera!” “Cosa? Va là... sarà una delle tue solite p...”
“Taci imbecille!” e lo afferra per la giacca e sta per sbatterlo fuori di
casa, ma in quel mentre la baronessa mette la testa fuori dal gabinetto
medico e col suo più bel sorriso dice al conte: “Ciao Lallo! Sei già venuto a prendermi?” Era l’amichetta del conte, ed egli, mandandola a
292
“Allora io traduco l’orario delle ferrovie e sono Stephenson!”
Giugno 1942
Ed eccoci alla seconda laurea. Ovidio prende immancabilmente
trenta ad ogni esame, e ciò non perché egli sia un’arca di scienza, ma
unicamente perché fra i tre o quattro allievi che frequentano le lezioni,
egli era sempre presente. Anche questa volta Ovidio fa una tesi di laurea adatta a lui: la formula di Cavour: “Libera Chiesa in libero Stato”.
Dopo ventun anni che ne sfruttava il nome, questo studio dedicato al
suo grande omonimo era l’adempimento di un dovere. E anche questa
volta i quotidiani dedicano degli articoli alla sua laurea: “La seconda
laurea di Cavour” e pubblicano le fotografie del neo-avvocato nel suo
studio legale sul mercato di Crescentino. Per rendere omaggio al suo
illustre predecessore Ovidio prende i pieni voti assoluti e la mamma è
più felice di questa seconda laurea di quel che
lo fosse della prima. E
infatti questa laurea, al
contrario della prima,
servì moltissimo a Ovidio: dopo la guerra egli
trovò un suo ex professore e gli chiese: “Dove
fate le lezioni ora che
l’università è tutta sinistrata?” “In nessun posto perché la facoltà di
scienze politiche è stata
abolita.” “Allora io ho
preso una laurea per
niente?” “No, no, le
serve – rispose ridendo
il professore – può farsi
stampare il titolo sui biglietti da visita, le prendono solo qualche lira in
più!”
295
Capo XXI
SI PARTE PER LA TERZA LAUREA
Ottobre 1942
Ed ora, in che facoltà iscriversi? Giacché ci siamo, prendiamo la
più lunga: medicina. Era sempre stato il suo sogno, ma ai ventidue anni,
quando voleva iscriversi, suo padre gli aveva obbiettato: “Sei troppo
vecchio per una facoltà così lunga.” Ora che ne aveva quarantatre poteva ben iniziarla, la vita comincia a quarant’anni, egli era un puttino
treenne. Va a scuola il primo giorno. Gli anziani, secondo la vecchia
tradizione di medicina, attendono le matricole all’uscita, fanno loro le
così dette onde e poi le costringono a passare lungo due ali di popolo
che dà loro degli scapaccioni, delle manate sulla schiena e dei calcioni.
Ovidio, essendo matricola, non si salva dalle forche caudine e deve fare
la sua brava corsa fra le due file. La stessa sera va a trovare il dottor
Aldo per raccontargli le impressioni del suo “primo” giorno di scuola.
Aldo quella sera è di guardia come medico della mutua e non può uscire
e Ovidio resta in casa con lui ad alleviargli un po’ la barba del servizio.
Verso mezzanotte squilla il telefono. “Ci siamo” dice Aldo “Qualche
rompiscatole che chiama il medico a quest’ora!” Infatti è una chiamata
urgente. Aldo smoccola mentre telefona in questura per chiedere un taxi
(eravamo in tempo di guerra). “Quei lazzaroni chiamano il dottore a
qualunque ora di notte solo perché non lo pagano!” “Ma sarà un malato
grave se non addirittura qualcuno colpito da improvviso malore” cerca
di calmarlo Ovidio. “Sì, stai fresco! Vieni con me e vedrai!” Arriva il
taxi, partono. Giunti a destinazione Ovidio chiede: “Vengo sopra
anch’io?” “Si capisce.” “Ma come giustifico la mia presenza? “Fa il
dottore, sei o non sei studente in medicina?” Ovidio entra nell’alloggio
un po’ impressionato, si prepara la triste scena di un ottuagenario moribondo se non già cadavere. Si tratta invece di una bambina. “Che cosa
ha?” chiede Aldo con un tono che significa “So già che non ha niente e
che mi avete chiamato per un po’ di pancia.” “È caduta e si è fatta male”
sospira la mamma tutta affannata. “Quando è caduta?” “L’altro ieri.”
Allora Aldo non si frena più: “E per una bambina che è scivolata voi
chiamate il dottore due giorni dopo, di notte, come se si trattasse di un
caso gravissimo? E fate correre un’automobile della questura? Io vi
296
EPILOGO
Novembre 1942: bombardamenti terroristici. Ovidio ripara con la
sposa nella vecchia casa materna di Crescentino. È finita: non più università, non più teatro, non più Torino, addio goliardia! Relegato in un
paese, ammogliato, lontano dall’ambiente goliardico e dall’ebrezza
della ribalta è proprio “Addio giovinezza.”
Ma un lieto evento viene a ridestare nel suo vecchio cuore sentimentale le più belle speranze. È un maschietto, sarà un goliardo anche
lui! Egli rivivrà nelle imprese goliardiche del figlio la sua giovinezza.
Ma vent’anni d’attesa sono troppo lunghi per la sua impazienza ed egli
fa confezionare dalla giovine mammina un minuscolo berrettino goliardico, lo mette sul capino del pargolo, tira fuori dal reliquario il glorioso
berretto dalle venti e una riga, se lo mette in testa e, preso il bimbo in
braccio, si fa fotografare. Poi scrive sulla foto questo vaticinio:
“... Deh! Fate
che il veggendo tornar dalli veglioni,
di sbronze onusto per lo vin scroccato,
dica ognun: – Non fu sì goliardo il padre! –
E il cor paterno nell’udirlo esulti".
La Prima Comunione di Cavur, fatta per sposarsi in chiesa!
299
Isolina Marzabotto
Son l’Isolina Marzabott
Che fu costretta a far fagott
Finalmente son contenta, giovane
figlia,
Di lasciar questa semitica famiglia.
Son l’Isolina Marzabott
E lieta di far fagott.
Ora vado al Sindacat
Che già il posto mi ha trovat
L'ebreo saluterò
E me ne vo!
E me ne vo!
Per la barba di Mosè
Deh! ritorna ancor da me!
Ebreo, ebreo
Ma levati dai piè!
Dimmi allora ahimè, ahimè!
Come faccio senza te !
Ebreo, ebreo !
Arrangiati da te!
Cavur travestito da ebreo nello
sketch ‘Isolina Marzabotto’ di
“Giovanotti in aula!”
300
Appendice Biografica.
Conclusione.
Come si è visto il memoriale si ferma al novembre del 1943 e
tocca ora a me scrivere, in conclusione, l’ultimo capitolo della straordinaria avventura di Ovidio-Cavur, con l’aiuto delle lettere agli amici che
qui pubblico e attraverso il ricordo dell’ultimo dei suoi collaboratori teatrali, Gastone Jacobbi.
Si è rintracciata la documentazione relativa alla creazione della
Compagnia STOR (Spettacoli Teatrali Operette Riviste) nel febbraio
1942 presso il Politeama Chiarella. Fu l’ultimo, estremo tentativo di fare
teatro in una città spopolata da drammatiche distruzioni e relativi “sfollamenti.” Nell’elenco dei partecipanti all’attività, oltre agli amici e fedelissimi coautori Aldo Luino ed Enzo Arnaldi, entrambi con la qualifica di
direttori artistici, ritroviamo due seri professionisti del teatro piemontese: Angelo Alessio, attore celebrato con Casaleggio e severo direttore artistico, e Mario Ferrero, attore comico di avanspettacolo. Pietro
Busca, che aveva da poco perduto la consorte Dea Lolette, era il direttore di Compagnia. Un programma forse troppo ottimista prevedeva la
messa in scena di ben quattro riviste. Enzo Arnaldi (allora giornalista
alla Gazzetta del Popolo) e Cavur sono indicati nei patti come autori di
“Attenti al contatore” e “Mi hanno rubato la tessera!”, come pure della
versione ulteriore di “Giovanotti in aula”, il loro più grande successo,
che diveniva per l’occasione “Giovanette in aula!” Il quarto titolo “I pirati
della Magnesia” è il repêchage di un classico del grande Ripp, pseudonimo dell’avvocato Luigi Miaglia. Ma i tempi non sono i più favorevoli
e già nell’aprile, con il ritiro di Emilio Ollivero (l’epico zio del lascito leggendario di “Meglio un asino vivo") il bel progetto si smonta. È così che
Cavur ci saluta da Crescentino con la consolazione del figlio Glauco,
nato nel 1943, ma con la sensazione della fine di un mondo.
Così non era. Con la fine della guerra, pur nella desolante cornice di tante macerie spirituali e materiali, la gioia di vivere e di divertirsi
riesplode a Torino in modo straordinario. E nulla può fermare i goliardi,
i quali, Cavur in testa, appena dopo l’inaugurazione dell’anno accademico 1945/46 ritornano sulla scena torinese con una nuova rivista: “lo?
... Mai stato!” L’allusione del titolo rivela scopertamente l’occasione,
che i goliardi non vogliono perdere, di mettere alla berlina i nuovi conduttori del vapore, fra i quali colpiscono con verve la faccia di bronzo
dei voltagabbana di sempre. Un bersaglio facile, ma pericoloso. Già
301
contro con la vecchia guardia teatral-goliardica di anteguerra, come
appare dalla bella foto ricordo che qui si pubblica. Sono con lui tutti i
superstiti del mondo eroico della rivista degli studenti.
Ma si era veramente alla fine. Dalla lontananza solo più un’ultima
notizia, temuta ed attesa, quella della morte.
La Rivista degli Studenti, nell’aprile del 1962, saluta la triste fine
di Cavur, ricordando, con sincera giustizia, il campione di quella gioventù scapigliata, ma libera, che “pur avendo l’obbligo di portare la
camicia di un determinato colore, ne portava una che idealmente colore non aveva.”
Ovidio morì per un banale incidente il 22 ottobre del 1961 a Villa
Devota, un sobborgo di Buenos Aires, travolto da un convoglio ferroviario del Ferrocarril General Urquiza al passaggio a livello di Calle
Fernadez de Enciso, alle sette di sera.
Una solitaria, malinconica uscita di scena, della quale gli amici
seppero solo dopo qualche mese, nella solitudine disperata dell’emigrante che Cavur aveva ben descritto in “Professorello bischero”.
Torino, autunno 1947: con gli amici dell'avventura della Compagnia Camasio-Oxilia, mentre li saluta prima di partire per l’Argentina.
304
Professorello Bischero
(sull’aria di “Signorinella pallida...”)
Professorello bischero / che dai ripetizioni di latino,
ti devi alfin studiare la grammatica
che non hai mai studiato da bambino;
e Fedro e Giulio Cesare
che trascurasti nell’adolescenza,
Lupus et agnum e il De bello Gallico
or devi ritradurti con pazienza.
Che belle cose / dovere ristudiare: rosa, rosae,
fero, fers, tuli, latum, hic, haec, hoc
son cose che quand’hai un ... mezzo secolo
ti fan venir … fabioc …
Bei tempi di baldorie / spensieratezza eterna di studente,
riviste, amori e i bei veglion goliardici
il cuor pieno di sogni e in tasca niente.
Gli amici miei passavano
e colla laurea se ne andavan via
avevo un nome ed ora sono un bischero
un nome troppo breve: “GOLIARDIA/!”
Il mio bambino / in una mia pagella di latino
ha trovato, indovina, un zero e un tre;
perché chinai il viso colorendomi?
Chissà, chissà perché.
E i giorni e i mesi passano / e ti tortura atroce nostalgia,
sono esiliato qui nel Sud America
addio vent’anni miei di goliardia!
Fui per vent’anni il simbolo
del buon umor, ribelle, strafottente,
or qui son diventato, ahime! un pedagogo
di quei che ho odiato tanto da studente.
Tanto lontana / mi sei Torino mia, chimera vana,
vò tornare che non resisto più;
e lacrimo, vedessi come lacrimo,
addio gioventù!
Buenos Ayres 8 Luglio 1949
305
Epistolario
Buenos Aires -12 Dicembre 48
Caro Giovanni,
A quest’ora avrai già ricevuto la mia del 15 settembre e la poesia
“Ei fu” che ti spedii il 4 ottobre. Avete sentito radio Torino parlare di me
per l’inaugurazione dell’anno accademico? Mi trascrisse mio suocero
ciò che trasmisero.
Non ho nulla di nuovo da raccontarti tranne i miei auguri di buon
Natale e Capodanno a te e alla tua cara mamma. Un salutone goliardico a tutti gli studenti papetensi.
tuo Cavur
––––– o –––––
Buenos Aires, 25/7/1949
Caro cugino bastardo – una notizia sensazionale, piramidale,
Everestale (?) !! La notizia più sensazionale da quando sono in Sud
America, anzi la notizia più grande della mia vita, sai cosa sto facendo?
Il professore!!! Ma questo, benché sia già una cosa da far morire di un
colpo apoplettico, è ancora nulla. Indovina che materia insegno? Pensaci un momento, la più impossibile per me… Ecco sì, hai indovinato.
E cumme hai fatto a induvinà? Latino!!! Cosas de America! Bisognava
proprio venire qui per vedere Cavur, l’eterno goliardo, il nemico per
casta dei professori, fare l’insegnante, e inoltre l’ex alunno Borgondo
che di latino prese sempre zero, uno, due e, al massimo massimo,
nelle feste nazionali, cinque, vederlo dico impartire lezioni di lingua
morta. Ti autorizzo, anzi, ti ordino (e gli ordini si eseguiscono e non si
discutono) di spargere questa notizia ai quattro venti. Raduna tutti in
piazza, fa suonare le trombe, il campanone che suonò nella notte fatidica della rivolta coi ... (RISCHESI), e distribuisci a 10, 100 banditori
una copia del bando perché lo leggano ad alta voce. Poi dirama telegrammi a tutti i giornali d’Italia perché escano in edizioni straordinarie
e radiotelegrammi a tutte le agenzie pubblicitarie di tutto il mondo.
E non credere che insegni “rosa-rosae” a un bambino che inizia
la ginnasiale. Mancu pu cazzu!! In primo luogo è una allieva e ha 13
anni, poi la preparo per l’ammissione alla 4a ginnasio e ... non basta,
306
Ossequi alla Luino Madre, baci a Giannina, pernacchi a Mario, saluti a tutti da Piera e Glauco e tu “carrettiere” senz’altro non scrivermi.
Uh! Suonano nel foié!
Ciao
Cavur
(mon Dieu c’est lui!)
––––– o –––––
7/8/55
Miei cari,
rispondo subito alla vostra del 2/6/54 ossia un anno e due mesi
dopo. Cosa volete si rimanda sempre da un giorno all’altro e così passano i mesi. È così che la Carolina non ha ancora risposto alla mia di
Pasqua del ‘54 e Boggione alla mia dell’Agosto ‘54. Diteglielo pure a
tutti due. Boggione mi aveva promesso delle foto di Crescentino
d’estate, ma mi ha solo mandato i panorami d’inverno. Nostre novità
da allora nessuna, continuo sempre nello stesso impiego, stiamo tutti
bene, Glauco va bene a scuola. Abbiamo avuto in Buenos Aires, come
avrete letto sui giornali, una rivoluzione il 16 Giugno con bombardamento aereo sulla casa del Governo e parecchi morti. A noi non è capitato niente, abitiamo lontano dal centro e non abbiamo sentito nulla,
si vedevano solo passare gli aerei. Cosa ne hanno detto costi di questa
rivoluzione? Ditemene qualche cosa.
Siamo contenti che abbiate trovato un bel alloggio moderno
come ci scrivete nell’ultima vostra ma non capisco dove sia situata
questa casa nuova. Hanno buttato giù la casa dove prima c’era un albergo e poi un negozio di ferramenta? Vi ringrazio per tutte le belle
notizie di Crescentino, sicché ora avete l’acqua potabile; il gas (arriva
con tubi da un gasometro·o ve lo forniscono in cilindri chiusi?). E tu
Giovanni nessuna novità alla vista, nessun erede? E quella rappresentanza di prodotti medicinali di Vicenza l’hai poi presa? Ho una notizia
goliardica da darti. L’anno scorso ricevetti un telegramma:
"Urge tua presenza. A.G.I.A. (associazione goliardica italo-argentina).” Puoi capire, mi precipitai e vi trovai dei giovani italiani iscritti
all’Università di qui che hanno formato un’associazione, si sono fatti
fare i berretti goliardici e vanno in giro con questi per le vie della città
con grande stupore dei cittadini che non hanno mai visto dei cappelli
simili, vanno a sbafo nei teatri quando ci sono compagnie italiane, si
fanno ricevere dall’ambasciatore Arpesani ecc. ecc. Da allora abbiamo
organizzato parecchie feste goliardiche (fra le altre anche il battesimo
313
delle matricole con Cavur sommo pontefice, mie macchiette, esami di
pernacchie ecc. ecc. Siamo andati a ricevere all’aeroporto a Gina Lollobrigida e alla Pampanini e colla prima abbiamo fatto uno spettacolo
in costumi goliardici nel teatro Colon. Come vedi continuo a essere
goliardo anche a 56 anni e a 12.000 Km. dall’Italia.
Ciao saluti da Piera e da Glauco per voi tutti
Vostro Ovidio
314
Bibliografia
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fantastica, Milano 1879
Ugo de Filarte, Il Gran Bogo, Torino 1880
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Lo Scaffale di Abelardo
Collana di storia, cultura e curiosità goliardiche
a cura di Umberto ‘Kociss’ Volpini (
[email protected])
Il simbolo segnala che è la prima edizione italiana del testo.
Codici della Goliardia Italiana, 144 pp., illustrato
Lo Studente di Padova, parole e immagini, di Fusinato e al. 176 pp. ill.
Addio Giovinezza!, storia di un’emozione, di Camasio e Oxilia, 192 pp
Vecchia Heidelberg (Il Principe studente) di Wilhelm Meyer-Förster, 160
pp. con le illustrazioni originali di Adolf Wald
5 Manuale Scolarium, Heidelberg 1481, 176 pp., ill.
6 Le scuole dell’antico studio bolognese, di Fr. Cavazza, 224 pp. ill.
7 Scolari vaganti: diari e autobiografie, di AA.VV., 176 pp. ill.
8 Teatro Goliardico. I classici, 176 pp. ill.
9 La vita nelle università medievali, di Robert S. Rait, 192 pp. ill.
10 La casa di Troya, Estudiantina di Alej. Pérez Lugín, 272 pp.
11 Carmina Burina. Profanae Cantiones:… di SatanAsso, 320 pp.
12 L’organizzazione degli studi nell’Università di Parigi nel Medioevo di
Charles Thurot, 176 pp.
13 Storia della Faluche, di Manuel Segura, 224 pp. ill.
14 Studi di cultura medievale, di Charles H. Haskins, 176 pp.
15 Poesia goliardica. Studi italiani ottocenteschi, Antologia, 208 pp.
16 Autobiografia inedita di Ovidio Borgondo detto ‘Cavur’, Torino 19191942, a cura di Marco Albera, 320 pp. ill.
17 Teatro Goliardico. Bai… come fu, Antologia della Baistrocchi, 192 pp. ill.
18 Goliardica Carmina, Antologia di canzoni goliardiche a cura di
Giampiero “P'Ataturk” Sicignano, 400 pp.
19 Le avventure di Mr. Verdant Green, di Cuthbert M. Bede, 400 pp. ill.
20 Poesia goliardica. Studi italiani del Novecento, Antologia 208 pp.
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Il programma 2021/2022 comprenderà un altro titolo tra i seguenti
Abelardo e l’origine della Università, di Gabriel Compayre
Francois Villon: la sua vita e i suoi tempi, di H. De Vere Stacpoole
Libro del buen tunar, di Don Emilio de la Cruz y Aguilar
I Sassoborussi, romanzo di Gregor Samarow
Lo studente tedesco dal ‘400 al ‘900, di Wilhelm Bruchmüller
Edizioni A.C.C.A – Padova - ottobre 2021
Associazione Culturale Calzae Academia – A. C. Studentesca senza scopo di lucro
© Studio Metropolis / A.C.C.A. Pd packaging, editing & add-text ukv
Lo Scaffale di Abelardo 16
A.C.C.A. – Padova
Associazione Culturale Studentesca